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130 | grazia deledda |
umiliazione e di speranza, e il vaglia, e i giornali col suo nome scritto come su lapidi che le parevano eterne. Adesso ella aspettava notizie da un mondo misterioso, lontano, quasi di là dai confini del mondo reale: lettere dell’esploratore, che a quel suo mondo nuovo voleva mettere il nome di lei. Ma il portalettere passava con la borsa, che faceva un rumorino speciale, sulla cinghia di cuoio, come quello dei carnieri dei cacciatori, e picchiava con violenza il battente della porta del negoziante di scorze, traendo dalla borsa un pacco di lettere e di giornali. E a lei nulla: e la voce aspra dell’uomo della sorte che si andava affievolendo le pareva si burlasse crudelmente di lei.
Così passò la bella stagione: ella non si curava più neppure di Antonino. Di nessuno si curava, tranne che delle sue scritture, illuminate dalla luce di quel sogno che era il più bello dei romanzi che ella avrebbe mai potuto scrivere.
In ottobre ci fu, come al solito, la vendemmia. No, non come al solito, poiché la madre, d’accordo con Andrea, aveva fatto costruire una piccola casa di pietra nella vigna, sotto un pino che vigilava solitario la grande distesa quasi tutta selvaggia come una landa, e dichiarò che la voleva abitare per qualche settimana.
Solo la vigna rallegrava coi suoi quadrati verdi e gialli, con qualche filare di grandi fichi bassi, la dolce triste solitudine del luogo: i monti lonta-