Delle feste e dei Giuochi dei Genovesi/Capitolo primo

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Introduzione Capitolo secondo


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DELLE FESTE E DEI GIUOCHI DEI GENOVESI

Dissertazione Prima.


Capitolo Primo.


Feste della Repubblica per vittorie, e per celebrazione o ricordo d’altri prosperi eventi. Ricompense ed onoranze a cittadini valorosi. Lo stendardo e l’ordine di San Giorgio. Accoglienze alle flotte vincitrici. San Bernardo è dichiarato patrono della Repubblica, e la B. Vergine ne è acclamata regina. Esultanze del popolo per la cacciata dei Tedeschi l’anno 1746.


Quando i nostri Comuni doveano festeggiare un qualche trionfo riportato in guerra, parea che l’allegrezza non dovesse avere confini; tanti e così diversi erano i modi pe’ quali il popolo pigliava parte alle feste. Di che ci offrono esempio in ispecie le corti bandite; le quali, a detta del Muratori, fra i giuochi degl’Italiani furono tenute in maggior credito, e loro divennero più famigliari.

Era costume pertanto che a divulgare la notizia di tali feste si mandasse intorno pe’ vicini paesi un bando, o pubblico invito; e quindi a rallegrar le corti traessero in folla saltimbanchi e buffoni, ballerini da corda, musici, suonatori, istrioni, giocolieri ed altritali; per guisa che d’essi pigliavasi nota accurata, e quanto maggiore ne risultava il numero, tanto più solenne e magnifico riputavasi lo spettacolo. Oltre di che i medesimi erano avuti per quella circostanza in così peculiare estimazione, che mai dalle corti non si lasciavano partire senza averli prima ben regalati1. [p. 43 modifica]

Giudichi ora il lettore quale mirabile corte sia stata mai quella celebrata in Genova a dì 24 giugno 1227, per solennizzare la vittoria ottenuta de’ Savonesi e degli altri ribelli della riviera occidentale; conciossiachè vi convenissero in copia veramente straordinaria giocolieri di Lombardia, Toscana, Savoia, Provenza, e fossero splendidamente presentati di ricche vesti dal Podestà, nonché da parecchi nobili ed onorevoli cittadini. Celebraronsi pure per la città giuochi d’armi a cavallo ed a piedi; e furono nella corte dell’episcopio imbandite pubbliche mense.

L’annalista Bartolomeo Scriba ci ha ritratta l’imagine di tanta festa nei seguenti enfatici versi:

Omne genus ludi Jani fuit urbe repertum
     Per te, Lazari2, tunc quia tempus erat.
Implebant pueri totam concentibus urbem;
     Uno psaltabant tunc vetuleque pede.
Tunc veluti iuvenum mores iustique gerebant,
     Audax in ludis queque puella fuit.
Et sonipes multo fessus sudore madebat,
     Currebant equites urbis ad omne latus.
Tanti discursus et ludicra tanta fuerunt,
     Urbe quod in nulla fuisse reor.
Adde quod expensis largos superabat avarus .
     Pauper ad obsequium quisque paratus erat.
Uxor zelotipi secura cuncta gerebat,
     Verberibus pravis nulla cohacta fuit;
De dominabus porticus omnis densa manebat,
     Res quoque que nimium digna favore fuit3.

Tra le occasioni di pubblica letizia vuol essere ugualmente annoverata l’offerta de’ palii: la qual cerimonia ebbe principio nel 1270, coll’elezione allora seguìta dei Capitani del Popolo. Imperocchè fu decretato che, in [p. 44 modifica]memoria del fatto, dovesse ogni anno recarsi alla chiesa di santa Tecla (poscia detta di santo Agostino) un palio e certa quantità di cera nel dì sacro agli apostoli Simone e Giuda4. Simile offerta fu pure statuito che dovesse farsi alla chiesa stessa, in onore della medesima santa, il 23 di settembre, a perpetua ricordanza della elevazione di Simone Boccanegra al dogato.

Ma l’offerta de’ palii si praticò eziandio con altre cerimonie religiose in rendimento di grazie per conseguite vittorie; come a dire di quelle ottenute sui Veneti da Lamba D’Oria a Scurzola (1298), da Pagano D’Oria alla Sapienza (1354), da Luciano D’Oria a Pola (1379), dove egli gloriosamente finì la vita, e della conquista di Cipro strenuamente operata da Piero Fregoso (1375). Nè di tali imprese era forse che si mancasse di dare ai capitani rimunerazione condegna; la quale d’ordinario consisteva nella esenzione dalle pubbliche gravezze, nel dono di una casa, ovvero anche nel suo valsente in denaro5. Si praticò del pari tal costumanza nelle lotte [p. 45 modifica]e ne’ trionfi dello cittadine fazioni; imperocché nel celebre assedio onde Genova per opera de’ ghibellini rimase stretta dal 25 marzo 1318 al 6 febbraio 1319, come prima azione degli assediatiti fu quella di visitare l’antichissimo tempio di Nostra Donna Incoronata, sulle alture della Polcevera; così a rincontro i guelfi, poiché fu sciolto l’assedio, «a’ sette di febbraro, come se avessero conquistato di man de’ Mori Granata o Damasco, senza vergogna alcuna fecero la processione quasi per tutta la città, col clero ornato di paramenti, e con le reliquie del beatissimo Battista e degli altri santi»6.

Ricordano gli annalisti che verso il 1402 il maresciallo Bucicaldo, governatore di Genova in nome del Re di Francia, tolse via quasi tutte le offerte de’ palii già decretate a perpetuità; ed ordinò che i quattro rettori delle arti dovessero ogni anno levare una imposta di lire dugento sulla generalità degli artefici, e presentarne quindi la chiesa di santo Agostino in compenso del palio deliberato nel 1270. Ma l’antica usanza venne poco appresso tornata in vigore. Perchè, nel 1413, cacciatosi da’ Genovesi il Marchese di Monferrato, e rinnovatasi la dignità ducale coll’elezione di Giorgio Adorno, si stabiliva [p. 46 modifica]che il dì 21 di marzo dovesse annualmente celebrarsene la memoria portando un palio alla chiesa di san Benedetto di Fassolo.

Parrebbe che il popolo in ispecie prendesse parte a queste cerimonie, e vi trovasse quel pascolo che d’ordinano non manca alle pompe, nò mai si scompagna dalle moltitudini rumorose. Ma il Governo rifacendosi indietro sulle orme dei Bucicaldo, che per lo più si era chiarito ne’ suoi ordinamenti molto assegnato, avvisò come la consuetudine accennasse a trasmodare, e perciò tosse bisognevole non già d’ulteriori incitameti, ma di freno. Ora se il popolo avea volontà di darsi spasso, togliendone a pretesto la religiosa offerta de patii, sì lo tacesse, ma spendendo del proprio. Le quali cose considerate appunto da’ magistrati della Repubblica, addì 23 giugno 1407, uscì decreto quod palia, sive blavia, que de cetero deferentur ad ecclesias.... non possint deferri cum onere Comunis 7. Inutile è il dire come il decreto, concepito in questi termini così recisi, ebbe il suo effetto pienissimo. Le offerte si arrestano; né di palii fanno più memoria i cronisti.

Anche le paci strette fra’ popoli erano, a giusto titolo, argomento di comune allegrezza; come d’ordinario lo sono tuttavia a’ dì nostri. E però stimiamo che di frequente si rinnovasse quanto ricorda lo Stella sotto l’anno 1341, che cioè essendo tornati amici i Genovesi coi Pisani, entrambi con luminarie solennizzarono il lieto avvenimento per ben tre giorni nelle loro città8.

Fra le spoglie che nelle guerre solevano allora cercarsi con più cupidigia, ed essere come trofei recate dai conquistati paesi, erano gli oggetti sacri, ed in ispecie i corpi e l’altre reliquie de’ santi. Così Uberto D’Oria, battuta e presa la città di Canèa (1266), serbò per sé, come parte del bottino, una campana che volle offerta [p. 47 modifica]a gentilizio tempio di San Matteo9; e quivi più tardi Luciano D’Oria facea riporre le spoglie de’ martiri Eleuterio e Martino, che aveva prese in Parenzo (1354). Ma, per tacere d’altri esempi, io mi limiterò a far cenno di quella veramente singoiar copia di reliquie prese nelle terre de’ Veneti da Gaspare Spinola (1382), e quindi ripartite fra quest’esso, i patroni della flotta che egli avea comandata e la Repubblica10.

[p. 48 modifica]Come e con quali ordinamenti procedessero i Genovesi nelle loro imprese guerresche, ed in ispccie nelle l’azioni marittime, non è qui d’uopo lo esporre. Bensì reputo diver toccare di alcune particolarità, le quali si riferiscono allo stendardo che la Repubblica era usa di consegnare a’ suoi condottieri nelle più grandi occasioni. Ognuno intende ch’io voglio accennare allo stendardo maggiore, o di San Giorgio, per ciò appunto chiamato spesso ne’ documenti d’officio invitto e glorioso vessillifero della Repubblica.

Una assai particolareggiata notizia intorno a questo argomento noi l’abbiamo dagli annalisti, là ove trattano del poderoso armamento di una flotta contro a’ Pisani, avvenuto l’anno 1242 per opera in ispecie del solerte podestà Corrado di Concessio da Brescia.11. Il quale, adunato il popolo a parlamento sulla piazza del Duomo, poich’ebbe con efficace orazione esortato ciascuno alla guerra, «egli medesimo alzò lo stendardo di San Giorgio, dicendo che ad onor di Dio e della Santa madre Chiesa e della Repubblica genovese era contento di sopportare questo carico, ed essere almirante di questa armata: e fece venire gli otto portantini, cioè gli otto che portavano la particolare insegna delle otto Compagne, o sia delle otto regioni, nelle quali è partita la città. E diede a ciascun di loro uno stendardo molto bene ornato con la propria insegna della Compagna: fece poi chiamare i novantasei banderai, quali erano stati eletti dal [p. 49 modifica]Consiglio con matura deliberazione; e diede a ciascheduno di loro due bandiere, l’una con l’insegna del Comune di Genova per la banda dritta, e l’altra con l’insegna del Comune di Venezia per la banda sinistra; che così si doveva fare per cagione delle convenzioni e della pace fatta coi Veneziani: e fu ordinata e partita questa armata in otto parti, secondo il numero delle Compagne sopraddette. E fu alzato ad un tempo lo stendardo maggiore, e gli otto più piccoli stendardi dei portantini, con quelli ancora delle galere, con grande allegrezza»12.

La domenica, che fu addì 27 di luglio, lo stesso Podestà montato sulla galera ammiraglia, navigò a ponente per ordinare ogni cosa e passare l'intera flotta in rassegna lungo la spiaggia di San Pier d’Arena. Per lo che il Giustiniani prosegue notando come «saria difficile esplicare con la penna il numero e la quantità dei combattenti e delle altre genti che si ridussero in San Pier d’Arena; né con minor fatica si potria esprimere quanta allegrezza e quanta giocondità ricevessi ciascuno a vedere una così numerosa armata, e tanto potente e talmente attrezzata: certo che pareva che tutta quella piaggia volessi per allegrezza saltare e ridere. E navigò quel giorno l’armata insino sopra Bisagno: ed il giorno seguente, con gran riverenza, si levò la vera croce della chiesa di San Lorenzo, e si ripose in una delle galeazze, in quella che fu giudicata la migliore: e navigò quel giorno l’armata insino a Sestri con buon vento. Ed il dì seguente una gran parte delle ciurme [p. 50 modifica]perriverenza della santa Croce digiunarono; e l’almiraute con l’armata navigò sino a Deva, dove alzò lo stendardo maggiore»13.

Pare che innanzi al 1282, il comandante di una flotta, qualunque tosse il numero dei legni, portasse titolo di ammiraglio, e perciò si arrogasse il diritto d’issare sulla capitana lo stendardo di San Giorgio. Ma i cronisti riferiscono, sotto l’anno predetto, alcuni provvedimenti emanai i dal Comune allo scopo evidente di crescere solennità e prestigio così all’ufficio come allo stendardo; giacchè stabilivano che a niuno fosse lecito l’intitolarsi ammiraglio, nè levare quel vessillo, se non comandasse una flotta di dieci galere almeno14. Vedesi inoltre che questa facoltà venne anche in progresso di tempo maggiormente ristretta; imperocchè scrive Giovanni Stella: Mos est apud Ianuenses nostros, quum exercitus nostri navigia bellica attingunt numerum vigintiquinque, creari et nominari Praesidem et Rectorem earum Admiratum15. La quale dignità d’ammiraglio, le patrie leggi intendeano poscia fregiare di precipua onoranza; laddove disponendo che nelle pubbliche cerimonie il Doge dovesse precedere solo a tutti i magistrati, e lo seguissero a pari [p. 51 modifica]il Priore degli Anziani col Podestà, soggiugneano però che nei festeggiamenti di qualche insigne vittoria colui che vi rappresentasse l’ammiraglio dovesse pigliare il posto del Priore anzidetto16.

Nè il ritorno delle flotte, dopo i gloriosi successi, era senza distinzione e senza festa. Di che abbiamo testimonio l’anonimo autore della Vita di Cola di Rienzo, laddove narra come le truppe d’Alfonso IX di Castiglia, collegate a quelle di Genova, espugnassero la città di Algesiras (26 marzo 1314) dopo un assedio di diciannove mesi e ventitrè giorni virilmente sostenuto dai Mori17. Ora egli, nella semplicità del suo stile, così scrive: «Puoi che lo Re habe venta la Ginzera... licentiao li sollati.... Fra li aitri licentiati fuoro trenta capi de galee de Genoisi, li quali haveano bene servito. Quesse galee tornaro a Genova. Quanno fuoro ne lo entrare de lo puorto, corno usanza ene, sonaro tromme, naccare e ciaramelle18. Troppo ’mperiale suono faco19 et allegrezza. Po’ entrauno lo puorto puserose ad ordene. Moito lietamente dao in terra tuito lo stuolo, bene addobati e riccamente. Haveano forte guadagniato. Fra le aitre cose pe novitate pusero ne lo puorto, su lo spasseio de lo puorto20, dieci de quelli Mori21, li quali erano male vestuti. De gialle schiavene lo loro cuorpo era [p. 52 modifica]ammantato. Fierri teneano in gamma22. Mustravano ch’erano presunieri. Tutta Genoa curre a disegno a lo puorto a bedere le galee venute. La molta iente fao intorno rota a quessi Mori. Dessidera homo bedere la iente de la strana fede. Stavano li Mori miserabilmente timorosi fra tanta iente. Moito favellavano, e po’ lo favellare voltavano loro capora. Aizavano le facia, e resguardavano, como ammiravigliassino, a li belli edificii e palazzi altissimi, li quali staco intorno a io puorto de Genoa23. Nolli intennea la iente. Là era uno siervo de Genoisi, lo quale fo Sarracino. Era christiauo, e nutricato in Genoa. Latina lengua sapea. Dicea la iente: Che dico quessi? Responneva: Quessi dico così. Non ene maraviglia si noi Sarracini semo sconfitti e perdienti, chiance24 ene stata sopra tutta la Christianitate, e Genoa. Quanno ajognevano Genoa, allhora volveano le faccie. Maravigliannose ad quelli palazzi de lo puorto de Genoa, credevano che Genoa fossi tutta la fortezza e bellezza de Christiani, e non se ne trovassi simile»25.

Ma poichè sopra tutto era la consegna dello stendardo quella che aveva luogo con cerimonie solenni, troviamo che questo, addì 22 gennaio 1346, il doge Giovanni di Morta porgeva di sua mano sulla piazza di San Lorenzo al prode Simone Vignoso. 11 quale associato poscia da moltitudine di cittadini fino alla chiesa di San Marco al molo, di quivi si allargava in mare ammiraglio di quella flotta che fu allestita a spese di privati e che operò gloriosamente la conquista di Scio26.

[p. 53 modifica]Nell’anno 1423 il conte Francesco di Carmagnola, governatore di Genova pel Duca di Milano, avea vinto in Consiglio il partito di levare un’armata in favore di Ludovico duca d’Angiò, pretendente alla successione del reame di Napoli. Di questa armata invero sperava egli assai d’ottenere il comando; ma poichè tutto fu in ordine, ecco che il duca Filippo, il quale, vivendo in continuo sospetto de’ suoi capitani, avea per costume di non abbandonare giammai tutta un’impresa ad un solo ministro, spedì a Genova in qualità di suo ammiraglio Guido Torello emulo al Carmagnola medesimo27.

Guido trovò allestite tredici navi grosse, ventuna galere, tre galeotte ed un brigantino, il cui armamento avea costato dugentomila genovine. Subito ordinò l’ultime disposizioni, e volle eziandio consultare il punto favorevole degli astri, dacchè allora i capitani di Filippo credevano a sua imitazione, o mostravano almeno di credere, ne’computi vani dell’astrologia. Quindi, mezz’ora avanti lo spuntare del sole recatosi in piazza della cattedrale, salì in un superbo cocchio sul quale sventolava lo stendardo di San Giorgio, ed era collocato il pomo d’oro, ossia il bastone del comando supremo. I magistrati seguitavano a cavallo il legno dorato; ma non si fu al molo se non quando il sole cominciava a sorgere dalle onde, e le circostanti colline rifletteano la luce novella. «Tre colpi di bombarda annunziarono l’imbarco dell’ammiraglio. Mordevasi il Governatore per dispetto le dita; ma la moltitudine applaudiva perdutamente, [p. 54 modifica]alcuni por adulazione, altri per ereditario amore alle marittime imprese»28.

Intanto l’annata non potea giungere più opportuna ai disegni dell’Angioino. Espugnò Procida, Castellamare, Vico, Sorrento, Massa ed altri luoghi del golfo; poi strinse d’assedio e prese la stessa Napoli, senza inferire il menomo danno agli abitanti: «esempio di moderazione.... quasi singolare e divino»29. Se non che il Torello, che, buon condottiere di fanti anzi che sperto capitano di mare, non avea saputi usare convenevoli diportamenti verso i patroni delle navi, poichè si fu a Genova restituito (26 maggio 1424) ebbe cagione di querelarsi, per essere a lui mancate quelle festose accoglienze onde solevano presso al molo riceversi gli ammiragli. Di che sommamente sdegnato, si ridusse a Milano. Indi a poco il Visconti spiccava lettere e messi a Genova, con ordine di rimettere al Torello il vessillo, che già i magistrati aveano riposto nel tempio di San Giorgio; nè la forma del comando lasciava luogo a replicare. Ma «l’indegnazione de’ Genovesi, ognuno dal proprio cuore l’estimi»30.

Una tale circostanza però giova a farci conoscere come fosse uso di lasciare in proprietà ai capitani delle flotte quello stendardo medesimo ch’eglino aveano seco recato nelle loro imprese: testimone e trofeo delle riportate vittorie. E più vale il sapere come nella chiesa gentilizia di San Matteo si videro appunto fino all’anno 1797 non pochi vessilli conquistati dai D’Oria sui nemici, ovvero da essi recati nelle battaglie cui aveano supremamente indirizzate. Del qual novero era pure lo stendardo che il Doge avea con singolar pompa consegnato nella cattedrale ad Andrea D’Oria (23 ottobre 1553), pochi dì innanzi [p. 55 modifica]che quel magnanimo, non curando la grave età, navigasse in Corsica generalissimo de’Genovesi contro le forze alleate di Francia e de’ Turchi31. Era fatto a guisa di fiamma, avea gli stemmi della Repubblica e di San Giorgio, e v’era scritto questo distico in caratteri d’oro:

Infer in obstahtes victricia, signifer, hostes
Signa, fugit quisquis vel tantum viderit ista32.

Ma intorno al santo vessillifero del nostro Comune mi resta qui da commemorare eziandio un’altra particolarità; voglio dire l’ordine equestre istituito l’anno 1452 da Federigo III, a favore della Repubblica. Portavano le patenti di tale creazione, che una croce vermiglia fosse la insegna della nuova milizia (della quale lo stesso Imperadore fregiati avea di sua mano in Genova molti nobili e senatori), e che il Doge rivestisse la dignità di gran maestro (Pietro da Campofregoso fu il primo); che gli ascritti professar dovessero la regola di Santo Agostino, e fosse loro ufficio il difendere la religione e la [p. 56 modifica]patria dagli attacchi nemici. Uscendo in campagna alzassero uno stendardo dove campeggiasse dall’una banda la croce, dall’altra l’immagine del Santo a cavallo in atto di ferirò a morte il dragone33.

Se non che le frequenti mutazioni di Dogi e di Governo, le contese dibattutesi accanitamente nei secoli appresso fra i nobili dei due Portici, furono cagione che l’ordine venisse in breve scadendo, ed anco si estinguesse di fatto innanzi il tramonto della Repubblica.

Ma in tema d’ordini cavallereschi gioverebbe forse meglio il rammentare quegli egregi che li guadagnarono in contrade straniere, per le imprese felicemente condotte sì in terra che in mare. Tuttavia non mi inoltrerò per questo campo; e solo basterà che s’accenni come Francesco I di Francia, volendo gratificare Andrea D’Oria de’ suoi tanti servigi, nell’agosto del 1527 gl’inviasse a Genova con apposito messaggio le insegne dell’ordine di San Michele. L’ammiraglio Andrea, scrive il Giustiniani, «ricevette questa dignità con gran solennità in la chiesa di San Lorenzo, e fece uno opulente e onorato convito a gran numero di gente»; ed inoltre rimeritò a sua volta il messo reale, conferendogli il comando di due galere34. Ma dopo la prevalenza spagnuola, si diè ben presto anche qui negli eccessi. Onde un acuto scrittore del [p. 57 modifica]secolo XVII osserva, che «gli habiti o siano croci si danno a furia, parendo a S. M. Gran guadagno per un dito di drappo rosso il far acquisto d’un suddito, anzi d’uno schiavo in una città libera»35.

Torno ora al mio principale assunto; e lasciando di enumerare alcuni fatti di minore momento, vengo tosto alla bella difesa di Gaeta sostenuta da Francesco Spinola contro Alfonso V re d’Aragona, ed alla battaglia di Ponza che sciolse il blocco di quella piazza, e che fu guadagnata per la strenua opera d’un notaio valoroso, Biagio Assereto. Della quale difesa i Gaetani serbarono così grata memoria, che allorquando lo Spinola venne a morire , ed il patrio Comune gli eresse nell’ampia chiesa di San Domenico un onorato sepolcro36, eglino vestirono il lutto, e ad ornare viemaggiormente il mausoleo spedirono a Genova un bassorilievo ch’era prezioso monumento dell’antica scultura greco-romana37.

Narrano di Biagio Assereto i cronisti, come nel dì stabilito pel suo imbarco (22 luglio 1435), si levasse una burrasca fìerissima, talchè avendola i magistrati per un sinistro presagio, mandarono dicendogli che attendesse contingenza migliore e più propizio il cielo, perchè potessero anche tributargli le consuete onoranze. Se non che l’intrepido capitano rispondendo avere sempre tenuti a vile [p. 58 modifica]gli onori conceduti fuori di tempo, o però li serbassero tutti pel suo ritorno, pose il piè sulla nave in quello istante medesimo in cui la folgore colpiva la torre di Santo Ambrogio (era questa la chiesa parrocchiale dell’Assereto), e ordinò di sferrare.

Ma poichè la battaglia donde l’Assereto uscì trionfante si ha da lui stesso descritta in una lettera alla Repubblica, dettata nel patrio dialetto il giorno appresso a quello dell’ottenuta vittoria, io penso che non riuscirà discaro al lettore il vederla qui testualmente riferita.

«Magnifice et Prestantissime Domine mi singolarissime et spectabiles ac preclari cives Patres et Domini honorandissimi.

«Avanti che noi scrivemo altro, noi vi suplichemo che ve piase de recognosce questa singola vittoria da lo nostro Segnò De, e da lo beo San Georgio e da San Domenego, in ra festa de lo quà, in venerdì, fu la nostra assai sanguinenta battaja, della qua noi semo steti vittoriosi no per le nostre forze, ma pe la virtù de De, abiando la giustitia da la nostra parte.

«Lo quarto dì de questo meise, la mattin per tempo, noi trovammo in ro mà de Terracina assai presso tera l’arma de lo Re di Aragone de nave quattorze elette inter vinti; de le quae nave erano e sono sei grosse, le altre commune, con li re e baroin li quai Voi audirei de sotta, e con huomini sei millia, per quello che posserno saveì da elli; sicchè ra menò nave38 de 300 a 400 nomini havea, le altre 500 in 600, la reale nomini 800, inter39 la quale era lo Re d’Aragone, lo infante40, lo duca de Sessa, lo principe de Taranto, lo figgiolo dello conte de Fondi, e 120 cavalieri. Erano con le dette navi galere undixi e barbotte sei, et era lo vento [p. 59 modifica]a lo Garigliano, siche era in sua possanza quello dì de investirne. Noi habbiando a mente la comissione vostra de no prender battaja, se era altramente possibile dar soccorso a Gaeta, sì se forzàmo de tirar a vento, si navigammo in ver Ponza. Lo Re sempre seguitonne, e monto presto le galee fonne a noi; alle quae mandaè un me trombetta, pregando alla maestè de lo Re che elio no me vorresse dà impachio, ma me lasciasse andar a Gaeta, e che lo illustre segnò nostro e la nostra Comunitae no vorè guerra, etc. Lo Re eri mattin, lo dì de San Domenego, me manda un cavalier, messer Francesco da Capoa, a ro qua pu lungamente parleì con questa conclusion, che noi no voreimo ne guera ne bataja, ma vorriamo andar a Gaeta, et altre parole secundo altra commissione che haveva recevuo lo dito meser Francesco dallo Re, che havea forte speranza che per pagòra41 mi ghe feise fa questa ambascia; e incontinente mandò un cavalero con lo so arado, e, quasi comandandome, me disse che mettesse a basso re veire. E subito ra nave con ro vento in poppa, cridando,... con bombarde e con barestre me investite. Noi fummo li primi investij dalla nave dello Ree da tre altre nave, e misso lo ballao onde ghe piaxè in ro scarao de proa, fummo concatenò amorosamente42, avendo da poppa un’atra nave e da l’atro lào un’atra, et a proa un’atra.

«Non pensàe43 che li nostri compagnoni e patroni fugissano; ma monto tosto fummo.... elli e noi tutti lighè e incatenò insemme amorosamente. Erano le galee dalle coste, refrescando le loro navi de homini e tirandone re lo navi addosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carma. Finalmente lo Altissimo de noi dalle hore 12 a re 22, senza intervallo nò reposo, habiando rispetto alla giustitia, ne dè vittoria.

[p. 60 modifica]«Primamente che la nave de Re la qua noi presemo e così all’altre tre eoo navi undexe; sicchè, in somma, son resi tè nave dodexe de l’arma do Re, et una galea soa bruxà 01 un’altra in fondo abbandona da olii; due navi dolio soe galee fon levae dalla battaja, e son scampae per prià la novella. Son remasi prexoin ro Re d’Aratone e lo Re de Navarra, ro Meistro de San Giacomo, ro Duca do Sessa, ro Principe de Taranto, ro Vicerè de Sicilia, ot infiniti altri baroin, cavalieri e zentilhomini, con Meneguccio de l’Aquila capitan de 300 lanze, e ri prexoin son migiara de migiara; advisando le Magnificentie e Reverentie Vostre che eran sum queste navi huomini d’arme mille, corno sarei advisè quando averemo pù spacio per conforto de tutti Vol. Certificamo le Vostre Magnificentie et Paternitae che no so da quaè parte incomensà a dì ri suoi luoghi et re soe proezze44, con ra grande obedientia et reverenda che sempre son steti da ro dì che partimmo fino a questo dì, maxime in ro dì della battaja; che se essi havessero combattilo davanti allo Illustre Segnò nostro e le Vostre Signorie non haverejano facto atramente. Elli meritan de esse lode et recognosciui singolarmente.

«Cristo ne preste gratia che possiamo andar di bene in meglio».

«Data die 6 augusti 1435, in navi, supra insulam Pontie. Dum appropinquaremus Gaetam, ecce novum strepitum quod nostri exientes ex Gajeta incontinenti campum inimicorum se posuit in fugam45.

«Non era ancora giunta in Genova (scrive il Giustiniani) la nuova di tanta vittoria, e nondimeno sonavano di verso Piombino e di verso Pisa qualche nuove senza [p. 61 modifica]certo autore, per le quali si argomentava che la cosa fusse successa bene; ma rimaneva la città tanto sospesa, che ciascheduno stava con l’orecchio aperte per intendere la certezza; e la Corte46 non attendeva ad espedizione alcuna, nè si amministrava ragione, e le botteghe degli artigiani non operavano cosa alcuna. Ma quando fu avuta la certezza che il Re (Alfonso V) si menava presso a Genova con tutta l’armata, allora ciascuno indifferentemente saltò in piazza, i vecchi, i giovani, le matrone, i fanciulli e i servi, e riempirono ogni cosa di gran gridare tanto licenziosamente, che il volgo entrò nel Palazzo pubblico per intendere dal Governatore e dal Senato la certezza di questa nuova; e poichè fu sonata la campana grossa e le campane delle altre chiese, fu tanta l’allegrezza, e furono tanti i gridi della moltitudine, che a pena si udiva il suono delle campane. Si fecero tre giorni continui le processioni per la città, e si resero le solite grazie a Dio; e fu statuito che ogni anno la Signoria dovesse viistare il giorno di san Domenico la sua chiesa con una offerta del pubblico»47.

Ma chi semina in terra altrui non coglie i frutti; e ciò provarono i Genovesi, ai quali dopo avere prodigata la vita ed i tesori, non fu punto cenceduto l’onore del trionfo. Conciossiachè il duca Filippo Maria Visconti, al cui dominio erano allora soggetti, mandò segreta commissione all’Assereto che conducesse il re Alfonso e gli altri principi direttamente a Savona, donde passarono poscia a Milano. Del quale oltraggio però il popolo fu sì commosso, e così sdegnato mostrossi contro di Biagio, che a questi convenne esulare per sempre dalla patria48.

Tra’ memorabili fatti che durante il pontificato di Giulio II sollevarono alcun poco l’Italia dall’oppressione e [p. 62 modifica]dal giogo di Francia, è senza fallo da ricordare la liberazione di Genova, impresa per gli eccitamenti di quel papa dai concetti magnanimi e compiuta per l’opera di Giano Fregoso che nella nostra città ebbe quindi il dogato Se non che il presidio francese, abbandonata la terra e discacciao dal Castelletto, erasi rinchiuso nella tremenda fortezza della Briglia che minacciosa ergevasi a Capo di Faro; la quale, per essere circondata da inaccessibili roccie, vano era il tentare di vincere altrimenti che con la fame. Il Doge la fe’ stringere pertanto da terra e da mare (1513), e ordinò grandissime diligenze perchè niun soccorso di munizioni o di viveri si appressasse alla rocca49. Ma quando gli assediati, ridotti allo stremo di tutte cose, erano presso a capitolare, ecco che una nave di Normandia, ripiena d’ogni sorta rinfreschi ed apparecchi di guerra, issato ad arte il vessillo genovese, passò in mezzo alla squadra nemica e diè fondo ai piè del Faro. Già per l’audacissimo inganno le speranze della vittoria che dianzi parea sì prossima erano ite in dileguo; allorchè Manuele Cavallo, uom popolare, propose al Senato di portar via quella nave prima che fosse giunta a sbarcare i soccorsi. Parve disperato il partito, ma si convenne tentarlo; onde il Cavallo, con trecento ardimentosi che gli si danno compagni, pigliato sollecito imbarco sovra un galeone, giunge in breve al luogo proposto, entrando con arte grandissima fra la nave ancorata e lo scoglio. Nè il grandinare delle pietre, nè il tempestare incessante delle artiglierie., ne rallenta i propositi; che, [p. 63 modifica]già tagliate le gomene cui veniva raccomandato, quegli audaci stringono d’ogni banda con ferri adunchi quel legno, traendolo prigioniero al vicino lido di San Pier d’Arena. I Francesi che v’eran sopra, gettandosi in mare, cercano nella fuga uno scampo, ma son raggiunti da’ nostri; sei dannati al laccio, il resto alle galere.

Il Senato gratificò il Cavallo con dugento ducati d’oro, e decretò che fosse franco dalle pubbliche gravezze50.

Ma gran parte della suddescritta fazione era stato del pari Andrea D’Oria, il quale, a testimonianza del suo valore, avea toccata una gloriosa ferita. Ben altri meriti però doveva egli acquistarsi verso la patria; la quale niuno è che ignori, come, tornata in breve al giogo di Francia ed alla mala signoria delle cittadinesche fazioni, egli restituisse poscia a durevole libertà il giorno 12 settembre del 158. Onde la Repubblica verso Dio ossequente, e verso del suo liberatore gratissima, facea decreto (7 ottobre 1528) che per tre dì consecutivi si celebrasse l’avvenimento con processioni solenni intervenendovi il clero in una co’ magistrati. Inoltre, la ricorrenza di quel giorno, dovesse così in città come ne’ borghi e sobborghi essere festeggiata in perpetuo, sotto l’appellativo di Giorno dell’Unione: e la Signoria intervenisse con tutta pompa alla messa solenne, che in rendimento di grazie sarebbe celebrata in Duomo all’altare di San Giovanni Battista51. Si erigesse al D’Oria una statua di [p. 64 modifica]bronzo nel più degno luogo della maggior sala di Palazzo, una epigrafe che ne ricordasse le gesta e la carità verso la patria; ed infine, comperata del pubblico denaro una casa onorifica (domum honorificam) sulla piazza dei D’Oria, quella si offerisse in dono ad Andrea52.

Nè la gratitudine verso l’insigne cittadino si risistette a queste provvidenze, comecchè assai cospicue e sopra modo onorevoli; ma gli fu sempre testimoniata ogni qualvolta se ne presentò l’occasione. Talchè, avendo egli nel 1533 espugnate Corone e Patrasso, e costretto il [p. 65 modifica]Turco a dismettere dall’impresa che meditava contro di Vienna, la Signoria decretava che il ritorno del prode ammiraglio fosse distinto con segni d’esultanza e d’onore. Deputava pertanto quattro cittadini, i quali su due fregate movessero ad incontrarlo; e voleva che appena surto nel porto lo salutassero le artiglierie di Palazzo e del Molo, la campana del pubblico e quelle insieme di tutto le chiese; e all’imbrunire s’accendessero fuochi d’allegrezza sul dinanzi del Palazzo Ducale, nonchè per l’altre piazze e le contrade dell’intera città53.

Io trapasso un terreno malagevole e spinoso per macchinazioni e congiure ordite contro la Repubblica all’interno ed all’estero, e delle quali i Principi di Savoia si raccoglievano in mano le fila; e ricordo l’assalto minacciato a Genova dall’armi sabaude, dileguato per la rotta data loro da’ nostri alla montagna del Lupo e poscia ancora per non meno altri prosperi eventi.

Pure in quelle strettezze l’antica devozione professata da’ Genovesi verso di san Bernardo, e l’amore ch’egli avea loro portato vivendo (ne serbavano documento carissimo in una celebre lettera), indussero la Repubblica ad [p. 66 modifica]ascriverlo di que’ giorni (27 aprile 1625) fra’ suoi celesti patroni, votandogli eziandio nella cattedrale, od in altra chiesa della Metropoli, l’erezione di una cappella. Inoltre il giorno a lui sacro dovesse, come festivo, osservarsi in città e ne’ borghi, ed essere con una generale processione solennizzato. Al sacro rito in Duomo assistessero i Collegi; e fra’ divini uffizi il Doge distribuisse a dodici zitelle del Conservatorio di San Girolamo54 una dote di cento lire per ciascheduna55.

Or questo voto non solamente sortì pieno l’effetto, ma fu poco dopo così ampliato, che in onore del Santo medesimo venne decretata una chiesa; e fu murata in piazza de’ Salvaghi sull’area del palazzo di Claudio De Marini, cui, per avere cospirato ai danni della patria, oltre alla condanna nel capo, si erano confiscati i beni e rovinate le case56.

Ma certo più solenne e memorabile fu il voto del 1637, quando la Repubblica acclamava la Beata Vergine a regina di tutto il dominio. Decretava allora (3 gennaio) [p. 67 modifica]che nell’annua ricorrenza della festività dell’Annunziata dovessero i Collegi recarsi alla Cattedrale, e quivi offerire alla Vergine la corona, lo scettro e le chiavi della città. Le quali, andando essi Collegi al Duomo, sarebbero poste entro un catino portato da un paggio innanzi al Doge; e nel tempio collocate sur una tavola d’argento innanzi al trono sinchè, all’offertorio della messa, verrebbero dal Doge stesso presentate al sacerdote celebrante, e da quest’ultimo deposte ai piedi della Madre di Dio. Prescriveasi inoltre che sopra gli stemmi e le monete della Repubblica, nonchè sugli stendardi della torre e della galea capitana si rappresentasse la Vergine col Putto, e questi avesse tra le mani un cartellino col motto: ET REGE EOS. Infine si erigessero le statue della Madonna col Divino Infante sopra gl’ingressi maggiori della città da levante e da ponente57.

Leggo nei Cerimoniali, che celebrandosi la prima volta questa solennità (e fu il 25 marzo dell’anno suddetto 1637), compì al sacro rito Giovanni Domenico Spinola cardinale di Santa Cecilia e disse l’orazione il Padre Squarciafico de’ cappuccini; oltrechè era stato «ordinato al maestro di cappella che mettesse in musica alcuni nuovi mottetti et hinni in lode della Vergine Santissima».

«Circa all’apparato poi della chiesa (così proseguono i detti Cerimoniali), fu dato ordine a due gentiluomini che n’havessero cura, e riuscì bellissimo; perchè da cima in fondo la nave di mezzo era tutta parata di ricchissimi broccati, e sopra li colonnati vi era una quantità di vasi di argento, la cui valuta ascendeva a sessantamila scudi. Sopra. l’altare grande vi era alzatomi nicchio tutto illuminato di bianchissimi doppieri accesi, con dentro [p. 68 modifica]l’imagine della Madonna, di rilievo, col Figlio in bracci.» che liavea il motto in mano nella maniera che si è detto di sopra. Stava la statua della Madonna in atto di regnante a sedere, col scettro in mano e con la corona in testa»58.

Chi fosse l’autore di tale statua non è detto; ma certo chiunque guardi alla brevità del tempo converrà essere stata la medesima un’opera improvvisata, come suol dirsi, per la circostanza. Onde la Signoria commetteva più tardi a Giambattista Bianco di gittare in bronzo quella nobilissima effigie che sorge tuttodì sul maggiore altare. La quale effigie (secondo narra l’Acinelli), appellata di Nostra Signora della città «fu solennemente benedetta con molta magnificenza alla presenza di ambi i Collegi e collo sparo di tutte le artiglierie il giorno della vigilia dell’Assunzione di Maria Vergine»59 correndo l’anno 1652.

Ma alcuni decreti di epoche posteriori limitarono quindi (30 ottobre 1095) ad ogni venticinque anni soltanto il rinnovare l’offerta; però soggiunsero (18 luglio 1721) che a maggiormente solennizzarla avessero luogo pubbliche luminarie60; il che appunto fu fatto ne’ giorni del 14 agosto 1746 e 1771. Onde nei Cerimoniali sotto [p. 69 modifica]l’ultimo di detti anni si nota: «In questa sera si vidde illuminato tutto il campanile della Metropolitana, ed il pubblico reale palazzo, e vi si fecero i fochi di gioia:, e sopra la torre una macchina con fochi d’artificio bellissimi sbarri e di mortaletti per la fontione di venticinque in venticique anni»61.

Alla rassegna delle feste celebrate da’ Genovesi a commemorare i loro trionfi, non può essere conclusione più degna che il ricordo della liberazione della nostra città dalla tedesca oppressione a mezzo il secolo XVIII. Non è però del mio ufficio l’esporre ne’ suoi particolari questa pagina di storia della quale il popolo va tuttora giustamente superbo, ed al cui racconto s’infiamma sempre di patrio affetto e carità; ne è qui da descrivere il transito del troppo celebre mortaio per la via di Portoria, dove giunto per lo soverchio peso affondava; ne l’eroico garzone che scagliò primo il sasso e fu scintilla per cui divampò ovunque l’incendio. E neppure dirò delle quattro gloriose giornate (5, 6, 7, 10 dicembre) cui pose fine la decisiva battaglia, onde il nerbo fu combattuto nelle adiacenze di San Tommaso e alle falde de’ monti su cui torreggiano la chiesa di San Rocco ed il santuario intitolato alla Vergine Lauretana62. Bensì rammenterò come, in virtù d’alcuni prodigi onde corse rumore, ascrivendo la Repubblica alla protezione della Vergine stessa quella insigne vittoria che fu ammirata da tutta Europa, promovesse il voto (29 novembre 1747) per cui in ciascun anno, al ricorrere del 10 dicembre, i Collegi doveano recarsi in forma solenne a tener [p. 70 modifica]cappella nell’anzidetto santuario63. Ne la cerimonia venne meno se non allora quando il turbine della rivoluzione mutò forma alla Repubblica (1797); nel qual tempo, spogliato d’ogni pompa esteriore, l’antico rito si continuò a celebrare in modo affatto privato64.

Ma neppure il mortaio si era obliato lungamente dal popolo; che volea trarne occasione a lieti festeggiamenti. «Posto sopra un carro dorato, ricoperto d’eletti fregi e bandiere (così un recente storico), veniva trainato da otto bianchi cavalli per le vie più popolose, quasi a far di se vaga mostra. Ne copriva la bocca una gran rosa, da cui sfavillava trapunto in oro il nome della Vergine Madre. Lo precedeva una mano di granatieri coperti delle assise tedesche...; un’altra ne tenea dietro di guastatori con superbe armature e zappe d’argento; indi due battaglioni di fantaccini con scelte musiche; vernano appresso cento cavalieri che armati di elmo e corazza trascinavano a terra i vessilli nemici. Altre compagnie di guastatori con timpani e trombe e un’immensa tratta di popolo chiudeano la trionfai pompa, e l’aere echeggiava di guerresche armonie. Le vie per cui transitava erano addobbate di archi e d’arazzi, e dai veroni e dai tetti sopra vi nevicava una pioggia di fiori. Giunto il mortaio alla Cava, venia tolto dal carro e locato nella prima sua sede fra un subbisso di giulivi clamori. In canti, giochi e gazzarre volse quel dì (8 gennaio 1747): fuochi e panelli alla sera. Questi [p. 71 modifica]festeggiamenti, che forti somme costavano... tornarono giocondissimi al popolo, che già come santa cosa riguardava l’avventuroso mortaio»65. Al quale perciò volgendosi un poeta popolare, così nel patrio dialetto diceva:

«Bello Mortà, caro Mortà, me coeu,
Che de baxate no me so sazia,
Donde voeilo moè66 fate porta
Quello brutto abbrascao67 Botta lagoeù?68

«E quell’atro che ben dì no se poeu,
Perchè o l’ha un nomme che finisce in ka69,
Areo tutto ò voreiva strascina,
Che ghe vegne ra peste e l’anticoeu!

«Ma ti a boa conto ti è tornea a ciatta;
E chi se voè tutta ra nostra groria70,
Ch’emmo sapuo guagnà questa regatta.

«Onde ad eternam. rei cara memoria
Te vorrè fa stampa sciu ra curatta:
Xena. Libertas. Popolo. Portoria71.






Note

  1. Muratori, Antich. Ital.: Dissert. xxix.
  2. Lazzaro di Gherardino da Lucca, allora podestà di Genova.
  3. Pertz, Monum. Germ. Histor., xviii, 165: Sacchi, Antichità romantiche. pag. 44.
  4. Precisamente in quel giorno era accaduta l’elezione dei Capitani.
  5. Il palazzo donato a Lamba sorge tuttora di fronte alla chiesa di San Matteo dei D’Oria; e sul prospetto dell’uno e dell’altro edificio, ricorrono iscrizioni commemorative del fatto. Quello di Pagano poi, che è sito a breve distanza. fu istoriato con eccellenti pitture verso i principii del secolo XVI; e nel riparto dove raffigurasi la battaglia della Sapienza è questa epigrafe:

    insigni . capitaneo . ac . ge-
    neroso . militi . d . pagan
    (o)
    avrie . vitoria . felicI . p(opuli)
    ianvensis . imortalis . memori(a)

    Piero Pregoso ebbe a sua volta in dono un grandioso palazzo che il Comune avea fatto ricostruire nel 1368 presso la chiesa di San Michele sovra il borgo di San Tommaso, onorandolo di pitture ed abbellendolo di giardini e fontane marmoree; e che fu poscia atterrato nel 1340 per le opere della penultima cinta murale.

    Finalmente, per la vittoria di Pola, fu eretto nella chiesa di San Giorgio un altare in onore di San Giovanni evangelista, con obbligo di un palio annuo nel dì 6 maggio; e vi si aggiunse poscia l’offerta di un altro palio nel 27 dicembre, dacché Genova ebbe scosso (1437) il dominio del Duca di Milano (Pandecta antiquorum foliatiorum etc., nell’Archivio Governativo).

    Inoltre i figli di Luciano D’Oria ebbero in dono una casa (che è posta nel vicolo della Casana ed è ora proprietà del marchese Francesco Sauli) e l’assegno di una provvigione, la quale trovasi annotata con queste nobilissime parole nel Cartolario della Masseria per l’anno 1385 (Arch. di San Giorgio): Pro filiis quatuor recolende memorie domini Luciani de Auria olim capitanei generalis pro comune Ianue in gulfo veneciarum contra Venetos; et sunt quas habere et recipere debent a comuni Ianue pro provisione dictis filiis provisa, statuta et ordinata pro comune Ianue, pro remuneracione aliquali valentissime et probissime gestorvm per dictum qm. dominum Lucianum in negociis comvnis Ianue contro dictos Venetos ad racionem librarum centum Ianue in anno pro singulo dicturum filiorum masculorum dum vixerint, etc. Lib. ecce.

  6. Giustiniani, Annali, vol. II, pag. 24.
  7. Pandecta citata.
  8. Stella, apud Muratori, XVII, 1078.
  9. Giustiniani, I, 438.
  10. Eccone l’elenco (Pandecta citata).

    MCCCLXXXII, VII martii.


    Hoc est exemplum divisionis et partimenti facti inter comune Janue ex una parte, et olim patronos galearum ex altera, de venerabilibus reliquiis alias delatis de terris Venetorum captis in Gulfo per exercitum galearum quorum crat capitaneus dominus Gaspar Spinula, in ecclesia Sancti Laurentii Ianue. Per quam quidem divisionem venerunt in parte

    Comunis.


    Caput beati Lavrentii martiris; manus et brachium Sancti Mathei apostoli et evangeliste; manus et brachium beati Georgii martiris; manus et brachium beati Innocentis; caput unius innocentum; manus cum brachio Sancti Griffonis; tibia cum pede Santi Blaxii; manus cum brachio Sancte Barbare; tibia et pes cuiusdam Sancti; manus cum brachio unius innocentum; manus cum brachio Sancti Sergii; caput unius Sancti; manus et brachium Sancti Theodori; manus et brachium Sancti Pantaleonis; tibia com pede unius Sancti; ossa duo in argento; tibia cum pede innocentum.

    Patronorum galearum.


    Tibia et pes Sancti Georgii; tibia et pes Sancti Laurentii; tibia et pes Sancti Griffonis; manus cum brachio innocentum; caput Sancti Sebastiani; caput unius innocentum; caput unius innocentum; manus et brachium unius innocentum; manus et brachium Sancte Barbare; manus et brachium innocentis; manus et brachium Sancti Griffonis; manus et brachium Sancti Sergii; brachium Sancti Martini, sive manus; brachium et manus sanctorum Abdom et Severus (Senn); tibia et pes cuiusdam Sancti; tibia et pes cuiusdam Sancti; capsicta una de cristallo.

    Et nota quod dicte omnes reliquie spectantes Comuni fuerunt reposite in una capsia, in sacristia Sancti Laurentii, clausa tribus clavibus, una tenenda per magnificum dominum Ducem; et reliquis duabus per duos probos cives; qui cives prestare debeant fideiussionem de libris duabus millibus de ipsis bene custodiendis. Oltre a ciò Gaspare Spinola avea recati i corpi de’ Santi Massimo e Porzio, che vennero allogati in San Matteo; e serbò per sua parte alcune reliquie di San Luca evangelista, le quali furono riposto nel tempio degli Spinola delicato appunto a questo santo.

    Della autenticità poi di tali reliquie noi non vorremmo entrare davvero mallevadori. Solamente rimandiamo il lettore che ne fosse vago al Plancy, Dictionnaire critique etc. des images.

  11. Furono ottantatre galere, tredici taride e tre navi onerarie, tutte colorite di bianco colle croci vermiglie; giacchè, nota il Giustiniani (volume I, pag. 380, «si lassò in quest’anno la pittura del color giallo che si soleva usare».
  12. Giustiniani, vol. I, pag. 380. Si noti che in questo squarcio la voce portantini è presa in due significati diversi. La prima volta, viene usata per indicare gli otto vessilliferi delle Compagne: la seconda invece nel senso in cui vedesi pure adoperata dallo stesso annalista sotto il 1284, laddove scrive che Uberto D’Oria, capitano generale dell’armata allestita contro Pisa, «ordinò ancora otto portantini, che sono legni molto veloci, uno per ciascheduna Compagna, acciocché con prestezza si potessi avvisare, ordinare e soccorrere a tutte le cose che sogliono di punto in punto accadere in la guerra» (Vol. I, pag. 475).
  13. Giustiniani, I, 381. Una somigliante cerimonia racconta lo stesso annalista aver compiuta nel successivo 1243 il podestà Manuele de’ Maggi, quando fu posta ad ordine un’altra flotta contro i Pisani (I, 391). La immagine di San Giorgio non era soltanto espressa a que’ tempi nello stendardo del nostro Comune, sì pure nel sigillo che adoperavasi in occasione di guerra. In un documento del 27 febbraio 1251, ove si eleggono Nicolò Grimaldi e Ansaldo Falamonica ambasciatori alla nemica città di Savona, il Podestà conclude: Et ut fides predictis plenior adhibeatur, presens instrumentum iussimus sigillo beati Georgii vexilliferi comunis Ianue communiri. (Fol. Not. Ms. della Civico-Beriana; Vol. II, Part. I, cart. 39 recto).
  14. Giustiniani, I, 483. Soleva eziandio lo stendardo di San Giorgio essere talvolta donato dal Comune in pegno di buona amicizia e di fede ai popoli che erano stretti con esso in lega. E così avvenne appunto nel 1255, quando fu donato a’ Lucchesi, disposti a muovere l’armi contro di Pisa (Id. ibid., 416).
  15. Muratori, XVII, 1289.
  16. Leges anni 1413 Ms., della citata Biblioteca capo 17: Quando autem contigerit dominum Ducem et Consilium associare ad aliquam ecclesiam blavia in memoriam obtente victorie contra hostes, possint dominus Dux et Consilium, iuxta solitum morem, ducere et tenere in dicto itinere et regressu penes dominum Potestatem illum civem qui tunc representabit personam quondam Admirati nel capitanei sub cuius ductu fuit obtenta dicta Victoria de qua tunc memoria fieret.
  17. Secondo il Romey (Histoire de Espagne, Paris, 1848; Vol. VIII, pag. 184 ), gli Arabi avrebbero ia questo assedio fatto uso per la prima volta della polvere da cannone.
  18. Timpani.
  19. Fanno.
  20. Cioè: sulla spiaggia.
  21. Vale a dire di que’ Mori che i Genovesi aveano condotto prigioni, come poco appresso è meglio spiegato.
  22. Aveano catene ai piedi.
  23. Di ciò per altro non solo i Mori faceano le meraviglie, ma Francesco Petrarca. Il quale, nella sua famosa lettera ai Genovesi (1352) appella Genova il tempio della felicità, la città dei re; e nell’Itinerario ne esalta auratas domos.... sparsas in littore.
  24. Imperocchè.
  25. Ved. Muratori, Antiquit. Ital. m. aevi; Vol. III, col. 339.
  26. Stella, col. 1086; Hopf, Storia dei Giustiniani nel Vol. LXVIII dell’Enciclopedia generale delle scienze ed arti: Lipsia, Brockhaus, 1858 (in tedesco). Più tardi (1432) Pietro Spinola comandante della flotta destinata a liberare Scio dall’assedio onde l’aveano stretta i Veneziani, sconfitta la squadra nemica nell’Arcipelago ed inseguitala fino a Caristo, ne prendeva la città e ne esportava le chiavi; le quali fregiarono come trofei la porta del castello di Scio. Reduce quindi alla patria, popolo e governo andarono a gara per onorarlo (Hopf, Op. cit.).
  27. Ciò fu verso le calende di dicembre.
  28. Serra, Storia dell’antica Liguria e di Genova, vol. III, p. 117.
  29. Serra. III, 119.
  30. Id. ib. 120.
  31. A tale cerimonia erano presenti in un colla Signoria, l’Ufficio di San Giorgio, sotto la cui dipendenza, come è noto, era precisamente da un secolo addietro stata posta la Corsica, nonchè il Magistrato particolare dell’isola stessa. Onde nel Cartolario di detto Ufficio (car. 62, Arch. di San Giorgio) sotto la data del 22 novembre 1553, si nota la spesa di lire 48 pro precio berretarum viginti rubrarum deliberatarum, videlicet 12 pro tragetis Comperarum, 2 pro tragietis Officii salis et 6 pro servientibus Comperarum,.... pro associacene magnifici Officii et officialium Corsice in vestibus nuptialibus accessis in ecclesia maiori sancti Laurentii, in consignacione vexili pro illustrissima Dominatione Janue facta illustrissimo Domino Andree Boria generali classis et exercitus facti pro recuperacione insule Corsice.
  32. D’Oria, La chiesa di san Matteo ec., pag. 17. Inoltre Ansaldo Giustiniani, dottore in leggi, pronunciò allora una Orazione, data quindi a stampa, secondo ha il Soprani Scrittori ec., pag. 280), con questo titolo: Oratione nella consignatione dello stendardo al signor principe di Melfi, Andrea Boria, generale della Maestà Ces. nel Mar Mediterraneo; fatto general capitano in Mare et in Terra della Serenissima Renublica di Genova, recitata pubblicamente nella Cattedrale a dì 23 ottobre 1553.
  33. Il P. Filippo Bonanni, nel suo Catalogo degli ordini equestri e militari Roma, 1711’, riporta, al num. 46, la figura di un giovinetto cavaliere di San Giorgio di Genova. L’insegna poi della croce vedesi riprodotta dal De Limieres, nel vol. VII del Supplement a l'Atlas Historique etc. (Amsterdam . 1720, pag. 104), nonché da Bernardo Giustiniani negli Ordini militari (Vol. II, pag. 749); ed è pari a quella degli altri ordini di San Giorgio d’Austria e di Montesa in Spagna.
    Un opuscolo stampato in Amsterdam col titolo di Regina Ligure, soggiunge che i cavalieri di San Giorgio solevano pure inquartare la croce anzidetta nelle armi di loro famiglia.’ Di queste dice inoltre che «se ne vedono hoggidi ancora; e ve n’è una in luogo assai conosciuto dalla città, cioè in una casa del marchese Spinola de Los Balbases, vicino a San Luca, in quella piazzetta di dove si va al Ponte dogli Spinoli; e vedesi ivi Tarma Spinola con croce rossa di sopra» (pag. 15).
  34. Giustiniani, II. 697.
  35. Anonimo, Notizie della Repubblica di Genova; Ms. della Biblioteca Universitaria.
  36. Questo monumento, il quale era murato sopra l’ingresso della cappella intitolata al Nome di Gesù, vedesi oggi nel cortile del palazzo Spinola in piazza Pellicceria. L’eroe è rappresentato a cavallo, ed armato di tutto punto, al disotto d’un padiglione di cui due vaghissime figure d’angioli aprono le cortine. Ha nella destra man i! bastone del comando, e tiene colla sinistra le redini del destriero riccamente bardato.

    Un disegno poi di questo sarcofago si ha nell’opera del ch. Alizeri, Monumenti sepolcrali della Liguria; ma vuolsi notare che lo Spinola è quivi affatto gratuitamente raffigurato dal disegnatore con elmo in capo e cimiero; giacchè tale statua da lunga pezza mutilata, fu appena da breve tempo restaurata sotto la direzione dell’illustre comm. Santo Varni.
  37. Questo bassorilievo esprime il trionfo di Bacco, e fu di recente allogato nella galleria superiore del Palazzo Municipale.
  38. La minor nave.
  39. Entro la quale.
  40. Giovanni II. re di Navarra.
  41. Paura.
  42. Così hanno tutte le copie mss.; ma sarebbe meglio: animosamente.
  43. Non pensate.
  44. Qui si sottintendono i compagni e i padroni delle galere dell’Asse. nominati buon tratto innanzi.
  45. Federici, Collettanee mss. dell’Archivio Governativo, vol. II, car. 62 verso; ove nota che questa lettera fu da lui stesso fedelmente trascritto dall’originale serbato appo Marc’Antonio Lomellino.
  46. Il Governo.
  47. Giustiniani, Annali, II, 342.
  48. Il Duca Filippo invece l’onorò grandemente, gli conferi in feudo la terra di Serravalle - Scrivia e nominollo eziandio Governatore di Milano.
  49. In una proposta (1513) fatta da’ Protettori di San Giorgio al Consiglio Generale delle Compere, per averne autorità di soccorrere alla Repubblica, si legge:« Ne pà che la citè non debia mai havei reposso se non se prende dicta lanterna (la Briglia), et a la fin dovei ese la totale ruina de questa citè» Onde «Sua Excelentia (il Doge), vista la gagiarda deliberation e lo bona animo demostrao per li citèm (cittadini), è stata contenta per suo debito promette et fa.... che quoquo modo si habia dicta lanterna, quella se debia ruina funditus, in modo che de ipsa sea levao la memoria» (Cancelleria dell’Archivio di San Giorgio).
  50. Tale franchigia fu conceduta del pari al Cavallo ed alla sua famiglia dall’Ufficio di San Giorgio per quelle gabelle che a quest’ultimo erano state assegnate dalla Repubblica stessa. Nella proposta d’uso per ciò fatta al detto Consiglio dicesi poi che il Cavallo «se exercita in la marinaria adoperando lo officio de nauclero, et in quello mesterò è molto pratieho» (Cancelleria precitata).
  51. Questa festa si celebrò costantemente collo stesso rito fino al cadere della Repubblica. Una grida del 9 settembre 1594 dice: «Dovendosi lunedi prossimo, che saranno li 12 del presente, giorno dell’Unione, celebrar la memoria della ricuperata libertà, e per ciò dovendo meritamente quel giorno esser solenne a tutti, si comanda per parte della Signoria Serenissima di questa Repubblica a tutte le persone di qual si voglia qualità che manchino dagli esercita et operationi manuali, e tenghino le butteghe chiuse nella maniera che si suole e deve fare il giorno della Domenica, sotto pena de libre 5 in 10 per ogni contrafaciente.» (Politicorum, mazzo 1, numero 52).
  52. Ved. il testo del decreto riferito dal D’Oria, La chiesa, di san Matteo ecc., p. 303; nel quale eziandio si leggono i privilegi di franchigia a favore d’Andrea.
    La statua in bronzo cui si accenna, fu commessa dalla Repubblica a Baccio Bandinelli che mai non la fece; anzi neppure consta che vi ponesse mano. Anche la gente dei D’Oria ordinava a Baccio di ritrarre in marmo lo stesso Andrea sotto sembianza di Nettuno, e stabiliva d’allogarne dipoi la figura sovra la piazza di san Matteo. Per far abbozzare tale statua il Bandinelli, che trovavasi in Genova, recossi tosto in Carrara alle cave del Polvaccio, ma quivi indi a poco abbandonò l’opera incompiuta; la quale pare debba essere quella medesima statua di Nettuno che i Carraresi rizzarono ia sovra La fonte in sulla piazza del loro Duomo.
    In seguito i D’Oria si rivolsero a Giovanni Angiolo Montorsoli, e da questi ebbero lo stupendo colosso che poscia cedettero (pregati) alla Repubblica; e che perciò fu innalzato sul davanti del Palazzo Ducale, ove stette lino al 1797. In quest’anno però cadde in balia del furore popolare, e fu rovinato unitamente al Governo di cui il D’Oria appunto avea gittate le fondamenta. Cionondimeno la sua famiglia raccolse in appresso que ’resti preziosi, e religiosamente li conserva murati nel chiostro che sorge accanto al tempio sopra mentovato (V. Atti della Società Ligure, ecc., III, pag. 121).
    La casa donata ad Andrea è quella che sorge presso alla piazza di san Matteo, tutta fregiata d’eccellenti sculture; e sovra il portico si legge tuttavia questa iscrizione:

    senat: cons: andre-
    ae de oria patriae
    liberatori mvnvs
    pvblicvm

  53. Cod. Diversorum anni 1533 (Archivio Governativo): 1533, die 19 iunuarii. Illustrissima Dominatio etc. Cum prope diem attendatur adventus Illustrissimi Principis Melfitani Andreas de Auria, generalis capitanei Caesaris in mari, ad praesentem civitatem, volentes talem virum de re publica optime meritum honore, exultatione ac plausu in urbem excipi ob res bene feliciterque gestas contra turcas, ordinaverunt et ordinant quod infrascripti quatuor praestantes cives, quos ad id elegerunt et deputaverunt, debeant illi ire obviam bipartito super duabus fregatis binis et in singula fregata; et quod in eius appulsu in portum debeant omnia signa letitiae fieri tam cum tormentorum strepitu tam in palatio quam in mole, tam campanarum sonitu, et praesertim magnae palacii, nec non ignes et falodia in palatio et per vicos ac plateas civitatis passim succendi, et id genus demum omnia quae ad publicam leticiam conveniant demonstrandam, nichil obstante.

    Quatuor deputatorum videlicet nomina sunt haec:
    Jeronimus Lomelinus qm. Thobiae.
    Jo. Baptista Lercarius qm D....
    Petrus Jo. Cibo de Clavica.
    Octavianus Sauli.
  54. Ora di Nostra Donna della Povvidenza.
  55. V. Genuensis Reipublicae Legum Compilatio; Ms. della Civico–Beriana, car. 36 verso.
  56. Il De Marini per altro era contumace, dacché esercitava in quel tempo l’ufficio d’ambasciatore di Francia presso il Duca di Savoia. Onde la Repubblica mise a prezzo la testa di lui, pubblicando un premio di diciottomila scudi a favore di chi l’avesse ucciso (Casoni, Annali, sotto il 1625).

    Alla chiesa si pose mano il 1628; e venne, per decreto dell’11 luglio 1629, confidata alle cure de’ Padri Bernardini Fogliatensi, che ne durarono in possesso fino alla generale soppressione degli ordini religiosi in Liguria avvenuta il 1798. Oggi poi del sacro edificio più non rimane che la memoria, essendo stato adattato agli usi di scuola civica elementare.

    Nella processione suddetta, che praticossi del pari fino al 1799, venivano recati la lettera precitata ed una costola del Santo, custodita entro teca di argento, che la Repubblica aveva ricevuta da’ monaci di Chiaravalle in cambio di una lampada del valore di quattromila scudi e del fondo necessario per mantenerla sempre ardente sul sepolcro del Santo medesimo, colà inviata col mezzo del sonatore Agostino Centurione (V. Acinelli, Liguria Sacra, Ms., vol. II, pag. 124; Alizeri, Guida, ecc., vol. I, pag. 319). La festa votiva fu poi osservata fino a’ di nostri; e venne soppressa con più altre negli Stati già Sardi con breve pontificio del 6 settembre 1853.
  57. Genuensis Reip. Legum etc., cart. 37. Tali statue esistono anche oggidi. Quella di Porta Pila è opera di Domenico Scorticone; l’altra a Porta Lanterna è di Bernardo Carlone. Sotto le medesime ricorre un listello, col motto: posvervnt me cvstodem. Inoltre sopra le altre porte è murata una tavoletta con queste parole: genova città di maria santissima.
  58. Cerimoniali, mss. dell’Archivio Governativo; Vol. II, pag. 394.
  59. Liguria Sacra, Ms.; Vol. II, pag. 155. Però se la statua poteva già dirsi a que’ giorni compiuta, non lo erano certo alcuni de’ suoi accessorii. Difatti nel Cartularium Reipublicae del 1654 si notano pagate all’artista varie somme «a conto della fabrica ha lui da fare di metallo delli due angeli, corona e Putto di Nostra Patrona di San Lorenzo» (cart. 118).
    Nel Cartolario poi del 1656, fol. 129, si legge:

    «✠ 1656 a’ 2 genaro.

    «Spesa per l’imagine di Nostra Signora di bronzo....

    «E a’ 27 di marzo. Per Gio. Batt. Bianco lire venti mille moneta corrente, e sono per altante che dal Collegio Serenissimo per decreto de’ 16 novembre 1654 li furono deliberate per sua ricognitione e tutte le spese fatte per detta statua, riporla all’altar maggiore della chiesa cattedrale di San Lorenzo.

  60. Genuens. Reip. Leg. etc. Ms., cart. 37.
  61. Cerimoniali, Ms. Vol. VIII, pag. 31.
  62. Questo santuario, comunemente detto di Oregina, viene secondo alcuni così appellato dacchè gli scarsi abitanti del luogo veneravano quivi in antico una immagine della Vergine sotto questa invocazione (o regina). La chiesa poi fu costrutta fra il 1650 ed il 1655 dai Minori osservanti di San Francesco, con limosine raccolte da’ cittadini (Ved. Alizeri, Guida ec., Vol. II, pag. 1158).
  63. Gen. Reip. Leg., ecc. Ms, cart. 39.
  64. E così tuttavia si celebra dal Municipio, il quale delega annualmente alcuni de’ suoi membri perchè lo rappresentino alla funzione religiosa. Nel pomeriggio poi le Società operaie coi rispettivi gonfaloni e molta onda di popolo si recano anch’esse in pellegrinaggio a quell’erta, e ne tornano cm ramoscelli divelti alle annose quercie del piazzale, inneggiando alla patria, agli eroi del passato, agi’ idoli del presente. Giunta la comitiva in Portoria, viene arringata da un qualche oratore sul luogo del famoso mortaio, additato da una pietra marmorea e da un altarino con iscrizione; indi, plaudendo ancora al Balilla, si scioglie.
  65. Celesia, Storie genovesi del secolo XVIII, pag. 113.
  66. Dove voleva egli mai.
  67. Affamato.
  68. Il generale Botta-Adorno.
  69. Cioè in kappa. Il conte di Kotek.
  70. E qui si vede tutta la nostra gloria.
  71. Ved. Cadenna zeneize dro scignor Gallin; Ms. della Civico–Beriana.