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138 grazia deledda


alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sul piccolo dorso piatto, d’un rosso scuro di lacca, era disegnato in nero un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po’ obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all’estremità del dito medio, sull’unghia rosea di tramonto, la coccinella aprì due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all’estremità del mondo per potersi slanciare così. Quando il sole sparì, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l’acqua, e la stella che apparve sull’orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare.

Mai Cosima, neppure sul limite dei boschi e delle roccie del Monte, davanti ai sontuosi tramonti visti dall’alto, aveva provato una malìa simile a questa che l’avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera: eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella così, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da