De' matematici italiani anteriori all'invenzione della stampa/Commentario storico

Commentario storico

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Tavola delle materie principali e delle persone accennate o citate in questo commentario Appendice
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DE’ MATEMATICI ITALIANI
ANTERIORI ALL’INVENZIONE DELLA STAMPA

COMMENTARIO STORICO


«L’Italia ha bisogno di essere meglio conosciuta nel suo vero merito letterario e scientifico, ed è pure un gran danno che i nostri antichi maestri del primo risorgimento de’ buoni studii giacessero per la maggior parte ignoti nelle pergamene, e non fossero pubblicati colle stampe in quel modo che si conveniva, cioè nella lor vera lezione autentica, ed illustrati con sana critica.» Queste parole scrivea, non ha guari, il P. Sorio nel mandare alla luce un saggio delle fatiche da lui poste da lungo tempo a rettificare la lezione ed illustrare l’opera del Tesoro di Ser Brunetto Latini, e nel testo di lui e nel volgarizzamento di Bono Giamboni1. E le scriveva al Principe D. Baldassarre Boncompagni, il quale con una munificenza da pari suo, e coll’intelligenza e l’amore di un ardente cultore delle scienze, e di un sincero amatore delle vere glorie italiane, tanto ha fatto e fa per l’illustrazione della storia delle scienze matematiche in Italia. E quelle parole mi è sembrato bene ripetere, e porle [p. 2 modifica]in fronte alle carte che imprendo a scrivere; nelle quali intendo far cosa non disutile ed anzi gradita a chiunque senza coltivare ex professo le matematiche, non sia poi indifferente al pregio che all’Italia deriva dal merito scientifico de’ suoi figliuoli.

E ciò verrò facendo assai brevemente, per la estensione del subbietto, e in maniera del tutto storica; e prevalendomi in gran parte degli accuratissimi lavori di che le scienze e gli scienziati debbono essere grati al Principe sullodato.

È ben vero che il grande storico della letteratura italiana non trascurò queste ricerche, anzi con molta cura se ne occupò: ma, nelle proporzioni dell’opera sua, se egli poteva ragionare degli uomini più cospicui, ed anzi discendere per essi fino ad investigazioni biografiche, non poteva poi egli fermarsi a nomi meno illustri, ma pure degni della memoria de’ posteri. Ed anche gli mancarono parecchie opportune notizie. E molte di queste ora non mancano grazie alle cure dell’egregio Principe romano, che non perdonando nè a fatiche nè a spese esaminò e fece frugare e copiare, ovunque potè scoprirne, codici e monumenti antichi, e stampe rarissime; e le raccolte copiose notizie, confrontandole con quanto da altri ne era stato detto, pubblicò con diligenza insuperabile, e con una esattezza che fa stupore. E non contento ad illustrare coll’erudizione la storia degli antichi matematici italiani, ed in ispecie di Leonardo da Pisa, fu altresì il primo che ne pubblicasse le opere tuttavia inedite, e che in parte si credevan perdute: e certo erano come smarrite e inutili pel pubblico, perchè giacenti, e in parte inosservate, in assai poche Biblioteche. Ma sopra queste non molto mi tratterrò: perchè l’intento mio, giova ridirlo, è di discorrerne storicamente a lettori non matematici. [p. 3 modifica]Parlò più da poeta che da istorico ed anche da oratore il Guglielmini, quando disse che al principio del secolo xiii le scienze matematiche erano ancora ignote in Europa, o vi eran perite sette secoli prima con Boezio2. Non crebbero, è vero, quelle scienze dopo Boezio: ma lungi dal perire con lui, gli sopravvissero per opera in gran parte di lui medesimo; perchè nei suoi scritti corsero ad attingerle i posteri. Avendo egli diviso in quattro rami le matematiche, secondo il diverso rispetto in che esse riguardano la quantità, venne così a determinare quel quadrivio che per tutto il Medio Evo costituì il corso superiore degli studj per chi ambiva fama di dotto, nè ottener la poteva se non apprendendo Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia 3. Alle quali non si perveniva senza aver prima [p. 4 modifica]passate altre tre strade, ciò erano la Grammatica, la Rettorica e la Dialettica, delle quali componevasi il trivio. E chi questi due corsi del trivio e del quadrivio aveva compito, non sarà stato invero nè un Galilei, nè un Newton (ma a far questi più che il vantaggio dell’istruzione che si riceva, si vuole il dono naturale d’un ingegno straordinario); ma non era per certo sì ignorante da non mantener vivi con li rudimenti e colla tradizione della scienza, la fiaccola del sapere, e questa disprezzò chi disprezzò quelle........ E questo è quel quadrivio pel quale deve far viaggio colui il cui animo precellente, sorpassando i sensi, si conduce alle verità che alla intelligenza si appalesano. — Così Boezio, le cui parole ho voluto recare, perchè quelle quattro strade sono appunto il quadrivio, di che fa menzione l’Allighieri. =
      Diversamente spiega questo quadrivio il Facciolati: "hac tamen voce (Grammatica) ars et facultas omnis dicendi ac disputandi interdum significabatur, hoc est Rhetorica quoque, et Dialectica, idque Trivium appellabant. Accessit postmodum Arithmetica, quam Computatoriam vocabant, et ad vanum quendam divinandi usum, qui mentes hominum occupaverat, etiam Astrologia; tum religionis gratia ea Musicae pars, quae in canendis divinis laudibus adhibebatur. Nec defuere, qui triplici huic studiorum generi Geometriam quoque adjicerent: atque ii quidem inter doctissimos habiti Quadrivium tenere dicebantur." (Facciolati, Fasti Gymn. Patav. Part. I. pag. x, xi). Non vorrò negare al Facciolati che il detto suo possa contenere qualche locale verità. Ma in genere è falso che il quadrivio contenesse e il Canto, ossia la musica pratica, e l’arte di far conti. Chè l’Aritmetica era la Scienza della quantità discreta, e o presupponeva o trascurava la computazione. E la Musica era tutta cosa teorica di calcolo. Musicorum et Cantorum magna est distantia: Isti dicunt illi sciunt quae componit Musica etc. Così un antico trattatello di Musica, che si conserva nell’Ambrosiana. Il Muratori pubblicò questo frammento nella Dissert. 43 sopra le Antichità italiane.

[p. 5 modifica]sicchè questa potesse poi rifulgere a tempo opportuno di rinnovellato ed accresciuto splendore.

Ancora aggiungasi che ne’ tempi della più profonda ignoranza, non lasciò mai d’essere sentita la necessità di far conti, di misurare e dividere terreni, di ergere edifizj, di regolare il corso delle acque4: aggiungasi la necessità di regolare il Calendario per gli usi civili e più per la celebrazione della Pasqua, e ognuno agevolmente si persuaderà non essere potute perire del tutto nè l’Aritmetica, nè la Geometria, nè l’Astronomia;5 che doveano insomma aver qualche vita le [p. 6 modifica]Matematiche pure, finchè se ne facevano applicazioni pratiche.

È bensì vero che per alcuni secoli è costretta a tacere la storia delle scienze, perchè non incontra opere e nomi da trar dall’obblio; e ben presto fede al Tiraboschi quando egli dice: «Io certo, per quanto abbia in ogni parte diligentemente fiutato, per così dire, ricercando di alcun filosofo di questi tempi, non ho potuto scoprire il menomo vestigio di un solo»6; e che, se in qualche cronica si vedono nominati de’ filosofi, «è assai probabile che questi fossero finalmente uomini che sapessero in qualche modo scriver latino, e far de’ versi, ch’era, per così dire la più alta cima di letteraria lode a cui allor si giungesse»7. Ma intendo che si dia il debito peso alle altre parole dello storico medesimo: «il conservarsi e il moltiplicarsi delle copie degli antichi autori che in essi (monasteri) facevasi, contribuì non poco a fare che le filosofiche cognizioni se venivano trascurate non perissero interamente; e che quando sorsero all’Italia tempi più lieti, potessero gli amatori delle scienze aver fonti a cui attingere, e monumenti

[p. 7 modifica]cui consultare»8. E intendo altresì che non s’abbia a confondere insieme, quasi una sola cosa esser debbano, l’incremento della scienza per opera di chi si fa autore di nuovi trovati, o se non altro di nuovi libri, con la conservazione e la comunicazione della scienza preesistente, al che basta studiare i libri che già vi sono.

Del resto, de’ libri che forse anche allora furono composti ne’ monasteri per istruzione de’ giovani monaci, chi può calcolare quanti ne siano iti in dispersione, e chi può accertare che, cercandoli, non sia possibile di ritrovarne pur ora? Certo che se la scienza, o almeno una qualche cognizione del Computo era voluta negli ecclesiastici, doveasi avere alcun libro che ne trattasse, e nel quale si ponesse studio 9. Ma avventuratamente io qui non mi trovo ridotto a sole congetture, e induzioni di raziocinio: imperocchè posso indicare nell’Archivio di Monte Cassino un libro almeno di tal materia composto ne’ primi anni del secolo ix. E perchè questo scritto era stato finquì al tutto sconosciuto, credo cosa molto opportuna di pubblicare la [p. 8 modifica]bella descrizione ed illustrazione di quel Codice, che io debbo alla dotta gentilezza del P. D. Sebastiano Kalafati, il quale per me ne fu pregato da questo degnissimo Abbate del modenese monastero di S. Pietro Rev[erendissi]mo D. Arsenio Rosset-Casel. Se non che per non interrompere il filo di questo storico ragionamento, la porrò in fine come Appendice.

A’ primi anni del secolo ix, e per poco quasi all’anno medesimo in che fu scritto il libro de Calculatione di Monte Cassino, appartiene ancora un Calendario conservato nell’opera della Cattedrale di Firenze, pubblicato ed illustrato dallo Ximenes, e menzionato dal Tiraboschi 10, dove «si osservano tracce sì belle di osservazioni astronomiche, che è veramente da ammirare come mai in un secolo sì caliginoso si giugnesse a questa chiarezza. Imperocchè si vede da esso manifestamente, che in Firenze fino dal secolo ix già si erano accorti della spostamento de’ punti equinoziali e solstiziali sofferto dal Concilio Niceno sino a quel tempo nel Calendario Giuliano, che allora la Chiesa seguiva. Nè ciò si arguisce per qualche dubbiosa congettura, ma apparisce manifestamente da quattro passi dello stesso Calendario....»11.

Stabilito così colla ragione e col fatto che se le scienze decaddero, ed ahi quanto! in Italia, non vi perirono mai, passiamo innanzi finchè ci sia dato incontrare un uomo veramente insigne e preclaro: perchè le ricerche storiche vogliono nomi e fatti. E quell’uomo straordinario ci si presenta in Gerberto. Del quale se io qui parlerò, non sarà per rapire alla Francia una gloria di [p. 9 modifica]che ben a ragione inorgoglisce: ma perchè, se non nacque italiano, italiano divenne quando fu fatto Abbate di Bobbio, poi Arcivescovo di Ravenna, ed italiano visse e morì quando salito al Soglio Pontificale cinse la Tiara col nome illustre di Silvestro II. Parliamone dunque a nostro bell’agio; ma in breve; nè meglio ciò fare potrei e più acconciamente all’uopo di un semplicissimo commentario storico, di quello che adoperando le parole del nostro Fabriani. «Nell’oscura notte interrotta solo da questi lampi che venivano dal Santuario (Cassiodoro, Isidoro, Beda, Alcuino), si ravvolsero ben quattro infelici secoli; ma al declinare del decimo una bella aurora spuntò alle matematiche in Gerberto, Romano Pontefice sotto il nome di Silvestro II. Egli dotato d’un genio superiore, istruito nelle matematiche dal Vescovo Aitone, e di tutta impossessatosi la Scienza degli Arabi, scosse la Francia, l’Italia, la Germania dal lungo letargo, e mercè l’eminente sua dottrina, lo zelo e l’ardore nel promovere le scienze, fece in esse rivivere specialmente lo studio dell’Aritmetica e della Geometria: onde l’Alembert ebbe a pronunziare: Gerberto collocato ai tempi Archimede l’avrebbe forse eguagliato»12.

Mi sembra troppo ingiusto il Guglielmini ove dice sprezzantemente, che «Gerberto decantato tanto, al finire del secolo x portò forse appena i libri, ne’ quali il nostro Platone (da Tivoli) poscia pescò fors’anche altre cose ora perdute»13; ma non sembrami ingiusto, nè cattivo storico nel negare che a lui si debba l’introduzione in Europa dell’aritmetica moderna, come pare aver pensato, fra gli altri, l’egregio Biografo [p. 10 modifica]viennese di Gerberto 14. Ed invero si mostra assai bene fondata l’opinione di M. Filarete Chasles, dell’Istituto di Francia, che il Trattato di Gerberto non sia punto d’origine araba, ma invece si riferisca al sistema di numerazione che a lui sembra d’aver trovato in Boezio, e che certamente poi era adoprato in Francia innanzi a Gerberto, come egli bene dimostra 15.

Ma se non appartiene a Gerberto il merito della introduzione dell’aritmetica indiana in Europa (merito il cui pregio massimo consiste poi nell’uso che i posteri hanno saputo farne, approfittandosi della comodità sua; perchè anche senza di esso furono massimi matematici Eratostene, Archimede e gli altri famosi antichi), altri meriti veramente suoi proprj debbono essere in lui riconosciuti ed ammirati. E qui vorrei anche tacere del tutto la benefica influenza esercitata fra’ suoi contemporanei, infervorandoli allo studio coll’esempio, coll’esortazioni, [p. 11 modifica]tazioni, e con gli scritti; ed a favore de’ posteri, raccogliendo libri, componendo macchine e strumenti scientifici. Ma perchè non può tacerne affatto uno storico commentario, mi contenterò d’avere ciò accennato di volo; e dirò essere merito dell’ingegno suo parecchie invenzioni e scoperte, che a più moderni sono state attribuite in appresso. Così fu egli che fece il primo passo per ottenere la somma di una serie; cosa che dal Libri è attribuita a Leonardo Pisano 16: vide possibile, [p. 12 modifica]bile, in alcuni casi per lo meno, di rilevare l’area d’un triangolo, conoscendo soltanto la lunghezza de’ suoi tre lati 17: insegnò operazioni che dagli eruditi sono state ascritte ad autori più recenti 18.

[p. 13 modifica]I tempi correvano troppo avversi alle scienze perchè l’esempio di Gerberto nella non brevissima sua vita, e l’impulso dato da lui nel breve suo Pontificato, potessero produrre tutti quegli effetti che in altre condizioni se ne sarebbe dovuto aspettare. Nulladimeno non andarono al tutto perduti: e già assai pochi anni dopo di lui troviamo fiorente e famosa la scuola di Parma, nella quale, insegnandovisi il trivio e il quadrivio, non mancava agli studiosi l’addottrinamento nelle scienze della quantità discreta e della continua19.

Da questa scuola, e dalle altre che meno vantate si trovavano in altre città20, è da credere che apprendessero tanta scienza di calcolo e di geometria, quanta era necessaria all’uopo dell’arti da loro professate, il nostro Lanfranco 21 e gli altri architetti de’ quali la Gran [p. 14 modifica]Contessa Matilde, e minori signori, e le città italiane si giovarono per le ragguardevoli costruzioni di tempj e di castelli, non ancora distrutti dal tempo, o del tutto guastati dagli uomini. Ma di autori che nel secolo xi abbiano scritto di matematica forse solo è da nominare il monaco cassinese Pandolfo da Capua, del quale veggasi il Tiraboschi 22 e l’appendice a questo mio scritto; al quale è da aggiungere, non come scrittore, ma come scienziato quello Strozzo Strozzi, astronomo e capitano che pare fosse autore di un antico segno solstiziale estivo di S. Giovanni di Firenze (23) 23. Sicchè mi è pur necessario di stare in sulle generali, e contentarmi di ripetere col Tiraboschi medesimo. «... In Italia non fu la filosofia e la matematica interamente dimenticata. Certo in Bologna, prima ancora che lo studio delle leggi vi s’introducesse, era già introdotto quello della filosofia e della matematica.... In Parma ancora doveano tali studj essere in qualche pregio; perchè S. Pier Damiano racconta che un certo Ugone cherico di quella chiesa congiungendo l’ambizione allo studio, erasi provveduto d’un astrolabio di fino argento: dal che veggiamo che l’astronomia ancora coltivavasi allora almeno da alcuni. 24»

[p. 15 modifica]E soltanto aggiungerò col Muratori, che «nello stesso Secolo xi trasportato e dilatato fu in Italia il sapere degli Arabi da Costantino di nazion cartaginese il quale, abbracciata la Religione di Cristo, e la vita monastica nel monistero di Monte Casino, quivi fiorì con lode di molta letteratura. Imperocchè il medesimo, come abbiamo da Pietro Diacono nella Cronica casinese, e nel libro de Viris ill. «Grammaticam, Dialecticam, Physicam, Geometriam, Arithmeticam, Mathematicam, Astronomiam etc. Physicamque Chaldaeorum, Arabum, Persarum, Saracenorum plenissime edoctus, transtulit de diversis gentium linguis libros quamplurimos.»25 Ma perchè i suoi lavori più che alle matematiche giovarono alla medicina non è qui luogo a fermarsi più oltre intorno a lui 26.

Il duodecimo secolo ci presenta un nome degno di rispetto e di riconoscenza. Voglio dire Platone da Tivoli 27, il cui nome si può dire rimasto incognito al Tiraboschi, se nella brevissima menzione che ne fece cadde in errore. Ed invero, parlando degli scrittori del secolo xvi, egli dice: «Gli Sferici di Teodosio vider la luce in latino per opera di Platone da Tivoli nel 1518, e poscia del Maurolico...» 28. Ma l’anno 1518 fu quello in che fu stampata colla data de’ 19 gennajo in Venezia dagli Eredi di Ottaviano Scoto e Compagni, in una Raccolta di trattati sopra la sfera, quella [p. 16 modifica]traduzione del tiburtino. Raccolta che nell’anno medesimo fu ristampata: Venetiis, impensis nobilis viri dni Luceantonij de giunta Florentini. Die ultimo Junij 1518 29. Il traduttore Platone fiorì quattro secoli innanzi, e deve anzi essere nato nel secolo xi se nel 1116 compiva la versione del Libro del misurare le piane figure, che fu scritto in ebraica lingua dal Giudeo Savasorda, come scrisse Leonardo da Pisa nella sua Practica Geometriae.

Fu dunque Platone tiburtino ne’ tempi più avversi alle scienze uno de’ primi che s’affaticassero ad accrescere in Italia le cognizioni scientifiche. Non si conoscono di lui lavori originali. Ma non è nelle scienze, come nell’amena letteratura, che il troppo zelo nel tradurre opere straniere impedisce che si formi e si mantenga in una nazione una letteratura veramente propria e originale. Ma le verità e i metodi scientifici bene è riceverli da chi li possiede; in ispezialtà quando poco siano coltivate, e scarseggino assaissimo i libri in che si trovano. Fece dunque utilissima opera il tiburtino, ed opera in que’ tempi tanto più commendevole e degna della gratitudine anche de’ posteri, quanto più difficile allora si era e l’apprendere lingue straniere, e procurarsi i Codici da tradurre. I suoi lavori debbono essere giudicati non in rispetto alla utilità presente, ma in rispetto a quella de’ suoi tempi, e avuto riguardo alle difficoltà ch’egli ebbe da superare. Ed a giudizio di persona ben competente in queste materie, [p. 17 modifica]Platone da Tivoli si fa conoscere non solo versato nelle scienze, ma colto nelle lingue. 30

Non si sa nulla delle vicende della sua vita. Solo il suo nome e i suoi lavori sonosi conservati. Questi sono le traduzioni dall’ebraico dell’accennato Trattato Geodetico del Savasorda o Savosorda, che si debba dire; e le traduzioni dall’arabo di altro trattato d’Astronomia d’Albategno, di quello degli Sferici di Teodosio da Tripoli, che ho accennato di sopra colle parole del Tiraboschi, d’un’operetta astrologica di Almansor o Almeone, del Tetrabiblon di Claudio Tolomeo, d’altro libro sopra le rivoluzioni delle natività di certo Alkasem, [p. 18 modifica]ed un trattato d’Abualcasin figlio d’Asafar sopra la costruzione e gli usi dell’astrolabio. Inoltre si conservano nella Biblioteca Bodlejana d’Oxford alcuni Excerpta ex libro Abohaly translato per Platonem Tyburtinum. E per non omettere quanto si sa delle fatiche di questo uomo, sebbene non in servigio delle matematiche, è anche da notare che Gio. Alberto Fabricio in un elenco di antichi medici stampato nella sua Biblioteca Graeca scrive: «Aeneas qui graece scripsit de pulsibus et urinis, quem latinum fecit Plato Tyburtinus et Ponticus Virunius»31.

Da ciò parrebbe potersi annoverare questo Platone fra i non numerosi conoscitori di greco de’ suoi dì, come lo stimò il Guglielmini, argomentandolo da alcuni vocaboli di greca origine da lui adoprati nella traduzione della misura delle aree del Savasorda 32. Ed io trovo in realtà probabile che il Tiburtino sapesse di [p. 19 modifica]greco: perchè nel dedicare ch’ ei fa a Giovanni David suo serenissimo amico e peritissimo nelle quattro discipline matematiche, la traduzione dall’arabo del Trattato d’Abualcasin figlio di Asafar sopra l’astrolabio, scrive così: «Cum.... post longam et assiduam observationem, nec apud Graecos, nec apud arabes, nec etiam apud latinos tam subtile, tam artificiosum, tamque perutile, licet mechanicum, invenissem instrumentum, ut est astrolapsus 33 ...... "

     Potrei spendere meno parole intorno a Gherardo Cremonese, altro benemerito traduttore del secolo xii, non perchè meno meritevole egli sia, ma perchè più e meglio conosciuto. Ed invero essendosi disputato assai della patria sua, volendolo altri Spagnuolo e dicendolo nato a Carmona nell’Andalusia, altri Italiano e nativo di Cremona, il Tiraboschi discusse con critico senno la quistione, e pesando le ragioni d’ambo le parti, lo rivendicò all’Italia, ed accennò i meriti di lui 34. Ma luce più splendida hanno recato le diligenti ricerche del Princ. Boncompagni 35. Un’antica iscrizione in lode di [p. 20 modifica]Gherardo trovata in un Codice Vaticano, malamente letta, avea fatto sostenere agli scrittori del Giornale de’ Letterati d’Italia, di Venezia, che egli fosse spagnuolo; e il Tiraboschi non dubitando della lezione, si restrinse a far vedere che si dovea diversamente interpretarla. Ma ora meglio osservata, e recata in un esatto fac simile, quella iscrizione conferma ben chiaramente che Gherardo fu di Cremona, leggendovisi

Hunc sine consimili genuisse Cremona superbit,

e non già, come era stato letto,

Hunc sine consilio genuisse Cremona superbit.

Questo Gherardo ebbe vita abbastanza lunga, essendo morto di 73 anni nel 1187, ovvero nel 1184, secondo che si voglia tenere per giusta la diversa indicazione che in due diversi Codici Vaticani s’incontra. Ma la data del 1187 pare la più probabile, perchè anche nella Cronaca di Francesco Pipino, domenicano, si trova scritto che Gerardus Lombardus, natione Cremonensis, magnus linguae arabicae translator, imperante Friderico, anno scilicet Domini mclxxxvii, qui fuit Imperii ejusdem Friderici xxxiv, vita defungitur. Fu uomo di molto studio, e di molta virtù, costante nella prospera e nell’avversa fortuna. Datosi da’ primi anni alla filosofia, ed appreso quanto potè dai libri allora conosciuti presso i latini, desiderò conoscere ancora l’Almagesto. E recatosi nelle Spagne a Toledo ove colle scienze loro fiorivano gli arabi, ne apprese la lingua, e si addentrò nello studio delle opere loro scientifiche. Ma più che il proprio gusto nell’imparare, cercò ed amò l’utilità degli studiosi, e tutto si consacrò a tradurre libri di scienza. Umile tanto e sprezzante della propria gloria,

[p. 21 modifica]che a nessuna delle sue traduzioni appose il suo nome. E che siasi potuto sapere quali e quante esse siano, lo dobbiamo a chi in tempi a lui vicini ne compitò un elenco, forse non compito. E sono più di settantasei opere, molte delle quali di non piccola mole, ed a’ que’ tempi importantissime ai varj rami della filosofia.

Gherardo non fu soltanto traduttore infaticabile, ma come autore «costruì alcune tavole astronomiche nelle quali insegnò il modo di trovare gli anni dell’era cristiana, de’ persiani, de’ greci e degli arabi; diede le altezze delle costellazioni per Cremona sua patria, per Toledo e per altre città; e determinò le latitudini di Cremona e di Toledo.» E questo è l’ultimo suggello della verità circa la patria di Gherardo: e l’averlo trovato, e lealmente manifestato, è pregio di Francesco Perez Bayer, dalle cui annotazioni alla Bibliotheca Hispana vetus di Nicolò Antonio, l’ha cavata il Principe Boncompagni: In Tabulis XX et duabus sequentibus, ad demonstrandam diversitatem ascensionum signorum per universam terram, indicantur, exempli causa, eorum elevationes accomodatae ad situm urbium Toleti et Cremonae, quin ullius alterius urbis eo in opere mentio fiat. Quid ita? Nimirum Toleti meminit, cujus urbis Gerardus incola erat et in eadem opus istud et alia bene multa conscripsit, quod et Gesnerus et Nicolaus Antonius tradidere; Cremonae vero, quia in ea urbe natales hauserat. Jam vero Toleto xxxix Latitudinis gradum cum nonnullis quadrantibus seu minutis perpetuo attribuit; Cremonae autem Suae in tribus Tabulis praedictis xlv gradum, cum minutis aliquot: quae omnino Cremonae Insubrum non Carmonis Baeticae gradatio est: nam hanc xxxvii circiter Latitudinis gradum tenere in comperto apud Geographos est. [p. 22 modifica]Chi voglia conoscere i titoli delle molte opere tradotte dal Cremonese, può vederli tratti da un Mss. della Vaticana, e pubblicati dal Principe Boncompagni. E nel libro di questo troverà ancora la descrizione bibliografica di tutte le edizioni che si conoscono di quelle fra tali traduzioni che concernono le matematiche; e l’indicazione de’ varj Mss. che ne sono sparsi nelle Biblioteche d’Europa. Ed uno di questi, non mai stampato, contenente la traduzione d’un importante trattato arabo d’algebra, è stato per intero pubblicato dal Principe medesimo, il quale per comodo degli analisti vi ha aggiunto la traduzione in linguaggio algebrico d’alcune regole ed operazioni in esso trattato indicate, cooperando così all’adempimento di quel bisogno dell’Italia, accennato colle parole del P. Sorio in sul principio di questo scritto, cioè a dire che non rimangano ignoti negli scaffali delle biblioteche le opere de’ nostri antichi maestri.

Se il secolo duodecimo e i precedenti ci hanno presentato assai pochi nomi di cultori delle scienze esatte in Italia, essi hanno per altro di che essere reputati gloriosi nelle opere di pratica applicazione, in ispecie nell’architettura e nell’idraulica. Imperocchè questi tempi videro elevarsi la mole stupenda di S. Marco di Venezia, e il secolo xii poi vide edificate le Cattedrali di Modena (1106) e di Borgo S. Donnino (1106) e la stupenda di Pisa, ed ergere le più cospicue torri italiane, a Modena (1106), a Bologna (1109 o 1119), a Verona (1172), a Pisa (1174), preludendo così alle posteriori insigni edificazioni di S. Maria del Fiore, del Duomo di Milano, e di S. Pietro di Roma; e nella escavazione de’ Canali Navigli Milanesi, questo secolo diede l’esempio più bello di simili canali artificiali a beneficio della pubblica prosperità per l’incremento del commercio, [p. 23 modifica]e dell’agricoltura dotata del più compito ed ammirabile sistema d’irrigazione 36

Nella scarsità degli scienziati nei tempi di che finora ho discorso, spero non apparirà inopportuna questa digressione: ma nel seguito di questo Commentario trascurerò i monumenti pratici della scienza degli avi nostri, avendo abbastanza nomi, intorno a’ quali intrattenermi.

Seguendo l’ordine de’ tempi, sarebbe ora da dire di Leonardo da Pisa; ma per non separare il discorso intorno a lui da quello che è poi da fare intorno alla sua [p. 24 modifica]scuola, preferisco di far precedere la menzione d’altri celebri matematici ed astronomi. Ed uno è Gherardo, appellato di Cremona, e anche di Sabbioneta, o se cremonese perchè oriondo di Sabbioneta, o se veramente nato a Sabbioneta perché vissuto poi a Cremona. Checchè sia, fu buon consiglio del Principe Boncompagni di appellare Cremonese il più antico de’ due famosi Gherardi, e dire l’altro da Sabbioneta, per distinguerli così l’uno dall’altro. La qual distinzione non fatta ne’ secoli passati fu cagione che confusi rimanessero quasi in una sola persona, e non poca incertezza vi sia nell’attribuire all’uno o all’altro opere che portano scritto il nome di Gherardo Cremonese. Ma già il Tiraboschi avea messa in chiaro la diversità degl’individui fioriti in due secoli diversi, e successivamente, sicchè il secondo forse non era nato quando più che settuagenario moriva il primo.

Quest’altro Gherardo adunque, appartenente al secolo xiii, e che alcune cose certamente scrisse dopo passata la metà di questo secolo, fu pe’ suoi tempi astronomo valente. Gli furono attribuite alcune traduzioni dall’arabo, le quali è assai verisimile fossero fatte più tosto dal più antico suo omonimo. Ma opera certamente sua fu la Theorica planetarum, molte volte stampata, e che lungo tempo fu tenuta in conto di libro classico; e fu tradotta anche in ebraico da Giuda ben Samuele, soprannomato Astruc Salom. Scrisse ancora una Practica o Praxis planetarum, conservata manoscritta, ed una Geomanzia Astronomica che, tradotta in francese da certo de Salerne, ebbe il non meritato onore di parecchie ristampe fattene a Parigi negli anni 1615, 1661, 1663, 1669, 1687. Ho voluto notare questi millesimi, posteriori in parte alle scoperte del Galilei, e riferentisi al secol d’oro delle lettere francesi, affinchè vedendo [p. 25 modifica]queste follìe aver voga in Francia in tanto splendore delle scienze, delle arti e delle lettere, si abbia un po’ di compatimento all’autore che quel trattatello compilò nel 1284. Egli delirava, è vero, seguendo i sogni dell’astrologia: ma delirava con la massima parte de’ suoi contemporanei. Che se egli e i suoi predecessori, e chi per lungo tempo appresso corse dietro a siffatte astrologiche vanità, si fosse difeso appellandosi alla pubblica opinione, che potrebbe replicare chi si professa tenuto a rispettare l’infallibilità ed a venerare gli oracoli di questa pretesa regina del mondo?

Il Tiraboschi disse che Gherardo troppo male abusava del suo sapere astronomico rivolgendolo alle superstizioni dell’astrologia giudiziaria 37, e disse bene: ma forse fu troppo severo appellandolo un astrologo impostore 38: chè probabilmente egli errò ingannato con gli altri, e non s’infinse per ingannare. Ed allora persone anche pie coltivavano in buona fede le fole dell’astrologia 39; e i più savj filosofi non altro volevano, combattendole, che mantenere la libertà dell’arbitrio nell’uomo e la natural condizione delle cose contingenti 40. E per lunga pezza, anche dopo, invalse [p. 26 modifica]il dettato che le stelle inclinano ma non isforzano. Il che sia detto non a difesa di quel vanissimo studio, ma sì a discolpa di chi se ne lasciò allucinare. Intorno a che non meglio potrei compire la digressione nella quale mi sono messo, che adducendo le parole d’un critico assennatissimo, il quale ragionando di Platone da Tivoli, scrisse così: «In tale sciocco delirio dell’astrologia giudiziaria, forse meno d’altri astronomi del suo tempo, ma pure incappò eziandio il nostro Platone. Cessi Iddio che noi vogliamo difenderlo in questo errore! Diremo solamente che se egli delirò pensando di leggere nelle stelle ciò che Dio non vi scrisse, molto più di lui meritan nome non solo d’empii, ma di pazzi, que’ filosofi che non vollero leggere in esse quello che Dio vi scrisse a caratteri sì cospicui la gloria di sua potenza, di sua bontà, di sua provvidenza» 41.

Altri due uomini diede all’Italia il secolo xiii, dei quali non può tacere i nomi la storia delle matematiche. E sono Campano novarese, e S. Tommaso d’Aquino. Ma perchè di questo andò perduto il trattato che avea cominciato a comporre sopra gli acquedotti e le macchine per sollevare e condurre le acque; e di quello non potrei che ripetere quanto si trova nel Tiraboschi; mi starò contento ad avere rammentato soltanto i nomi loro. E altro non farò che addurre a lode dell’Aquinate il giudizio del Fontenelle, riferito dal Tiraboschi medesimo scrivendo: «Ma benchè queste ed altre opere di S. Tommaso sian perite, quelle però che ci sono rimaste, bastano a persuaderci che non andò lungi dal vero l’ingegnoso M. Fontenelle quando... scrisse [p. 27 modifica]che in altri tempi S. Tommaso sarebbe stato un Cartesio»42. Se non che parmi che bene assai il detto del Fontenelle fosse corretto da Giovanni Pindemonte nel magnifico Elogio che di S. Tommaso recitò all’Accademia d’Este, dicendo: «Io però son d’avviso con buona pace del leggiadrissimo Fontenelle, che a se Tommaso ritrovato si fosse nelle combinazioni medesime di Cartesio, stato sarebbe meno immaginoso e più ragionato; nè avrebbe già egli del sistema dell’universo fatto un poema»43.

Mi spiccierò brevemente di Guido Bonatti, del quale per ciò che possa interessare la curiosità de’ non matematici basta bene ciò che ne scrisse il Tiraboschi 44, e chi desideri di più, anzi tutto quello che sia forse possibile saperne adesso, consulti ciò che ne ha scritto il Principe Boncompagni 45. Il meglio che se ne potesse dire è, che «i decem tractatus astronomiae del Bonatti, benchè siano pieni degli errori dell’astrologia giudiziaria che al suo tempo era molto in credito, e che poscia gli fece acquistare il titolo di Principe degli astrologhi, tuttavia contengono, come avverte il P. Ximenes, pregevoli nozioni di soda astronomia" 46.

Può essere che in questi delirj egli fosse più ingannato [p. 28 modifica]che ingannatore: e che procedesse con una tal qual buona fede, lo persuadono quasi le devote aspirazioni che egli preponeva a’ suoi scritti. Ed invero in un Codice appartenente al lodato Princ. Boncompagni un trattato del Bonatti comincia così:

Assit ad inceptum Sancta Maria meum,

e dopo il titolo si legge: In nomine Domini nostri Jhesu Christi misericordis et pij veri dei et verj hominis: cui non est par neque consimilis nec esse potest. E non havvi ragione di tenerlo per ipocrita. Ma l’animosità sua contro frate Giovanni da Schio di Vicenza, e in genere contro i frati, che predicavano sopra la vanità dell’astrologia giudiziaria 47, fanno sospettare che oltre l’amore della pretesa sua scienza, molto in lui potesse l’amor del denaro che ne ricavava e l’ambizione degli onori che ne otteneva. E non parmi gli si faccia gran torto a riputarlo impostore.

Scrisse molto, e con tal chiarezza che parve aver voluto insegnare l’astrologia persino alle donne; viaggiò inoltre sino in Arabia, per tacere di altro viaggio a Parigi. Fu creduto che nell’ultima sua età mutasse in meglio sua vita, e si facesse anzi frate francescano: ma più probabile è che questa credenza abbia avuto principio da un equivoco; perchè fu il Conte di Montefeltro, cui egli serviva, che dopo la morte di lui abbandonò il mondo pel chiostro.

Firenze e Forlì sonosi conteso l’onore d’averlo dato al mondo. Giovanni Villani lasciò scritto che Guido fu di Cascia, e che per torti ricevuti, ripudiò la patria, e recatosi a Forlì, volle poi sempre appellarsi forlivese. Ma egli non lasciò ne’ suoi scritti nessun cenno di tali [p. 29 modifica]supposte ingiurie, ed essendo poi stato al servigio del Comune di Firenze, come Astrologo, sarebbesi riconciliato co’ fiorentini: eppure rimane pubblico documento in che intervenne Guido come testimone e si dichiara ivi stesso di Forlì. Ma checchè sia di ciò, non è questo il caso che più città si quistionino dell’onore d’essere la patria d’Omero o del Tasso. E chi se lo vuole se lo pigli.

Cristianamente è da sperare che Guido morisse pentito delle sue colpe: ma letterariamente parlando, resti pure fra gli uomini, per la celebrità che ottennero, degni di nota, ma dove Dante lo pose 48.

Ed eccoci ad altro ma ben diverso uomo, la cui fama purissima non è macchiata da verun tristo fatto o dalla menoma vergogna. Eccoci a Leonardo di Bonaccio Bigoli da Pisa, appellato comunemente Fibonacci 49. [p. 30 modifica]La fama sua, che dopo parecchie generazioni parve oscurata dal vivissimo ed abbagliante splendore della scienza moderna, è tornata a rilucere bella e gradita ne’ tempi a noi più prossimi; e i meriti di lui forse non apprezzati abbastanza degnamente ne’ tempi che tenner dietro da presso a quello in che visse,50

[p. 31 modifica]hanno trovato estimatori più equi ed amorevoli, in proporzione della cura che è stata posta nelle opere sue, presso chiunque si è fatto a studiare gl’inizj e i primi passi della scienza, e grato alle prime fatiche di chi piantò il seme e ne curò il germogliamento, non ha la pretesa che dalle prime radici della tenera pianta dovessero spuntare immediatamente i frutti perfetti dell’albero adulto. Anzi i suoi meriti sono stati pregiati in proporzione della cognizione che se ne è avuta, la quale ora soltanto è veramente piena, e può essere generale, per la pubblicazione per la prima volta intrapresane dall’egregio Principe Boncompagni.

E per dire alcuna cosa dei meriti di Leonardo, e della estimazione avutane dagli eruditi, cominciamo dal vedere come ne scrivesse il Tiraboschi, il quale bene è giusto nominare innanzi a chiunque altro, ove si tratti di glorie letterarie e scientifiche italiane. Egli dice adunque così: «Tra i Matematici di questo secolo (xiii) dee annoverarsi principalmente Leonardo Fibonacci, ossia figliuol di Bonaccio, di patria pisano; perciocchè a lui si attribuisce la lode di avere prima d’ogni altro portati in Italia al principio del secolo stesso i numeri detti arabici, o com’egli li dice, numeri indiani.» 51 E segue assai brevemente parlando degli studj di Leonardo, ed accenna le fonti onde attinse le notizie che reca, e sono lo Zaccaria, che stampò l’indice de’ Capitoli dell’Aritmetica del Fibonacci, e Giovanni Targioni Tozzetti, che ne scelse parecchie belle e importanti notizie. Accenna poi che il Targioni mostra che Leonardo fa uso non sol del nome, ma delle note e delle regole dell’Algebra.

Se la scarsità di ciò che scrive il Tiraboschi fa vedere [p. 32 modifica]quante poche notizie egli si trovasse alle mani, la forma con che le espone (si attribuisce) è cagione di dubitare ch’ei non fosse molto persuaso della loro verità. Ed in uno storico di tanto giudizio e di sì fino criterio la manifestazione riguardosa di un dubbio è tanto più notevole in quanto che egli ben conosceva la sentenza esplicita e positiva del Bettinelli, che Leonardo «portò l’Algebra il primo dagli Arabi, i numeri arabici introdusse a gran comodo dell’aritmetica, di cui fece un trattato, ed un altro d’agrimensura.»52 Non di meno e volle scrivere così per appunto il Tiraboschi, e nella seconda edizione dell’opera sua nulla mutò, e soltanto aggiunse una nota, in parte per lodare l’Andres il quale senza negare a Leonardo Fibonacci la gloria d’averle (le cifre arabiche) dall’Africa portate in Italia, volle provarle sconosciute a Gerberto e a Boezio; e in parte per rispondere alla sentenza di lui che l’esempio più antico di tali cifre, si abbia in un Codice di Toledo del 1136. E ciò fa il Tiraboschi dicendo che, se il Codice della Magliabechiana, ove s’incontrano le note arabiche, è veramente del secolo xi come crede il Targioni Tozzetti, devesi a questo la preferenza sopra il Codice di Toledo. Colla quale condizionata proposizione poco invero venne a conchiudere il Tiraboschi; se non che in tal modo fece conoscere non aver esso prove sufficienti per isciogliere il problema storico relativo all’introduzione delle cifre numeriche e dell’aritmetica moderna, e non voler trattare siffatte quistioni.

E per lui che sì ampia tela avea da tessere, questo era sano ed opportuno consiglio: tanto intricate aveano [p. 33 modifica]fatto quelle quistioni le dispute degli eruditi. E poi allora non erano fatte pubbliche le ricerche del Guglielmini, del Cossali,53 del Libri,54 del Boncompagni, che tanta luce han recato intorno ai meriti di Leonardo. Ma qui non è da tacere dei diversi risultamenti a’ quali è pervenuto M. Filarete Chasles, dell’Instituto di Francia, ne’ suoi lavori storici sopra l’aritmetica del medio Evo. 55 Se non che, siccome una verità qualunque non può opporsi ad alcun’altra verità, [p. 34 modifica]ben è possibile tenere i fatti da lui scoperti, e mantenere a Leonardo da Pisa i meriti che giustamente debbono essere in lui riconosciuti.

A me sembra che nella ricerca dell’inventore o introduttore dell’aritmetica moderna, siasi commesso un errore di falso supposto, credendo che l’introduzione delle cifre fosse di tal fatta che, siccome la luce del sole, avesse subito dovuto estendersi per ogni dove si avea l’uso di far calcoli, o anche solo conti. Sicchè uno solo possa essere stato il fortunato propagatore di quel metodo, ed unica la propagazione. Ora il fatto non è così; ed anzi assai lento fu il diffondersi della nuova aritmetica, e per lungo sèguito d’anni durò insieme col novello metodo pell’antico, qualunque ci fosse, che usava prima.56 Un sistema sì lentamente adottato può ben essere penetrato dagli Arabi in Europa per diverse strade. Ma fatto è che si sa averle condotte in Italia pel primo il Fibonacci; e non si conoscono i nomi degli altri pretesi propagatori delle cifre nelle altre parti d’Europa.57 Il merito di Leonardo non istà nella materiale introduzione delle cifre; sibbene nel suo gran sapere in fatto d’aritmetica e d’analisi. Così il merito vero e sommo di Cristoforo Colombo non fu l’essere giunto a sbarcare alle Antille: (che lo scoprimento dell’America, anche senza di lui, sarebbe accaduto dopo pochi anni, quando il Cabral trabalzato da furiosa tempesta toccava le spiagge dei Brasile; come ben prima di lui era avvenuto per l’America [p. 35 modifica]settentrionale a’ navigatori scandinavi, e veneti58); ma sibbene ne’ raziocinj pe’ quali, nella comune ignoranza dell’incognito continente, e contro pregiudizj universali al suo tempo, conobbe dover essere navigabile l’oceano occidentale, e possibile di pervenire per di là a meta felice.

Non è poi da confondere la quistione sopra l’introduzione dell’aritmetica araba o indiana, con quella intorno all’uso delle cifre; e ben potrebbe essere che di molto più antiche di Leonardo fossero queste. Ed invero non pare negabile a M. Chasles e ad altri eruditi francesi, trovarsi segni molto analoghi alle cifre moderne in alcuni Codici di Boezio; ed anche che quelle cifre erano adoprate ad uso di calcolo nell’Arco appellato Pitagorico. Ma che quelle identiche o similissime figure fossero gli apices di Boezio, e non più tosto fossero sostituite agli apici da copisti posteriori, ciò non può essere de[p. 36 modifica]ciso se non da chi trovi Codici di Boezio prossimi di tempo all’età di questo grande filosofo. E i Codici che si conoscono non sembrano a gran pezza essere di tanta antichità. Che se poi circa il secolo x in Francia si calcolava con quelle figure, disponendole per le varie colonne dell’Arco appellato (a dritto o a torto) pitagorico; e se si può mostrare possibile che a poco a poco e quasi da sè medesima si venisse componendo l’aritmetica moderna, uscendo dalle colonne dell’Arco, ed aggiungendo alle cifre significative lo Zero; ciò non toglie che altro sia il possibile, altro il reale; e che non è lecito inferire l’esistenza dalla mera possibilità. Ed invero è certo che nel metodo dell’Arco non entrava lo zero; che le cifre significative non acquistavano valore di posizione, che al pari di quelle figure si prestavano al calcolo le lettere dell’alfabeto,59 che diversissimo era il modo operare.

Ma che Leonardo abbia introdotto il modo d’operare [p. 37 modifica]degl’indiani, da lui appreso nelle coste d’Affrica, è cosa incontrastabile e perchè egli medesimo lo racconta e perchè lo mostra la maniera con che spiega le regole della numerazione. Imperocchè, assumendo come cognita a tutti la notazione dei numeri colle lettere romane, si vale del confronto di queste per ispiegare la diversa notazione colle cifre che egli adoprava, e voleva comunicare agli europei60 affinchè la gente latina non ne rimanesse più priva siccome era fino allora.61 [p. 38 modifica]

Le Opere di Leonardo sono le seguenti, giusta le accurate indagini del Principe Boncompagni, a cui di tanto è debitrice la fama di quell’uomo benemerito.

«1. Un trattato d’aritmetica e d’algebra intitolato Liber Abbaci ed anche Liber Numeri, pubblicato nel 1202, e con nuove cure dell’Autore ripubblicato nel 1228 dedicandolo a Michele Scoto cui appella filosofo sommo.62

2. Un trattato di geometria teorica e pratica intitolato Practica geometriae, composto nel 1220 o nel 1221.

3. Un trattato de’ numeri quadrati intitolato Liber quadratorum, composto nel 1225.

4. Un’opera intitolata Flos super solutionibus quarundam quaestionum ad numerum et ad geometriam vel ad utrumque pertinentium, composto quasi nello stesso tempo di quello de’ numeri quadrati, perchè vi accenna d’avere incominciato libellum quem libellum quadratorum intitulavi in quo continebuntur rationes etc.

5. Un opuscolo De modo solvendi quaestiones avium et similium.

6. Un comento sul decimo libro degli Elementi d’Euclide, citato da Leonardo nel Flos.

[p. 39 modifica]7. Un’opera intitolata Libro di mercatanti detto di minor guisa63

Di queste opere la terza, la quarta, e la quinta furono pubblicate per la prima volta nel 1854, e di nuovo nel 1856, a Firenze, dal Princ. Boncompagni64; e la prima dal medesimo in Roma nel 1857. 65 E portando questa edizione in un primo frontispicio l’indicazione d’essere il primo volume degli scritti di Leonardo Pisano, si vede essere intenzione dell’illustre e benemerito scienziato di fare che tutte le opere che ci rimangono di Leonardo vengano finalmente alla luce a decoro dell’Italia, e a vantaggio degli studiosi.

Il nobile editore ha già manifestata la sua intenzione di rifondere e coordinare in più ampio lavoro da intitolare Della Vita, e delle Opere di Leonardo Pisano, tutte le notizie già da lui fatte pubbliche, altre aggiungendone [p. 40 modifica]che in seguito ha raccolte.66 E tale è la copia e l’importanza delle cose già da lui colle estese sue investigazioni trovate e pubblicate, che soltanto da lui è possibile sperare che sia per ottenere l’Italia notizie ulteriori. Certo che se dopo tante e tali ricerche rimangono nascosti documenti e scritti di Leonardo, è ben possibile che siano poi rinvenuti per beneficio di sorte, ma non che siano scoperti per diligenza d’uomo.

Io non mi tratterrò a discorrere de’ meriti matematici di Leonardo quanto sarebbe pur loro dovuto, perchè non voglio escire dai confini di un breve e rapido commentario. Ma giovi almeno accennare colle gravi parole d’un dotto critico, che «Leonardo Fibonacci da Pisa non solo a’ suoi tempi ebbe fama di valentissimo matematico, ma per quasi tre secoli dopo non trovò a chi lo superasse, e anche ai dì nostri, dopo tanto progredire che han fatto le teorie del calcolo, riscuote a buon dritto dai dotti ammirazione e gratitudine, sia per la parte principalissima ch’egli ebbe nel trapiantare in Europa la scienza d’Euclide e di Diofanto campata per man degli Arabi dal naufragio della barbarie, come pei molti e bei trovati ond’egli l’arricchì, la dilatò, la crebbe e le diè il primo slancio di vita.»67 [p. 41 modifica]Il Targioni Tozzetti avea esaminato troppo leggermente il Codice del Liber Abbaci, e per ciò scrisse trovarvisi fatto uso non sol del nome ma dei segni e delle regole dell’Algebra. 68Il comodo della notazione algebrica è assai posteriore: «ma a dire ingenuo le lettere non sono ivi solitarie ed in quel senso astratto nel quale noi le adoperiamo, ma riferite ed annesse alle linee.... Si può dire il metodo di Leonardo una sorta di analisi speciosa lineare, e se resta ne’ pregi e ne’ vantaggi inferiore alla speciosa analisi letterale odierna, riesce certamente superiore di molto ad una semplice analisi numerica, prestando ajuto alla fantasia, spargendo lume sul computo e dandogli una certa generalità. Le rappresentazioni delle note ed ignote quantità per linee sono simboli indeterminati, il calcolo su di essi guidato partecipa della indeterminata estension loro...... Se non è generale il processo, ne è generale lo spirito; se si particolarizza l’atto, non lascia d’esserne assoluta la virtù.»69

Ma qui è da notare che il Guglielmini dissente dal Cossali, e lo censura di troppo favoreggiare Fra Luca Pacioli: «il che, soggiunge, non avrebbe fatto, se avesse avuto comodo e tempo da leggere in Firenze (quando visitò la Magliabechiana Biblioteca) la Geometria di Lionardo: poichè avrebbe in questa trovato, come Lionardo tratta la Geometria d’Euclide analiticamente (cosa da Pacioli omessa affatto); e come vi espone l’analisi letterale Vietea, cui Fr. Luca strozzò, e trasferì nell’Aritmetica; perlocchè è accaduto che il Prof. Cossali doni a Paciolì la prima lode d’inventore della Letterale analisi negando di [p. 42 modifica]parteciparvi a Lionardo, a cui è dovuta per intero.»70

Leonardo recò in Europa l’Aritmetica e l’Algebra; e questi furono due gran benefizj fatti alla scienza. Ma le recò non ne’ primi loro elementi, sibbene già sviluppate; ed egli medesimo le ampliò 71. Questo è veramente [p. 43 modifica]il merito suo grandissimo; e se non perfezionò egli lo strumento quasi meccanico del calcolo, ciò tornar deve a maggior lode dell’ingegno suo presso ogni giusto estimatore. Perchè tanto più d’acume di mente si richiede ad ottenere con istrumento imperfetto grandi effetti, che non a conseguirli con istrumento perfettissimo; chè in quest’ultimo caso quanto maggiore è l’ajuto che nello strumento si ha, tanto minore è la fatica ed il merito di chi lo adopra.

Ma distacchiamoci da Leonardo per dire alcuna cosa della sua scuola. Chè non perirono con lui le scienze ch’egli avea trapiantate in Italia, ma amorevolmente dopo lui coltivate, vi si mantennero, finchè poi ingigantirono, ed ampiamente si diffusero per Europa.

La nuova Aritmetica, e con essa l’Algebra, che quasi suo più elevato sviluppamento da principio non ne andava distinta, attecchirono massimamente in Toscana. Altrove, ed in ispecie a Venezia, si continuò a lungo ad adoprare il metodo più antico 72. Sicchè il moderno ebbe ad essere appellato quasi per antonomasia modo ed uso fiorentino 73. Volendo ora dir qualche [p. 44 modifica]cosa della scuola aritmetica ed analitica fiorentina, io non intendo tessere il catalogo de’ professori e maestri suoi, ma semplicemente di accennare i nomi de’ principali di loro, di che sia rimasta memoria. E una sommaria menzione ne trovo in un tratto d’un Codice della I. R. Biblioteca Palatina riferito dal Princ. Boncompagni; ove si legge: «... E acciò che intenda gli Autori, e quali io chiamo da essere riputati; sono Euclide, Boezio, Jordano; e de’ nostri toscani, Lionardo pisano, Massolo da Perugia, frate Lionardo da Pistoja, Maestro Pagolo le cui ossa sono in Santa Trinita, Maestro Antonio Mazinghi, Maestro Giovanni, e in alcune cose Maestro Luca, non lasciando Maestro Grazia frate dell’ordine di Santo Agostino»74.

Massolo da Perugia, dall’antico autore di un Trattato di pratica di Geometria, è detto uomo assai esperto in queste scienze75. E ciò soltanto posso dire intorno a lui: perchè nessun’altra notizia ne ho, e nè tampoco

[p. 45 modifica]il nome di lui ho potuto veder registrato nella Biografia degli scrittori perugini, del Vermiglioli. 76.

Frate Leonardo da Pistoja, domenicano, autore anche d’una Somma di Teologia, probabilmente perduta o smarrita, fiorì circa il 1280, e scrisse un’opera quadripartita di Matematica ad utilitatem et eruderationem novorum seu rudium auditorum. Quattro allora, come per tutto il medio evo, si riguardavano le parti della scienza Matematica, cioè l’Aritmetica, la Geometria, la Musica e l’Astronomia. Fra Leonardo tratta della numerazione degl’interi, e delle frazioni, probabilmente comprendendo sotto il vocabolo numerazione (de arte numerandi) le varie operazioni aritmetiche, e poi de conditionibus et proprietatibus et proportionibus numerorum secundum traditionem Boetii in arithmetica sua. E della Geometria poi dice egli medesimo: Geometriae praticam postulantibus et inexperlibus tradere volens non quasi novum opus edidi, sed vetera et praedecessorum meorum dicta collegi77. Di che si pare che il buon religioso intese fare opera elementare per facilitare l’apprendimento della scienza e diffonderne la cognizione, ma non cercò di dilatarne i confini. Scrisse ancora De Computo Lunae secundum doctores Ecclesiasticos.

Terzo in ordine di tempo, ma primo per fama ed autorità, dopo Leonardo pisano, ci si presenta Maestro Paolo. Il quale è quel Paolo de’ Dagomari, nato di nobile famiglia pratese, che per la sua perizia nel calcolo e per la professione che ne tenne a Firenze fu chiamato [p. 46 modifica]Paolo dell’Abaco, ed anche Paolo Geometra 78, e fu uno de’ Priori di Firenze pel quartiere di Santo Spirito ne’ mesi di Maggio e Giugno del 136379. Tenne scuola in Firenze; e fu celebre e pel numero degli scolari80, e per la scienza sua: per la quale vivente meritò l’amicizia e le lodi del Boccaccio; e morto ebbe l’onore di un mausoleo nella Chiesa di Santa Trinita, e che Filippo Villani ne scrivesse la vita fra quelle degl’illustri fiorentini. Egli dice: Hic geometra maximus atque peritissimus Arithmeticae fuit, et ea propter in adaeequationibus Astronomicis antiquos et modernos ceteros antecessit81. Ebbe grande abilità nell’adoprare gli [p. 47 modifica]strumenti astronomici allora conosciuti. E aggiunge il suo biografo che scoprì errori nelle Tavole di Toledo, o Alfonsine, ed essere quindi ingannevole l’astrolabio misurato secondo quelle Tavole. Gli dà anche lode d’essere stato il primo a comporre Almanacchi: Hic nostrorum temporum primus Tacuinum composuit.

Il Dagomari si dilettò talvolta di scrivere in versi: e, per ragione del tempo in che visse, gode l’onore d’avere il nome suo registrato ne’ Testi di Lingua. Se ne hanno alle stampe un Sonetto a Jacopo figlio di Dante Allighieri, e tre altri d’argomento astrologico e una Canzone82: ed altri due ne ha trovati e pubblicati il lodato Princ. Boncompagni. In fatto di scienza scrisse certamente intorno alle quantità continue, perché siffatto suo libro è citato da scrittori contemporanei

[p. 48 modifica]83. S’hanno di lui Tabulae planetarum ad annum 1366, e parecchi trattatelli astronomici ed aritmetici conservati in diverse Biblioteche. De’ quali Guglielmo Libri pubblicò pel primo le Regoluzze; sebbene poi si mostrasse dubbioso se opera fossero del Dagomari, ovvero d’altro Paolo; ma il dubbio non sembra abbastanza fondato84.

Paolo dell’Abaco morì nel 1373, o nel 1374 85, e [p. 49 modifica]nel suo testamento lasciò una prova solenne dell’amore e della solerzia con che avea coltivato le scienze e del desiderio suo di giovare agli studiosi. Imperocchè trovandosi possedere molti libri e strumenti astronomici, ordinò che fossero chiusi a doppia chiave in una cassa, e così depositati nel Monastero di S. Trinita vi si conservassero fino a che venisse qualche astronomo fiorentino, la cui valentia fosse riconosciuta ed approvata da quattro Maestri, o come ora diremmo professori. Il Tiraboschi fa menzione di un tal lascito, ma non parla del suo eseguimento. Ben ne tenne memoria chi compilò in antico un Libro di pratica d’arismetrica, e parlando di Maestro Antonio de’ Mazzinghi, da Peretola, scrisse così. «Il quale (M.o Antonio de’ Mazzinghi) tenne al suo tempo scuola di rimpetto a Santa Trinita. E come vuole Maestro Giovanni, e’ fu di tanta scienza ch’ e’ libri lasciati da M.o Pagolo dopo la sua morte in questo modo che chi si trovasse essere più dotto in Firenze quelli avesse: e dopo molto tempo disputatosi gli furono mandati colle trombe circa a 800 volumi a casa sua»86.

Ma per tempo assai breve potè goder di que’ libri il Mazzinghi, che a’ suoi 30 anni di età venne a morte. Del suo sapere ragionano con molta stima gli antichi, colle parole de’ quali panni bene di dirne qui alcuna cosa. Ecco dunque le parole dell’Autore di un Trattato di pratica d’arismetrica tratto de’ libri di Lionardo

[p. 50 modifica]pisano e d’altri autori, compilato da B. 87 a un suo caro amico negli anni di Χρο mcccclxiii. — «Vivono ancora al tempo presente e’ nipoti del detto M.o Antonio. El quale, secondo che per udita posso scrivere, egli fu da Peretola de’ Mazinghi onorevoli uomini. E come il padre assai copioso secondo gli uomini di quella villa delle cose che la fortuna porge, ed ancora di buono intelletto, volle al figliuolo dare virtù le quali per alcuno accidente gli fussino tolte88, e fattolo imparare leggere e scrivere e grammatica che in piccol tempo assai sufficiente ne venne. Imperò che secondo l’uso del dire di quel tempo in latino ed in vulgare disse bene, ed ancora scriveva lettera antica bene proporzionata. E di poi si dette allo studio delle opere Matematiche; e fu suo precettore M.o Pagolo. E benchè alcuni dichino che stesse con lui in casa, e che fu quello che manifestò la morte sua, questo non affermo per vero. Ma potrebbe essere. E poco tempo stette con M.o Pagolo, che’l detto M.o Pagolo morì, e nel testamento lasciò e’ beni immobili alla Chiesa di Santa Trinita, che, secondo che si vede per l’arme, che sono foglie di vite, le due capelle allato allo maggiore muro cioè furono murate de’ suoi denari, benché ancora la maggiore [p. 51 modifica]si dice che di que’ denari si murorono. E le possessione 89 e case lasciò a un suo nipote e dopo la morte di quello a Santa Trinita ritornassino. E i libri e cose atte a studio lasciò a chi più sapesse, ed in ciascuna facoltà. E fu dopo lunghe dispute, fatte in molto tempo, con onorevole modo, mandati a casa M.o Antonio predetto. E non solamente in Arismetrica e Geometria, ma in Astrologia, Musica, ancora in edificare, in Prospettiva, in tutte arti 90 di gran a intelletto fu dotto e fece molti Archimi 91. E secondo che troviamo d’età di circa 30 anni morì. Lasciò [p. 52 modifica]molti volumi 92 di geometria e d’arismetrica, ma la più alta fu,quella che de’ Fioretti è titolata»93. L’anonimo citato poco sopra dice poi: "E trovasi molti volumi de’ suoi e’ quali in particularità sono mandati a certi Maestri che allora insegnavano, riprendendogli della loro poca scienza»94. Il Mazzinghi coltivò altresì in qualche modo le lettere; fu amico di Franco Sacchetti cui diresse un sonetto, pel quale trovasi messo nella Tavola degli autori citati dalla Crusca, col titolo di Maestro Antonio Arismetra e Astrologo95. [p. 53 modifica]La scuola d’Antonio de’ Mazzinghi era bene la più celebrata di que’ dì in Firenze, ma non era la sola. I suoi colleghi, da lui ripresi di loro poca scienza, sperarono forse che la sua morte fruttar dovesse onore e concorso alle scuole loro. Ma si trovarono ingannati nelle loro speranze. Fra i discepoli di lui v’era un giovinetto, di nome Giovanni, figliuolo d’un muratore, che pe’ conforti degli amici si risolvette di continuare la scuola del suo morto maestro. Ma giovi narrare il fatto colle ingenue e semplici parole di quel buon antico che ne fece il racconto. Se la cognizione di tali casi non importa nulla alla storia della scienza, vale per altro ad onesta ricreazione dello studioso lettore. Ecco ciò ch’egli narra. «Maestro Giovanni di Bartolo incominciò a insegnare circa 1390, e, così come il suo maestro morì giovane, ancora lui giovane cominciò in questo modo. Morto il suo maestro Antonio, persuaso ed ajutato da certi amici di M.o Antonio, ed ancora da’ suoi,

[p. 54 modifica]benchè di 19 anni fusse, gli feciono aprire la medesima scuola, e favoreggiandolo quant’era possibile, e per sua giovanezza poco dagli altri che ’nsegnavano conosciuto, e benchè dottissimo e copioso di libri fusse, chè gli erano rimasti quegli del detto M.o Antonio, la invidia che negli artefici d’un’arte regna, e massime infra quelli che insegnano al presente, in fra loro esaminato in che modo si potesse levarlo di quella voluntà, presono questa via. Conciossia cosa che per la sua età non fusse possibile che egli potesse sapere, ragunarono ciascuno nella loro scuola alcuni buoni ragionierj, e fu nella scuola di M.o Michele 96, circa a 25 di varie materie, e nella scuola di M.o Luca circa altrettante (benchè M.o Luca poco o niente facesse, ma M.o Biagio suo maestro, secondo che da M.o Lorenzo ho inteso), e chiamato ciascuno a se dissono: A noi è stato detto che un fanciullotto 97 discepolo di Mo Antonio ha riaperto la scuola ch’egli teneva quando era in vita. E acciò che creda che fra voi sarebbe chi meglio di lui la terrebbe, Io vi fo comandamento che oggi quando voi venite alla scuola voi n’andiate là. E pigliate le mute vostre da lui, e quando vi fate insegnare mostrategli co’ vostri argomenti che sapete, chè vadi a fare altro. A’ quali ubbidendo e’ detti discepoli andarono. Era in fra quelli uno Tomaso Cavalcanti che era molto intendente, ed uno Jacopo Bordonj, e [p. 55 modifica]fecionsi capo, e giunto dopo desinare a lui, e fattogli la riverenza che si richiede, dissono: Maestro, inteso che voi volete ritenere la memoria di M.o Antonio, noi vi vogliamo con ogni ajuto favoreggiare in quanti ci volete mostrare, e noi vi saremo obbedienti scolari. E profetizzò, imperocchè così fu. M.o Giovanni maravigliatosi di tanti e quali, e di diversi, e di diverse materie, subito stimò quel ch’era. Niente di meno a uno a uno chiamatogli, la materia loro che volevano mostrò. E poi tutti insieme ragunati cominciandosi a uno di loro dal principio per infino a quanto durò il tempo mostrò e’ dubbj, e chiarì loro in modo che stupefatti certi che v’erano, si ricordarono di M.o Antonio. E parve loro in quel poco di spazio avere più imparato che il resto del tempo agli altri. Onde seguitando pervennero in modo, che molti di loro furono per la propria voluntà sopenti a dire e far villania a’ loro maestri primi, solamente avendo compreso la intensa invidia che gli portavano..... E chiaramente M.o Giovanni fece al suo tempo alcuni scolari che di gran lunga avanzarono chi ’nsegnava. Benchè sempre avesse il salare dal Comune per le lezioni straordinarie. E visse infimo a circa 144 (sic). Fu il padre Muratore, e più tosto di povero stato che di comune, guadagnò al suo tempo grandissima quantità di tesoro. E fece in molte facultà belle opere, e massime nella pratica che n’ho viste molte delle quali cavo e’ casi che voglio scrivere.... Fu di statura mezzana, e quasi in viso pieno, benchè a mio tempo non avessi cognizione, imperocchè in quel tempo che io mi posi a imparare egli era morto, ovvero morisse»98. [p. 56 modifica]Questo Giovanni di Bartolo godè per certo in Firenze di somma riputazione, se a lui come già prima al Dagomari fu dato il soprannome dell’Abaco. Parecchie notizie della sua vita sono rimaste nel prospetto de’ suoi beni, che presentò al Comune di Firenze quando questo nel 1427 ordinò che si facesse un registro de’ beni e delle facoltà di tutte le persone soggette alle gravezze del Comune medesimo. «Questi sono (scrive egli) i beni del Maestro Giovanni di Bartolo dell’Abaco, del quartiere di Santo Spirito, gonfalone del drago, popolo di Santo Friano. — Una casa con orto...... Un pezzo di vigna vecchia e guasta di Stiora 4 e alcuno panoro, e tengola a mie mani, chè non vi truovo lavoratore, perchè guasta e trista..... E debbo avere fiorini 72 per mio salario dell’anno presente 1427 se e’ Signori me li stanzieranno che non ho ancora lo stanziamento. E avendo lo stanziamento, arei la quarta parte, cioè fiorini 18 o circa di maggio nel 29, e l’altra quarta di maggio nel 30, e l’altra nel 31 e ’l resto nel 32..... Tengo a pigione la bottega dell’abaco a Santa Trinita, della quale pago l’anno fiorini 17 e una ocha.... Ed ho tanti libretti d’astrologia che vagliono nel torno di 10 fiorini. — Signori Uficiali, io sono vecchio d’età d’anni 63, e sono istato infermo oggimai 9 anni che io caddi e disovolai l’osso della coscia, e ma’ non ho potuto guarire, e in questo tempo ho logoro ogni mia sustanza, e isviata la scuola perche noll’ho potuta esercitare, perchè stetti lungo tempo nel letto fasciato e lenzato. Come la scuola mia sia in punto 99 mandatelo a vedere. Io non posso andare nè andrò mai [p. 57 modifica]più se none a grucce con grande fatica. — E sono da uno anno in qua molto peggiorato, e così ragionevolmente penso peggiore più l’uno dì che l’altro per la vecchia 100 e per la grande infirmità. E convienmi al presente torre una fante che mi governi, ch’io non mi posso oggimai più ajutare. — La Lettura dello studio, la quale mi fu data a dì 28 di giugno nel 1424 per 3 anni, è finita in questo anno 1427, sicchè non arò più quello sussidio dal Comune. - Χρο v’allumini del vero lume, e menivi per la via de la verità»101.

Assai poco è da dire degli altri professori toscani di matematica indicati di sopra; chè nulla trovo, oltre l’indicazione del nome loro, intorno a Domenico Vajajo e a Maestro Luca, il quale credo essere persona ben diversa da Frate Luca Paciolo di Borgo San Sepolcro, che studiò a Venezia, e poi fecesi francescano. Ma se anche fosse l’identica persona, gli scrittori dì Pratiche Aritmetiche che lo citano sembra, per ragione di tempo, non potersi riferire che a’ primi suoi lavori giovanili. E di M.o Grazia, Agostiniano, basta dire che in que’ tempi fu avuto in conto di perfetto Aritmetico; il che volea dire Matematico, essendo che, per adoprare le parole d’uno di quegli antichi: «Ogni autore del quale si truova alcuno trattato d’arismetrica, si truova ancora di quello trattato di Geometria»102. Pare poi che il M.o Grazia attendesse più alla Geometria che ad altro, leggendosi in altro antico trattatista, o forse [p. 58 modifica]più tosto in altro trattato del medesimo anonimo autore: "E ancora de’ casi di Maestro Grazia perfetto Arismetrico non scriverò, riserbando quelli all’opera geometricale»103.

E ciò basti di questi buoni vecchi: chè se era giusto rammentarne i nomi ed i meriti, non sarebbe poi bene spendere qui intorno ad essi troppo tempo nè troppe parole. Perchè alla fine se furono persone utilissime a’ giorni loro per conservare la scienza, essi peraltro non le fecero fare passi notevoli, anzi non arrivarono nemmeno all’altezza a che l’avea condotta Leonardo da Pisa.

Ma un altro fiorentino vuol qui essere nominato con onore, ed è Giovanni del Sodo, «cui i fiorentini dovrebbevo porre in maggior fama» a sentenza del Guglielmini 104, che gli attribuisce la Risoluzione generale delle equazioni derivate di secondo grado105, e del quale alcune belle e importanti invenzioni sono riferite dal Galigai che ne fu discepolo106, e che ci ha conservato ancora i segni o figure colle quali Giovanni del Sodo rappresentava, a comodo e servigio del calcolo, le potenze dei numeri107. E qui mi sia lecito addurre altro nome ricordato con onore dal Galigai, dicendo: «Porrò alquanti casi sottili propostimi da Maestro Agnolo del Carmine Maestro Eccessivo Geometro, [p. 59 modifica]e le risposte da me fattegli»108. Ed anche altri due nomi ricorderò, non bene sapendo a qual tempo s’abbia con verità a riferirli, e sono Guglielmo de Lunis, e Raffaele Canacci; intorno a’ quali trovo scritto dal Cossali che il Cav. G. B. Nelli gli «mostrò un Ragionamento d’Algebra di Raffaele Canacci, aritmetico e geometra fiorentino, scritto a giudizio degl’intelligenti nel secolo xiv. Ecco uno de’ coltivalori dell’Algebra; ed un altro egli ne loda a se anteriore nominando Guglielmo de Lunis... ponendo: la regola dell’argibra, la quale regola Ghuglielmo di Lunis la traslatò d’arabica a nostra lingua»109. Osserva il Cossali che se quella traduzione fu in nostra lingua non poteva essere anteriore a Leonardo da Pisa, perchè solo più tardi s’incominciò a scrivere in prosa volgare. Ed egli crede il Canacci contemporaneo forse a Paolo de’ Dagomari110. A me fa gran caso il non vedere nominato quel Raffaele fra gli altri Maestri citati nelle Pratiche d’Aritmetica di sopra riferite; e inoltre osservo che pressochè le identiche parole, addotte dal Cossali come scritte dal Canacci, si trovano nel Galilai attribuite al Maestro Benedetto, scrivendo quegli così: Dice Benedecto la Regola dell’Arcibra, quale Guglielmo de Lunis la traslatò d’Arabo a nostra lengua.111 Comunque sia, si ponga pure il Canacci nel secolo xiv, se ciò vuole il giudizio di persone perite che abbiano esaminato quel Codice. Chè alla fine, in questo Commentario io non mi sono proposto d’attenermi strettamente [p. 60 modifica]all’ordine cronologico, e più m’è piaciuto di non separare la connessione delle cose e delle persone.

Il maggior merito di avere ripreso il cammino e d’essere gito avanti, e molto avanti, fu di Fra Luca Pacioli. Se non che vissuto fra il XV e il XVI secolo, e fiorito essendo quando s’era già diffusa l’invenzione della stampa, e avendo avuto l’onore d’essere il primo, o almeno l’unico aritmetico degno di fama, che le opere sue mandasse alla pubblica luce 112, egli perciò più tosto che l’ultimo in ordine d’anni appartenente al tempo di che mi sono messo a scrivere, è da guardare siccome il primo del tempo che a quello succede. Per la qual cosa di lui non debbo io parlare: ed anche assai poco ve ne sarebbe d’uopo, perchè non gli fu ingrata la posterità; chè anzi allo splendore della sua fama è in gran parte da attribuire l’ingiusta dimenticanza dalla quale sì lungamente sono stati coperti i meriti di Leonardo. [p. 61 modifica]Ma questi meriti del Fibonacci e la scuola di lui m’hanno lungamente trattenuto; e m’hanno indotto a correre il periodo di tre secoli senza torcere il pensiero dalla Toscana, e senza qui pure por mente ad altro che agli analisti. Per riparare alla omissione, giovi dunque ora raccogliere almeno i nomi degli altri benemeriti cultori delle matematiche in questi secoli. E qui la Toscana ci torna innanzi, e ci presenta il nome dell’uomo enciclopedico di que’ dì, del celebrato Maestro di Dante Allighieri, Brunetto Latini. E che questi fosse non solo un gran Maestro della filosofia e della eloquenza, ma si meritasse altresì d’essere annoverato fra i cultori delle matematiche, lo fa vedere il Trattato della Sfera, che è nel suo Tesoro, e purgato dagli enormi spropositi delle antiche stampe è stato pubblicato dal benemerito P. Sorio, per saggio de’ suoi studj filologici e critici ad emendazione e illustrazione di quell’antico Tesoro nel classico volgarizzamento che ne fece il Giamboni ed anche nel testo francese di Ser Brunetto. E lo fa vedere altresì il Sistema di Cronologia usato dal Latini per la sua Storia antica, che il prelodato P. Sorio ha compilato, traendolo fedelmente dal Libro 1. del Tesoro, ed ha pubblicato insieme col predetto Trattato della Sfera 113.

Se a Brunetto Latini fo qui seguitare il gran nome dell’Allighieri, debbo io temere la taccia di capriccioso, o d’esserne solo scusato per la vaghezza di abbellire colla menzione del sommo poeta la severità e la noja di uno storico Commentario? Nol credo. Imperocchè se massimo fu Dante nella poesia, fu grande altresì nelle scienze, ed anzi si compiacque far pompa di scienza, [p. 62 modifica]se non a scapito del suo poema, con qualche detrimento d’alcune singole sue parti. Ma se egli studiò le Matematiche, e del saper suo in Astronomia volle poi anche far pompa, e da verità geometriche seppe fare scaturire bellezze poetiche 114; perchè non potrò io nominarlo fra i cultori, se non fra i promotori delle Matematiche? Tornerei più tosto d’essere giustamente ripreso se nol facessi, e tanto più avendo pure l’Allighieri, nelle opere sue minori, una Dissertazione intorno alla figura dell’acqua e della terra, che temendo non gli fossero dagl’invidiosi malamente interpretati e [p. 63 modifica]riferiti i suoi detti, volle scrivere egli medesimo raccogliendovi ed esponendo la solenne disputa che ne ebbe a Verona, tum veritatis amore, tum etiam odio falsitatis. "Sostiene in questa disputa Dante che il globo terracqueo è sferico, e che l’acqua ne occupa le parti inferiori, contro quelli che pretendevano che il livello del mare fosse al di sopra di quello della terra. Il tutto prova eccellentemente con argomenti matematici; ond’è corredato l’opuscolo stesso.... di figure geometriche." 115

Ad una obbiezione che mi potrebbe esser fatta, risponderò colle parole dello Spotorno.

"Non senza grave ingiuria si è preteso che questo poeta, dottissimo 116 specialmente nella filosofia e

[p. 64 modifica]nella matematica, non sapesse distinguere il meridiano di Marsiglia da quel di Genova: quasi che nell’età di Andalò di Negro, in cui tanto si studiavano i moti delle stelle, e tanto si navigava, e viaggiavasi, potesse un Dante ignorare quello, che noto era ad ogni vil mozzo di nave; ed ignorarlo in un luogo, ove usa di una perifrasi a mostrare le sue cognizioni geografiche. Ben so che si poteva errare di molti minuti nelle contrade più note, e forse di un grado o due, trattandosi di regioni meno frequentate; ma che nel mediterraneo, ove Bugea, Marsiglia e Genova erano visitate da’ naviganti, non si sapesse che la prima è quasi rimpetto alla seconda; e che Genova ne è discosta di non pochi gradi, questo è vituperare l’autore della divina commedia.»117

Voglio nominare pur anco gli altri due lumi delle lettere italiane nel secolo xiv il Petrarca e il Boccaccio: imperocchè nella vastissima loro dottrina non rimasero loro al tutto estranie le scienze collegate colle Matematiche. Ed invero il Petrarca fu grande amatore della Geografia, e «con ogni ardore ne illustrò e promosse lo studio. Apparisce in effetto da un’epistola aver tentato ogni sforzo per stabilire con certezza ove fosse l’isola Tile, non di rado menzionata dagli antichi. Fa mostra del vasto sapere geografico il suo Itinerario Siriaco..... primo modello d’illustrazione geografica, che vanti la moderna letteratura. Oltre l’antica promosse ancora la moderna geografia...... Non visitò con disagio le remote contrade, ma nella sua biblioteca le scorse sulle carte e sui libri; e la raccolta ch’ei fece di carte eccellenti ed esatte apparisce [p. 65 modifica]da una Epistola del Codice Riccardiano. Non dimenticando giammai la patria ne’ suoi studj, fece delineare insieme col Re Roberto un’esatta carta d’Italia...." 118. E a ciò si aggiunga trovarsi un Codice Palatino di Firenze di mano del Petrarca, e in esso parecchie figure di matematica, geografia, cosmografia, ch’egli eseguì bene e avvisatamente qua e là nei margini, fan chiaro di essere addottrinato in simili scienze.... E il Petrarca, solo a leggere le sue rime, non mostrasi egli intendente e pratico in queste scienze? Ed ei già scriveva al Boccaccio di averci atteso (Tomasini pag. 14), e Leonardo Aretino lo rammentava (Vita Petrarchae).»119

Ma in ispecial modo voglio menzionato il Boccaccio, che destinato dal padre suo alla mercatura, imparò sin da fanciullo in Firenze l’aritmetica, in tempi che per l’indirizzo datole da Leonardo pisano l’aritmetica non era una semplice arte computatoria, ma la vera scienza analitica. E poi la perizia da lui adulto mostrata negli studj cronologici, l’amicizia mantenuta con Paolo Dagomari, e il professare di riconoscere ìn proprio maestro Andalone del Negro, mi sembrano fatti bastevoli perchè si annoveri il Boccaccio fra i conoscitori delle matematiche.120 [p. 66 modifica]

E nominato avendo Andalone del Negro genovese, dirò di lui ciò che il Boccaccio ne scrisse: e ciò valga ad onore d’entrambi, e lo dirò colle parole del Tiraboschi che stimò opportuno di volgarizzare i periodi del Certaldese. «= Io ho spesso citato il nobile e venerabil vecchio Andalone del Nero, genovese, mio venerabil maestro di cui ben ti è nota, o ottimo re, la prudenza, la gravità de’ costumi e la cognizione ch’egli avea delle stelle. Tu stesso hai potuto vedere ch’egli non solo apprese a conoscerne i movimenti a colle regole tramandateci da’ maggiori, come noi usiamo comunemente; ma che avendo viaggiato per per quasi tutto il mondo, ci giunse a conoscere colla sperienza de’ proprj occhi ciò che noi sappiamo solo

[p. 67 modifica]per udito. Quindi, benchè nelle altre cose ancora io il creda degno di fede, in ciò nondimeno che appartiene alle stelle, parmi ch’ei debba avere quella autorità medesima che ha Cicerone nell’eloquenza e Virgilio nella poesia. Abbiamo inoltre alcune opere da lui scritte intorno il movimento delle stelle e del cielo, le quali ben mostrano quanto ei fosse in questa scienza eccellente. = E una di tali opere, intitolata de compositione Astrolabii è stata pubblicata in Ferrara l’anno 1475.»121

D’un altro discepolo di Andalone è rimasta memoria, cioè Corrado che fu poi Vescovo di Fiesole, ed astronomo; d’una cui opera fece menzione lo Ximenes122.

«Dopo Paolo Dagomari fiorirono in Toscana due altri Astronomi, o almeno Cosmologi, cioè Maestro Domenico d’Arezzo e Maestro Antonio Fiorentino. Del primo abbiamo un ottimo Codice della Gaddiana, in foglio, numerato dcxxviii scritto in cartapecora assai elegantemente. Liber de Mundo editus a Magistro Dominico de Aretio ad nobilem virum, decusque insigne militiae Dominum Rinaldum de Gianfigliazzis de Florentia. Questo Codice è scritto verso la fine del secolo xiv. Maestro Domenico d’Arezzo fiorì verso il 1380... " 123 Il Maestro Antonio Fiorentino è [p. 68 modifica]poi quell’Antonio de’ Mazzinghi del quale abbiam ragionato più sopra discorrendo della scuola di Leonardo da Pisa.124

Non cessò nella Toscana il fervore per l’astronomia anche nel seguente secolo xv; che anzi "niuna provincia sì ardentemente si volse a coltivar tali studj, quanto la Toscana"125. I nomi di quegli astronomi, fra’ quali vanno purtroppo frammisti non pochi astrologi, ed anzi alcuni apologisti di questa vana e folle disciplina, si può vederli nello Ximenes126: il Tiraboschi ne annoverò i più cospicui, e presso

[p. 69 modifica]di lui, chi vuole, li cerchi 127. Ma ragion vuole che si dica pur anche come in Toscana trovò oppugnatori il delirio astrologico128. Ma lasciamo da parte l’astrologia. Meglio è riportare il nome insigne di Paolo Toscanelli «detto ancor Paolo Medico e Paolo Fisico, nato del 1397, e famoso in Firenze sua patria ed altrove principalmente per aver eretto colà il Gnomone o sia Meridiana nel 1468, la prima che noi abbiamo, e illustrata... dal P. Ximenes, e con ammirazione ricordata da M. de la Condamine, poi per aver dato spinta al Colombo per la sua grande impresa. Egli era l’amico e l’oracolo de’ più dotti toscani, e italiani, quai furono Ambrogio Camaldolese, Niccolò Nicoli, che il fa degli esecutori del suo testamento nel 1428 con Cosmo e Lorenzo figli del quondam Giovanni de’ Medici, ed altri chiarissimi letterati. E come Firenze era emporio di tutte le genti, così per suo studio consultava gli Asiatici, affin di conoscere il globo, ed i climi, come fu testimonio d’udito il Landino, già suo discepolo con altri dottissimi quali furono Goro di Staggio,129 Guglielmo [p. 70 modifica]Becchi Vescovo Fiesolano, che dedicò un’opera de Cometa a Pietro de’ Medici nel 1456, e quanti allora e poi furono gloria e splendor di Toscana per quelle scienze, di cui sempre mostrossi ricchissima in ogni maniera. Quindi i loro navigatori furono molti, sinchè il Vespucci meritò di lasciar il suo nome al nuovo emisfero, come gli altri italiani per ogni parte furono primi ad aprir quella strada.»130

Il Toscanelli morì a’ 15 di maggio del 1482.131 Circa a questo tempo morì ancora Pietro della Francesca, di Borgo S. Sepolcro, pittore che nella prima sua giovinezza, e poi, perduta la vista, di nuovo nella vecchiaja, fu grande coltivatore delle matematiche e lasciò parecchie scritture di geometria e di prospettiva, che diconsi trasportate dopo la sua morte nella biblioteca vaticana. Il Vasari accusò Fra Luca Pacioli d’essersi appropriati alcuni manoscritti di Pietro, del quale fu discepolo, e d’essersene spacciato per autore. Della quale accusa il Tiraboschi lo assolve132. E trovandoci così di nuovo pervenuti alla fine di quel periodo di tempi, di che ho assunto di parlare, uscirò ormai di Toscana per discorrere delle altre parti d’Italia.

[p. 71 modifica]Senonchè il primo che per ordine di tempo ci viene innanzi, vi ci riconduce sgraziatamente. Egli è Cecco d’Ascoli, di cui fu grande la celebrità, dubbia la riputazione, certa pur troppo nel fatto, incerta nelle cagioni la miseranda morte inflittagli a Firenze. Ma di lui basta, all’uopo presente, ricordare che nel suo poema dell’Acerba «i primi due libri son quelli che della Sfera ragionano, a’ quali però, come ad opera di per se, il lor medesimo autore pose il titolo della Sfera: gli altri tre libri portano il nome di acerbo o acervo, perchè sono un ammassamento di diverse cognizioni e dottrine.»133

Ma qui, più tosto che raccogliere nomi, e notizie individuali delle persone de’ matematici, giovi dare uno sguardo in generale alla condizione delle scienze matematiche in Italia, di questi tempi. Se per tutto il medio evo lo studio del quadrivio le mantenea vive, e se al risorgere delle lettere e delle altre scienze, ebbero anch’esse non ispregevole sviluppo, ed anzi di nuovi rami s’arricchirono, siccome abbiamo già veduto; pure deve confessare lo storico che in generale decadde più che non aumentò la stima che di esse scienze faceva l’universale. E la cagione pare fosse il sommo onore in che vennero lo studio delle Leggi Romane e quello dei Sacri Canoni, non chè la medicina. Tale era la foga con che alle scuole di diritto, e specialmente del gius civile correvano gli studiosi, che si dovette anzi porvi riparo proibendo con censure ecclesiastiche a’ religiosi di abbandonare le scienze sacre per la giurisprudenza. All’ambizione ed all’avarizia degli uomini parlava troppo altamente il detto comune, che un lontano [p. 72 modifica]eco tradizionale va ora con minor verità ripetendo,

Dat Galenus opes. Dat Justinianus honores.


Ed allora era verissimo. Sicchè non solo l’amor delle scienze legali e mediche, ma la cupidigia de’ premj, con che i legisti e i medici di qualche grido erano rimeritati, attiravano in folla la gente desiderosa di accumulare tesori, o di ottenere dalle varie città l’ambito onore delle annuali magistrature. E intanto neglette erano le Matematiche più che qualunque altra disciplina.E questa trascuranza durò lungo tempo, e se non fosse l’amore all’Astronomia, mantenuto in gran parte per la pazza smania dell’Astrologia, che soleva esserle unita, ed anzi ne era riguardata come la parte principalissima e più importante, forse che ne’ secoli xii e xiii si sarebbe troncata la tradizione scientifica rimasta viva finchè fu in onore lo studio del quadrivio.

Ed io vorrei credere che l’animo nobile e disdegnoso dell’Allighieri perciò prorompesse in quella sua invettiva contro agli studiosi di ragion Canonica:

(Par. ix, 133)


perchè grande e sincera fu in lui

(Inf. xix, 101)

e lungi dall’avversare e dispettare lo studio delle Leggi in genere, come potrebbe ove dice

     Chi dietro congiura a jura e chi ad aforismi
               Sen giva,

l’onorava altamente non solo come a uomo d’ingegno si conveniva, ma ancora come i ghibellini affettavano allora di fare. Anzi per lui il Diritto civile era l’alto lavoro da Dio per sua grazia ispirato. [p. 73 modifica]

Cesare fui e son Giustiniano
     Che, per voler del primo Amor ch’io sento,
     D’entro alle leggi trassi il troppo e ’l vano.
E prima ch’ io all’ opra fossi attento......
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
     A Dio, per grazia, piacque di spirarmi
     L’alto lavoro, e tutto in lui mi diedi.

(Par. vi, 13 e seg.)
E Dante avrebbe voluto che le scienze fossero coltivate per amor del sapere, non per interesse di lucro. Della quale sua propensione d’animo lasciò testimonianza ben manifesta in quelle gravi parole del Convito: «E a vituperio di loro dico che non si deono chiamar letterati; perocchè non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano danari o dignità; siccome non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo; e non per usarla per sonare.»134La quale ira giustissima dell’Allighieri mi giova credere rimanesse avvalorata dal vedere sì fattamente neglette le matematiche: perchè se a Dante poeta dovea cuocere il dispetto in che giaceva lo studio del bello, a Dante filosofo non potea meno rincrescere lo scorgere trascurato il vero astratto.

E questo in realtà allora accadeva. E se pure sempre s’è trovato alcun amico e cultore di queste scienze, si seguirono parecchie generazioni senza che fosse provveduto con pubbliche scuole al loro insegnamento. Bologna, la più antica e la più fiorente delle Università Italiane, che fa giusta pompa dell’onorata e larghissima schiera de’ suoi interpreti del Gius Civile, e del [p. 74 modifica]Canonico, può appena notare ne’ suoi fasti: Sed et Geometriae, atque Arithmeticae aliquis honos a nostris est habitus pro temporum conditione. Nam praeter alios qui fortasse numerorum scientiam professi sunt, eam certe docuit quidam Mag. Joannes... Quoniam vero notum satis est, artem hanc infinitis pene mysteriis abundasse, ita sane ut de quadam divinitate Arithmeticae Professores, non secus ac Astrologiae, gloriarentur; probabile censeo, Academiae nostrae hujus scientiae cultores non defuisse, ex qua tantum honoris et fanne apud ignarum vulgus captare possent. Ad Geometriam vero quod pertinet, indicare solum possumus quemdam Mag. Guizzardum, cujus est apud Thomasinum Geometria cum Recollectis Mag. Bartholomaei.... Geometria haec scripta dicitur anno mccciv et uterque Bononiensis etiam dicitur.135

A’ quali se si aggiungano i nomi di Guido Bonatti, di Cecco d’Ascoli, e d’un M. Giovanni di Luna che al principio del secolo xiv fu eletto Astrologo del popolo Bolognese, avremo compito l’elenco de’ matematici di questi secoli in Bologna 136. Ma una prova sufficiente che e a Bologna ed a Parma era pur coltivata l’astronomia, ce la somministra l’antica Cronaca parmense pubblicata nel Vol. iii dei Monumenta Historica ad provincias parmensem et placentinam pertinentia,137. leggendovisi all’anno 1333: Eodem die veneris (14 maggio), post nonam, apparuit eclypsis in certa parte solis, et visus fuit sol sicut luna quando est in circulo et non plena, et quod hoc dieta die esse [p. 75 modifica]debebat missum fuit ante per plures dies a certis sapientibus bononiensibus, similiter et a certis medicis, et sapientibus de Parma, qui dixerunt quod hoc esse debebat sic dicta die. (pag. 286) Questa bravura nel predire l’eclisse fa più onore alla perizia astronomica, che alla profondità della scienza salutare in que’ medici: provenendo essa dalla pazza applicazione dell’astrologia alla cura de’ morbi, giusta i pregiudizj di que’ secoli.

In questo tempo fioriva altresì il modenese Pietro della Rocca che secondo l’Alidosi fu lettore d’Astrologia in Bologna ne 1327. Ma degli onori e della fortuna straordinaria ch’egli ebbe fu debitore alla Medicina 138.

Nè diversamente procedevano le cose nelle altre Università. Perciò alle scienze matematiche non solo non era assegnato posto onorevole e separato, e tutt’al più erano collocate quasi Appendice nella classe Artistica, (per essere i loro professori annoverati fra’ Magistri Artium); ma ancora i professori delle medesime non aveano obbligo d’insegnarle altrui; sicchè di loro scienza facevano privato mercimonio, comunicandola a prezzo ai pochi che ne fossero desiderosi. Di che esempio degno di ricordazione ci presenta la vita di quel buono e benemerito Vittorino da Feltre, al quale ora la patria sua sta disponendo l’onore di pubblico monumento. Leggiamolo nelle parole dell’illustre suo biografo roveretano. «Invogliossi altresì (Vittorino) d’apprendere le matematiche, scienza utilissima a maturare e a perfezionar l’intelletto, ma che a que’ tempi era poco conosciuta in Italia. In fatti altro a professore, che fosse veramente celebre in essa, non [p. 76 modifica]v’avea allora in Padova, e forse anche altrove, fuor solamente che Biagio Pelacane da Parma, uomo insigne non solamente ne’ fasti della filosofia, che dell’avarizia. Insegnava egli a Padova pubblicamente gli altri filosofici studj, ma per ciò che s’aspetta alle matematiche, che formavano il suo maggior vanto, se alcuno era voglioso d’apprenderle, gliele spiegava privatamente a suon di contanti. Il nostro Vittorino, che a stento col misero mestier di pedagogo si guadagnava onde vivere, ed era bramosissimo altronde di divenir matematico, si studiò con tutti gli ufficj d’indurlo ad istruirlo in questa disciplina, senza la troppa dura condizione del pagamento. Ma tutto fu inutile con quell’uomo crudele e taccagno. Francesco da Castiglione ci narra cosa, che ci mostra ad un tempo e la durezza ed avarizia del Pelacane, e l’ardor meraviglioso di Vittorino per le cognizioni. Dice egli dunque che quest’ultimo, dopo sparse invano molte preghiere, si pose, onde muoverlo a compiacergli, ad esercitar con esso lui il mestier di servente, sino a lavargli i piatti e le scodelle dopo il mangiare. Sentiam dalle sue stesse parole una cosa strana così che parrebbe incredibile, ove un discepolo di Vittorino non la narrasse. Pel corso intero di sei mesi durò la mirabil sofferenza di Vittorino, nè punto venne meno, ammollì pure un poco la mostruosa caparbietà del Pelacane come ci assicura il medesimo Castiglione. La necessità aguzza l’ingegno, e il fa capace delle più magnanime imprese.... Vittorino giustamente sdegnato contro il barbaro Pelacane, e dalla difficultà d’ogni brama incentivo, fatto più ardente amatore delle matematiche, volle di se stesso esser maestro e discepolo, onde provvedutosi dell’opera di Euclide, dato bando al sonno e ai piaceri [p. 77 modifica](se pur con essi ebbe commercio giammai), con tanto ostinato studio vi si applicò che in altri sei mesi giunse ad intendere perfettamente dieci libri d'Euclide, cosa, sclama l’autor citato, a’ nostri giorni inaudita! Il Platina poi narra, che dopo Euclide diedesi a meditare tutti gli altri matematici più insigni, onde in piccolo spazio di tempo fu anche in questa scienza versato a segno... che un inverno intero, le sere dopo la cena, senz’alcun preventivo apparecchio spiegò ad un suo discepolo l’opera intera d’Euclide.»139 L’Affò per iscusare alla meglio il Pelacane non volle prestar fede al Prendilacqua, ma piuttosto al Platina, biografo egli pure del Feltrense, il quale «ad avarizia non già, bensì alla sola inurbanità di Biagio, attribuisce l’aver egli perduto la gloria di annoverare tra i suoi discepoli quell’uomo grande; soggiungendo ambidue gli scrittori (il Prendilacqua ed il Platina) come pentimento e rossore ne avesse poi, quando vide quel giovane senz’altra guida introdursi, e perfettamente avanzarsi nelle matematiche discipline.»140Io lascerò il pensiero di scegliere fra que’ due racconti, a chi volesse farsi l’elogista del Pelacane. E rimanendo nell’ufficio semplice di storico dirò che anche questo fu uomo, per que’ tempi assai valente, e che molte opere compose.141 Più tosto [p. 78 modifica]vorrei scolparmi della lunga citazione, che è quasi divenuta una digressione; ma spero che non me ne sarà fatto rimprovero, se con essa ho potuto fregiare questo Commentario d’uno de’ più cari ed amabili nomi di che s’onori l’italiana letteratura. Ed una speciale menzione qui ben si doveva a Vittorino da Feltre, che non solo fu sì desideroso d’apprendere le matematiche, ma che seppe farsene benemerito propagatore.142 [p. 79 modifica]Nè punto più in pregio, che anzi piuttosto maggiormente trascurate si hanno da dire le Matematiche in Pisa ne’ tempi appunto che l’algebra aveva tanti cultori a Firenze. Imperocchè allo studio pisano non fu dato luogo nè manco all’astrologia, sotto il qual nome o la genuina astronomia si denotava, o questa per lo meno a quella si associava, se non se nell’anno 1484, nel quale a Domenico Pagagnotto, professore di teologia fu dato il carico d’insegnare astrologia143. E soltanto nel 1500 si cominciò ad insegnarvi Geometria.144

Come a Bologna ed a Padova e a Pisa, così pure altrove era l’ordinamento degli studj; e le scienze esatte erano lasciate fuori dalla cerchia delle materie Pubblicamente insegnate, o per noncuranza, o perchè, ne’ loro elementi almeno, presupposte in chi attender volesse alla scienza degli astri145. Perciò vediamo [p. 80 modifica]che nello studio di Padova non si cominciò ad insegnare da se la geometria, e forse l’algebra, che alla metà del secolo scorso146. Per lo innanzi ivi non era

[p. 81 modifica]che un solo professore d’Astronomia e di Meteore147 detto altresì di Matematica ed Astronomia148. Ma se in tal modo non rigurgitavano le aule delle università di torme di studenti, che aspirassero al pomposo titolo d’Ingegneri 149, non erano perciò le scienze matematiche



rudimentis haererent: Credibile autem est, ipsa quoque Analyseos principia et elementa hoc nomine Magistratum comprehendi voluisse.» J. Facciolati. Fasti Gyinnasii Patavini. Patavii, 1757, Manfrè. Part. iii pag. 329. [p. 82 modifica]tanto povere di cultori, quanto altri potrebbe dedurre dal non essere pubblicamente insegnate negli Studj più celebri. Ed invero, per tacere degli astrologi che pure conseguiron l’onore d’essere chiamati in Francia150, Padova nel secolo xiv avea di che insuperbire pe’ suoi Dondi, a’ quali il cognome aggiunto dall’Orologio conservava memoria d’una delle più belle invenzioni meccaniche che sieno state mai ideate, e che fu eseguita, e descritta da Giovanni Dondi professore d’astronomia in Padova nel 1352, e poi di medicina in Firenze nel 1368, ed amicissimo del Petrarca. Il volgo appellava Orologio quella macchina insigne la quale Planetario fu nominata dall’autore, che tutti vi avea combinati i movimenti de’ corpi celesti151. E il fratello di lui, Gabriele, non può essere passato sotto silenzio, chè sebbene siano forse smarrite le opere da lui composte e come medico e come astronomo (in quella famiglia pare andasse congiunto l’amore a queste due scienze), rimane per altro memoria di Tavole astronomiche

[p. 83 modifica]da lui fatte per sopperire ai difetti e alle inesattezze delle famose Tavole Alfonsine.152

Altri matematici non trovo di questo secolo, fuori di Toscana: intendo uomini che alle matematiche pure o applicate dedicassero la loro vita. Ma i lavori architettonici, ed idraulici di questi tempi fan vedere assai chiaro che non potevano essere bambine la geometria ed il calcolo.

Ma giusto è ancora tenere memoria di chi, datosi ad ad altri studj, seppe trovar tempo di rivolgersi pur anco alle matematiche, e lasciò ne’ suoi scritti saggio del suo valore. Per quanto adunque possa parere strano che nel novero de’ matematici italiani sia registrato il nome dell’oracolo più famoso, per molti secoli, nelle scuole della Giurisprudenza, io nominerò qui Bartolo da Sassoferrato. E non mi voglio contentare di ripetere soltanto le parole del Tiraboschi: «Il breve corso di vita ch’egli ebbe ci rende ancor più degno di maraviglia l’ingegno e il sapere di Bartolo che in sì pochi anni tanto imparò e tanto scrisse. Nè egli si stette racchiuso entro i soli studj legali, ma sul finir della vita si volse ancora allo studio della geometria, e perfino della lingua ebraica, come pruovano il Panciroli, e il Co. Mazzuchelli.»153 Ma dirò che si guardi a’ due suoi trattati de Fluminibus, e de Insula, e si vedrà come Bartolo avea messo in pratica il suo [p. 84 modifica]principio che le scienze tutte doveano servire, quasi ancelle, alla Giurisprudenza; e come erano a lui famigliari la verità e le nozioni geometriche, agli altri giurisperiti sconosciute in allora.154

Nel secolo seguente xv altri nomi illustri presenta la storia, e per tacere qui del Pelacani, e di Vittorino, che più sopra ci son venuti sotto la penna, nominerò il bolognese Giovanni Bianchini, «che fu uomo in astronomia dottissimo; e ne son prova le Tavole de’ movimenti de’ Pianeti stampate più volte anche nel secol seguente; e per le quali egli ottenne dall’imperator Federico a se e a suoi agnati il privilegio di aggiungere alla propria divisa l’aquila imperiale.»155

Nominerò ancora, ad alto e bello onore, quel Domenico Maria Novara, ferrarese,156 cui toccò la sorte e [p. 85 modifica]la gloria d’avere avuto a scolaro ed a compagno nelle astronomiche osservazioni il Copernico. Il quale, se è vero che da alcuno abbia ricevuta la prima idea del sistema o ipotesi che ha reso immortale il suo nome, è assai probabile che la ricevesse dal Novara «uomo d’ingegno ardito e nulla schiavo de’ pregiudizj.»157 Ma non voglio tacere altro uomo di sì straordinario ingegno, e di estesissima fama, che morto conservò il titolo dato a lui vivente, di Fenice degl’ingegni. Nello sterminato suo sapere egli non dimenticò le matematiche; molte tesi ne incluse in quelle novecento di teologia, e d’ogni genere di filosofia, che si offeriva, a 23 anni d’età, di sostenere pubblicamente in Roma disputandone contro chiunque volesse opporgli. E inoltre scrisse «dodici libri contro l’astrologia giudiziaria, in a cui con ragioni comunemente assai sode e con molta erudizione combatte le follie di quella pretesa scienza.» Io godo d’aver potuto annoverare in questo scritto Giovanni Pico, perchè, oltre la fama ed i pregi straordinarj dell’ingegno suo, fu altresì di sincera e non comune pietà, sicchè le sue rare virtù, per dirlo colle parole del Tiraboschi, del più dotto uomo di quell’età formarono ancora il più amabile e il più saggio.158

[p. 86 modifica]Nè vuolsi passare sotto silenzio Prosdocimo Beldimando, padovano, che «fu, al dire degli scrittori delle cose padovane, ad un tempo matematico, musico, filosofo ed astrologo»159, e delle opere del quale trovasi un elenco nel Mazzuchelli. Queste in massima parte vertono intorno alla musica. E forse l’elogio maggiore che di lui come matematico fare si possa, sta nell’accennare che Fra Luca Pacioli si dichiara a lui debitore di parecchie cose inserite nella sua Somma d’aritmetica160.

I confini stabiliti a questo Commentario non mi permettono di occuparmi di Leonardo da Vinci. E basti avere appena notato il nome di questo singolarissimo ingegno, e forse unico, che a tanta eccellenza nelle arti belle, congiunse tanta profondità ed estensione di scienza, e sì grande spirito inventivo e precursore di più recenti scoperte. Noterò ancora quel bravo letterato piacentino Giorgio Valla che fu il più antico fra gli scienziati cristiani, che dopo il risorgimento delle scienze trattasse delle Sezioni Coniche161; [p. 87 modifica]ed il quale nell’opera sua enciclopedica de expetendis et fugiendis rebus, de’ 49 libri in che la divise, ne assegnò tre all’aritmetica, cinque alla musica, sei alla geometria, ove discorre di meccanica, ottica ecc. quattro all’astronomia.162

In questa rapida e sommaria recensione, dopo che il discorso ci ha condotto fuori della Toscana, non si è più fatto motto dell’aritmetica e dell’analisi; nè alcuna speciale menzione poi è stata fatta di Genova, nominata appena come patria d’Andalone di Negro, nè di Venezia fin qui nè manco accennata. Eppure quelle commerciali e navigatrici repubbliche, senz’alcun uso non iscarso di cognizioni matematiche, non avrebbero potuto condurre le loro navigazioni; chè scienza nautica aver non si puote senza studio di matematica. Può bene il piloto apprender l’arte empiricamente; ma all’arte son dati i precetti e le regole soltanto dalla scienza teorica: sicchè il fatto de’ valenti piloti fa arguire l’esistenza di chi insegnasse loro le regole pratiche da seguire ed applicare. Ed il commercio attivissimo e intelligente delle due rivali regine de’ nostri mari non potea trascurare l’aritmetica introdotta in Toscana del Fibonacci, la quale anzi, in quanto applicata a’ negozj del commercio, prese il nome di mercantile, come mercantili furono per lungo tempo chiamate le cifre numeriche moderne.

La cognizione di quest’arte novella, e con essa quella dell’Algebra, se parve dapprima ristretta alla sola Toscana, ne uscì poi portata, cred’io, dai toscani medesimi, più tosto che attintavi dagli altri popoli italiani. Imperochè era allora costume de’ toscani di recarsi fuori di patria, con maggiore acquisto di ricchezza che di [p. 88 modifica]buona riputazione, a trafficare e ad usureggiare.163 Perciò quanto più veniamo avvicinandoci a tempi meno antichi tanto maggiori tracce troviamo d’insegnamento e di pratica dell’aritmetica. «Due professori di aritmetica del secolo xiv ci indica un codice della libreria di S. Salvadore in Bologna. Esso ha per titolo: Qui comenza un’opera de rasone, secondo le regole che usa Maistro Zanantonio de Como scritto per Bernardino dal Falliva scolaro del sopraccitato Zohanne. E al fine: A voler trovare radice quadrata secondo lo Filosofo Maistro Leonardo de Cremona»164. Ma se a questi vada debitrice la scienza d’alcuno incremento, o se il loro merito debba tenersi ristretto all’avere comunicato ad altri e diffuse le cognizioni introdotte da Leonardo da Pisa, non può dirlo se non chi esamini il manoscritto di Bernardino dal Falliva. E lo stesso; e forse meno è da dire del savonese Gioannantonio Traversagni, che fioriva nel 1444, e (scrive [p. 89 modifica]lo Spotorno) dicono che formasse Regole di Aritmetica165.

Come ne’ secoli più antichi l’aritmetica, riguardata e trattata come scienza de’ numeri, trascurava del tutto l’arte computatoria; la quale poi da Leonardo Pisano fu congiunta coll’analisi, onde ebbe vita l’Algebra, che per alcune generazioni non seppe staccarsi dall’aritmetica: così in progresso di tempo e a mano a mano che la parte analitica andava crescendo, tornò di nuovo ad accadere la separazione e divisione del doppio studio. E furonvi aritmetici che vollero ristretto al solo uopo del commercio l’opera loro. Onde viene che dal solo conoscere i titoli di alcuni codici, o dal solo vedere appellato come aritmetico un maestro, non si può più arguire ch’esso debba aver posto fra’ matematici, piuttosto che fra i semplici computisti. Così Filippo Calandri, che nel 1491 stampò la sua aritmetica, dice chiaramente: «Si divide (l’aritmetica, o come egli scrive l’Arimetrica) in due parti principali: teorica, e pratica. La teorica considera le ragioni, cagioni, sostanza e qualità de’ numeri. La pratica consiste circa azioni e calculazioni delle cose che sono in atto. Conosciuto adunque la teorica esser parte di Filosofia lasceremo la speculazione d’essa a’ filosofanti. E della pratica volendo qualche parte per utilità degli artisti e mercatanti descrivere; procederemo con esempli di monete, pesi e misure fiorentine.»166 [p. 90 modifica]Ma questa distinzione fra l’aritmetica semplicemente pratica e mercantile, e la teorica congiunta con l’analisi se potè trovar luogo fra la gente volgare intenta solo al guadagno, non poteva essere accolta dal senno della Veneta Repubblica, la quale prima di qualunque altro governo ne istituì pubbliche cattedre.167

E bella lode delle scuole matematiche di Venezia si è che ad esse sotto al magistero di Messer Domenico Bragadino si formasse quel Fra Luca Pacioli, che, siccome ho già detto, segna quell’estremo confine che non intendo travalicare in questo scritto.

I nomi di chi innanzi al Bragadino abbia professato e coltivato le matematiche in Venezia, non sono a noi pervenuti: e sebbene sia verisimile per le parole del Foscarini, che i professori di filosofia insegnassero ancora l’Aritmetica e l’Algebra168, non conviene alterare [p. 91 modifica]la schietta e nuda verità storica spaziando con congetture pei troppo vasti campi del probabile. Ed anche non havvene uopo alcuno: troppo insigne documento storico pur rimanendoci della perizia de’ veneziani in fatto di Matematiche, in ciò che si conosce de’ progressi per loro fatti nella nautica. E tali sono l’applicazione dell’Astrolabio e della Trigonometria alla navigazione.

So bene che lo Spotorno, tenero quanto altri mai della fama di Cristoforo Colombo, si sforza di attribuire a quest’uomo grande il merito d’avere pel primo adoprato l’astrolabio in mare; e giunge a paragonare il pregio di tale pratico uso a quello della scoperta del nuovo mondo.169 Ma essendo certo che ciò già facevano i Veneziani 170, parmi che il troppo zelo dello Spotorno [p. 92 modifica]più tosto che crescere una foglia alla corona del Colombo, ne sfrondi quella che generalmente era da accordare ai navigatori genovesi. Perché mi sa probabile, che il Colombo seguisse una pratica già usata presso i suoi concittadini. Sicchè potrà lasciarsi dubbio quale delle due marittime città italiane precedesse l’altra in quest’uso: ma che in una sola, quasi come suo privato monopolio, si costringesse l’uso dell’astrolabio, non mi sembra probabile. 171

Ma la prova più bella della valentia de’ veneti nelle matematiche si ha nell’applicazione da essi fatta della

[p. 93 modifica]Trigonometria alla Nautica, e nell’averla agevolata con l’uso del calcolo decimale. Il che non deve essere inteso quasi che pienamente sviluppato essi abbiano questo calcolo; il quale, anzi, parrebbe doversi meravigliare che mentre è sì naturalmente connesso col sistema dell’aritmetica moderna, abbia tanto tardato a ricevere l’incremento e la diffusione recatagli soltanto in queste ultime e a noi prossime generazioni. Ma dico in ogni cosa essere i primi passi, come i più difficili ed importanti, così i più degni di lode, e di riconoscenza, o se tanto non vuolsi, degnissimi d’essere ricordati. Ora le regole pratiche insegnate agli antichi piloti veneziani per calcolare a mente i viaggi marittimi erano tutte fondate sopra principj scientifici di trigonometria, e i numeri sopra de’ quali operavano erano presi dalla divisione del raggio in cento parti, tenendo calcolo (per usare le parole moderne) delle due prime cifre, e trascurando le successive di decrescente valore.

Giuseppe Toaldo che pel primo osservò ed illustrò un’antica Rason del Martologio, per la qual rason se puol navegare a mente172, fu d’avviso che autore [p. 94 modifica]di quella regola fosse Giovanni Muller di Königsberg, noto sotto il nome latinizzato di Regiomontano, al quale è attribuita la lode d’aver introdotte nell’aritmetica le frazioni decimali173, e che nel 1462 diede in Padova pubbliche lezioni, e nel 1463 passò a Venezia per conferire col Cardinal Bessarione circa la correzione del Calendario. «In questi anni dunque (dice il Toaldo) è probabile che o in Padova dove concorrevano molti giovani Patrizj allo Studio, o in Venezia, dove i forestieri sono sempre bene accolti e le belle dottrine applaudite, conversando comunicasse a’ Veneziani questa regola di navigare, o piuttosto che occasionalmente la inventasse, voglio dire, che pensasse di applicare la Trigonometria alla Navigazione.»174 Ma Vincenzo Formaleoni avendo trovato in alcune carte idrografiche disegnate nel 1436 da Andrea Bianco di Venezia quella medesima regola, ivi detta Amaistramento de navegar per la raxon de Marteloio, pose in chiaro che non poteva essere stata inventata nè suggerita dal Regiomontano; e non senza apparenza di probabilità potè congetturare che più tosto di lì cavasse il matematico

[p. 95 modifica]allemanno l’idea di applicare i decimali alla Trigonometria dividendo, com’egli fece, il raggio in dieci milioni di parti175. Perchè poi quell’Andrea [p. 96 modifica]Bianco era semplice disegnatore e copista di carte idrografiche176, se è certo non essere posteriore all’anno in che egli lavorava quel documento di pratica nautica, è ben probabile che fosse molto più antica la pratica medesima. Ma questa ad ogni modo forma una bella gloria veneta, ed è un pregio che non doveva essere taciuto nella storia delle Matematiche.

E sia finito così questo Commentario storico degli antichi matematici italiani. Il quale, perchè appunto trattar doveva delle persone, e non della condizione e degl’incrementi della scienza matematica in Italia, non s’è esteso a menzionare illustri stranieri che in que’ tempi vennero e soggiornarono in Italia o ad attingervi, od a recarvi scienza. Delle omissioni in che io sia incorso non chiederò venia ai lettori: perchè non è mia colpa se delle glorie di parecchie regioni italiane, ed in ispecie della bassa Italia, non ho potuto fare le necessarie ricerche. Nè per amore d’una compitezza e perfezione a me forse impossibile ho voluto tralasciare quel poco che mi è venuto fatto. Ma altri supplisca al mio difetto: ed io sarò ben contento se questo scritto possa servire d’occasione e di stimolo a qualche più compito lavoro.


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Note

  1. Il Trattato della Sfera di Ser Brunetto Latini..... e Sistema di Cronologia tratto dal Tesoro di Brunetto Latini. Milano 1858. Ditta Boniardi-Pogliani. Da questo libro impresso in troppo ristretto numero di esemplari fu parlato nel Tom. iv pag. 113 degli Opuscoli Religiosi, Letterarj e Morali.
  2. Guglielmini. Elogio di Lionardo Pisano. Bologna 1813, Lucchesini. n. 7 pag. 11.
  3. Prendo da uno scritto, che per mio piacere feci intorno a Boezio, e starà forse inedito sempre, ciò che ivi desunsi dalla sua Aritmetica, in ordine alla distinzione di que’ quattro rami delle Matematiche, giusta le idee di lui. = La quantità discreta o è considerata per se, come 2, 3 o qualsivoglia altro numero; ovvero non può stare da se, ma deve essere riferita ad altro, come il doppio, la metà. La quantità continua poi o è ferma e priva di moto, ovvero è mossa da incessante rotazione. E questi sono gli oggetti di quattro scienze: l’Aritmetica che specula la quantità discreta stante per se; la Musica che tratta della quantità discreta riferita ad altro; la Geometria che si occupa delle grandezze immobili; e l’Astronomia, che si rivendica la scienza della grandezza mobile. Delle quali quattro parti chi sia mancante, egli non può trovare il vero: e senza tale speculazione della verità nessuno può essere sapiente. E chi le sprezza, cioè dispregia queste quattro strade della sapienza, io gli denunzio che non può rettamente filosofare. Imperocchè Filosofia è Amor di Sapienza,e questa disprezzò chi disprezzò quelle........ E questo è quel quadrivio pel quale deve far viaggio colui il cui animo precellente, sorpassando i sensi, si conduce alle verità che alla intelligenza si appalesano. — Così Boezio, le cui parole ho voluto recare, perchè quelle quattro strade sono appunto il quadrivio, di che fa menzione l’Allighieri. =
          Diversamente spiega questo quadrivio il Facciolati: "hac tamen voce (Grammatica) ars et facultas omnis dicendi ac disputandi interdum significabatur, hoc est Rhetorica quoque, et Dialectica, idque Trivium appellabant. Accessit postmodum Arithmetica, quam Computatoriam vocabant, et ad vanum quendam divinandi usum, qui mentes hominum occupaverat, etiam Astrologia; tum religionis gratia ea Musicae pars, quae in canendis divinis laudibus adhibebatur. Nec defuere, qui triplici huic studiorum generi Geometriam quoque adjicerent: atque ii quidem inter doctissimos habiti Quadrivium tenere dicebantur." (Facciolati, Fasti Gymn. Patav. Part. I. pag. x, xi). Non vorrò negare al Facciolati che il detto suo possa contenere qualche locale verità. Ma in genere è falso che il quadrivio contenesse e il Canto, ossia la musica pratica, e l’arte di far conti. Chè l’Aritmetica era la Scienza della quantità discreta, e o presupponeva o trascurava la computazione. E la Musica era tutta cosa teorica di calcolo. Musicorum et Cantorum magna est distantia: Isti dicunt illi sciunt quae componit Musica etc. Così un antico trattatello di Musica, che si conserva nell’Ambrosiana. Il Muratori pubblicò questo frammento nella Dissert. 43 sopra le Antichità italiane.
  4. I più cospicui lavori idraulici del Medio evo, come il Naviglio di Milano, sono alquanto posteriori al tempo di che ora parlo. Ma a questo bene si riferiscono i canali e le grandi fosse di scolo dell’Agro modenese. "È noto (scrive il Tiraboschi) che Modena è fondata sopra molti canali.... Quando essi fossero scavati è ignoto; nè le carte di ciò fanno menzione, trattone di alcuni pochi meno antichi; indicio, che la lor formazione precede l’epoca delle carte, cioè il secolo viii. E par verosimile, che la funesta sperienza, che ebbero i modenesi, allorquando videro la lor città circa il principio del settimo secolo quasi interamente rovinata dalle acque, li determinasse a scavare questi canali, acciocchè esse racchiuse ne’ loro letti non potessero più innondare con tanto danno la loro patria." (Diz. Topografico-Storico degli Stati Estensi, Opera postuma del cav. ab. Girolamo Tiraboschi. Modena 1824 Tip. Camer. Tom. i pag. 167 ). Di alcune fosse poi, o cavi per impedire lo stagnamento delle acque e l’impaludarsi delle nostre pianure, si trova menzione in carte anche del secolo viii. (Ivi. Tom. i pag. 308, 309, 310.). Anche il nostro Canal Naviglio, sebbene manchi la memoria della sua prima escavazione, pare doversi avere per anteriore al 1000. (Tiraboschi l. c. Tom. ii pag. 174. D’altro canale navigabile appellato Navigatura Vedi pag. 139).
  5. «Mentre la più funesta concatenazione di cause rapidamente traeva all’ultimo decadimento le greche e le romane scienze, a sostenere l’Astronomia, che per la stessa nobiltà sua e grandezza sarebbe stata la prima a soccombere, sorse opportunamente tra’ sacri Pastori della Chiesa la celebratissima questione intorno al tempo preciso della celebrazion della Pasqua, la quale vivo mantenne presso gli Ecclesiastici lo studio di questa scienza, nè permise che andassero affatto in dimenticanza le preziose cognizioni raccolte da Eratostene, da Aristarco e da Tolomeo.» Fabriani. Sopra i beneficj recati dagli ecclesiastici alle scienze. 5.a ediz. Modena 1845. Cappelli. cap. 5. pag. 54.
  6. Stor. della Letter. ital. Tomo iii Lib. ii Cap. 4 n. 1.
  7. Ivi lib. iii. Cap. 4 n. 1
  8. Ivi Lib. ii. Cap. 4 n. 1. — E il Muratori: «Sed quando supra vidimus, ne barbaricis quidem temporibus omnino excidisse studia Arithmeticae, Geometriae et Astronomiae, repeto nunc etc.» (Antiq. Ital. Diss. 44 col. 201 Ed. Aret.) — Nè poteano al tutto essere abimati gli studj se da Roma Carlo Magno per la seconda volta (iterum) condusse in Francia Artis Grammaticae et Computatoriae Magistros (ib. Diss. 43 col. 482.).
  9. “... Mentre languiva la Cronologia storica, con zelo si conservava la computistica. Per legge de’ Sacri Canoni nessuno poteva esser promosso a’ sacri ordini senza prima applicarsi allo studio del Computo, come dimostra con molti documenti il Ducange.” Fabriani. Sopra i beneficj recati dagli Ecclesiastici alle Scienze. Cap. 7 pag. 127.
  10. Storia della Letter. Ital. Tom. iii. Lib. iii. Cap. 4. n. 7.
  11. Introd. storica al Gnomone Fiorentino part. i. §. 3 pag. iv. e seg. e pag. cxvii. e seg.
  12. Fabriani, Op. cit. cap. 1 pag. 7.
  13. Elogio di Lionardo pisano, nota o n.° 2 pag. 59
  14. «Nella Matematica erano con gran fatica e sollecitudine addottrinati (da Gerberto) solamente i più capaci. L’Aritmetica precedeva. Una gran tavola da conteggiare in cui per la prima volta appariva il sistema delle cifre arabiche, insegnava agli attoniti popoli d’occidente le librettine.» (C. F. Hock. Gerberto e il suo secolo, Milano, 1846, Resnati). Anche Guglielmo di Malmesbury (citato da M. Chasles) avea scritto parlando di Gerberto: Abacum certe primus a Saracenis rapiens, regulas dedit quae a sudantibus Abacistis vix intelliguntur. (De gestis Regum Anglorum Lib. v. V. L. ii. pag. 64) (Comptes-Rendus.... de l’Acad. des Sciences Tom. xvi. 1843 pag. 156.)
         Il Muratori (Diss. 44) indica conservarsi manoscritto nella Biblioteca Ottoboniana un Trattato di Gerberto de Abaco. Per le varianti solite a trovarsi negli antichi codici, sarebbe forse non male spesa la fatica di chi, potendo, confrontasse quel testo con l’altro pubblicato ed illustrato da M. Chasles.
  15. Nel luogo citato nella nota precedente.
  16. Riferisco in prova di questa mia asserzione un tratto dell’inedito mio lavoro, già da me accennato, intorno all’Aritmetica di Boezio.
         =In questa materia delle progressioni, chi ponga mente a ciò che manca nelle dottrine di Boezio, non può non vedere non essere stato fatto insino a lui nessun tentativo per ottenere la somma di una serie. Guglielmo Libri attribuisce a Leonardo Fibonacci la prima investigazione di questa somma nella serie de’ numeri naturali, e de’ numeri quadrati. Ma l’onore de’ primi passi per questa via pare debba essere dato piuttosto a Gerberto (papa Silvestro II) che ne trattò nel Capo 85 della sua Geometria. „Ex adunatione omnium numerorum secundum ordinem naturalem prolatorum si vis scire quanta profunditas crescat, haec tibi regula sufficiat, si tantum coadunatio illa ab unitate incipiat, et sic per regulas et per ordinem continuatim procedat. Si par numerus coacervabitur, per medium ultimi sequens multiplicabitur. V. G. 1 2 3 4 5 6. Vel scire, quot sint, per senarii medietatem subsequens, id est septenarius multiplicetur, et fient 21, quam summam similiter reddet supradicta coadunatio. Si autem impar numerus numerorum aggregabitur, per majorem sui partem ultimus aggregatus multiplicabitur; ut est 1 2 3 4 5 6 7. Multiplica septenarium per maximam sui partem, id est per 4. Quater 7 fiunt 28, qui omnes suprascriptos numeros claudunt. Si solummodo par, ut est 2 4 6 8 ducatur medietas ultimi aggregati per illum, qui sequitur ipsam (La metà di 8 è 4, il numero che tien dietro al 4 è 5, si faccia dunque4X5, e si avrà 20, che è la somma della serie data): et si impar, ut 1 3 5 7 9 major pars ultimi in se ducatur (9=5+4, 5X5=25 che è la somma della serie).„ (Pez, Thesaur. Anecd. noviss. T. iii. part. 2 col. 78). =
         Scrive il Libri (Hist. des Sciences Mathématiques en Italie Tom. ii. pag. 41.): «Pour indiquer quelques-unes des recherches originales de Fibonacci, nous dirons qu’ il donna la somme de la série des nombres naturels et des nombres carrés....» e cita Ghaligai, Pratica d’ aritmetica f. 60 Lib. viii §. 28-50. Paciolo, summa de Arithmetica et Geometria Tom. i f. 37 39 Dist. ii tr. v.
         Fra Luca Pacioli per altro attribuisce soltanto le regole per la somma de’ quadrati a Leonardo Pisano, ch’ ei cita per le iniziali L. P., ma per ciò che sia della somma dei numeri naturali egli cita in genere li antichi per le regole che in sostanza sono quelle accennate da Gerberto.
         Il Galigai poi non parla che della somma de’ quadrati.
  17. La nota che quì dovrei porre è troppo lunga. La darò in ultimo come Appendice.
  18. Guglielmo Libri, parlando del Liber Embadorum tradotto per Platone da Tivoli dal testo ebraico del Giudeo Savasorda, scrive così: "L’ ouvrage de Savasorda contient quelques faits dignes d’ une mention particulière. On y employe le miroir pour mesurer les hauteurs par reflexion avec l’Astrolabe. = Si per Speculum aut per concham plenam aque queris scire altitudinem turrium vel montium = Mss. de la bibl. du Roi. Suppl. latin n.° 774. f. 42 et 46."
    Lo stesso insegnamento si trova nella Geometria di Gerberto, al capo 37, che incomincia per l’appunto con le identiche parole trovate dal Libri, nella traduzione del Savasorda. Fu essa una giunta che Platone facesse al Savasorda, inserendovi un tratto di Gerberto? o Gerberto conosceva l’opera originale del geometra ebreo? o entrambi attinsero a più antica sorgente ora incognita?
  19. «S. Pier Damiani studiò a Parma nel 1025, ove allora era una celebre scuola secondo il monaco Benedetto di Chiusi, che circa il 1028 scriveva di lei, che qual fonte di sapienza vantavisi in questa parte; e sino al 1115 Donizzone chiamolla Emporio delle Sette Arti» (cioè il Trivio e il Quadrivio). Bettinelli, Del Risorgimento d’ Italia negli studj, nelle Arti e ne’ Costumi dopo il Mille. Part. i. cap. 2 pag. 49. — e V. Tiraboschi St. della Letter. Ital. Tom. iii. Lib. iv cap. i. n. 11.
  20. Tiraboschi ivi n. 9. e seq.
  21. Nostro dico Lanfranco, perché egli fu certamente l’architetto del Duomo di Modena. Ma non posso negare essere buona assai la ragione di dubitare che egli non fosse modenese addotta dal ch. Marchese Giuseppe Campori (Gli Artisti Italiani e Stranieri negli Stati Estensi. Modena 1855 pag. 278) ed approvata dal ch. March. Amico Ricci nella dotta sua Storia dell’Architettura in Italia dal Secolo iv al xviii. (Modena 1857 Tom. i pag. 609 nota 32), cioè che altrimenti non avrebbero i modenesi ascritto quasi a miracolo d’aver potuto trovare uomo capace di tanto lavoro. Ma ciò prova solo che Lanfranco, se avea il merito non aveva allora la dovutagli celebrità: che altrimenti gran miracolo non sarebbe l’essere indirizzato ad uomo famoso. Del resto, se gli antichi nostri concittadini non erano gran fatto diversi da’ moderni, non era piccola grazia di Dio che si fossero accorti d’avere in patria un uomo di somma abilità; essendo soliti i modenesi, in generale, ad accorgersi a pena del pregio de’ loro concittadini, quando con loro meraviglia se li sentono decantare da una fama costante che venga loro ben di lontano all’orecchie.
  22. Ivi cap. 5 n. 11.
  23. Ivi, e Ximenes l. c. pag. xvii. e seg.
  24. Tiraboschi l. c.
  25. Diss. sopra le Ant. Ital. Diss. 44 pag. 32.
  26. Ved. Tiraboschi, Tom. iii. Lib. iv. cap. 6 n. 3.
  27. Delle versioni fatte da Platone Tiburtino traduttore del secolo duodecimo, Notizie raccolte da B. Boncompagni. Roma, 1851, tip. delle Belle Arti. (Dagli Atti dell’Acc. Pont. de’ Nuovi Lincei Anno iv. Sezione vi. dell’11 maggio 1851).
  28. Stor. della Lett. Ital., Tom. Vii. Lib. ii. Cap. ii. n.° 39.
  29. L’esatta descrizione bibliografica, con gli opportuni fac simile è data dal ch. Princ. Boncompagni nelle sue Notizie delle versioni fatte da Platone Tiburtino. Ed ivi è ancora pubblicata una lettera dell’Orioli intorno a queste due edizioni. La seconda appare una contraffazione della prima.
  30. «Dalle parole embas embadus, e da altre tecniche siffatte, che s’incontrano nell’Epilogo di Savosorda, la Geodesia di lui appare cosa greca tradotta o presa dagli Arabi che l’aveano tradotta e che furono i maestri degli Ebrei: quando mai Platone traducendo Savosorda non avesse siffatte parole tradotto dall’Ebraico in greche parole piuttosto che in latine; poichè si dimostra non solo versato nelle scienze, ma nelle lingue coltissimo.» Così il Guglielmini nella nota xx all’Elogio di Lionardo Pisano.
         Opposto giudizio ne formò l’inglese Edmondo Halley, il quale disse il Tiburtino neque linguarum satis sciens, neque Astronomica disciplina instructus, e fu seguito dal Bailly. Ma sebbene contrarii sono forse conciliabili questi giudizj, perchè nel proferirli il dotto italiano seppe, come era giusto, riferirsi al tempo in che visse Platone di Tivoli. E i dotti inglesi e francesi vollero riguardarlo quasi fosse loro coetaneo, giudicandone il valore alla stregua di quanto si poteva pretendere nello stato delle lettere e delle scienze a’ giorni loro. Più accettevole, perchè più equo, è il modo con che ne parla invece il Delambre «C’est là ce qu’on entrevoit dans le latin barbare de Plato Tyburtinus, à qui nous avons l’obligation de ce livre precieux (d’Albategno), dont l’original n’existe plus, à moins qu’il ne se trouve à la Bibliothèque de l’Escurial."
  31. Di queste traduzioni del Tiburtino parecchie furono stampate, ne’ secoli xv e xvi, e quella d’Albategno anche dopo. Alcune sono tuttavia inedite sparse nelle Biblioteche. Tale è quella del trattato d’ Abualcasin, di che nessuna cognizione si avea, e pel primo il ch. Princ. Boncompagni ha dato conto agli scienziati, pubblicandone la lettera dedicatoria di Platone a Giovanni David.
         Noto qui una volta per sempre che in questo scritto valendomi de’ lavori dell’egregio Principe Boncompagni, ommetto avvertitamente le citazioni che chi voglia più addentro vedere le cose, troverà negli scritti di Lui. Ivi ancora troverà le più esatte notizie e indicazioni che desiderare si possano intorno alle edizioni delle opere degli Autori da lui illustrati, ed ai Mss. che ne rimangono nelle Biblioteche.
  32. Vedi sopra nota 30. Ma que’ vocaboli, come tecnici, erano già conosciuti ed usati nella Geodesia anche da chi non sapeva di greco. E si trovano adoprati, con molti altri, nella Geometria di Gerberto.
  33. Questo Astrolapsus può ben essere un errore dell’amanuense; ma potrebbe essere ancora uno di que’ cangiamenti che quasi naturalmente si fanno per motivi eufonici nelle lingue che accolgono un vocabolo straniero. Me ne fa dubitare il vedere anche nel libro di Ermanno Contratto de mensura Astrolabii, e de utilitalibus Astrolabii, usata con certa frequenza la parola Astrolapsus per Astrolabio, per es. Cap. xxi. De inveniendis in dorso Astrolabii horisQuando vis scire in dorso Astrolapsus horas, imprintis scias etc. — Anche nella Geometria di Gerberto, cap. 22, Sumetur astrolapsus...
  34. Stor. della Letter. Ital. Tomo iii. Lib. iv. cap. 5 n. 9.
  35. Della vita e delle opere di Gherardo Cremonese, traduttore del sec. xii, e di Gherardo da Sabbioneta astronomo del sec. xiii, Notizie raccolte da Baldassarre Boncompagni. Roma. 1851. Tip. delle Belle Arti (Dagli Atti della Accad. Pont. de’ Nuovi Lincei Anno iv. Sessione vii del 27 giugno 1851.)
  36. A questo secolo appartiene ancora il canal naviglio bolognese. "Io credo che poco lontano dal vero si vada attribuendo all’anno 1191 l’epoca della prima fondazione del nostro canale di Reno, e quindi l’origine della chiusa di Casalecchio, senza della quale il canale stesso non potrebbe sussistere." (G. B. M. Notizie storiche intorno all’ origine e alla formazione del Canal Naviglio di Bologna. Nella Raccolta d’autori italiani che trattano del moto delle acque. Bologna 1824 Tom. iv pag. 488 ). Intorno ai Navigli milanesi è degnissima d’essere letta la Dissert. xii del Ab. Fumagalli nel Vol. ii pag. 99 delle Antichità Longobardico-Milanesi illustrate dai Monaci della Congregazione Cisterciense di Lombardia (Milano 1782). E qui mi sia consentito di discendere a tempo meno rimoto, accennando che la prima invenzione de’ Sostegni o Conche, siccome dicono i milanesi, che fu applicata a Milano nel 1439 appartiene a Filippo da Modena, sopranominato dagli Organi e a Fioravante di Bologna, amendue ingegneri ducali specialiter deputati circa modum adhibendum ut fovea civitatis navigabilis reddatur. Dovendo essi, secondo l’ordine del Duca, pensar al modo di rendere navigabile la fossa della città, come la rendettero di fatti, effettur non lo poterono se non per mezzo della conca di Viarena, l’invenzione della quale, la prima tra le conche a noi note, a tutta ragione devesi loro attribuire. (ivi pag. 109, e Tiraboschi St. della Lett. Ital. T. vi Lib. iii cap. 8. n. 11)
  37. Stor. della Lett. Ital. T. iv. Lib. ii. cap. 2 n. 21.
  38. Ivi n. 20.
  39. Anche fra gli Ecclesiastici. Ezzelino da Romano ebbe al suo servigio come astrologi certo Saleone Canonico di Padova, ed un frate Everardo o Gaverardo Domenicano (Tirab. Stor. 1. e. n. 13 e 17). E altri due domenicani, Raniero da Todi, e Leonardo da Pistoja, furono annoverati fra gli Astrologi di quel tempo. (V. Boncompagni Notizie di G. Bonatti, pag. 84). Un altro domenicano F. Niccolò di Paganica s’occupava d’astrologia nel secolo xiv. (Tiraboschi Tom. v Lib. ii cap. 2 n. 23).
  40. V. S. Tomm. Sum. Theol. 1.a qu. 115 art. 4 1.a 2.ae qu. 9. art. 5 — 2.a 2.ae qu. 95, art. 5
  41. Civiltà Cattolica. 2.a Ser. Vol. v. p. 554 e 555.
  42. Stor. della Letter. Ital. Tom. iv. Lib. ii. cap. 2 n. 7 e 8.
  43. Orazione in lode di San Tommaso d’Aquino. Verona, 1809, Gambaretti e C.° pag. 27.
  44. Stor. delle Lett. Ital. Tom. iv. Lib. ii. cap. 2 n. 14 — 19.
  45. Della vita e delle Opere di Guido Bonatti Astrologo ed Astronomo del Secolo xiii. Notizie raccolte da B. Boncompagni. Roma, 1851 Tip. delle Belle Arti. (Dal Giornale Arcadico Tomi cxxii. cxxiii, cxxiv.)
  46. Boncompagni op. cit. pag. 77.
  47. Tiraboschi Stor. della Letter. Ital. Tomo iv. Lib. ii. cap. 2 n. 17 e cap. 4 n. 4.
  48. «Ma dimmi della gente che precede
    Se tu ne vedi alcun degno di nota.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Vedi Guido Bonatti. . . . . . . Inf. xx. v.103

  49. Il Guglielmini fu d’avviso che non si conosca punto il cognome di Leonardo, e nè manco che Bonaccio si appellasse il di lui padre. Egli suppone che per istrazio ed ispregio fosse chiamato Bigollone, ossia Scipito, come per tale passava a’ que’ giorni l’oro solo non appetiva; che poi i pisani, vergognandosi di maltrattare così una loro gloria, tolsero l’ultima sillaba ne, e restò la parola Bigollo, che fu poi convertita in Bonaccio; e ciò nel corso certamente di pochi anni (Elogio pag. 36 e 37 e nota mmm pag. 224). Viva la fervida immaginazione! Il Libri, cui nella sua storia piaceva di giudicar tutti dall’alto al basso, e che non lascia passare occasione, propizia o no, di battere la sferza a diritta e a sinistra, non si lasciò sfuggire siffatta storiella. Ma checchè fosse della stima o disistima che da principio mostrassero per Leonardo i suoi concittadini, è ben chiaro che se l’intitolazione de’ suoi libri fu fatta da lui, egli non si sarà data da se un qualifica odiosa e balorda: se poi quell’intitolazione venne dagli altri amanuensi, è ben probabile che le opere di Leonardo non saranno state copiate, e fatte copiare, se non da chi avendone molto buon concetto, e intendendosi della loro materia, non potea pur pensare ad offendere in alcun modo il nome del loro Autore. Ma quel rispettabilissimo bolognese pare aver avuto idee molto particolari intorno a’ cognomi ed all’uso loro. Cosi nella nota r (pag. 78) scrive: «Frate Luca fa menzione del Pelacani, ma lo chiama Biagio da Parma, forse perché il cognome gli parve disdicevole e non gentilizio. Lasciò però di chiamar Ermorario (sic) il Giordano, e Beldimando il Prosdocimo: ma non è per questo che fosse negligente nel cercare e far noti i veri Cognomi; e dove li tacque, giova pensare che gl’ignorasse.» Ma più tosto era da ricordare che gli antichi nostri apprezzavano ben più di noi i nomi proprj degl’individui, che non i cognomi comuni a tutta una famiglia; e preferivano quasi sempre per se e per gli altri l’indicazione del nome e della patria a quella del cognome, ed in ispecie per gli uomini illustri e famosi. Cosi Raffaello d’Urbino, il Correggio, il Cardinale di Mantova ecc. Che più? persino negl’indici de’ libri antichi gli autori si trovano sovente registrati ove per ragion d’alfabeto cade il nome loro di battesimo. Anzi anche gl’indici e repertori antichi d’alcuni uffizj ed archivj pubblici sono fatti per nomi e non per cognomi.
  50. «Pare che.... il libro di lui (di Leonardo) fosse divenuto raro, e andato in disuso; poichè anche il Tartaglia sul principio del suo gran trattato accenna di Leonardo i viaggi, il libro, il trasporto dell’aritmetica, dell’algebra, della geometria dall’Arabia in Italia; ma dice tutto ciò essergli stato da altri riferito, siccome pure aver Fra Luca de’ fiori del libro di Leonardo tessuto la Somma sua.» Cossali. Origine, trasporto in Italia, primi progressi in essa dell’Algebra. Vol. I c. 1 pag. 19. Parma 1797.
  51. Stor. della Letter. Ital. Tom. iv lib. ii cap. 2 n. 10.
  52. Bettinelli. Del risorgimento d’Italia negli studj, nelle arti, e ne’ costumi dopo il mille. Bassano, 1775. Part. I cap. 4 p. 140. Quando comparve quest’Opera, era pubblicato soltanto il primo tomo della Storia della Letteratura italiana.
  53. Molto studiò il Cossali negli antichi nostri matematici, e molto ne scrisse oltre quanto raccolse nella sua Storia critica dell’Algebra in Italia. Erano inediti tali suoi lavori, e dobbiamo alla dotta generosità del Princ. Boncompagni la loro pubblicazione fattane in Roma (1857, Tip. delle Belle Arti) in un Volume in 4.o di pag. xvi, 418. Vi si contengono, oltre la prefazione del benemerito editore, i seguenti scritti del Cossali: Frammento d’un elogio di Leonardo Pisano; Estratto del Liber Abbaci; Elogio di fra Luca Pacioli; Estratto della Somma di fra Luca; Note sul Trattato generale di numeri e misure di Nicolò Tartaglia stampato in Venezia l’anno 1556; Lezioni sull’Aritmetica; Memorie storico-scientifiche sulla origine dell’odierna Aritmetica e dell’Algebra, loro trasporto dall’Oriente in Italia, e primi progressi nelle contrade di questa; Memoria prima lavorata sul libro dell’Abbaco di Leonardo Pisano e contenente l’elogio di lui. E in un’Appendice si leggono quattro lettere inedite del P. Stanislao Canovai, dell’Ab. Francesco Fontani, e del prof. Ab. Angelo Zendrini al Cossali, precedute da una Nota del Princ. Boncompagni.
    Sebbene questo Volume porti la data del 1857, non venne peraltro in luce che nell’ultima parte del 1858, e trovasi annunciato nella Bibliografia della Civiltà Cattolica soltanto nel suo Quaderno 214 del 49 Febbrajo 1859.
  54. Hist. des Sciences Mathématiques en Italie jusqu’ à la fin du xviie siècle. A Paris 1838. Renouard et Cie
  55. Comptes Rendus des Séances de l’Acad. des Sciences. Tom. xvi pag. 156 et suiv. pag. 1393
  56. Questo io credo d’aver provato in altro scritto che, a Dio piacendo, farò di pubblica ragione negli Opuscoli Religiosi, Letterarj e Morali.
  57. Il Sacrobosco, ossia Giovanni Halifax o di Holywood insegnò, è vero, l’aritmetica moderna, o indiana, ma egli è posteriore al nostro Leonardo essendo morto nel 1256.
  58. Vedi Mémoire sur la découverte da l’Amérique au dixième siècle, par Charles Christian Rafn, publié par la Société Royale des Antiquaires du Nord. Copenhague 1843. Imprimerie de J.-D. Quist. Questa Memoria presenta il sunto delle Antiquitates Americanae, sive Scriptores septentrionales rerum Ante-columbianarum in America, opera et studio Caroli Christiani Rafn.
         Una precedente analoga Memoria del medesimo Rafn, scritta in danese, fu tradotta in italiano, e stampata a Pisa nel 1839 da Jacopo Gråber de Hemsö. Dal Volume medesimo delle Mémoires de la Societé Royale des Antiquaires du Nord (Copenhague, 1843) vedo che nel 1839 anche il ch. prof. Biondelli stampò in Milano un suo scritto sopra l’argomento medesimo. Ne avea parlato prima anche il Card. Zurla nell’opera sua Di Marco Polo e degli altri viaggiatori Veneziani più illustri (Venezia 1818, e 1819) nell’illustrare i viaggi e le scoperte delli Zeni, posteriori alle più antiche degli Scandinavi, ma di molto anteriori a Cristoforo Colombo. (Ved. Vol II)
  59. Boezio in sulla fine del primo libro della sua Geometria, in quel tratto divenuto sì famoso, ove tratta de ratione abaci, dopo aver detto: Habebant (Pithagorici) diverse formatos Apices vel caracteres. Quidam enim hujuscemodi apicum notas sibi conscripserant........ soggiunge: Quidam vero in hujus formae depictione ceu litteras alfabeti assumebant sibi hoc pacto: ut littera quae esset prima unitati, secunda binario, tertia ternario, caeteraque in ordine naturali numero insignitas et inscriptas tamtummodo sortiti sunt.
         La forma degli Apices di Boezio, quale è presentata nell’edizione veneta del 1492, è simile, per attestato del Weidler, ad un antico Codice che gli sembrava del secolo viii o ix da lui veduto in Altdorf. Nella più recente edizione da me veduta, gli stampatori, hanno sostituite le cifre moderne. Ma nella veneta del 1492 vi sono appositi tipi, de’ quali somigliano appena alle cifre moderne quelli significativi de’ numeri 1, 8, 9; gli altri stanno al tutto da se.
  60. Ecco un tratto della spiegazione che dà Leonardo circa l’uso delle cifre. = Et ut hoc quod dictum est lucidius declarescat, ipsum cum figuris (le cifre) ostendatur.... Si figura quaternarii fuerit in primo (gradu), et unitatis in secundo sic 14, nimirum .xiiij. denotabunt; vel si figura unitatis fuerit in primo, et quaternarij in secundo sic 41, denotabunt xli..... Cum quattuor namque (figuris) a mille usque in decem milia, ut in sequenti cum figuris numeris super notatis ostenditur.
    (Liber Abaci. Cap. 1 pag. 3)

    È ben notevole che Leonardo tenga la parola numeri per denotare le quantità significate colle lettere romane, chiamando figure le quantità medesime significate colle nuove cifre, le quali così non formavano il numero, ma lo rappresentavano o figuravano. — Se negli altri esempj non si vede adoprata la notazione romana per far capire al lettore il valore delle combinazioni di cifre 37 e 73 ed altre, ciò forse è da attribuire all’amanuense che ricopiava il Codice quando l’uso delle cifre non era più una novità. Ma Leonardo, in questo capitolo, avrà sempre spiegato l’ignoto che volea insegnare con quella notazione che era già cognita a’ suoi lettori. Appunto come ora, cangiate le sorti, si fa capire la notazione romana contrapponendole l’equivalente nelle cifre notissime.

  61. ".... Ut... hanc scientiam appetentes instruantur, et gens latina de cetero, sicut hactenus, absque illa minime inveniatur." Il Liber Abbaci di Leonardo Pisano pubblicato secondo la lezione del Codice Magliabechiano..... da Baldassarre Boncompagni.... Roma, 1857. Tip. delle scienze matematiche e fisiche, in 4.o di pag. 460. V. pag. 4.
  62. Si conserva nella Biblioteca Ambrosiana Msto Liber particularis Michaelis Scoti Astrologi Domini Frederici Romanorum imperatoris et semper Augusti, quem secundo loco compilavit ad ejus preces. Ivi si tratta di astronomia, fisica e fisonomia.» (Muratori, Diss. 44 pag. 40, 41).
  63. Intorno ad alcune opere di Leonardo Pisano Matematico del secolo xiii Notizie raccolte da Baldassare Boncompagni socio ordinario dell’Accad. Pontif. de’ Nuovi Lincei. Roma, 1854. Tip. delle Belle Arti, pag. 247, 248. - La cognizione degli anni in che Leonardo compose le opere sue è dovuta alle ricerche e agli studj del Principe medesimo. Basta poi questa verificata cognizione di date a distruggere in gran parte molte cose francamente asserite dal Guglielmini, che troppo libero volo accordò alla fantasia ed alle conghietture.
  64. Opuscoli di Leonardo Pisano pubblicati da Baldassarre Boncompagni secondo la lezione di un Codice della Biblioteca Ambrosiana di Milano. 2.a ed. Firenze. Tip. Galileiana di M. Cellini e C. 1856, in 8.O di pag. xxviii, 128.
  65. Scritti di Leonardo Pisano Matematico del secolo xiii, pubblicati da Baldassarre Boncompagni... Volume I. (Leonardi Pisani, Liber Abbaci) Roma, Tip. delle scienze Matematiche e Fisiche, 1857, in 4.O di pag. 460.
  66. Intorno ad alcune Opere di Leonardo Pisano... Roma 1854 pag. iii e iv. Precedentemente nel 1851 altre ricerche del Boncompagni intorno al medesimo subbietto erano state da lui pubblicate negli Atti de’ Nuovi Lincei.
  67. Civ. Cattol. Ser. 2 Vol. XI pag. 457. La menzione qui fatta di Diofanto, è da prendere in senso più tosto oratorio che storico: sembrando assai concludenti le ragioni per le quali il Cossali fu d’avviso non avere Leonardo conosciuta l’opera di Diofanto (V. la sua Storia Critica dell’origine, trasporto in Italia e primi progressi in essa dell’Algebra, Tom. i p. 167 e seg.).
  68. Targioni Tozzetti. Viaggi per la Toscana Tom. ii pag. 62
  69. Cossali, Origine ecc. Tom. i pag. 37 e 38.
  70. Guglielmini nota n pag. 473, 174. V. anche le note ddd pag. 194 e seg. fff pag. 207 e rrr n.o 3 pag. 237. E nell’Elogio al n.o 28 pag. 32.
  71. «Se Leonardo non fu il primo che rivelasse all’Europa questa scienza [l'Algebra] (ciò che fece il Cremonese) egli ne fu nondimeno il più gran promotore, e fu il primo tra gli europei che l’arricchisse di scoperte proprie superando i suoi maestri greci ed arabi e antivenendo di più secoli non poche tra le belle speculazioni del Tartaglia, del Cardano, del Viète, del Fermat e d’altri algebristi. Anzi l’Algebra di Leonardo sovraneggiò nelle scuole fino verso il cinquecento senza quasi progredire d’un passo oltre a quel punto a cui egli recolla, cosicchè la cognizione delle sue opere ci fa conoscere ad un tratto lo stato della scienza per tutto quel tempo.» (Civ. Catt. l. c. p. 458) «... Egli (Leonardo) ci dà pel primo la vera interpretazione delle soluzioni negative e mostra con ciò sì giusto concetto della quantità negativa che forse più non è lecito l’annoverare col Cossali (Vol. I. p. 283) tal concetto tra i progressi che fece l’analisi da Leonardo a Frate Luca Pacioli.» (Civ. Catt. l. c. p. 462) «.... Essi [il Chasles, il Woepke e il Genocchi] concordano nel levare a cielo l’ingegno, la profondità e l’originalità del matematico pisano, il quale messosi nel difficile campo dell’analisi indeterminata di 2o grado, non si tenne già pago a calcare le orme o de’ suoi maestri greci Diofanto ed Euclide o dell’arabo Alkarkhi, le cui opere sembra ch’egli conoscesse, o degl’Algebristi indiani che forse gli furono del tutto ignoti, ma con ricerche e con dimostrazioni per lo più tutte nuove e tutte sue dilatò d’assai i confini dell’Algebra e stabilì e divinò parecchi secoli innanzi molti bei teoremi onde poi s’illustrarono il Bachet, il Frénicle, il Fermat e il grande Eulero." (ivi pag. 463, 464).
  72. ”Dico che Leonardo Pisano fu uomo sottilissimo in tutte dispute, et secondo che si truova lui fu il primo, che ridusse al lume questa pratica in Toscana che allora s’andava per vie molte estrane, nientedimeno d’assai tempo inanzi a lui in questa nostra città furono scuole d’Abaco...... E ancora come si vede lo ’nsegnare loro era a modo antichi, et quasi al modo che osservano di presente e’ vinitiani....“ Questo tratto è levato da un Trattato di pratica d’Arismetica, e pubblicato dal Princ. Boncompagni nelle citate sue Notizie. Roma, 1854, pag. 251.
  73. ”Noi perché naturati siamo in Firenze diremo del modo et uso fiorentino.” (Da un Libro di pratica d’Arismetrica: Boncompagni op. cit. pag. 178.) Vero è peraltro che i fiorentini per certo orgoglio od amor patrio continuarono ad accennare nell’aritmetica il loro stile, anche dopo che se ne era fatta generale la pratica: e forse di poi non altro intesero più se non di significare ch’essi applicavano alla moneta, a’ pesi ed alle misure fiorentine le regole e gli esempj che altrove erano applicati dagli aritmetici alla moneta, alle misure sed ai pesi de’ varj luoghi. Così Filippo Calandri dichiara di procedere con exempli di monete, pesi et misure fiorentine, dopo che nella dedicatoria a Giuliano de’ Medici aveva detto di trattare l’aritmetica secondo lo stile fiorentino.
  74. Boncompagni, op. cit. pag. 275. Essendo quest’opera più estesa delle Memorie precedenti, sarò più minuto nelle citazioni, a comodo di chi volesse cercarvi i luoghi da me citati. Per amore di brevità qualunque volta nel seguito di questa trattazione delle scuole toscane apporrò citazioni di pagine, senza nessun’altra indicazione, s’intendano citate le Notizie intorno ad alcune opere di Leonardo pisano, stampate a Roma nel 1854.
  75. Pag. 342.
  76. Stampata in Perugia. 1828, 1829.
  77. Pag. 373 e seg.
  78. E non già dall’aver forse illustrato l’Abacus di Gerberto, come immaginò il Bettinelli (Risorgimento, Part. i cap. i a pag. 24 e 25 in nota). E nè anche perchè fu riputato l’inventore dell’Abaco come dimentico della prima ipotesi, o pentitone, scrisse altrove (ivi cap. 5 pag. 204).
         Come ora per alti fatti guerreschi la Russia e la Francia accordano ai loro Generali titoli e nomi che ricordino le loro vittorie, così gli antichi si compiacevano dare ai dotti soprannomi significativi del loro merito. E così la nobile famiglia Dondi di Padova ottenne l’appellazione Dall’Orologio, e nel regno di Portogallo un Giureconsulto boemo che vi salì a grandi onori, acquistò l’ appellativo delle Regole.
  79. Pag. 322.
  80. In un sonetto in lode di lui conservato in alcuni Codici leggesi, ponendo in bocca sua il proprio elogio,

         I’ fu’ lo specchio della Astrologia,
         Pagol chiamato: e non trovai ma’ pari,
         Ch’ho fatto già diecimila Scolari
         Ottimi e buoni nella geometria.

  81. Il Tiraboschi recando, nella traduzione pubblicata dal Mazzucchelli, questo ed altri tratti della vita di Paolo scritta dal Villani, nota che lo Ximenes non ha trovato nel testo le parole
  82. Di tutte le edizioni fattene, e di tutti i Codici che contengono questi versi o altri lavori editi e inediti del Dagomari, ragiona colla solita sua squisita esattezza il Princ. Boncompagni in apposita Appendice (op. cit. pag. 354-396 ).
  83. L’autore del Trattato di pratica d’aritmetica scrive: «E Maestro paholo dicie nella sechonda parte del Trattato delle quantità continue che ecc.» (Boncompagni pag. 275).
  84. Il Libri attribuì autore di queste Regoluzze la lode d’aver pel primo adoprata la virgola per dividere grandi numeri in gruppi di tre cifre, facilitandone così la lettura. Ma, nota il Boncompagni, ciò si trova fatto anche da Giovanni di Sacrobosco, matematico e astronomo inglese morto nel 1244, o nel 1256. Ed anche Leonardo da Pisa avea suggerito lo stesso spediente: «Unde si contingerit quod aliquem numerum multarum figurarmi propter multitudinem figurarum quis legere vel intelligere nequeat, qualiter legere vel intelligere debeat, ostendere procurabo....... Et sic semper per hos tres numeros, scilicet per millenos, et decem millenos et centum millenos et adcentando millenos in inferiori parte, et centum millenos in superiori, usque ad ultimum gradum numeri studeat adcentare. Et inde incipiat legere numerum ab ultimo grado ipsius per accenta predicta etc.» Liber Abbaci pag. 3, 4.
  85. «Fu coetaneo di Paolo de’ Dagomari messer Giovanni da Lignano conoscitore de’ moti celesti. Di lui abbiamo una particolarissima memoria, cioè un Tipo della congiunzione di Saturno e di Giove nello Scorpione. ..... Questi pure era un astrologo, che si abusava dalla cognizione de’ moti celesti per predire gli avvenimenti che certo co’ moti delle stelle non hanno la minima connessione.» Ximenes, Introd. al Gnom. Fiorent. part. ii §. 7 pag. LXVII. Anche è da riferire a questi tempi Giovanni de’ Danti Aretino che circa al 1370 tradusse in latino la Geometria di Magrobuono Arabo. (Targioni Tozzetti. Notizie sulla Storia delle scienze fisiche in Toscana, Firenze 1852, pag. 98, 99 ).
  86. Dal Codice Ottoboniano della Biblioteca vaticana n. 3307. Boncompagni. Op. cit. p. 132.
  87. «È da credere che l’autore il cui nome è indicato dall’iniziale b sia Benedetto aritmetico fiorentino del secolo decimoquarto (Vedi Atti dell’Accademia Pontificia de’ Nuovi Lincei, compilati dal Segretario, Anno v, 1851-52 , Sessione i pag. 55-58)» (Nota del Princ. Boncompagni. Op. cit. pag. 139).
  88. Si noti questa frase, nella quale alcuno sta per nessuno. Della conformità della stampa al testo ci è garante l’esattezza del Nob. Editore. Ma egli non ha di sua mano copiato il Codice che è a Siena.
  89. Per possessioni, all’uso antico di conservare più da presso la desinenza latina anche ne’ plurali.
  90. Il testo Arcte.
  91. Non ricordo d’avere veduto altrove questa parola. La quale in questo luogo non ha che fare con quel vezzo toscano che ha fatto dire e scrivere Archimia ed Archimista ed Archiamiare, per Alchimia ecc. Ma qui non può significare se non se Problema d’aritmetica. Se quella parola non è un mostro composto dalla penna dell’amanuense, si potrebbe dire che derivi dalla consuetudine di fare i conti nell’Arco detto Pitagorico. Ma questa maniera di calcolare adoprata in Francia non è certo che fosse praticata in Italia. Sembra peraltro accennata nel proemio di Leonardo Pisano, ove dice «.... hoc totum etiam et algorismum atque arcus Pictagorae quasi errorem computavi respectu modi Indorum,» come leggesi nell’accurata edizione del Princ. Boncompagni; chè del resto questo passo fu malamente riferito dal Targioni Tozzetti, e dal Libri e da altri, scrivendo Artem per arcum o saltando qualunque sostantivo in questo luogo. Ma potrebbe pur anche Leonardo aver appreso quel metodo da’ Provenzali, dacchè avea cercato di conoscere quidquid studebatur ex ea (scientia) apud Egyptum, Syriam, Greciam, Siciliam et Provinciam cum, suis variis modis (Lib. Abbaci, pag. 1).
  92. Il testo Vilumi.
  93. Dal Codice L. iv 21 della Biblioteca Pubblica Comunale di Siena. (Boncompagni, Op. cit. pag. 139 e 140).
  94. Op. cit. pag. 132.
  95. «Posteriore agli Astronomi sopradetti (Paolo de’ Dagomari, Domenico d’Arezzo e Maestro Antonio Fiorentino) mettesi un altro Paolo, il quale secondo l’opinione del Verini, o almeno di Carlo Strozzi, fu della famiglia del Garbo. Egli fu delle Matematiche speculatore sottilissimo, onde per essere totalmente agli studj di quelle applicato, era per soprannome da tutta la città il Matematico nominato, e per tal nome solamente inteso. Fu di Paolo de’ Dagomari pertinace emulatore. Fu egli filosofo, Medico, Aritmetico, Geometra, ed Astronomo. Fu intendentissimo della Geodesia: onde nella misura de’ paesi e delle provincie fu eccellente. Non meno spiccò nel misurare i moti de’ cieli e delle stelle. Gli annali de’ suoi tempi ci dicono, che egli non avesse pari nell’arte della Medicina. Dette fuori un libro di Prospettiva. Il Cinelli a lui applica que’ versi del Verino;

              Quid Paulum memorem, terram qui norat et astra,
              Qui Perspectivae libros descripsit, et arte
              Egregius Medica, multos a morte seduxit.

    Accanto a’ citati versi il senator Carlo Strozzi nell’Edizion Fiorentina fece aggiugnere la seguente annotazione: Paolo del Garbo: Fiorì nel 1410. Questo fu quello che dette l’avvertimento a’ Fiorentini, ed egli fe collocare su la ringhiera del Palazzo della Signoria il Lione impresa della nostra città, la cui testa guarda Milano. Onde ebber quest’ubbia molti creduti, che molto giovasse alla nostra città contro la possanza de’ Visconti allora nemici de’ Fiorentini, ed alla nostra Repubblica formidabili. Ma io dubito assaissimo, che questo Paolo del Garbo non sia nato che nella fantasia del Cinelli, e di altri scrittori. I versi del Verino possono assai bene applicarsi a Paolo Toscanelli di cui a suo luogo dirassi. Ragione di dubitare mi somministra la mancanza d’ogni documento sopra questo Paolo. Nell’albero della famiglia del Garbo non trovasi alcun Paolo. Ma lascio esaminar questo articolo alle persone, che avranno più agio di me di poterlo fare."
         Ximenes, Introd. al Gnom. fior. part. ii pag. lxxi §. 10

  96. Questo M.o Michele forse fu quel medesimo, del quale si conosce essere stato uno de’ giudici che attribuirono al Mazzinghi i libri del Dagomari; e fu padre di un altro M.o Mariano. (Op. cit. pag. 142).
  97. Il testo ha facullotto.
  98. Dal Codice senese citato di sopra. Boncompagni, Op. cit. pag. 145 e seg.
  99. Inputo, il Testo.
  100. Vecchiaja.
  101. Boncompagni, Op. cit. pag. 148 e seg.
  102. Cod. dell’ I. R. Bibl. Patatina di Firenze segnato E. 5, 5, 18 intitolato Trattato di pratica di Geometria secondo L. pisano e molti altri.
  103. Cod. dell’I. R. Bibl. Palatina di Firenze segnato E. 5, 5, 14 intitolato Trattato di pratica d’Arismetrica.
  104. Elogio ecc. nota ii n.o 10 pag. 129.
  105. Ivi nota oo n.o 2 pag. 157.
  106. Ivi nota kk nn. 2, 3 pag. 136, 137, 138.
  107. Pratica d’Arithmetica di Francesco Ghaligai fiorentino, nuovamente rivista et con somma diligenza ristampata. In Firenze appresso i Giunti, mdlii. vedi pag. 71, 72.
  108. Ivi pag. 21.
  109. Storia Critica dell’Algebra in Italia Tom. i pag. 7.
  110. Ivi pag. 9.
  111. Galigai L. c. Lib. x pag. 71.
  112. "... Ma il primo libro pubblicato dopo l’invenzione della stampa in Europa in materia d’Aritmetica, è quello di Luca Pacioli nativo di Borgo del S. Sepolcro in Toscana, minore dell’ordine di S. Francesco." Nuovo corso di Aritmetica Analitica di Camillo Pagliani e Cesare Arnò, Parte I.... preceduta dalla Storia di questa scienza. Modena 1842, Tipografia Camerale, pag. XLIX. La prima edizione della Somma del Pacioli è di Venezia del 1494. ma innanzi erano pure stampate, se non altri libri, per lo meno le Aritmetiche del veneziano Pietro Borgi, e del firentino Filippo Calandri pubblicate entrambe nel 1491, quella in Venezia per Nicolò de li Ferrari de Pralormo piemontese, e questa in Firenze per Lorenzo de Morgiani et Giovanni Thedesco di Maganza (sic).
  113. Vedi nota 1.
  114. Eccone alcun esempio. “Si tratta della nota proposizione: allorchè un raggio è riflesso, l’angolo della riflessione è uguale a quello dell’incidenza. Udiamola dal poeta.

    Purg. xv, 16


    Cioè: quando un raggio caduto obliquamente sull’acqua o sullo specchio salta alle parte opposta, va in modo pari a quello con cui scese, ossia il raggio riflesso fa colla perpendicolare abbassata sul punto d’incidenza, un angolo eguale a quello, che fa colla stessa il raggio cadente, e tanto salendo allontanasi da essa perpendicolare, quanto scendendo se ne allontanava; onde se il raggio scenda dall’altezza d’un miglio, allorchè è risalito di tanto, le sue estremità sono di qua e di là equidistanti dalla perpendicolare.” (Pianciani. Nuovi Saggi Filosofici Roma 1856, pag. 228).

    E volete altro paragone preso da una verità geometrica? Eccolo:

    Par. xvii, 13


    E la poetica descrizione d’un angolo di quarantacinque gradi nè più nè meno? L’avete ove Dante vuole significarvi che la costa del monte del Purgatorio era più erta che se fosse stata a tal angolo con orizzonte.

    Purg. IV, 40

    E non sono fuor di proposito le seguenti parole del Pelli: Il Matematico Regio Dott. Pietro Ferroni, che raccoglie in se grande erudizione scientifica e letteraria, disse all’Accademia Fiorentina nel 1805 due belle lezioni dirette ad illustrare varj passi della Commedia, delle quali apparisce di quali e quante cognizioni fisiche fosse Dante dotato." Pelli. Memorie per servire alla vita di Dante. Firenze, 1823 pag. 167 not. 35.

  115. Così il Dott. Pietro Mazzuchelli, Prefetto dell’Ambrosiana, in una Nota Bibliologica pubblicata, con altre illustrazioni di quest’Opuscolo di Dante, dal benemerito e ch. Dott. Alessandro Torri, Vol. v, pag. 163.
  116. Vedi Dante, Par. cant. IX con le note dell’edizione di Padova, 1822.
  117. Spotorno. Stor. Letter. della Liguria Tomo ii pag. 155.
  118. Baldelli. Del Petrarca e delle sue opere. Libri quattro. Firenze, 1797, Cambiagi. Lib. iv n. ix pag. 131 e 132.
  119. Palermo. Appendice al libro intitolato Rime di Dante Alighieri e di Giannozzo Sacchetti, sull’autenticità di esse Rime e sul Codice clxxx Palatino scoperto autografo del Petrarca. Firenze, 1858, Tip. Galileiana. pag. 178 e pag. 246.
  120. Di Paolo Dagomari scrive così il Boccaccio nel lib. xv cap. vi del suo Trattato De Genealogia Deorum, al Re di Cipro: Similiter et Paulum Geometram, concivem meum, quem tibi, Rex inclyte, fama notissimum scio, ad haec assumendum aliquando ratus sum, eo quod noverim nulli usquam alteri, tempestate hac, adeo sinum Arithmeticam, Geometriam et Astrologiam aperuisse omnem, uti huic aperuere, in tantum ut nil arbitrer apud illas illi fuisse incognitum, et quod mirabile dictu etiam et visu longe magis quicquid de syderibus aut caelo loquitur. Confestim propriis manibus instrumentis in hoc confectis oculata fide demonstrat spectare volentibus etc. — Ed altrove (Lib. viii cap. 2). Senex autem venerabilis Andalo, et Paulus geometra Florentinus astrologi ambo insignes....... Questi due tratti sono recati, quali si leggono ne’ mss., dal Principe Boncompagni nelle Notizie intorno ad alcune opere di Leonardo Pisano. Roma, 1854, pag. 305.
         «Giannozzo Manetti letterato fiorentino del secolo xv, scrivendo la vita del Boccaccio, dice che questi ascoltò per alcuni anni le lezioni di Andalò, il miglior matematico di que’ tempi in mathematicis quippe sub Andalone quodam Januensi, viro ejus temporis omnium ira illis artibus peritissimo, aliquot annos audivit». Spotorno, Storia letter. della Liguria. Tom. ii pag. 149. Genova 1824, Ponthenier.
  121. Storia della Letteratura italiana Tom. v, Lib. ii cap. 2 n. 19. Altre opere d’Andalone sono annoverate dallo Spotorno, l. c. pag. 151 e seg.
  122. Del Gnomone Fiorent. Introd. pag. 41. Tiraboschi l. c.
  123. Ximenes. Del Gnom. Fiorent. Introd. pag. ii §. 9 pag. lxxi. Ma di questo Domenico d’Arezzo giovi dire un po’ più, adducendo qui in nota le parole del Targioni-Tozzetti nelle postume sue Notizie sulla Storia delle scienze fisiche in Toscana (Firenze, 1852, pag. 183). "Sorpassò di gran lunga (egli dice) il merito di tutti gli altri Filosofi Toscani di quei tempi, mercè le sue dottissime opere, Maestro Domenico d’Arezzo, cioè Domenico figlio di Maestro Bandino precettore accreditato di grammatica, ossia del Trivio, in Arezzo sua patria, ove morì di peste nel 1348. Domenico adunque nato in Arezzo nel 1340 fece grandi e veloci progressi negli studj, sicchè giunse ad essere precettore di grammatica e di rettorica nella medesima sua patria; ma essendo ella infetta di peste nel 1374 se ne andò a Bologna, dove insegnò pubblicamente la rettorica sopra quella di Cicerone, che per que’ tempi fu novità importantissima. Di poi se n’andò a Padova presso Francesco da Carrara, ed ivi strinse amicizia con Francesco Petrarca, e vi morì intorno al 1415. Ei compose ...... una vastissima opera che può dirsi meritamente enciclopedica intitolata Fons memorabilium Universi, la quale con vergogna del paese mai è stata pubblicata colle stampe e forse mai lo sarà.»
  124. Boncompagni Notizie ecc. pag. 153 e seg.
    Un certo Giovanni di Dante Aretino circa il 1370 tradusse in latino la Geometria di Magrobuono Arabo (Mehus p. 155) — Targioni-Tozzetti Not. sulla St. delle Sc. fisiche in Toscana lib. ii Cap. 7 pag. 98 99.
  125. Tiraboschi, St. della lett. ital. Tom. vi Lib. ii Cap. 2 n. 56.
  126. Introd. al Gnom. Fiorent. Ivi inoltre si trova l’indicazione di parecchie opere anonime di questi tempi. (Ivi pag. c. e seg.)
  127. Tiraboschi l. c. n. 36 e 37.
  128. «Fra gli oppugnatori della superstizione astrologica presso di noi va enumerato in primo e distinto luogo il P. Francesco Fiorentino, minor conventuale, detto per soprannome il Padovano, che fu Decano dell’Università Teologica fiorentina nel 1441.» Targioni-Tozzetti. Not. sulla St. delle Scienze Fisiche in Toscana. Cap. 6 pag. 91.
  129. «Verso il medesimo tempo, cioè verso il 1460, fiorì in Firenze Goro di Staggio Dati cittadino fiorentino il quale con la dolcezza della poesia prese a trattare le cose celesti, componendo un’opera in ottava rima intitolata Sphaera Mundi.... Fu stampata in Firenze nel 1482, e poi nel 1513 a petizione di Ser Piero Pacini da Pescia, indi ancora in Venezia fu ristampata nel 1534." (Ximenes l. e. pag. xcix). — Coetaneo al Toscanelli pare essere stato ancora Andrea Sommario, citato dal Pico (ivi pag. lxxvii).
  130. Bettinelli. Risorgimento ecc. part. i cap. 6 pag. 309 310.
  131. Tiraboschi l. c. n. 38. Della vita del Toscanelli ragiona distesamente lo Ximenes, il quale inoltre ha illustrato da pari suo le lettere che rimangono del Toscanelli. (V. Introd. al Gnom. Fior. pag. lxxiii - xcix). Paolo che da prima s’era dato alla Medicina invogliò della Gramatica e delle Matematiche per opera del famoso Filippo Brunelleschi (ivi).
  132. Ved. Stor. della lett. ital. Tom. VI lib. 3 cap. 7 n. 22 e Tom. VII lib. 2 cap. 2 n. 36, e la Biografia Universale.
  133. Quadrio. Della storia e della ragione d’ogni poesia. — Ximenes l. c. pag. lxx, lxxi.
  134. Il Convito di Dante Allighieri con note critiche e dichiarative di Fortunato Cavazzoni-Pederzini e d’altri. Modena, 1831, Tip. Camerale - Tratt. i cap. ix pag. 41.
  135. De Claris Archigymnasii Bononiensis Professoribus a saec. XI usq. ad saec. XIV Bononiae, 1769, Tom. I part. I pag. 494-495.
  136. Ivi pag. 493-494.
  137. Parma, 1857, Fiaccadori.
  138. Tiraboschi, Bibl. Moden. Tom. iv. pag. 365.
  139. Idea dell’ottimo precettore nella vita e disciplina di Vittorino da Feltre e de’ suoi discepoli. Libri quattro del Cav. Carlo De’ Rosmini roveretano. Bassano, 1801, Tip. Remondiniana, pag. 36-39.
  140. Affò. Memorie degli scrittori e letterati Parmigiani. Parma 1789. Tom. ii pag. 115.
  141. L’ Affò ne diede minuto ragguaglio, notando che quella De Perspectiva «è senza dubbio l’opera più studiosa dì Biagio, ove mostrò il suo acume nelle cose spettanti all’Ottica, trattate con dottrina matematica» l. c. pag. 123.
  142. Giova recarne una prova che servirà insieme a ricordare un nome o dimenticato, o forse ancora non conosciuto. «Bartolomeo Manfredi cittadin mantovano fu pure discepolo di Vittorino. Questa notizia impariamo dallo Schivenoglia rozzo annalista ma del Manfredi contemporaneo, la cui storia manoscritta conservasi in Mantova e di cui riporterò qui sotto alcuni passi originali comunicatimi dal sig. ab. Saverio Bettinelli. — Vittorino insegnò al nostro Manfredi la geometria e l’astronomia, nelle quali scienze così approfittò, che potè darne in appresso tal saggio e tanto solenne, che il rendette immortale. È egli l’autor del bellissimo e per que’ tempi maraviglioso orologio che ancor si vede in Mantova sulla torre della piazza de’ Mercadanti, di cui Pier Adani fece una descrizione accurata che più volte fu impressa, e di cui parlano con grandi encomj l’Equicola (Stor. di Mant. pag. 185) ed il sig. ab. Bettinelli (Risorg. Part. ii. pag. 37 Discors. Mantov. pag. 24). Nè pago egli d’aver data sì memorabile prova del pratico suo sapere nelle severe scienze, volle anche mostrarsi teorico con un compendioso corso di matematica che fra i Mss. conservasi dalla famiglia Capilupi, di cui ci ha dato ampio ragguaglio il tante volte lodato Ab. D. Giovanni Andres (Catal. de’ Cod. Mss. Capilup. pag. 151 e seg.). Non vuol confondersi il nostro Bartolomeo Manfredi con altro contemporaneo dello stesso nome e cognome, ma nato in Bertinoro, e di cui parlan fra gli altri il Tiraboschi (St. della Lett. Ital. Tom. vi pag. 147) e l’Abate Marini (Archiatr. Pontificj Tom. i pag. 438).»
    De’ Rosmini l. c. pag. 471-472.
  143. «Difficile est reperire quid de illius aetatis mathematicis dicas... Qui hanc profitebantur scientiam, nullum aliud praeceptum artis esse putabant, quam quod in Euclide continetur. Si quid vero majus aliquid pollicebantur, id spectabat unice ad fallendos homines, non secus ac si artem tenerent cognoscentem, videntem, et praevidentem futura... Cum primum restaurata fuit Academia Per Laurentium Mediceum, minime provisum fuit, ut haberent discipuli unde haec discerent. Id vehementer ipsi semel iterumque petierunt, atque propterea an. 1484 Dominico Pagagnotto... theologiae Doctori superadditum munus fuit docendae Astrologiae.» Fabroni. Historiae Academiae Pisanae Vol. i Cap. viii pag. 326-327.
  144. «Decorum sane fuit Academiae, quod non omni tempore defuerunt, qui eruditum Geometrarum pulverem discipulos tractare docuerit. Id primum oneris commissum fuit an. 1500 Minoritae Lucae Paciolio in S. Sepulcri Burgo nato, qui multum ingerii habebat ad mathematicas disciplinas....» ibi, pag. 327.
  145. Uno Statuto di Modena del 1328, riportato dal Muratori, contiene ne la determinazione di chiamare unum bonum Legistam sive Doctorem forensem ad legendum Leges in ipsa Civitate ad salarium centum quinquaginta Librarum Mutinensium pro quolibet anno. Et unum Doctorem sive Lectorem terrigenam conventatum in Artibus ad legendum Medicinam ad salarium centum Librarum Mutinensium. Et unum Lectorem forensem ad legendum Summam Notariae, et Institutam ad salarium quinquaginta Librarum Mutinensium. (Dissert. sopra le Antichità Ital. compendiate dall’ Autore. Tom. iii Diss. 44 pag. 15).
         Uno Statuto di Vercelli del 1341 riferito dal ch. cav. Vittorio Mandelli, volendo quod in civitate Vercell. quae inter caeteras civitates Italiae studiis scientiarum et artium praedictarum est laudibus ipsarum et privilegiis preconia praedotata, in qua etiam ab antiquo studium esse consuevit, sit et esse debeat semper et in perpetuum studium generale; commette al Podestà di far sì quod sint et esse debeant ad salarium dictae civitatis in ipsa civitate qui continue in eadem civitate legant in ipsis scientiis duo doctores ordinarii in legibus et qui legant ordinarie, et unus tertius qui legat extraordinarie in legibus scilicet Digestum novum et Infortiatum, et quartus qui legat Volumen, et in jure Canonico duo, unus quorum legat Decretales, alter Decretum, et sit etiam unus qui legat in Arte Medicinae; et similiter unus Stazonerius, qui habeat et teneat continue in sua stazone pecias bene correctas in omnibus scientiis et facultatibus suprascriptis ad praestandum et comodandum pro competenti remuneracione omnibus scribere et exemplare volentibus....» (Studii Storici sul Comune di Vercelli nel Medio Evo. Libr. iii Cap. 5 §. 3 n.o 412 in nota).
  146. «Schola haec (Geometriae), quam decem ante annis Senatus instituendam censuit, anno demum mdccli aperta est... Euclidis Elementa pensi loco assignata sunt quorum interpretationem singulis annis absolvere teneretur; ne, qui ad graviora Universitatis studia contenderent, diutius quam par est, in Geometricis rudimentis haererent: Credibile autem est, ipsa quoque Analyseos principia et elementa hoc nomine Magistratum comprehendi voluisse.» J. Facciolati. Fasti Gyinnasii Patavini. Patavii, 1757, Manfrè. Part. iii pag. 329.
  147. «mdccxl. xiii Kal. oct. Lodovicus Ripa Venetus, Astronomiae et Meteororum professor, Syndicus. Excitato per haec tempora, ut sua sunt cuique litterarum generi fata, vehemente quodam Mathematicae disciplinae studio, Magistratus censuit, professorem unum diebus vacantibus docentem, nec iis ipsis omnibus, minime sufficere. Itaque ad Senatum retulit anno sequenti de nova aperiendo schola, in qua diebus ordinariis Euclidis Elementa traderentur. Senatus probavit, jussitque vi Kal. maj. virum idoneum conquiri, et cetera fieri, quae ad rem pertinerent. Post decennium constituta schola est, eique locus in Gymnasio datus.» Facciolati l. c. pag. 247, 248.
  148. «Sub finem saeculi hujus (xiv) scholam Federicus Chrysogonus Jadertinus.... Sed jam schola haec (Astrologiae) a divinandi studio discesserat, et Astronomiae nomen sumpserat; tum autem totam Mathesim complexa titulo quoque nobiliori in Rotulis uti coepit, de Mathematica et Astronomia... Decreto autem iii kal. jul. mdvi cautum est, ne duae istae facultates in posterum separarentur...» Facciolati l. c. pag. 117-118.
  149. Pomposo appello il titolo d’Ingegnere per riguardo a ciò che si suppone comunemente sia per esso significato, cioè un vero e buon matematico. Ma in origine tanto era dire Ingegnere, quanto ora Macchinista, e ingegnere si dicea perchè fabbricatore di ingegni, o come ora diremmo volgarmente di congegni. Nella Cronica parmense (citata di sopra) si parla dell’alzamento del Campanile di S. Pietro, e vi si legge «... vere nescitum fuit cujus expensa fieret. Sed quidam nomine Magister Thebaldus Miliolus, magister campanarum et lignaminis et muri, valde bonus magister et inzignerius superstetit ad dictum laborerium fieri faciendum.» pag. 287.
         Anche in inglese Engineer viene da Engine, Macchina, ordigno, ingegno.
         Vero è per altro che assai antico in Lombardia è l’uso di chiamare ingegneri gli esperti in Idraulica; ed in un tratto del Ghirardacci, recato dal Tiraboschi, trovo che nel 1289 Obizzo Signore di Ferrara e di Modena, e i due Comuni di Bologna e di Modena stabilirono di cavare il Panaro fiume cominciando di sotto nelle Valli, facendo la sgherbata, dove meglio giudicheranno gli Ingegneri.» Diz. Tipogr. Tom. ii pag. 175.
  150. Tiraboschi, St. della Letter. ital. Tom. v Lib. ii cap. 2 n. 22.
  151. Ivi. n. 31 e seg. Ved. le note aggiunte nella seconda edizione al n. 33.
  152. Ivi n. 34.
  153. Ivi cap. 4 n. 24. Il Co. Gio. Battista Corniani aggiunge che nello studio della geometria Bartolo ebbe a maestro fra Guido di Perugia (I Secoli della Letter. Ital. Brescia, 1818, N. Bettoni Vol. i pag. 365). Anche di questo matematico perugino non ho trovato il nome nell’Opera del Vermiglioli intorno agli scrittori perugini.
  154. «Quia circa divisiones eorum, quae per alluvionem adjiciuntur, quaestiones plures vidi, quarum doctrinam dare impossibile arbitror, nisi res inspectione oculorum inspiciatur; ideo figuras ad oculum demonstrantes inserui, per quas illa sola docere intendo, quae communiter ignorantur: et in hoc utar aliquibus conclusionibus geometricis. Nec hoc quis arbitretur incongruum: quia omnis scientia ancillatur huic; est enim haec Architectita de aliis cunctis disponens.» Bart. Tract. de Flumin. nell’edizione di Torino, 1574, per Nic. Bevilacqua: Consilia Quaestiones et Tractatus Bartoli a Saxoferrato. cart. 137.
  155. Tiraboschi, Stor. della Letter. Ital. Tom. vi Lib. ii cap. 2 n. 33. Ivi sono indicati due opuscoli inediti del Bianchini; ed è discussa la quistione se veramente Bolognese o Ferrarese egli fosse per nascita.
  156. Navarra e non Novara lo chiama il Corniani (Vol. 3 pag. 161). Ma ciò non può essere che un errore di stampa o di penna: imperocchè il cognome di questo Astronomo nasceva dalla sua patria d’origine che fu per appunto Novara. "Il primo de’ suoi che venne a Ferrara, e vi mise casa, fu Bertolino, persona, dice il Pigna, di buona famiglia e di molta stima invitato dal Marchese Nicolò II al suo servigio colla carica d’ingegnere. Pìù fabbriche disegnò, e fra le altre il Castello di maravigliosa struttura, il quale fu cominciato nel settembre del 1385.... L’uso di chiamarlo Bertolino di Novara cambiò a lui e a’ suoi discendenti in quello di Novara il cognome gentilizio di PlotiBarotti, Mem. istoriche di letterati ferraresi Vol. ii pag. 26-27, Ferrara, 1793.
  157. Tiraboschi, l. c. n. 34.
  158. Ivi n. 22, 23, 24.
  159. Vedova, Biografia degli scrittori Padovani. Padova, 1832. Vol. i pag. 90.
  160. «... E queste cose tutte con le seguenti seranno secondo li antichi, e ancora moderni matematici, maxime del perspicacissimo philosopho Megarense Euclide, e del Severin Boetio, e de nostri moderni Leonardo pisano, Giordano, Biagio da Parma, Gioan Sacrobusco e Prodocimo padoano dai quali in maggior parte cavo il presente volume.» Fra Luca. Summa de Arithmetica etc. nel Summario de la prima parte principale.
         E altrove: «.... li antichi filosofi.... assegnano le specie della pratica numerale essere nove, come Gioan de Sacrobusco, e Prodocimo de Beldemandis di Padua dignissimo Astronomo, e molti altri in loro algorismi:» Dist. 2 Tratt. 1 nel proemio.
  161. Libri, Hist. des sciences Mathém. en Italie. Tom. ii pag. 272.
  162. V. Biografia Universale.
  163. «Famiglie venute di Toscana..... v’aveano a que’ tempi (sec. xii, e xiii) nel Friuli... e accomodando di denaro i cittadini a buona e lecita usura del 15 e 20, e i Signori del 50 e del 60 per cento...... Così Bernardo di Nerino, vocato Croce,... prestando in Frioli, di barattiere nudo, tornò ricco a Firenze (Fr. Sacchetti, nov. 37 ). E toscan vale anche oggidì in alcune parti del Friuli quello che lombardo nel secolo xiv in Francia, cioè Avarone o Usuraio.» Così il prof. Giusto Grion in un Discorso intorno a Tommasino de’ Cerchiari poeta del duecento, pubblicato in Padova (1856, Gius. Antonelli) col Conto dell’I. R. Ginnasio Liceale di Padova per l’anno scolastico 1855-56 (pag. 10-11). V. anche Muratori Ant. Ital. diss. 16. «E perciocchè fra essi (usuraj) faceano la prima figura gli astigiani e i fiorentini, perciò si chiamavano mercatores lombardi et tusci
  164. Tiraboschi. Stor. della Letter. ital. Tom. v Lib. ii cap. 2 n. 34 in nota.
  165. Stor. letteraria della Liguria Tom. ii pag. 167.
  166. Così nell’edizione da me veduta, e già citata nella nota 112 — Vedo in alcuni fogli di Quesiti Bibliografici diretti a’ bibliografi e ad altre studiose persone dall’egregio Princ. D. Bald. Boncompagni, esistere una precedente edizione di questo Opuscolo del Calandri impressa nella excelsa cipta di Firenze per Bernardo Zucchecta Lanno mcccxc, e di nuovo nel 1515.
  167. «... Il non aversi sentore di scuole fondate (in Venezia) a beneficio della scienza legale, convince che i Padri inclinarono più tosto a indirizzare le persone verso que’ studj, l’uso de’ quali era più famigliare, e quasi richiesto dalle nostre costituzioni. Manifesto esempio di ciò apparve nella Filosofia, i cui professori non tardarono a frammischiarvi anche l’algebra, ossia l’Aritmetica universale, tosto che in Italia si conobbe: e ciò per essere facoltà bisognevole ai negozianti: nè sappiamo che altrove se ne sia tenuta cosi tosto pubblica lettura. Della Letteratura Veneziana. Libri otto di Marco Foscarini. Vol. i Padova, 1752. pag. 82.
  168. De’ contemporanei di Fra Luca parecchi sono conosciuti perchè da lui nominati nelle sue opere; come Marco Sanudo, dal quale fu eccitato a pubblicare l’opera sua, e che egli appella astronomo consumato, eminente nell’aritmetica, eccellentissimo nella geometria; ed Antonio Cornaro suo condiscepolo sotto la dottrina del Bragadino; ed Isidoro Bagnuoli pievano di Santo Apostolo in Venezia, dal quale, come dal Sannuto, dichiara aver ricevuto favore ed ajuto nella pubblicazione dell’opera sua. Ma non occorre, in questo luogo, trar fuori tutti i nomi proprj menzionati da Fra Luca.
  169. «Egli (il Colombo) misurava il suo cammino (in mare) per mezzo delle Stelle: ciò vuol dire, ch’egli applicava l’uso dell’astrolabio alla navigazione: la qual lode è pur confermata al Colombo dallo storico spagnuolo Oviedo. Or la navigazione non sarebbe mai stata perfetta senza l’uso dell’astrolabio e senza la cognizione della varietà nella direzione dell’ago calamitato. Poteva il caso o l’ardimento d’un uomo spingere a’ lidi ignoti del nuovo Mondo un naviglio: ma l’applicare alla navigazione il magnetismo e l’astronomia sono effetto della scienza e non del caso: e scoperte non meno pregevoli all’occhio del filosofo, che quella stessa dell’ignoto emisfero.» Spotorno, Storia letter. della Liguria. Tom. i pag. 294.
  170. «Nella Carta de’ Zeni i gradi (di latitudine) non vi mancano, donde ne deduco che i Veneziani sapessero anche far uso in mare dell’Astrolabio, e levare le altezze dalla tramontana o col sole.» Formaleoni. Saggio sulla Nautica antica de’ Veneziani. Venezia, 1785. pag. 26.
         «Prima di lui (del Colombo) il nostro Cadamosto non levò forse l’altezza delle spiaggie d’Africa fino al grado 11.o? .... E prima ancora del Cadamosto aveano i Zeni rilevate le altezze delle terre e isole artiche da essi scoperte ... (ivi pag. 55).
         «Quel suo portolano (dell’anconitano Benincasa) del 1471 è il primo certamente in cui si veggano segnati distintamente i gradi di latitudine. Vi sono segnati dall’11 fino al 64 ad uno ad uno .... Può essere, che Colombo fosse il primo che insegnasse agli Spagnuoli l’uso dell’Astrolabio in mare, come pare che inclini a credere l’Oviedo; ma non fu già egli il primo a porlo in opera.... Altrimenti come poteva il Benincasa segnare tanto esattamente le latitudini di luoghi collocati nell’Oceano?...» Formaleoni. Illustrazione di due Carte antiche della Biblioteca di S. Marco. pag. 45 e 46.
  171. Veggasi il Card. Zurla nelle Dissertazioni sopra Marco Polo ed altri viaggiatori Veneziani Vol.1 pag. 341 in nota. — Ho detto come probabile che nell’uso dell’astrolabio i Genovesi avessero seguito l’esempio e la pratica de’ Veneziani; nè veggo ragione di modificare il mio detto. È per altro riflessibile l’osservazione del Card. Zurla circa uno sbaglio nella computazione de’ gradi commesso dal Colombo nella relazione di un suo viaggio alle terre australi nel 1477; «io ne deduco (così egli) che a quell’epoca non ancora egli possedesse l’arte di levar le altezze coll’Astrolabio, come poi fece ne’ suoi viaggi famosi al nuovo mondo dopo tre lustri.» (Vol. i pag. 27 in nota).
  172. Per Martologio dubitava il Toaldo si dovesse leggere Marilogio, Regola del Mare, il che (dic’egli) pare ragionevole. Non parve molto ragionevole al Formaleoni che fosse vocabolo misto di veneziano e di greco, «perchè questo strano innesto è senza esempio nella lingua veneziana» (pag. 29). E ne consultò il dotto e celebre Abate Morelli, che gli rispose: «Pare a me che la voce veneziana Martolojo adoperata nella carta nautica d’Andrea Bianco o Martologio (è peraltro stampato anche qui Martelojo senza differenza alcuna) come nel codice illustrato dal sig. prof. Toaldo, tragga la sua origine dal greco donde molte parole veneziane è già noto che sono derivate; e la desinenza della voce ce lo dà anche a conoscere. Conghietturo che provenga, benché corrottamente, dalla voce greca ὁμαρτολογιον, Homartologium, che è quanto dire Trattato o discorso che accompagna, dal verbo ὁμαρτέω che viene adoperato in senso d’accompagnare anche da Omero Iliad. ω v.38, e da Esiodo Opera et dies lib. ii, e in oltre dalla voce λογος, la quale è manifesto che significa Trattato, discorso o cose simili. trattandosi di uno scritto che serve di guida a navigare, e insegna a far ciò a mente ossia a conto; non veggo altra significazione di quella voce che sia adattata.»
  173. «Egli (il Regiomontano) introdusse un miglioramento di grande rilievo nella aritmetica vale a dire le frazioni decimali...» Pagliani. Storia dell’Aritm. pag. xlix
  174. Saggi di Studi Veneti ... di Giuseppe Toaldo professore di Padova. Venezia, 1782, per Gaspare Storti. pag. 60.
  175. «Proverò che i primi furono anche (i Veneziani) ad introdurre nella trigonometria l’uso del raggio diviso in decimali, e le tangenti stesse... Questa bella invenzione ingiustamente attribuita a quel tedesco, dotto invero e benemerito (Regiomontano), è d’un uso immemorabile presso di noi; nè so perchè dall’ingiusta posterità ne sia attribuito l’onore ad un alemanno che l’apprese certamente da noi, allorchè fu in Venezia nel 1463.» Formaleoni. Saggio sulla Nautica antica de’ Veneziani. Venezia, 1785. pag. 9.
         «Propriamente parlando in tutta questa Regola e in questi calcoli la dottrina del raggio diviso in decimali non è direttamente adoperata. Qui non si tratta che de’ lati de’ triangoli, dove non è determinato qual serva di raggio, il che poco importava ai marinaj, che lasciavano agli astronomi questi nomi a loro forestieri. Ma siccome ognun de’ lati d’un triangolo può prendersi per raggio d’un circolo, questi lati divisi in parti decimali contengono realmente i fondamenti della invenzione attribuita finora al Regiomontano, che pose a profitto le cognizioni de’ nostri antichi applicandole facilmente all’astronomia.» Formaleoni l. c. pag. 36.
         Avea scritto il Toaldo: «Fu il Regiomontano quel benemerito tedesco discepolo del Peurbacchio, e con esso ristoratore dell’Astronomia, quello che ridusse il Raggio del cerchio a decimali, valutandolo 10 milioni, cosa che porta un’infinitamente maggiore esattezza e comodo nel calcolare......; e fu il primo il Regiomontano ad introdurre nella trigonometria le tangenti. Or, nella nostra Regola (del Martelogio) ritrovasi tanto l’uso delle decimali pel Raggio, quanto quello delle Tangenti: dunque la regola proviene del Regiomontano. (pag. 60).
         Il raziocinio che conduce a questo dunque non ha la sicurezza delle dimostrazioni matematiche, e svanisce a fronte della comprovata anteriorità delle regole de’ piloti veneziani.
  176. «Egli non fu autore delle carte che portano il suo nome. Riguardo al planisferio... fu certamente costruito prima del 1290...» Formaleoni. Illustrazione di due carte antiche della Biblioteca di S. Marco. pag. 51. «La maniera poi breve e confusa con cui in questa carta si espongono i principj e le regole trigonometriche della nautica provao che tal dottrina era universale ne’ piloti di que’ tempi.» Saggio sulla nautica, pag.51.