Cosima/VIII
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VIII
Intanto continuava a scrivere, davanti alla piccola finestra ronzante di vespe. Ma era un po’ disorientata, per le parole della madre e perché non trovava un vivo argomento ai suoi nuovi racconti. La vita le sembrava piatta, incolore, sebbene invece dentro di lei sentisse muoversi un dramma di incertezze, di scrupoli, di melanconia. Le pareva di esser già vecchia, piena di esperienza e col fiore della speranza già appassito fra le dita. Pensava fosse effetto della solitudine, della povertà del luogo e della sua stessa vita: e disperava di poter ritrovare una occasione di guardare la vita altrui, ricca di dolori, di miserie, di esaltazioni e di umanità umile e grande nello stesso tempo, come nel cerchio nero del molino di olive. Non contava più in Elia, e neppure nel movimento della vicina vendemmia, della quale aveva già conosciuto i colori d’idillio, e li aveva anche già riversati in qualche sua novella.
Invece un piccolo accidente accadde, mentre le donne venute apposta per la faccenda, spinte e pizzicate da Ippolito, coglievano l’uva deponendola in cestini a doppia ansa, che poi trasportavano in due, dondolandoli come culle, versandone i grappoli in un carro apposito, foderato di stuoie, che appena colmo veniva portato in città per la manipolazione del vino. Una di queste donne aveva portato un bambino, che per un po’ s’era trastullato tra i filari delle viti, poi, scomparso, s’era ad un tratto sentito piangere e gridare. Tutti si slanciarono a cercarlo, con urli di richiamo e di spavento: solo Elia non aprì bocca, ma andò dritto alla vasca e vi si gettò, vestito, traendo il bambino che scosse e fece sgocciolare come uno straccio bagnato. Fu solo un po’ di paura: ma alla sera il vecchio ebbe qualche brivido di febbre, e si fece più rigido del solito. All’alba però già era all’opera nella vigna: finita la vendemmia le donne se ne andarono, ed anche la padrona dichiarò che voleva tornare a casa per presiedere alla pigiatura dell’uva: senonché Elia s’era d’improvviso buttato giù sul suo giaciglio e pareva un cadavere. Non si poteva abbandonarlo così; anzi si pensò di far venire un dottore, e se il servo si aggravava di portarlo in paese. Queste premure parvero scuoterlo e ravvivarlo. Cosima gli offrì una tazza di caffè, gli aggiustò il giaciglio, rimise in ordine la stanzetta. E ogni tanto lo guardava con occhi pietosi, senza dimostrare ripugnanza per quel lungo corpo ricoperto di stracci maleodoranti come quello di un mendicante, coi grossi piedi scalzi terrosi e tutti tagliuzzati per cicatrici di sterpi e spine, che pareva avessero camminato attraverso interminabili lande per arrivare a quel piccolo rifugio ospitale. Egli stava ad occhi chiusi; ma d’improvviso li aprì, un po’ febbrili e lucidi, e la guardò come un cane malato. Uno sguardo, solo, ma Cosima vide un misterioso balenìo in fondo alle pupille che non erano quelle del duro e freddo Elia, ma di un uomo disperato, che aveva paura di morire solo, abbandonato, come un vecchio cane. Gli si avvicinò e disse:
— Come vi sentite? Faremo venire il dottore, o vi porteremo a casa.
Egli accennò di no, di no: per quanto solo e malato, non voleva il dottore e non voleva muoversi dalla sua tana: ma l’occhio gli si era rischiarato, pieno di una dolcezza, quasi di un sorriso infantile.
— Andate, andate pure, — disse. — Vadano pure a casa, signorina, lei e la signora padrona: bisogna pigiare l’uva e metterla nel tino.
— Eh, non la pigiamo noi, coi nostri piedi, — disse Cosima, tentando di scherzare. — C’è poi Andrea, che ci bada: non pensateci. E poi il tempo si cambia: minaccia di piovere. Non vogliamo lasciarti così, zio Elia.
Ella lo chiamava così, come si usava con tutti i vecchi servi; ma era la prima volta che egli si sentiva accomunato agli altri, come fosse nato nella stessa terra e tutto il suo passato sprofondasse quasi in una vita anteriore. Tuttavia non parlò, non dimostrò la sua gratitudine: anzi fece un po’ indispettire la padroncina col rispondere sempre con un cenno negativo del capo a tutte le sue domande premurose. No, egli non voleva il dottore, non voleva muoversi, non voleva che nessuno si disturbasse per lui. Vecchio testardo. Pareva volesse morire solo, come solo era vissuto. Ma le padrone restarono, finché arrivò Andrea che portò del chinino: si discusse però se si doveva o no somministrarlo al malato: e del resto la discussione fu vana, perché egli dichiarò che non avrebbe preso nessuna medicina. Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro. Dietro gli scurini mal connessi i vetri della finestra parvero spaccarsi e spargersi in frammenti d’oro e d’ametista, con un rombo spaventoso. Lampi e tuoni. Non c’è da nascondere che Cosima aveva paura e la madre tremava come una fronda sbattuta dal vento. Storie spaventose di banditi e malfattori, che in notti simili sbucano come demoni dalla tempesta e assalgono le dimore solitarie, tornavano in mente alle donne: e il fatto che il servo e Andrea erano rimasti sul posto, non le rassicurava. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, GRAZIA DELEDDA NEL 1927 e solo il pino pareva potesse combattere con l’uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito. Nel suo giaciglio Elia, con la febbre alta, ricordava come il signor Antonio lo aveva accolto benevolmente quando lui si era presentato in cerca di lavoro, mentre nessun altro dei diffidenti proprietari del luogo aveva accettato la sua offerta; e il padrone gli aveva affidato la vigna nuova, l’orto, la terra intorno.
Adesso il vecchio amava questa terra con una passione tenace; era diventata la sua nuova patria, la sua famiglia; e il solo pensiero che i padroni giovani avrebbero potuto mandarlo via, come una vecchia bestia che non può più lavorare, lo colmava di tristezza; non per la probabile ventura povertà, ma per l’amore alla terra che oramai faceva parte della sua carne e del suo sangue.
Ed ecco, invece, la padrona e la signorina, e lo stesso Andrea, si mostravano benevoli, fino al punto di restare vicino a lui in quella notte tempestosa mentre avrebbero potuto già essere nella loro casa tranquilla. E non lo avrebbero cacciato, no: lo sentiva; lo aveva sentito nella voce di Cosima, e gli sembrava che questa voce fosse l’unica medicina che potesse guarirlo. E la certezza che un giorno forse avrebbe potuto dimostrarle la sua riconoscenza, già lo alleviava dal male.
All’alba il tempo si calmò, d’un tratto, dopo un tuono formidabile che parve un ordine militare: la battaglia doveva cessare. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: “Perché tutto questo? Si combatte, si soffre, ci si tormenta per nulla: la forza del vento è vana; tutto è vano e vuoto; eppure bisogna combattere perché così vuole Dio”.
Poi tacque anche l’albero; ma quando Cosima aprì la finestruola vide uno spettacolo indimenticabile: centinaia di uccelli svolazzavano sui rami battuti dal sole, e parevano d’oro e d’argento: ogni loro battere d’ali faceva cadere goccie simili a scintille: e ad ogni ago delle foglie era infilata una perla dai colori dell’iride. Pareva un albero magico, fatto di uccelli, di rubini, smeraldi e diamanti.
E fu certo una giornata di miracolo quella. Tutto sembrava trasformato; tutto, nell’orto, nella vigna sebbene spoglia, nella brughiera riarsa, tutto riluceva e sorrideva. Dio era passato con un corteo di tuoni e fulmini, ma trovando gli uomini di buona volontà si placava e ritornava paterno.
Andrea ripartì la mattina presto, con la promessa di tornare nel pomeriggio e passare la notte nella casetta, per sorvegliare il malato, mentre la madre e Cosima col servo sarebbero tornati in città. Cosima portò il caffè ad Elia, che si mise a sedere sul giaciglio, e prese la tazza con le mani tremanti.
— Che, avete freddo? — domandò la signorina. — Buon segno: vuol dire che la febbre passa: fatemi sentire.
E gli toccò la grande orecchia destra, scura e dura come la facciata di una grotta. Al contatto della piccola mano, egli rabbrividì, come per il solletico: i suoi occhi ebbero di nuovo un balenìo d’occhi di cane accarezzato.
— Siete fresco come rosa, zio Elia: camperete ancora cento anni, quando anche la nostra memoria sarà dispersa.
Egli sorbiva il caffè, versò nella tazzina quello che s’era versato nel piattino e raschiò il residuo dello zucchero, come fanno i bambini: ma anche dopo rimase col viso piegato, guardando il fondo della chicchera come ci vedesse qualche immagine.
— Dov’è la padrona? — domandò sottovoce.
E Cosima ebbe l’impressione che egli volesse dirle qualche cosa, ma senza pericolo di essere ascoltati.
La padrona era affacendata nelle stanzette attigue: ed egli disse:
— Si sarà spaventata, stanotte, povera padrona. Per colpa mia: e anche lei.
— Ma no, zio Elia: anzi ho avuto quasi piacere: non avevo mai sentito un diavolìo così, e in piena campagna poi. Oh, io non sono paurosa: se in casa sento un rumore, di notte, mi alzo e scendo anche in cantina esplorando se ci sono i ladri. Ma adesso rimettetevi giù e state quieto: vi copro io, perché oggi fa freschetto.
Egli si rimise giù, ma sembrava meno quieto e duro del giorno avanti: anche perché si sentiva meglio. Avrebbe voluto alzarsi e tornare al lavoro, ma Ippolito, che gli voleva bene a modo suo, minacciò di negarlo se si moveva.
E la padroncina gli servì il brodo, con l’uovo sbattuto dentro, e anche un bicchiere di vino. Egli però lasciò il bicchiere intatto, con una vespa che vi ronzava attorno incantata.
Il sole era caldo; dal finestrino si vedeva l’orizzonte, coi monti lontani di un azzurro liquido d’acquamarina. Una quiete profonda regnava dappertutto e dalla brughiera veniva un odore tiepido di erbe come nei meriggi di primavera. Il servo lavorava nell’orto e la padrona era andata fino alla vasca a lavare i panni. Cosima pensò di raggiungerla e pregarla di smettere e di portare la roba sporca in paese; nel passare davanti al finestrino di Elia guardò dentro; e vide che il vecchio, seduto sul giaciglio, le accennava di entrare, Entrò: si accorse che egli aveva bevuto il vino e aveva il viso lievemente colorito e gli occhi insolitamente bene aperti.
— Dov’è la padrona? — tornò nuovamente a domandare.
Saputo che lavava i panni, parve indispettirsi.
— Ecco, è venuta a prendere la mia camicia e la lava lei, non è bene.
— Ma sì che è bene, zio Elia: la mamma si diverte: non può restare un momento in ozio, povera mamma.
— Povera padrona; con tutti quei pensieri, — egli disse, piegando la testa come aveva fatto la mattina: e si fece pensieroso.
— La mamma esagera, — disse Cosima, quasi per rassicurarlo: — vede sempre nero. Invece la provvidenza non manca mai.
— Lei crede alla provvidenza di Dio?
— Io sì, e come!
Allora accadde una cosa strana: egli si alzò, lungo, coi grossi piedi nudi che sembravano ceppi, e andò a chiudere il finestrino. Disse:
— Queste vespe! Via, via. Senta, io le voglio far vedere una cosa: lei però non deve dire nulla a nessuno: me lo promette? Nulla, mai a nessuno.
Ella stette incerta; poi, più per curiosità che per altro, disse:
— Ve lo prometto.
Fu tutto.
Il vecchio si avvicinò al camino, si piegò, raschiò con la paletta, accumulandoli nell’angolo, la cenere e gli avanzi dei ceppi, poi con la stessa paletta sollevò il mattone centrale. Apparve, sotto il mattone, una lastra di ferro, una specie di sportellino, chiuso con un lucchetto; ed egli si trasse dal seno una chiavetta pendente da una catenella nera, e aprì il ripostiglio: la lastra si sollevò, in due piccoli battenti, ed egli introdusse la mano nel vuoto, molto in fondo, parve come slegare un sacchetto o un involto che fosse in quel fondo e ne trasse un pugno di monete: le guardò, nel cavo della mano, come si guardano le sementi per assicurarsi che sono buone, poi le fece vedere a Cosima. La sua mano concava ricordò alla fanciulla la mestola con la quale il diavolo trae dalla pentola dei tesori maledetti le monete tentatrici delle anime: si scostò d’un passo, quasi impaurita, e guardò in viso il vecchio. E invero quel viso scuro, con gli occhi che sembravano due fessure con in fondo un’acqua verde opaca, e quella bocca chiusa, ermetica, aveva qualche cosa di diabolico: i pensieri più cattivi e paurosi passarono in mente a Cosima: ebbe paura, guardò verso la porticina: la porticina era aperta, ed ella avrebbe potuto subito salvarsi se il vecchio tentasse farle del male. Egli dovette sentire tutte queste cose perché il suo viso cambiò maschera: si fece triste. Mai Cosima aveva veduto un viso così nobilmente triste, accigliato e severo.
— Sono buone, — egli disse, tirando su con le dita dell’altra mano le monete, e lasciandole ricadere nel pugno.
Cosima lo vedeva bene: erano monete che sembravano nuove, alcune col profilo melanconico e rapace di Napoleone III, altre col grande gallo piumato della Repubblica francese: monete d’oro, schiette, moderne, da spendersi, se si voleva, senza difficoltà. Ma non le toccò e il solo pensiero che Elia avrebbe potuto offrirgliele, sia pure per generosità o affetto, le faceva spavento: poiché ricordava le voci misteriose che correvano sul conto di lui, ed era sicura che il tesoro provenisse da una rapina.
Ma egli richiuse il pugno, tornò a piegarsi sul vuoto del camino, rimise a posto ogni cosa, riaprì la finestrina, andò a sedersi sul giaciglio, piegò la testa pensieroso. La vespa da lui cacciata tornò a volteggiare e ronzare sullo sfondo d’acquamarina dei monti lontani. Tutto s’era svolto in pochi minuti, come in un passaggio di nuvole; e Cosima si avvicinava alla porticina per andarsene sicura in cuor suo di saper tutto e non volersi immischiare nella pericolosa faccenda, quando il vecchio la richiamò:
— Signorina, volevo dirle questo; quando sarò morto, o anche prima se le occorre, quella roba è sua.
Ella avrebbe voluto protestare, dirgli che non voleva una sola di quelle monete, gridargli che sarebbe stato meglio restituirle a chi erano appartenute; ma vedeva la madre che risaliva dall’orto con la camicia di Elia attorcigliata fra le mani ancora bagnate, e saltò nello spiazzo con l’impressione di risvegliarsi da un sogno. La madre stese la camicia su una cordicella attaccata fra due pali, che appunto serviva al vecchio per asciugare i suoi stracci, poi rientrò nella casetta e cominciò a preparare le cose per la partenza. Cosima andò verso il pino e appoggiò la testa alle scaglie rossastre del tronco, come per ascoltare una voce nascosta dentro l’albero amico, che la consigliasse, la salvasse. Poiché le sembrava di essere coinvolta in un dramma colpevole, di essere complice di un furto, forse anche di un delitto. Che doveva fare? Accusare il vecchio? D’altra parte egli era da più di trent’anni in paese, e, se reato avesse commesso, esisteva la prescrizione. E delitto di sangue non doveva esservi, se la condanna di lui era stata solo quella del domicilio coatto. E non poteva aver rinvenuto senza colpa il tesoro? Giusto in quei giorni i giornali parlavano dei tesoro di oltre un milione, di monete d’oro, trovato in casa di un antiquario, e di un altro rinvenuto nello scaffale di un medico stravagante e solitario che aveva attirato gente da tutte le parti del mondo con un suo specifico che guariva i dolori reumatici. Durante l’infanzia, e anche dopo, dai servi, dai contadini, dai pastori, Cosima aveva continuamente assorbito racconti di tesori, trovati nelle rovine dei vecchi castelli, dentro tronchi d’alberi, in piena terra. Uno pare venisse fuori anche dal vecchio cimitero, dalla tomba scoperta di una giovine dama sepolta dal marito IL CONFERIMENTO A GRAZIA DELEDDA DEL PREMIO NOBEL 1926 PER LA LETTERATURA con tutti i suoi gioielli e un’anfora piena di monete d’oro.
Forse si poteva sapere qualche cosa di più preciso da Elia: ma il solo pensiero di riparlare con lui le destava ripugnanza e quasi terrore. D’altronde aveva promesso di non parlare con nessuno del segreto: e fermamente decise di non occuparsene più. Potevano anche crederla visionaria, come del resto appariva a molti; e lei stessa non era sicura di non aver intravveduto una delle sue tante fantasie romanzesche. Ad ogni modo non ebbe occasione di trovarsi più sola, per quel giorno, col vecchio stregone; il quale era ricaduto nel suo mutismo.
Quella notte, nel letto ben riparato della sua camera alta, Cosima sognò la nonnina. La nonnina era viva, tale quale s’era lasciata vedere l’ultima volta, col suo bel visino di santa, tutta agghindata piccola come una nana. Come una nana. Anche nel sonno Cosima ricordava l’offesa; e ricordava insieme, nitidamente, l’avventura di quel giorno e i suoi propositi eroici di non profittare mai del tesoro equivoco di Elia. Si vedrebbe se era una nana o una gigantessa. Verso la nonnina Cosima aveva un rimorso. L’ultima volta che era venuta a far visita in casa, ella non le aveva dato il caffè, non l’aveva quasi neppure salutata: adesso, nel sogno, si affaccendava a preparare la bevanda prediletta dalla cara vecchina, ma l’acqua bollente rigurgitava dalla cuccuma e spegneva il fuoco. «Lascia, bambina» diceva la nonna, con le manine intrecciate sul grembo, i grandi occhi color nocciola e la piccola bocca circondati da raggiere di rughe; «oramai non ho più bisogno di nulla». E d’un tratto, voltandosi, Cosima vide che la nonnina era vestita da sposa con un costume di orbace, scarlatto e broccato: il grembiale era ricamato a vivi colori, sulle punte davanti del corsetto verdeggiavano due foglie di palma. La benda che avvolgeva la piccola testa, bianca e un po’ inamidata, pareva di antico bisso. «Come sei bella, nonnina; adesso, sì, sembri davvero una fata.» Ma perché la vecchina era vestita così? «Ho ritrovato il nonno Andrea, e adesso siamo contenti, in Paradiso, sposi in eterno.» Il nonno Andrea, Cosima non lo aveva conosciuto, ma sapeva che anche lui era un giorno arrivato di lontano, chi diceva da Genova, chi diceva dalla Spagna, e s’era messo a lavorare la terra; e, anche dopo sposato, stava sempre in campagna, a lavorare i campi, in una valle aspra piena di macchie e di bestie selvatiche. Anche lui era selvatico, ma tanto buono che gli uccelli gli si posavano sul braccio, le serpi accorrevano al suo fischiare, quando alla sera si riposava davanti alla sua capanna e guardava le stelle. Anche i gatti selvatici gli facevano compagnia. La gente diceva che era un po’ matto; ma con questo nome la gente spiega il mistero degli uomini diversi dalla normalità.
Chissà che cosa vedeva il nonno Andrea, che conosceva altre terre e altri mari, negli occhi dei gatti selvatici, nelle piume iridate delle cornacchie, nella pelle argentata delle biscie che si sollevavano incantate dal suo fischio. Forse gli stessi fantastici riflessi che anche lei vedeva negli occhi degli animali, nelle foglie, nelle pietre. Adesso, nel sogno, si spiegava d’un tratto molte cose; lo stesso senso di vertigine, dello spalancarsi e richiudersi rapidissimo di un mondo anteriore, subcosciente, che la vista della nonnina viva le destava, adesso le appariva chiaro: era l’apparizione dello spirito sognatore del nonno, di cui la vecchina ancora innamorata portava l’immagine nella pupilla, e che era anche l’immagine di lei, di Cosima sognatrice.
Ma nessuno le aveva mai raccontato chiaramente donde egli era venuto; pareva che neppure la madre lo sapesse con precisione. E nel sogno confondeva il passato del nonno con quello del vecchio Elia, provandone un’angoscia paurosa: ma il nonno, questo ella lo sapeva benissimo, era morto povero in canna, lasciando nella sua capanna una famiglia di leprotti addomesticati; e questo la confortava. Tuttavia volle domandare alla nonnina notizie di lui. «Tutte fandonie», disse la vecchina, senza scomporsi: «egli non è venuto né da Genova né dalla Spagna: ci saranno venuti i suoi avi, forse, ma lui no. Egli arrivava da un paese di mare, sì, dove la gente è buona, e suo padre era pescatore: Andrea però non amava il mare, perché troppo sovente si cambia in mostro e divora gli uomini vivi: e aveva anche pietà dei pesci che vengono venduti e divorati anch’essi quasi vivi: certo, era un po’ sempliciotto, ma buono, cristiano e dolce. Giunse dunque qui, in cerca di lavoro, perché amava la terra che non tradisce e dà all’uomo le erbe e i frutti innocenti. Persino dei fiori egli aveva compassione; e gli uccelli e tutte le bestioline della valle, persino le bisce, persino gli scorpioni, gli diventavano amici. Questa è la sua vera storia». E questa storia, sebbene così semplice e raccontata in sogno, fece a Cosima un’impressione profonda, quasi come quella che le aveva lasciato il passaggio della coccinella sulla sua persona: più che tutte le storie di tesori, di passioni e di guerre fra i popoli.
Spesso si domandava se era religiosa, o superstiziosa, o visionaria e d’animo debole: ma sentiva in fondo che la sua rettitudine era una cosa superiore a tutte le forze sovrapposte dall’educazione e dalla crudeltà della vita. Si nasce, con questo dono di Dio, come gli uccelli nascono con la loro potenza di volo: e se ne rallegrava, pur senza leggere gli Evangeli e le laudi al Signore.
Quell’inverno, rigidissimo inverno, la fortuna parve un po’ sorridere alla famiglia così serena in L’ATTESTATO DEL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA, RILASCIATO A GRAZIA DELEDDA apparenza, così travagliata in realtà. Beppa era allora assai fanciulla: era intelligentissima anche lei, spregiudicata, allegra e lingua lunga. Trovava il lato ridicolo di tutti, cominciando da Cosima, e i suoi giudizi sul prossimo erano spietati. La madre le rinfacciava di averle tagliato il filo della lingua. Ma era bella, bianca, i capelli d’un castaneo dorato e gli occhi azzurri. Dava l’impressione di un fascio di fiori: rose e gigli, fioralisi e narcisi. E aveva spasimanti più che Cosima: tutti però alla larga, sempre per la triste ragione dei fratelli.
Quell’inverno però le capitò un adoratore più serio degli altri. Era niente meno che il direttore della Scuola Normale, pezzo grosso per la piccola città; un bell’uomo alto, roseo, già un po’ calvo ma ancora possente, con una parlantina che incantava anche i più imperterriti attaccabottoni del luogo. Organizzava poi feste da ballo, rappresentazioni, concerti e conferenze, per divertire e istruire i suoi giovani allievi, che lo adoravano. In una di queste riunioni vide Beppa, che vi era andata per un caso straordinario con la madre di uno degli studenti, e ne rimase colpito. Era un tipo diverso dalle altre ragazze del luogo: quasi sembrava della razza di lui, e forse fu questa specie di affinità che lo attirò. D’un colpo, con una facilità che rasentava la leggerezza, strana in un personaggio che rappresentava l’educatore, il guidatore dei futuri maestri di scuola, dichiarò a Beppa il suo amore e le chiese se voleva sposarlo. Ella rimase stordita: l’uomo non le piaceva, anzi le destava quasi ripugnanza così massiccio e carnale com’era, emanante dal viso, dal petto, dal ventre, già un po’ prominente, un calore animalesco: ma d’altronde l’occasione era ottima; il grande sogno di poter lasciare un giorno la piccola città per una più grande e la vanità di vendicarsi dei malevoli concittadini; e sopra tutto il pensiero di dare un conforto alla madre sempre melanconica e preoccupata. D’altronde la fanciulla considerava anche lei la cosa con leggerezza, e senza troppo consultare i parenti accettò la proposta.
L’uomo venne in casa a far visita: portò libri, mandò regali. Lo ricevevano le ragazze, e ridevano quando egli raccontava storie allegre, non troppo adatte per loro. Andrea avrebbe desiderato una domanda ufficiale fatta con regola, magari per mezzo di un autorevole paraninfo, come d’uso nel luogo; ma non osava opporsi alla progettata vicenda, e in fondo sperava che tutto andasse bene. Solo minacciava di bastonare le sorelle se per un attimo avessero lasciati soli i curiosi fidanzati. Neppure Cosima era contenta: ma anche lei provava un certo piacere per gli acri commenti delle famiglie del paese, per le invidie, i pettegolezzi, le maldicenze, che la fortuna di Beppa destava nell’intera contrada.
Si cominciò a dir peste del signor Direttore: che era un libertino, che teneva in casa una bella ragazza mora, che la faceva camminare carponi sui pavimenti e l’aizzava come una bestia: e, infine, che si burlava delle povere signorine che non avevano altra difesa che quella del selvatico fratello. L’uomo invece pareva innamorato sul serio: faceva regali, complimentava la futura suocera, congedò la cameriera mora per far cessare le chiacchiere, fissò lui stesso la data delle nozze. In ottobre, al ritorno dalle vacanze. E tutta la rendita di quell’anno, dai pascoli sul Monte all’olio del frantoio, dalle mandorle al sughero, fu, con volontario sacrifizio di Andrea, dedicata al corredo. Cucivano e ricucivano, le tre sorelle, tessendo sogni candidi come i fiori delle tovaglie e delle lenzuola. Ma un giorno il grosso fidanzato, che passava le vacanze nel suo lontano paese alpino, scrisse che era stato traslocato, che in ottobre non sarebbe tornato, sibbene più tardi, per le nozze. Poi le sue lettere si fecero rade: infine un giorno si presentò alla signora Francesca un avvocato, che era stato in relazione con lui per certi affari della scuola, e domandò a quanto ascendesse la dote di Beppa. Fu un colpo: ma questo era l’uso dei paesi del fidanzato. E, dopo tutto, la piccola dote che per l’eredità paterna spettava alla fanciulla, se la sarebbe goduta lei con la sua futura famiglia, Risposta: sarà assegnata a Beppa la sesta, mettiamo pure la quinta parte del patrimonio: circa venticinquemila lire in terreni poco redditizi. Torna, dopo otto giorni di grigiore e d’attesa, il messaggero flemmatico: il fidanzato si lamenta, dice che la vita è difficile, che non vuol fare cattive figure, né provocare privazioni alla futura sposina: bisogna che la dote sia almeno di cinquantamila lire, non solo, ma che ventimila siano in titoli garantiti.
Andrea fu preso da un furore sanguigno. Quel bestione, dunque, quel porco grasso e vile, non era entrato in casa delle sorelle per amore, ma per interesse, e adesso tentava quasi un ricatto, poiché sapeva che il matrimonio andato a monte avrebbe maggiormente screditato le povere ragazze. Parlò di andare a scovarlo, di ammazzarlo con la lesina come un maiale vero; ma la madre piangeva, e Cosima dichiarò che avrebbe ceduto alla sorella la sua parte di eredità. Si cercò di vendere qualche cosa, ma le offerte erano irrisorie, e d’altronde non si poteva spogliare l’intera famiglia, già tanto impoverita e quasi bisognosa.
Fu allora che Cosima, visto l’avvilimento della madre e della stessa Beppa che deperiva per l’umiliazione e la delusione, fu raggirata dal demonio. Pensò al tesoro di Elia, all’offerta di lui, alla possibilità di accettarla: ma poi il solo pensiero l’atterrì. Mai, mai: avrebbe voluto flagellarsi per scacciare anche il semplice ricordo del maledetto tesoro. Eppure la tentazione, in fondo, non l’abbandonava: le diceva: «Sei una stupida, una che nella vita non avrà mai bene, e mai potrà procurarlo a chi ama. E chi dice, del resto, che i denari del vecchio non siano suoi? Va, cerca di saper meglio, indaga, cerca, cerca...». Le sembrava di essere aizzata come un cane alla caccia della selvaggina: ma non si moveva, più che mai ferma nel proposito di tener la promessa fatta al vecchio, di non rivelare a nessuno il segreto di lui. Se egli era colpevole, lo era davanti a Dio, e potevano intendersela fra di loro. Per sfuggire meglio alla tentazione, rinunziò anche di andare quell’anno alla vendemmia: persino la madre, tormentata dai pensieri della triste faccenda, stette appena tre giorni nella vigna. Il fidanzato non scriveva più, l’avvocato non si faceva vedere: il corredo già pronto venne chiuso in una cassa, come un morto. Andrea era cupo, preoccupato, più che per il dispiacere, per il discredito della famiglia: quando veniva in casa, le sorelle si nascondevano quasi con paura, come colpevoli delle cose accadute. Ai primi di novembre Cosima rivide in sogno la piccola nonna: era sempre vestita da sposa, col rosario di madreperla fra le mani di bambina. E Cosima aveva sempre il rimorso di non averle dato il caffè, l’ultima volta che era venuta, e si affaccendava a prepararlo: ma la bevanda rigurgitava dalla caffettiera e spegneva il fuoco. «Lascia stare», disse la nonnina: «noi, di lassù, non abbiamo bisogno di nulla. Sono venuta solo per un salutino, e ti porto anche i saluti di Francesco». Francesco era il nome del fidanzato di Beppa: pareva che la nonnina scherzasse crudelmente; ma poi si seppe che proprio quella notte, poco prima dell’ora del sogno di Cosima, il commendator Francesco era morto, dopo appena tre giorni di polmonite. Così secondo la misericordia divina, prendeva anche lui parte alla famiglia: e le cose questo mondo erano appianate.
E fu proprio in quei giorni che Dio parve compensare Cosima in altro modo più consolante. Una grande rivista straniera domandava la traduzione del romanzo Rami caduti e offriva una discreta somma. Inoltre desiderava notizie biografiche della scrittrice, perché la traduzione doveva essere preceduta da una nota critica. Ad occhi chiusi, sempre con l’impressione di sognare, Cosima accettò. Aveva persino paura della sua fortuna: non avrebbe dovuto scontarla con altri guai? Ed ecco arrivare la somma, e alla posta le viene pagata in monete d’oro, simili a quelle del tesoro di Elia. Ella le guardava quasi spaventata e non osava toccarle; le fece cambiare in biglietti di banca, e parte le depositò in un libretto postale; ma quando la madre vide il denaro lo guardò quasi torva: le sembrava frutto di un peccato mortale.
— Ebbene, — disse Cosima, — lo spenderò: non voglio mettere più da parte niente; e i miei guadagni se ne vadano come foglie al vento.
Ed ecco l’occasione presentarsi: una sua ammiratrice, dirigeva una rivistina letteraria nella città di ***, sul mare, la invitò ad andare ospite in casa sua: ed ella vi andò, nonostante i terrori della madre ed i brontolii di Andrea, che volle almeno accompagnarla per un tratto del viaggio, in ferrovia, e quando la lasciò gli parve di averla imbarcata sull’Atlantico. In fondo anche lei si sentiva smarrita. Dove andava? Che voleva? Come Cappuccetto Rosso in mezzo al bosco aveva l’impressione d’incontrare il lupo; ma in fondo sperava di cavarsela bene, poiché aveva la coscienza tranquilla, e l’ombra del male era simile a quelle grandi ombre di nuvole già invernali che salivano dai monti scuri e lambivano le valli solitarie lungo le cui coste correva il trenino che sembrava un giocattolo. Il cielo era grande, di un azzurro carico, e le nuvole correnti, spinte da un caldo vento di scirocco, lo facevano apparire più alto, più turchino. A Cosima, affacciata al famigliare ballatoio del treno, sembrava un cielo straniero, inospitale, mentre la terra, sotto di lei, aveva ancora l’aspetto materno, ch’ella ben conosceva: le stesse chine coperte di erba tremula, le macchie, le pietre, le quercie indurite dal dolore dei secoli e dalla loro resistenza al tempo e agli elementi. I piccoli villaggi neri, accovacciati come cornacchie sui loro nidi di roccie, apparivano e sparivano nella luce cangiante della lontananza: qualche pastore con la sua greggia si profilava sull’orlo verde di un ciglione, e le pecore si spostavano come l’ombra delle nuvole al passare del treno: e Cosima aveva l’impressione che tutto il paesaggio si movesse per la sorpresa di veder lei a muoversi, ad andare verso una nuova vita.
A misura che si scendeva verso le pianure marine il clima mutava completamente: si era ancora ai primi di autunno, laggiù; il cielo, sgombro di nuvole, si faceva chiaro, verdognolo, e d’un tratto Cosima lo vide riflesso in uno specchio d’acqua che le ricordò la vasca della vigna: era uno stagno. Uccelli mai veduti, grandi, con le ali iridate, si sollevarono dallo stagno, come sgorgassero dall’acqua, e disegnarono sul cielo una specie di arcobaleno: forse un miraggio: a lei parve lieto auspicio.
E la prima persona che vide, quando il treno si fermò in una stazione che pareva, col suo giardino di palme e in fondo un arco di quel luminoso cielo smeraldino, un’oasi civilizzata, fu un giovine vestito di un color marrone dorato, con due meravigliosi baffi dello stesso colore e gli occhi lunghi orientali. La guardò come se la conoscesse, e anche a lei parve di averlo già veduto in qualche posto: dove? non sapeva; e dopo tanti anni provò ancora quel misterioso senso di vertigine che nell’infanzia e meno spesso nell’adolescenza le destava la presenza della nonna. Ma una piccola folla invadeva il marciapiede, e l’uomo scomparve. Una signora vestita in modo quasi buffo, tutta volanti e frangie, con un cappellino a sghimbescio sui radi capelli gialli, balzò verso la fanciulla, la prese quasi a volo sul predellino del vagone, la strinse al suo petto scarno, le coprì il viso di baci: i suoi occhi di un azzurro di porcellana erano stillanti di lagrime che le colavano sul naso aquilino e si confondevano con la saliva che le schizzava dalla bocca. E con un singhiozzo convulso chiamava a voce alta la fanciulla col suo nome e cognome, tanto che Cosima si vergognò: la gente la guardava, qualcuno doveva già conoscere quel nome e quel cognome, e salutava, fra il rispetto per lei e la beffa per la sua chiassosa ospite. Avrebbe voluto risalire sul treno e tornarsene a casa: ma era destino che quel giorno ella dovesse cominciare a conoscere le tribolazioni della celebrità, perché all’arrivo nella casa dell’ospite, — un grazioso palazzo tutto balconi, di fronte a un giardino e a una chiesa, — lungo la scala di marmo con la ringhiera ornata di tralci verdi, vide con mite terrore una fila di bambine e giovinette, quasi tutte vestite di bianco, con mazzolini di fiori in mano. Sembrava la scala del Paradiso, vigilata da angeli senza ali: e mentre il facchino scaricava dalla carrozzella la modesta vecchia valigia di Cosima, reliquia di famiglia, e la stessa donna Maria, l’ospite palpitante, s’incaricava di portarla di sopra come un prezioso tesoro, le ragazzine intonarono un coro che pareva insegnato loro da un’abile maestra. La maestra era stata donna Maria, e gli angioletti erano tutte le fanciulle che abitavano nel palazzo.
A questo punto bisognava assolutamente mostrarsi commossa, e, potendolo, fare, dall’alto della rampata della scala, un discorso di ringraziamento. Cosima si coprì il viso col fazzoletto, ma non poté piangere né parlare. E del coro, composto in suo onore, non le rimase in mente che il motivo monotono e quasi triste, che si confondeva con un rumore lontano, da lei non ancora mai bene inteso, che le pareva quello del pino nella vigna. Era il rumore del mare.
Era lì, il mare, in fondo alla larga strada, che costeggiava una fila di case nuove bianche abbaglianti. Cosima aveva sempre più l’impressione di trovarsi in una città orientale: palmizii, cactus ed altri alberi esotici si movevano pesanti su quel cielo caldo, sullo sfondo turchino del lido. Sui balconi fiorivano i garofani; un odore di erbe aromatiche scendeva dalla collinetta coperta di pini che chiudeva l’orizzonte di fronte alla strada. E la gente era tutta fuori, come nelle sere d’estate; e canti e suoni di mandolino continuavano, di fuori, il coro in onore di Cosima: così a lei sembrava, ma invece di orgoglio ne provava quasi paura.
Dopo averla rimpinzata di dolci e bevande, la sua ospite, che continuava a baciarla e quasi a leccarla come un cane che ha ritrovato il padrone, la lasciò sola nell’appartamento ov’ella abitava col paziente marito che era impiegato in un’azienda privata. Aveva destinato a Cosima la camera più bella, col balcone, quella appunto donde si vedeva il mare: e le lasciava libero anche il salotto, pieno di fiori di carta, di vasi incrinati, di tovagliette, di oggetti di cattivo gusto.
— Qui potrai ricevere i tuoi amici, i tuoi ammiratori.
Ma Cosima non aveva amici, e si atterriva al solo pensiero di averne uno solo. Di ammiratori, poi, non ne voleva: le pareva di esser già, per lunga esperienza, scottata da loro. Eppure d’un tratto sentì suonare alla porta dell’ingresso, e senza pensarci su tanto aprì. Era il garzone di un fioraio, che portava un grande mazzo di rose rosse, avvolte nella carta velina. Per lei? Proprio per lei: ma non si sapeva da parte di chi. Ella stette a guardarle quasi con la sorpresa paurosa con cui aveva guardato nel pugno di Elia le monete d’oro: e il profumo quasi violento delle rose, e il loro colore, le parvero vivi, caldi, sanguinanti: più che dal coro delle fanciulle e dal ronzio delle musiche della strada, sentì da quell’alito quasi carnale venirle incontro la vita: ma quando si decise a prendere il mazzo dalle mani del garzone che la guardava con occhi maliziosi, si sentì pungere da una spina acuminata: e pensò che la vita anche sotto l’illusione delle cose più belle e ricche, nasconde le unghie inesorabili.
Mise le rose in uno dei vasi del salotto, e tornò al balcone: sì, era come d’estate; una grande luna rosea saliva dai pini dell’altura, e il cielo e il mare, fra due palmizi che luccicavano come le palme dorate dalla stagnola, usate per la Pasqua nel paese di Cosima, si confondevano in un colore di smeraldo azzurro. I bambini, nella strada ancora bianca, giocavano al gioco dell’ambasciatore venuto a domandare una sposa: ed ella si sentiva trasportata nel loro cerchio, come la piccola sposa richiesta dall’ambasciatore per un misterioso grande personaggio.