Cosima/VII
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VII
Anche questa lezione le servì per la scuola della vita; sentì che ella davvero non rassomigliava e non doveva rassomigliare alle ragazze di «buona famiglia», che commettono incoscienti ma astute i loro peccatucci d’amore; che Dio le aveva dato una intelligenza superiore alla comune e sopra tutto una coscienza limpida e profonda come un’acqua nella quale si vede ogni filo di luce e di ombra, per guidarsi da sola nella strada della verità. Il castigo per il suo capriccio con Fortunio, capriccio di curiosità sentimentale, ma anche sensuale, le parve giusto; e decise di sorvegliarsi, di vivere con una sua certa religione. Anche il pensiero per Antonino le si svelò, ad un tratto, quasi morboso. Perché perseguire una chimera inutile e, in fondo, per lei, umiliante? Non si mise più alla finestra, per aspettare il passaggio della meteora: non andò più, con le sorelle, a far visite alle amiche; si chiuse in un cerchio di silenzio, di rassegnazione, di lavoro.
E poi la vita quotidiana incalzava, i giorni si facevano scuri e arcigni come per un inverno che doveva durare a lungo. Una notte si sentì, nella casa, uno strano lamento, poi la voce di Andrea che cercava di convincere il fratello Santus a mettersi a letto e calmarsi; ma il disgraziato si dibatteva, gridando che sotto il suo letto c’era un uomo nero che voleva strangolarlo; poi toccava le pareti urlando che erano piene di tarantole e di scolopendre.
In un attimo la madre, la serva e le ragazze furono in piedi, circondarono i due fratelli, si avvidero che Santus, pallido, tutto preso da un tremito convulso e con gli occhi grandi, metallici, allucinati, delirava. Ma era un delirio terribile il suo; peggiore del delirio di un moribondo o di un idrofobo: Andrea lo capiva. Un terrore mai prima conosciuto invase Cosima, come se davvero la casa fosse piena di uomini neri e abbominevoli nascosti e pronti ad ogni crudeltà, e le pareti brulicassero di rettili velenosi. La madre credette che Santus fosse invaso dallo spirito maligno, e pensò di mandare a chiamare uno dei preti di casa per esorcizzarlo. Ma Andrea sogghignava; riuscì a far ritornare a letto il fratello, e lo vegliò tutta la notte. Notte di angoscia indimenticabile, durante la quale Cosima conobbe un’altra pagina del libro terribile della vita. Invece del prete venne il dottore, il quale consigliò che Santus e Andrea, il quale si offrì di sorvegliare il fratello, andassero ad abitare in una casupola che la famiglia possedeva in un orto non molto distante dalla casa. Furono riattate e ammobiliate alla meglio, le povere stanzette terrene, che di buono avevano solo alcune finestrine dalle quali si vedevano i monti lontani: e Santus vi si lasciò condurre docilmente: era buono e mite, in fondo, e il primo ad essere mortalmente triste del suo vizio, che il dottore aveva dichiarato essere null’altro che una malattia dalla quale il paziente non può, anche con tutta la sua volontà, mai guarire, era lui. Un dolore profondo gli si leggeva negli occhi chiari: di tanto in tanto pareva sollevarsi, smetteva, e tentava di lavorare: ma poi ricadeva, come un virgulto stroncato, non ancora morto nelle radici ma irrimediabilmente inutile a se stesso e dannoso agli altri.
Nella casa delle fanciulle ci fu una relativa tranquillità: ma l’ombra del dolore la velava; e la madre si fece ancora più silenziosa, pallida, e qualche volta inquieta, di quell’inquietudine di uno che ha smarrito qualche cosa di prezioso. Cominciò anche a diventare un po’ strana: a volte usciva di casa furtiva, con qualche oggetto o qualche pacco nascosto sotto lo scialle: andava nella casetta dei figli; a portar loro da mangiare e da vestirsi. Non che ad essi nulla mancasse, anzi, quando l’altro era tranquillo, Andrea tornava a mangiare con la famiglia, ed entrambi frequentavano giornalmente la casa: ma la madre aveva paura che essi mancassero del necessario: pensava a loro come a bambini smarriti nel bosco, e andava a cercarli, e si smarriva anche lei nelle ombre di una selva pericolosa: quella della disperazione.
Attiguo alla casetta dei fratelli, c’era, anch’esso di proprietà della famiglia, un frantoio per olive: era un lungo stanzone irregolare, scuro eppure lucido, come scavato in una montagna di schisto: nero, come unto anch’esso, era il forte cavallo paziente che faceva girare la ruota dentro la vasca rotonda dove venivano pestate le olive: la pasta violacea di queste, versata entro sporte rotonde, la spremeva il torchio di ferro; ma il torchio, collocato in una specie di nicchia scavata nella parete, erano gli uomini che lo manovravano, con una stanga: il mugnaio e un suo aiutante. L’olio cadeva nero e grasso entro un grande paiuolo, e le sanse, finita di spremere la pasta, venivano buttate da una larga finestra giù nell’orto, formando un monticello odoroso che a suo tempo veniva acquistato dallo stesso negoziante che in estate comprava le mandorle della famiglia: ed era una discreta rendita, assieme con quella dell’olio, che i proprietari delle olive lasciavano in compenso per la manipolazione. Ma bisognava stare molto attenti, perché il mugnaio, un piccolo uomo religioso con due occhi di vero santo, che serviva da anni e anni la famiglia, e le era sinceramente affezionato, rubava a man salva, tanto ai clienti quanto ai padroni.
Il luogo era sempre pieno di gente, anche perché in un angolo, tra la finestra e il torchio, ardeva sempre un grande fuoco con su un paiuolo d’acqua bollente, dove venivano immerse e lavate le sporte: e intorno a questo fuoco si riuniva un gruppo d’individui che, verso sera specialmente, formavano un quadro degno di Rembrandt. Erano tutti disoccupati e poveri, ma di una strana povertà dovuta più a loro stessi che alla sorte: e venivano lì a riscaldarsi, a confortarsi l’uno col contatto dell’altro. Capo fila era un uomo rossiccio, che era stato ricco e aveva dilapidato la sua sostanza con le donne e il vino: poi un vecchione con la barba di patriarca, anche lui decaduto, che faceva il giardiniere a tempo perso e viveva con la caccia dei gatti, dei quali si nutriva; e altri reietti, che non sdegnavano di unirsi con i bravi contadini e i piccoli proprietari che portavano a macinare le loro olive, e lo stesso padrone del frantoio, Andrea, che capitava ogni tanto per sorvegliare il mugnaio.1 Santus, poi, non mancava mai, e quando appariva lui tutti si scostavano per fargli posto; camminava anche lui nella fatale scia dei miserabili compagnoni raccolti intorno al fuoco, ma tutti ancora lo rispettavano, perché ancora la sua famiglia lo sostentava ed egli aveva un rifugio e la protezione del fratello; anzi, sapendolo generoso, cercavano la sua amicizia per potergli spillare un po’ di quattrini; ma egli, nonostante la torbida incoscienza in cui spesso affondava, capiva il suo stato, conosceva il cuore del prossimo, e amava solo la compagnia dei rinnegati del frantoio perché appunto si sentiva già loro compagno di fatalità.
Non si creda che queste riunioni fossero melanconiche. Tutt’altro. Quando il fuoco aveva seccato addosso i poveri vestiti, spesso bagnati dalla pioggia, di questa specie di vagabondi, e, per benignità della sorte, essi erano riusciti a bere vino, o meglio ancora acquavite, l’allegria più infantile regnava fra loro: uno di essi arrivava a cantare pezzi d’opera, un altro tirava fuori un pane, lo spaccava, si faceva facilmente versare sulla mollica un filo d’olio, e lo abbrustoliva sulla brace, dividendolo poi fraternamente coi compagni. E Santus mandava a comprare un fiasco di vino, che bevevano alla salute di tutti. Salute e lunghi anni: la vita è di chi si contenta di viverla.
Le giornate erano quasi sempre grigie, nel freddo mattino del tardo autunno: ma a poco a poco il cielo si schiariva e si sollevava sopra i monti che prendevano una lucentezza opaca di stagno, e sull’alto si apriva l’occhio, bianco prima, poi perlato del sole, come di un dormiente che dopo aver lottato con un triste sogno si sveglia ridente alla dolce realtà. Allora tutto prendeva colore; il cielo sembrava un mare sparso d’isolette rocciose, sui rami degli alberi le ultime foglie palpitavano come farfalle d’oro e i monti riprendevano le loro tinte azzurre e rosee.
Quando il tempo era bello capitavano nell’orto la padrona che non sdegnava di coltivare i cavoli e i carciofi, e le «bambine».
Cosima aveva già venti anni; ma a volte ne dimostrava di meno, a volte di più. Il viso bianco, corrucciato, gli occhi che sembravano selvaggi, la fronte coi capelli tirati su e stretti con la noncuranza delle donne vecchie, si aprivano e illuminavano come il cielo in quelle ambigue mattine, quando il riso schietto le sgorgava dai denti stretti con la violenza d’un’acqua sorgiva dalla roccia.
Ora, nelle assenze di Andrea, spesso costretto a recarsi in campagna per sorvegliare chi lavorava, sapendo che di Santus il mugnaio poteva, con l’aiuto diabolico dell’acquavite, farne quello che voleva, ella penetrava con coraggio nel frantoio, e faceva le sue brave ispezioni. C’era, anche nella cameruccia di Andrea, un registro dove venivano segnate le «macinate» delle olive; ogni macinata sette quarti di ettolitro di olive; compenso due litri d’olio grezzo lasciato nel paiuolo apposito o, se il proprietario preferiva, due lire in contanti. Molti lasciavano correre il tempo, prima di pagare, e allora il conto rimaneva aperto. Ed ecco Cosima, seduta al tavolo dove c’erano gli avanzi del pane e dei cibi dei fratelli, sfogliare l’unto registro e segnare in fila i nomi e il numero delle macinate; era una poesia anche quella, e il sole, che sbaragliava le ultime rocciose nuvolette e splendeva alto sui monti, dorava il foglio dove lei scriveva e lucidava i suoi capelli severi.
Così ella veniva a contatto col popolo, col vero popolo, laborioso e mite, che se pure poteva, come il mugnaio, mettere le grinfie sulla piccola roba del prossimo, lo faceva con parsimonia e poi andava a confessarsene. Magari anche la confessione era un po’ fraudolenta, come quella del famoso contadino che tentò d’ingannare il confessore dicendogli di aver rubato una corda, e alle insistenti inquisizioni dell’uomo di Dio, finì col dire che alla corda c’era attaccato un bue; ad ogni modo tutta gente buona: donnine rispettose e sornione, uomini che dovevano combattere con la terra ingrata e solitaria e i venti e gli uccelli e le volpi per strappare il grano e il vino, dei quali si nutrivano come il sacerdote nella Messa. Cosima li osservava, li studiava, ne imparava il linguaggio, le superstizioni, le maledizioni e le preghiere: e dal suo posto di osservazione vedeva anche il quadro e le figure del frantoio; sentiva le storielle che vi si raccontavano, le canzoni dell’ubriaco, e se le doleva il cuore e piegava la testa umiliata nel vedere Santus, il fratello nato per grandi destini, intagliare carrettini di ferula per i bambini del mugnaio, o spolpare le ossa di un arrosto di gatto con gli altri compagnoni, pensava che solo la pietà può sollevare l’anima piegata dal male degli altri, e portarla sulle sue ali fino alle altissime soglie di un mondo ove un giorno tutti saremo eguali nella gioia di Dio.
Fra un segno e l’altro del registro i clienti del frantoio le raccontavano i loro guai, i loro drammi: qualcuno la pregava di scrivergli una lettera o una supplica: così le venne lo spunto per un nuovo romanzo; attinto dal vero: attinto come la pasta nera delle olive dalla vasca del frantoio, che si mutava in olio, in balsamo, in luce: e mise un titolo grigio, che sotto però nascondeva anch’esso il seme del fuoco: lo intitolò Rami caduti.2
Questa volta la fortuna le arrise compiuta. Ella tentò presso un editore di una certa notorietà, che non solo accettò e pubblicò il romanzo, ma lo fece accompagnare dalla prefazione di uno scrittore illustre: ed ecco d’un tratto la figura di Cosima balzò sull’orizzonte letterario, circonfusa d’un’aureola quasi di mistero. Mistero creato dalla lontananza di lei e della sua terra, dalle vaghe notizie sulla sua vita quasi selvatica, ma sopra tutto dalla forza ingenua e nello stesso tempo vigorosa del suo racconto, dalla sua prosa scorretta e primitiva eppure efficace, e dall’evidenza dei suoi personaggi.
D’un colpo ella diventa celebre: giornali e riviste le domandano novelle: e l’editore manda denari. Non molti, ma tanti quanti a lei bastano per non frodare più la cantina, e comprarsi un bel vestito di setina nera a puntini d’oro e un boa di piume di struzzo nere e bianche che ha del serpente e dell’uccello.
Quando apparve, con le sorelle alle quali aveva regalato per confortarle eleganti sciarpe di velo, alla Messa celebrata dal Vescovo, in una brillante mattina di autunno, una schiera di giovanotti, i più intellettuali e spregiudicati del luogo, che andavano in chiesa solo per sbirciare le donne, si allineò fra una navata e l’altra della bella Cattedrale, e i loro occhi la serrarono in un nutrito fuoco di fila. Anche le donne la guardavano, alle spalle, affascinate, più che altro, dal suo vestito e dal suo boa dai colori di notte stellata, piegata sul suo libro di preghiere. Ella volava: le pareva di essere una rondine; sentiva voglia di piangere; era un rigurgito di gioia, di trionfo, ma anche di dolore profondo; e se sollevava gli occhi umidi e vedeva i finestroni alti sotto la volta della chiesa, azzurri di miraggi quasi marini, pensava allo sfondo della finestra del frantoio e alle povere donne unte di olio nuovo che le raccontavano le loro pene. Allora una lieve vertigine le saliva dalle radici dell’anima, come quando bambina l’immagine della nonna le rimescolava nel subcosciente un mondo atavico avventuroso e fiabesco. La cerimonia e la musica accrescevano l’incanto. Il Vescovo era alto, aristocratico; ricordava i prelati pittoreschi dei grandi romanzi francesi dell’Ottocento; solo la sua voce era un po’ aspra, ma si sperdeva, col fumo dell’incenso, nel rombare nostalgico dell’organo, che suonava il coro del Nabucco: «Va pensiero su l’ali dorate»... E tutto, luce, suoni, colori, accresceva la luminosa illusione di Cosima, che si vedeva trasportata in un mondo fantastico.
Fu proprio da quel tempo che la sua vita prese un ritmo fiabesco. I giornali parlavano di lei. Arrivò persino, fino alla casa di lei, da una città lontana, un alto, grasso, biondo giornalista, la cui presenza mise in subbuglio tutto il vicinato. In Cosima quella visita suscitò il più alto orgoglio e la più cocente umiliazione. Umiliazione di doverlo ricevere in quella stanza terrena quasi povera, dove nella vecchia libreria si vedevano ancora le carte d’affari del padre morto; però le sorelle avevano steso un’antica tovaglietta di pizzo sul tavolino dove fu servito il caffè: ella aveva indossato il suo vestito di seta stellata, ma non sapeva che dire, mentre l’uomo biondo la scrutava coi piccoli occhi verdognoli che, a guardarli di sfuggita, quasi con spavento, a lei ricordavano quelli dei gatti selvatici in agguato contro gli uccellini di primo volo. Egli però fu gentile, e nel suo giornale scrisse che la scrittrice «pallida, piccola, nervosa, (nervosa? non sapeva che cosa questa parola significasse: tuttavia la lusingò) questa fragile creatura che, senza mai essere uscita dal suo quieto nido, conosce tuttavia, in modo che fa quasi sbalordire, i misteri del cuore umano» eccetera. (Oh, grande uomo biondo che vivi nella metropoli, a contatto col mondo più tumultuoso, tu non saprai mai per tua esperienza quello che Cosima conosce attraverso la propria).
L’intervista fu commentata, riprodotta, colorita. Il libro di Cosima si vendeva; altri articoli lo resero quasi di moda. Ella, al solito, nonostante appunto le sue esperienze e i suoi saggi propositi, ricominciò a fantasticare: perché non avrebbe potuto sposare il biondo gigante?: l’avrebbe portata nel turbine della vita. Gli scrisse per ringraziarlo; egli rispose: la chiamava “piccola grande amica” parve farle la corte; tanto che un giorno Andrea intercettò una lettera, ma ne fu contento. Ecco uno che finalmente andava bene per la sorellina. E lei passeggiava intorno all’orticello, come un’aquiletta catturata, pronta a spiccare il lungo volo appena avesse potuto. L’orticello era tutto in fiore: rose paesane, gigli e garofani vi spandevano un profumo di altare quando si celebra il mese di Maria. Anche per lei era arrivato il mese della sua gloria. Scrisse finalmente anche quel superbone di Antonino, che continuava a studiare per poter vivere in città: faceva i complimenti e gli auguri a Cosima, e le domandava anche notizie di Santus. Ella non rispose, ma conservò il biglietto di lui fra i ricordi che la seguirono nelle strade della vita. Adesso pensava all’altro, al grande biondo dagli occhi tigreschi: e dopo una lunga ambigua corrispondenza, egli un giorno le mandò, una lettera strana, dove, fra le altre cose spiacevoli, le diceva che ella gli era sembrata quasi una nana.
Pertanto le esperienze di Cosima continuavano. Vi furono giorni di nuovo fulgore. Arrivarono contemporaneamente due lettere: e una veniva di molto lontano, dal castello di un principe tedesco, col sigillo d’argento e su impressa appunto una corona di principe. Forse era il suo segretario, che aveva letto il romanzo di Cosima e le scriveva ancora turbato, dicendole chiaramente, in ultimo «fi amo, signorina, fi amo». Lo credette il segretario, poiché il nome era comune, e Cosima era corazzata di inguaribile diffidenza: ma perché non poteva esser lui, il principe? Ella rispose, ringraziando; ma poi, immaginandoselo anche lui biondo e alto e con gli occhi felini come il crudele giornalista, e per di più principe o granduca, non mandò la lettera.
All’altra invece rispose. Ed era anche questa di un principe di diversa specie; era di un giovine di ventidue anni, che doveva essere molto ricco perché le scriveva che stava per partire, con mezzi suoi, per una spedizione nell’America ancora inesplorata; e le chiedeva il permesso di mettere il suo nome alla regione che egli avrebbe attraversata per il primo: e le dava l’indirizzo della estrema città dell’America del Sud ove si sarebbe fermato per formare la carovana.
Ah, sì, Cosima adesso risponde, con lettera raccomandata, e non si proibisce di abbandonarsi con la fantasia, come un angelo viaggiante, al seguito dell’avventuroso suo cavaliere. Le pare di vivere al tempo delle Crociate: egli va, col nome di lei nel cuore, a combattere contro i pagani, i pellirosse, i serpenti, le foreste vergini, le erbe che uccidono.
Furono i giorni più belli della vita di Cosima, più belli ancora di quelli passati sul Monte, a respirare l’aria che respirava Antonino. Era il sogno vivo, adesso, l’avventura epica, alla quale ella prendeva parte cavalcando sulle nuvole rosse dell’orizzonte, sui glauchi mari delle sere di luna.
Tutto le sembrava grande e luminoso. Nella casa di faccia alla sua, essendo morto il nero canonico medioevale e sposata a un vecchio cugino la nipote, era venuto ad abitare un ricco attempato, ma ancora sanguigno e forte negoziante di scorze d’albero e di sugheri. Era anche un cacciatore famoso e ogni tanto radunava gli amici per una partita di caccia grossa. Scalpitavano i cavalli, nella strada stupita da tanta animazione quasi guerresca, e i cavalieri, armati di tutto punto, alcuni smilzi e dritti in sella, altri, già anziani, barbuti, grassi e un po’ cascanti, ma col viso duro e deciso come di vetusti razziatori abituati a far preda, aspettavano che il gruppo fosse al completo, mentre i cani s’incontravano e facevano, fra le zampe dei cavalli, una schermaglia rintronante di guaiti e latrati; LA VILLA DI GRAZIA DELEDDA IN ROMA e appena usciva dal portone spalancato il cacciatore rosso dalle coscie possenti e dagli occhi verdi brillanti di gioia beffarda e feroce, sul suo balzano quasi ancora indomito, la comitiva si slanciava al galoppo inondando la strada come un’orda diretta alla conquista di un luogo nemico: i passi dei cavalli risonavano a lungo, anche quando la strada ritornava deserta, e pareva uno scalpitìo di treno che s’allontanava: Cosima, alla finestra, mentre ritirava, dopo averlo sgrullato, il piccolo soppedaneo del suo lettuccio, s’incontrava a seguire nell’aria l’eco della cavalcata: e pensava al suo esploratore, alla caccia dei selvaggi; e si sentiva anche lei in corpo una smania di amazzone, un ardore di eroina da avventure audaci; ma poi le toccava rifare i letti e pulire le camere, e, per risalire a galla da questo stagno di realtà, aspettare almeno il passaggio del portalettere.
Era un uomo rude, il portalettere, anche lui rosso di pelo e di pelle; e quando passava, con le sue grosse scarpe, battendo alle porte dei cittadini e gridando forte: «posta, posta», tutti gli echi intorno si risvegliavano, persino i cani abbaiavano, l’aria prendeva un colore di inquietudine. Per Cosima rappresentava un personaggio quasi mitologico, apportatore di bene e di male, e quando ne sentiva la voce di lontano tremava come se il destino fosse in cammino verso di lei. Era stato lui, in fatti, a portarle le lettere di gloria e di amore, di umiliazione e di speranza, e il vaglia, e i giornali col suo nome scritto come su lapidi che le parevano eterne. Adesso ella aspettava notizie da un mondo misterioso, lontano, quasi di là dai confini del mondo reale: lettere dell’esploratore, che a quel suo mondo nuovo voleva mettere il nome di lei. Ma il portalettere passava con la borsa, che faceva un rumorino speciale, sulla cinghia di cuoio, come quello dei carnieri dei cacciatori, e picchiava con violenza il battente della porta del negoziante di scorze, traendo dalla borsa un pacco di lettere e di giornali. E a lei nulla: e la voce aspra dell’uomo della sorte che si andava affievolendo le pareva si burlasse crudelmente di lei.
Così passò la bella stagione: ella non si curava più neppure di Antonino. Di nessuno si curava, tranne che delle sue scritture, illuminate dalla luce di quel sogno che era il più bello dei romanzi che ella avrebbe mai potuto scrivere.
In ottobre ci fu, come al solito, la vendemmia. No, non come al solito, poiché la madre, d’accordo con Andrea, aveva fatto costruire una piccola casa di pietra nella vigna, sotto un pino che vigilava solitario la grande distesa quasi tutta selvaggia come una landa, e dichiarò che la voleva abitare per qualche settimana.
Solo la vigna rallegrava coi suoi quadrati verdi e gialli, con qualche filare di grandi fichi bassi, la dolce triste solitudine del luogo: i monti lontani innalzavano una muraglia azzurra intorno all’orizzonte. Un colono del Continente coltivava, fin dal tempo in cui era vivo il padre di Cosima, la vigna da lui piantata, e un grande orto che godeva di un rivolo d’acqua raccolto in una vasca ampia come un laghetto, circondata di giunchi, canne e salici selvaggi.
Il luogo era bello: una specie di oasi nella desolazione della pianura incolta e pietrosa, saettata, nell’estate, da un sole implacabile. Ed ecco, adesso, la casetta di pietra lo rendeva più pittoresco ed ospitale: erano appena due stanze, addossate ad un’altra, piccola, che fino a quel tempo era stata l’abitazione del solitario colono, il quale non si moveva mai dal posto, rifornito ogni tanto di pane e altri viveri da Andrea, che di ritorno portava a casa i prodotti dell’orto. Erano per lo più patate, legumi, verze, zucche e insalate, e qualche volta anche poponi e cocomeri. E nella stagione l’uva, quasi tutta da vino, quel vino leggero ma saporoso che aveva aiutato Cosima a comprar francobolli e spedir manoscritti.
Fu dunque mandato un carro di mobili, come si usava per andare al Monte: e Cosima si offrì ad accompagnare la madre, mentre le sorelle, che non volevano neanche sentir parlare di un luogo sperduto come quello, sarebbero rimaste a casa sotto la sorveglianza della serva fedele.
Il servo che accompagnava il carro sarebbe rimasto nella vigna, e anche Andrea vi avrebbe passato la notte per maggior sicurezza delle donne. Ma il luogo era tranquillo; non si era mai sentito parlare di vicende spiacevoli: l’aperta e nuda pianura non permetteva neppure il passaggio di malviventi, tanto che il colono non aveva un’arma, un cane. Ad ogni modo una pattuglia di carabinieri a cavallo adibita alla sicurezza stradale, percorreva ogni giorno lo stradone comunale che attraversava quella specie di altipiano selvaggio.
Cosima e la madre s’incamminarono, a piedi, lungo lo stradone, dopo aver oltrepassato le ultime case del paese. La giornata era limpida, tiepida: un acquazzone aveva rinfrescato i campi, e gli stessi cespugli e le erbe già inariditi della distesa intorno alla vigna avevano ripreso il verde: le ginestre fiorivano ancora, ancora qualche sambuco nano, dove il terreno era umido, apriva le sue ombrella d’argento filigranato. Il pino, sopra la casetta che ancora odorava di calce, vibrava tutto di canti d’uccelli: ce n’erano di ogni specie, sopra tutto di passeracei, poiché era l’unico rifugio del luogo, e il loro chiassoso concerto strideva anche di voci di battaglia; tutti però, d’accordo nello scavare i fichi nella vigna e a piluccare l’uva, nonostante gli spauracchi drizzati qua e là dall’ingegnoso colono. Del resto anche lui aveva l’aspetto di uno spaventapasseri, alto, scarno, dinoccolato, con gli enormi piedi scalzi nodosi, i calzoni logori di fustagno rimboccati sulle caviglie rosse, e altrettanto le maniche sulle braccia che, se egli stringeva i grossi pugni, sembravano clave. Tutto il suo aspetto era, più che di contadino, di vecchio marinaio, di «lupo di mare», per il viso arso, di terracotta, i capelli irsuti di colore del sale, e come scarmigliati dal vento: ma specialmente per gli occhi piccoli, stretti, dei quali si vedeva quasi solo la pupilla verdognola.
Quando arrivarono le padrone egli aiutava il servo a scaricare la roba dal carro, e non rispondeva alle domande e agli scherzi dell’altro: pareva sordo, anzi anche muto, perché salutò solo con un cenno del capo, e non aprì la lunga bocca rientrante, quasi invisibile.
In cambio parlava molto il servo, un giovinotto bruno tutto occhi e denti, che ogni tanto si aggiustava la cintura e rideva per nulla: la sua presenza metteva allegria, e quasi egli piaceva alla signorina: lo trovava per lo meno della sua razza, uno schietto contadino, figlio della stessa terra, mentre il colono, — già per il nome stesso, che gli era stato consacrato dal vecchio padrone, — rappresentava uno straniero, un lavoratore di terre lontane, d’origine ignota se non quasi misteriosa. Infatti nessuno aveva mai saputo la sua provenienza, anche perché nessuno, dopo il tempo in cui, finita la sorveglianza della polizia, era stato assunto in servizio dal signor Antonio e confinato lì nella vigna solitaria, nessuno se ne era più curato: neppure Andrea, che come il corvo ad Elia, gli portava il pane. E infatti l’uomo si chiamava Elia.
Dopo che ebbero messo a posto, nelle due stanzette, i lettucci, due tavolini, alcune sedie, un attaccapanni e qualche arnese di cucina, i due uomini se ne andarono a lavorare, a togliere i pampini superflui alle viti, perché l’uva finisse di maturare; il giovine servo si mise a cantare, e la sua voce sonora ma monodica si sperdeva come nella vastità di una chiesa deserta.
Allora Cosima, come già aveva fatto sul Monte, cominciò a riordinare e abbellire quella che, per far sorridere la madre, chiamava la villa. La madre non sorrideva: come sempre era taciturna e chiusa in una tutta sua segreta preoccupazione: ma gli occhi le si erano un po’ illuminati, e il da fare che si diede, per preparare un po’ di cibo nel camino della prima stanzetta, adibita a cucina, sala da pranzo e da ricevere, la distrasse. Si sarebbe potuto usufruire, per gli usi più comuni, della cameretta del colono, dove c’era un vecchio e grande camino che tirava molto bene; ma la padrona intendeva rispettare gli antichi privilegi del dipendente, che con la sua sola opera si era costruito quel rifugio da quando aveva assunto servizio nella vigna, e vi teneva i suoi stracci e il suo giaciglio.
Cosima d’altronde ci sentiva odore di selvatico e non le sarebbe piaciuto neppure di guardare dentro se il vecchio non avesse attirato la sua curiosa attenzione, interessata, di osservatrice di tipi fuori del comune, con la nebulosità del suo passato e la sagoma della sua figura. Egli avrebbe forse potuto, ad esplorarlo, a farlo diventare docile e confidente, raccontarle qualche cosa d’interessante, con un colore diverso dal locale, qualche cosa da mettersi sulla carta e trasformarlo in materia d’arte.
Appena dunque l’abitazione fu in ordine, ella andò nella vigna, dove i due uomini lavoravano, e diede ascolto ai discorsi del servo paesano, poiché l’altro conservava il suo assoluto e impassibile mutismo.
— Speriamo, — diceva il giovinotto, — che la vostra mutria si cambi in buon umore fra una settimana, quando verranno le ragazze a vendemmiare. Verranno due mie cugine: ma quelle dovete contentarvi di guardarle da lontano e di non toccarle neppure con una canna: le altre, che la padrona sceglierà di suo gusto, ve le lascio liberamente, vecchio cinghiale.
Il vecchio cinghiale pareva non lo sentisse neppure: solo, all’accenno di una donna, una vedova già anziana, che un tempo si diceva avesse avuto relazioni con l’esiliato, i suoi occhi si allargarono un poco, ed egli scosse il mazzo di foglie di viti che teneva in mano: ma non aprì bocca, non si volse a guardare Cosima che era arrivata in mezzo al filare e lo osservava silenziosa. Né più fruttuosi furono gli altri approcci durante quella prima giornata, sebbene ai due uomini fosse servito un pasto certo per loro insolito, preparato dalla padrona, e anche lei tentasse di attaccare discorso col vecchio taciturno. Egli rispondeva sì e no alle domande di lei, riguardanti l’orto e la vigna; nel vederla si alzava e si piegava con segni di un rispetto quasi esagerato: null’altro.
— È un idiota, — disse il servo, quando l’altro non poteva sentirlo. — Ma è anche malizioso, e la sa lunga.
E raccontò della vedova, che un tempo veniva a trovarlo nella vigna, e accennò al lontano passato di lui. Pare che avesse tentato di derubare un suo ricchissimo parente, nelle cui terre lavorava: sebbene il parente avesse rimesso la querela, Elia era stato condannato. Poi la voce cambiava; il parente diventava un banchiere, o addirittura una banca, che era stata svaligiata da un gruppo di ladri, dopo narcotizzato il custode, e fra i manigoldi era Elia.
Disse la padrona:
— Se fosse stato così, il mio povero marito non l’avrebbe assunto al suo servizio.
— Oh, il signor Antonio era buono: era un santo, di quelli che non ne nascono più, — disse il servo.
Nel pomeriggio arrivò, a cavallo, Andrea. Fra le altre cose portava un giornale e una lettera per Cosima.
Una lettera! Ella la prese, come faceva sempre, trepidando: le pareva, ogni volta, di afferrare un uccello a volo, l’uccello favoloso della fortuna e della felicità. Ma questa era una semplice lettera d’invito a mandare i suoi libri a un giornaletto, che prometteva di parlarne ai suoi lettori. Ed ella la lasciò andare, come appunto si lascia andare un uccellino che non serve a niente. Ad ogni modo la giornata finì bene: il tramonto arrossava la vigna, la vasca e i salici scintillavano; le distese della pianura avevano la calma e melanconica poesia della steppa, come Cosima l’aveva intraveduta in qualche racconto russo: ma il punto centrale del paesaggio, il più bello, era il pino solitario entro il quale vibravano le fiamme del sole che pareva vi si annidasse come un grande uccello di porpora. E Cosima se ne andò per un sentiero della brughiera dove avrebbe potuto camminare finché voleva, poiché non c’era pericolo di sperdersi, e dalla vigna potevano sorvegliarla con un solo sguardo. Le erbe sembravano colore di rosa, ogni seme, ogni fiorellino, ogni bacca, aveva come un occhio d’oro che rispondeva al suo sguardo: e i monti lontani, color d’acquamarina, svaporavano nel cielo arancione e verde e rosso che a poco a poco trascolorava e cambiava tinta. Una coccinella salì, da un cespuglio, sulla veste di Cosima, come su un cespuglio più alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sul piccolo dorso piatto, d’un rosso scuro di lacca, era disegnato in nero un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po’ obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all’estremità del dito medio, sull’unghia rosea di tramonto, la coccinella aprì due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all’estremità del mondo per potersi slanciare così. Quando il sole sparì, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l’acqua, e la stella che apparve sull’orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare.
Mai Cosima, neppure sul limite dei boschi e delle roccie del Monte, davanti ai sontuosi tramonti visti dall’alto, aveva provato una malìa simile a questa che l’avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera: eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella così, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da Dio per la gioia del cuore che è vicino a lui come il cuore del bambino a quello della madre: ed ella ne ebbe quasi la prima rivelazione, e si sentì uno scalino ancora più in alto, nella scala di Giacobbe che doveva essere la sua vita. Così, per nulla: solo perché vedeva la stella della sera brillare sopra i monti non meno e non più meravigliosa della coccinella, e le erbe selvatiche odoravano al suo passaggio. Decise di non aspettare più nulla che le arrivasse dall’esterno, dal mondo agitato degli uomini; ma tutto da sé stessa, dal mistero della sua vita interiore.
Così, ebbe fine l’attesa delle notizie dell’esploratore: e anche lui, del resto, non scrisse più.
Eppure un fatto che aveva dell’inverosimile, le avvenne: un fatto che superò tutte le altre vicende accadute fino a quel tempo, che a lei parevano, ma forse non erano, straordinarie. Erano passati tre giorni da che si trovavano nella vigna, tutti e tre eguali, limpidi, sereni. Ella s’era rimessa a scrivere, sul tavolinetto della camera da letto, davanti alla piccola finestra nel cui vano ronzavano le vespe senza però venire dentro. Inutile, fino a quel momento, intervistare Elia: pareva un uomo meccanico, Elia: si piegava, si sollevava, lavorando, senza muovere un muscolo del viso. E lingua in bocca, – come diceva il servo che chiacchierava per tutti e due, ma per dir frasi, proverbi, canzonette e scempiaggini che non interessavano Cosima.
Solo le mani di Elia avevano, a osservarle quando egli non se ne accorgeva, una strana sensibilità: mani scure e nodose, con le falangi coperte di peli, ma piccole, per un uomo così alto e lavoratore, a volte adunche come artigli, a volte aperte e quasi molli, come snodate. Con quelle mani egli era capace ancora di fare qualsiasi lavoro che gli venisse richiesto o che gli fosse necessario. Infatti si cuciva da sé le vesti, lavava, si faceva le scarpe, gli occhiali, gli arnesi di lavoro, preparava la conserva dei pomidori e seccava i fichi, fabbricava, con una certa creta da lui scovata fra i giunchi, vasi e pentole: e lavorava anche da stagnaio e da falegname. La sua stanzetta sembrava un museo archeologico, con una raccolta persino di pietre cercate nella brughiera, che sembravano tartarughe, conchiglie, ossa fossilizzate.
E stava zitto, rispondendo solo sì e no alle domande della padrona, che anche lei, del resto, cavava fuori le parole con diffidenza sospettosa, come gemme da uno scrigno.
Or dunque, quale non fu la meraviglia di Cosima, quando la sera del terzo giorno, ritornando dalla solita passeggiata, sentì che i due taciturni parlavano fra di loro. Stavano nella prima delle stanzette, e la madre cucinava qualche cosa nel camino. La porta era aperta, ed essi non si accorsero della presenza di Cosima, che, ferma fuori, ascoltava. Del resto il discorso era semplice: ma il suo tono amichevole, nella voce di quei due, un po’ lamentoso nella padrona, confortante in quella del servo, sorprese la fanciulla. La madre non le aveva mai parlato in quel modo: e d’altronde era proprio di lei che si lagnava. Diceva:
— Andrea tarda, stasera: speriamo non sia accaduto nulla, laggiù: ho sempre paura. E anche quella stordita che se ne va in giro come una capra.
— Non abbia timore, — rispose l’uomo, con una voce fra roca e dolce, ma anche quasi canora, che la padroncina non gli conosceva; — c’è Ippolito che è andato a raccogliere sterpi per il fuoco, e la sorveglia. Poi non si è quasi mai sentito niente, in questi posti. Chi vuole che veda la signorina? E poi è tanto savia, quella: non c’è pericolo che abbia dato appuntamento all’innamorato.
— Non si sa mai, — insisteva la madre: e Cosima pensò in sua coscienza che realmente, su questo punto, si potevano elevare dubbi. — Le ragazze sono tutte stordite: quella, poi, ha certe idee in testa. Tutte quelle scritture, quei cattivi libri, quelle lettere che riceve. E non è venuto anche, a trovarla, un omaccione rosso come la volpe? e da lontano, è venuto, e poi ha scritto di lei sui giornali? La gente mormora. Cosima non troverà mai da sposarsi cristianamente: e anche le sorelle ne risentiranno, perché in famiglia tutto sta a sposar bene la primogenita. È vero che... — aggiunse con voce ancora più lamentosa, — ci sono anche i fratelli, che non ci fanno troppo da sostegno: oh, tu lo sai bene, Elia.
Egli lo sapeva: eppure aveva una fede cieca, un attaccamento appassionato per il signorino Andrea: ed anche la sua voce tremolò quasi di pianto quando ne parlò.
— No, padrona, non si lamenti troppo del signorino Andrea. È buono, posso dire, quasi quanto lo era il signor Antonio: solo, è troppo generoso; è troppo amico di cattivi amici. Ma del resto bada alla roba, e ama le sorelle in modo particolare.
— Bada alla roba? Sì, ma per pigliarsi lui quasi tutta la rendita: e gioca, e va con le male donne. Questa la chiami bontà? Lo chiami amore per la famiglia? Andrea ci lascia appena il tanto per pagare i servi e le tasse. Io non dormo, un giorno o l’altro l’esattore verrà in casa a sequestrare: lo vedo in sogno, ne ho paura come del demonio. Oh, oh: Elia; e tutto questo perché i miei figlioli hanno abbandonato le vie del Signore.
— Lei esagera, padrona: ci sono figli peggiori: tutte le famiglie hanno la loro croce. Il signorino Andrea, dopo tutto, bada alla roba e la fa fruttare: è, dirò così, come un fattore, che si piglia la porzione maggiore. Ma poi metterà giudizio.
— No, Elia, non lo spero. D’altronde, che si fa? Siamo povere donne sole, con quel castigo terribile di Santus: e bisogna pure appoggiarsi ad Andrea. Tante volte penso di dividere il patrimonio: a ciascun figlio il suo; ma sarebbe peggio, poiché il disgraziato Santus in pochi mesi cadrebbe nella miseria, e anche il tuo signorino Andrea si giocherebbe la sua parte. Non c’è via di uscita: bisogna soffrire. E poi io voglio bene ai miei figli: troppo bene gli voglio; più sono disgraziati più li amo e li compatisco. Ma quella Cosima! È quella che più mi dà pensiero.
— E invece sarà quella che più le darà consolazioni: vedrà.
Ma la madre, mentre rimuginava nella padella le patate che lentamente si arrossavano e spandevano un buon odore, continuava a sospirare.
— Non è questo, Elia, io non ho bisogno di consolazione: la mia strada è finita, e nulla esiste più per me tranne il bene dei miei figli. Ma essi non seguono la via giusta, quella che abbiamo percorsa io e il padre loro, benedetto sia. Sarà mia la colpa: sono una donna senza forza e senza volontà; ma loro dovrebbero capirlo. E se parlo così con te, questa sera, Elia, è perché so che tu solo puoi compatirmi.
— Oh, padrona! — egli esclamò: e una commozione sincera, piena di sorpresa e di gratitudine, gli vibrava nella voce: probabilmente nessuno, da molto tempo, gli aveva parlato così. E intese forse quello che la padrona voleva dirgli, che anche lui aveva peccato e sofferto, ma era rientrato nella giusta via, perché aggiunse: — Le strade del Signore sono tante, ed Egli aiuta sempre i buoni cristiani.
— Tu, dunque, credi in Dio? Io, vedi, a volte, non ci credo più.
— Non so: anche io non vado a messa da venti anni. Non so: non so: ma so che ad essere buoni e pazienti ci si guadagna sempre. E, dunque, padrona, coraggio.
Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dallo stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea. Cosima sentiva voglia di appoggiarsi al muro e piangere: in quel momento avrebbe rinunziato a tutti i suoi sogni, pur di consolare la madre: pensò che bisognava almeno darle il conforto della speranza di un buon matrimonio, fra lei e un qualche bravo giovane del luogo, e passò in rassegna tutti i proprietari, i professionisti, gli impiegati di sua conoscenza. Ma essi erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie: né, d’altronde, ella voleva più umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l’idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre. LA PRIMA CARTELLA DEL ROMANZO “NEL DESERTO„
Autografo di Grazia Deledda.
- ↑ [p. 229 modifica]Il frantoio delle olive e la pittoresca adunata di gente del popolo riapparirà in Cenere, Cap. III. Le osservazioni fatte sul linguaggio e le superstizioni di cui più avanti, a pag. 122, la D. raccolse in un articolo apparso in «Rivista delle tradizioni italiane» diretta da Angelo De Gubernatis, intitolato Tradizioni popolari nuoresi.
- ↑ [p. 229 modifica]Rami caduti: in realtà Anime oneste (1895) con prefazione di Ruggero Bonghi, datata da Torre del Greco il 28 agosto 1895. La Deledda fu incoraggiata a scrivere questo romanzo dalla direttrice della casa editrice milanese L. F. Cogliati («La Casa Cogliati vuole che io scriva un romanzo all’inglese, un romanzo famigliare d’anime buone e gentili»; e romanzo famigliare è specificato nel sottotitolo del libro. In un primo tempo il titolo doveva essere Gli onesti. Lettera a Epaminonda Provaglio del novembre 1894). La prefazione fu sollecitata dalla stessa editrice che era in grande amicizia col Bonghi e gli passò le bozze del romanzo. Ma il vero «lancio» della romanziera [p. 230 modifica]nel mondo letterario fu fatto un anno e mezzo dopo, da una recensione di Luigi Capuana sur un’opera successiva: La via del male. Al quale Capuana la D. scriverà da Nuoro, in data 30 marzo 1897: «Spero che l’opera mia, giacché non conto di fermarmi, debba sempre più riuscirle gradita. Sono ancora molto giovane, molto più giovane di quanto molti, giudicandone dalla mia produzione, mi credano: ebbi solamente il torto di cominciar troppo presto a pubblicare. Ma ero sola, come ancora lo sono, e non avevo maestri né guide. Se un vigile consiglio mi avesse guidata quel Fior di Sardegna, da Lei ricordato, e tanti e tant’altri lavori miei non avrebbero veduto la luce. Ma sento, ora che sono pienamente consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compiere l’opera cominciata con La via del male. La guida che nei primi passi mi è mancata ora la sento in me stessa, ed è una intima voce che mi addita qualche cosa di alto e di puro e di fortemente luminoso». Nel 1896 la D. aveva avuto un breve scambio epistolare con Mario Rapisardi.