Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
216 | delle feste e dei giuochi |
già angustiosi e bui mantenevasi ancor; dalla Repubblica vacillante, e i traffici e le gentili discipline che una fallace speranza mostrava dalla neutralità medesima assicurati; le gesta di Oberto D’Oria contro Pisa, quelle di Lamba contro i Veneti a Scurzola. Succedeano altre allegorie; e fra esse più statue modellate di cera, allusive alla pompa della coronazione ed insieme alle virtù del coronato; un tempio di greco stile ed il santuario dell’ agricoltura, ad encomio del Principe che assai piacevasi de’ pacifici studi; finalmente una imagine di certa grotta delicatissima, cui il D’Oria medesimo avea fatta costrurre in una sua villa di San Pier d’Arena con l’opera del gentile architetto Andrea Tagliafichi1.
Esposte in ogni particolare le cerimonie con le quali i Dogi vennero solennizzando progressivamente la loro assunzione, ci restano da accennare brevemente quelle mercè cui, finito il biennio, soleano rassegnare l’alta magistratura, o, come dicevasi, uscire di dogato (dusàgo).
Ascoltata la messa nella Reale Cappella, recavasi il Doge nella sala del trono, dove ritto in piedi e colle spalle volte al medesimo, pronunciava al cospetto dei Collegi un breve discorso di commiato. Replicava in nome de’ Serenissimi il Priore de’ Governatori, od altri in sua vece; dopo di che, preceduto da’ servitori ed accompagnato da’ Collegi medesimi, discendea fino ai cancelli del pubblico Palazzo. Quivi giunti, il Decano lo congedava dicendo: «V. S. Illustrissima vada in buon ora».
La campana della torre annunziava intanto al popolo la partenza dell’ex-Doge, cui scortavano, sino al limitare della sua privala dimora, un corpo di guardie tedesche, e faceano per l’ultima volta orrevole corteggio i Procuratori della Repubblica, uno de’ cancellieri, l’ensifero ed il maestro di cerimonie. Quest’ultimo poi rientrando nel-