Cosima/VI
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VI
L’estate era certamente la stagione più bella, per Cosima sopra tutto. Grande era il caldo, a giorni, ma un caldo secco, che alla notte si placava in un senso di straordinaria dolcezza. Arrivavano allora, dalla valle e dai campi mietuti, odori di stoppia, di cespugli aromatici; e le voci delle donne accoccolate nella strada a godere il fresco risonavano con bassi accordi musicali. Lunghi erano i vesperi, rossi, glauchi, violetti sopra la montagna, e se la luna spuntava sopra le roccie il suo chiarore si fondeva con quello dell’ultimo giorno in un crepuscolo quasi orientale.
E poi era la stagione in cui Antonino tornava per le vacanze. Cosima aspettava questo ritorno come altri aspettano la primavera o il fare del giorno. Quell’anno, poi, alla sua attesa si mischiava una vaga paura: paura che Antonino avesse saputo la grande novità, che anche lei era diventata una scrittrice, una candidata alla gloria, e che sorridesse di lei, con quel suo ironico sorriso di famiglia, velato però, in lui, da una finissima melanconia, come quella dei grandi, dei veramente grandi e forti, per i piccoli e deboli. In fondo non le importava gran che, ferma nella sua ambiziosa sicurezza di non aver bisogno di forze diverse dalle sue per andar diritta nella strada che Dio stesso le aveva tracciata: e da Antonino non sperava niente, non solo, ma non voleva niente, neppure che egli sospettasse del suo amore per lui. Amore. La parola era finalmente sbocciata, nel cuore e sopra tutto nella coscienza di lei, da quel giorno sulle rocce: come sboccia la rosa rossa e fragrante che basta a illuminare un giardino desolato.
Eppure il corpo di Antonino non esisteva per lei; e neppure il lontano desiderio, neppure per istinto, di un solo bacio di lui, le vibrava nel sangue. Di lui non conosceva che la linea, una linea quasi azzurra, poiché egli vestiva quasi sempre di colore turchino chiaro, quasi soffusa del chiarore della lontananza in cui egli le appariva, anche se in realtà la sua figura spuntava in fondo alla strada solitaria.
Egli doveva attraversare per forza quella strada, per scendere dalla sua casa al centro del paese: ella lo sapeva, e lo aspettava alla finestra, ma appena la figura di lui appariva ella si nascondeva.
Ma questa volta ella lo vede sotto una luce LO SPOSO diversa, su uno sfondo che ha del fantastico. Era andata, con la sorella Pina, a trovare le loro amiche, cugine di Antonino. La serva le ha accompagnate, consegnandole alla signora Lucia, con la promessa che sarebbe andata a riprenderle verso sera. È poco, eppure è una festa per Cosima, che può respirare l’aria del cortile e della vigna di Antonino. Come si è detto, le case delle quattro famiglie si aprono tutte su questo grande cortile arioso, lastricato bene, con panchine di granito poggiate al muro, accanto alle porte. Quella della signora Lucia è a un solo pianterreno, ma le stanze sono comode, e c’è anche il salotto, col tavolino rotondo in mezzo, e il sofà con la spalliera ricoperta da una trina all’uncinetto. Le ragazze vi si raccolgono e cominciano a pigolare: anche l’amica di Cosima e quella di Pina, della stessa età, sono piccoline, brune, intelligenti e lingue lunghe. Finito di parlar male delle comuni conoscenze, cominciano a punzecchiarsi scambievolmente, con istintive malignità e derisioni. Le due ragazze M. vestono bene, perché il padre è impiegato al Tribunale ed ha una sorella a Sassari, dove spesso le ragazze passano qualche settimana e apprendono le eleganze cittadine. Oggetto della loro beffa sono quindi i goffi vestitini delle altre due, fatti dalla sarta paesana. Giallo, con guarnizioni rosse, quello di Cosima, che parrebbe ridicolo e pure dà risalto al suo viso pallido e ai folti capelli neri.
— Sembri una ciliegia che comincia a maturare, — le dice l’amica Lenedda, e Cosima arrossisce e tace, ma la sorella Pina, squadrando il vestito verde e nero dell’altra, ribatte:
— E tu sembri una vipera.
L’altra ride; dice:
— Non mi ricordavo che ti hanno tagliato il filo della lingua.
Infatti era vero: da piccola Pina balbutiva poiché lo scilinguagnolo sotto la sua lingua era eccessivamente corto: e le fu tagliato; cosa che tutti, per il resto della vita, le rinfacciarono.
— A te non occorreva tagliartelo, il filo della lingua: anzi bisognerebbe ricucirlo.
Risero, le ragazze, perché in fondo erano allegre e si divertivano delle loro stesse malizie: fu portato il caffè, e si riprese a parlar male delle altre cugine, le sorelle di Antonino, che spiavano dalle finestre di faccia, ma non si degnavano di venire a salutare le piccole borghesi. Poiché esse vestivano in costume, sì, ma in modo sfarzoso, ed erano più ricche delle altre, in modo che la loro madre diceva convinta:
— Per le mie figlie occorrono uomini in alto, fieri e potenti.
Invece la maggiore, molti anni più tardi, sposò un possidente paesano, e la minore un ricco commerciante.
Quel giorno, esse non si unirono alla compagnia delle nostre ragazze neppure quando, verso il tramonto, le quattro amiche uscirono nella vigna attigua alla casa. Bellissimo era il luogo in pendìo sopra la valle, in faccia ai monti arrossati dal sole calante: un muricciuolo lo separava dal sentiero che andava a perdersi verso i pendii di un’altra valle, a nord, e su questo muricciuolo, di contro uno sfondo di cielo abbagliante come una lamina d’oro, sedeva, con un giornale in mano, l’agile Antonino.
Quando dal fondo del vialetto della vigna Cosima lo vide, si piegò in avanti come dovesse cadere, chiudendo gli occhi quasi con angoscia. Ella non sapeva che era tornato, come del resto non lo sapevano neppure le cugine di lui, che lo guardarono con curiosità insolente e gli corsero incontro senza salutarlo battendogli i pugni sulle ginocchia. Egli le respinse, preoccupato solo per la piega dei suoi pantaloni, e non avrebbe neppure smesso di leggere senza la presenza delle altre due ragazze. Stentò un po’ a ricordarsi chi erano, ma quando ebbe riconosciuto bene Cosima balzò in piedi e la salutò, con quel suo sorriso dolce, stanco e beffardo che gli sollevava il labbro sopra i denti luminosi. Tutto era luminoso, in lui, in quel momento, e la luce d’oro del tramonto pareva scaturisse dai suoi occhi, dal suo viso bruno, dai capelli raggianti. Per tutta la sua vita Cosima lo ricordò così: e basta ancora che pensi a lui per sentire una gioia misteriosa, fatta di luce e di angoscia, come si prova soltanto al primo rivelarsi della vita cosciente, anche se l’immagine della vita sorrida come in quell’attimo sorrideva Antonino. Eppure, in fondo al suo pensiero rimaneva il ricordo delle sue prime esperienze d’arte, e aspettava con orgoglio che il giovane accennasse alla sua novella, pronta a difendersi se gliela derideva. Ma pareva ch’egli non sapesse nulla: o almeno non accennò nulla. Domandò solo di Santus, e disse che sarebbe andato a trovarlo. Cosima arrossì; egli se ne accorse e non insisté. Poi le due ragazze minori essendosi allontanate, rimasero accanto al muricciuolo le due maggiori, e Lenedda cominciò a stuzzicare Antonino, permettendosi di pigliarlo in giro, per il modo con cui vestiva, e perché i capelli gli lucevano troppo.
— Ti sei messo l’olio di lentischio, come le donne di Oliena. A chi vuoi piacere, in questo paese di selvaggi? Qui, dame non ce ne sono.
Cosima abbassava gli occhi. La speranza ch’egli volesse rispondere alla cugina, sull’argomento scottante, le faceva battere il cuore: ma egli non badava a Lenedda più che alle pietre del muro sul quale si appoggiava: però si passava la mano bianca, con le unghie che riflettevano l’oro del tramonto, sui capelli divisi da un lato da una sottile scriminatura candida, e se li tormentava come per dimostrare che non erano lucidi per artifizio.
— E poi, perché non hai il corpetto? L’hai perduto? La tua camicia sembra la camicetta di una donna.
Cosima taceva, mortificata e offesa per lui, e provò una gioia cattiva quando egli allungò il giornale e lo sbatté più volte sulla testa della cuginetta insolente: ma non fu tutto: allorché Lenedda, con un piccolo salto felino tentò di tirargli i capelli, egli l’afferrò per un braccio, la fece girare intorno a sé come una trottola, la spinse costringendola a scendere di precipizio nel vialetto in declino. Ella strillava come una ghiandaia, e lui non rideva, tutt’altro, anzi stringeva un po’ crudelmente i denti, e continuava ad agitare il giornale, come avesse un gran caldo. Cosima stava lì quasi tramortita, e avrebbe voluto non assistere a quella scena. Poiché il suo idolo si scomponeva alquanto; eppure se egli avesse fatto su di lei lo scempio toccato alla cugina, ne sarebbe stata paurosamente felice. Egli però le mostrava, pur con la sua indifferenza, il massimo rispetto; non solo, ma ella aveva l’impressione che la lezione data a Lenedda fosse in suo omaggio, per non essere diminuito agli occhi di lei. Ad ogni modo ella respirò quando egli, dopo averla salutata con un lieve cenno del capo se ne andò senza far più caso degli strilli della cugina.
Ma ella doveva incontrarlo ancora in condizioni più felici, insperate e quasi favolose. Sopra la piccola città, che era già a seicento metri sul livello del mare, sulla cima dell’Orthobene, sovrastante fra boschi di lecci e rocce di granito, poco distante dalla proprietà della famiglia di Cosima e da dove per la prima volta ella aveva veduto il mare lontano, sorgeva una piccola chiesa detta appunto Madonna del Monte, su uno spiazzo sollevato e recinto di massi. Piccole stanzette erano addossate alla chiesa, sotto lo stesso tetto, e una specie di portichetto si apriva davanti alle due porte, una a mezzodì l’altra a ponente, con sedili in muratura tutto intorno. Nelle stanzette dimoravano i fedeli, durante il periodo della novena e della festa della piccola Madonna. La leggenda raccontava che un vescovo, forse di Pisa, nel viaggiare per la sua visita pastorale nell’isola, colto da tempesta, aveva promesso, se il naviglio si salvava, di erigere un santuario sulla prima cima di montagna apparsa all’orizzonte. E immediatamente il mare si era calmato, e una cima rocciosa era emersa fra le nuvole sopra l’isola. Lo zio di Cosima, il tabaccoso prete Ignazio, che aveva una parrucca rossa con la chierica, fungeva da cappellano della chiesetta. La sorella Paola lo accompagnava: avevano per loro uso, oltre la piccola sagrestia, nel cui armadietto zia Paola nascondeva i dolci per sottrarli all’avidità dei ragazzi, una stanzetta pulita per il prete, con una branda e il materasso, e una vasta grezza stanza col pavimento sterrato e tanti piuoli fissi al muro per attaccarvi le robe. In questo primitivo ambiente, che aveva della capanna e della caverna, e riceveva luce solo dalla porticina aperta sul bosco, Cosima quell’anno, poiché la zia Paola l’aveva invitata con le sorelle a trascorrere con lei il tempo della novena, passò i giorni più belli della sua vita. Fu proprio un sogno, bello, completo, pieno di cose misteriose, come i veri sogni. Il viaggio, circa due ore di salita per un sentiero appena tracciato fra i dirupi, gli avvallamenti, il bosco, fu attraversato a piedi dalle ragazze pazzamente felici ed ebbre di quella meravigliosa mattina di agosto, mentre un carro tirato da buoi e carico di masserizie e provviste, le seguiva traballando sui sassi e gli sterpi. La prima sosta, breve, fatta non per stanchezza ma per divertimento, fu al cominciare del bosco fitto, sotto una strana pietra poggiata su altre e detta la tomba del gigante. Sembrava una grande bara, di granito, coperta da un drappo di musco, solenne nella vasta solitudine del luogo. Un tempo, diceva la leggenda, i giganti abitavano la montagna, e uno di essi, a turno, vigilava l’ingresso della foresta: l’ultimo, si stese per morire sulla pietra di confine, che si richiuse su di lui e ancora custodisce il suo corpo.
Era davvero, quello, l’ingresso al mondo degli eroi, dei forti, di quelli che non possono concepire pensieri meschini; e Cosima toccò il masso, come in altri luoghi, abbelliti di leggende sacre, si tocca la pietra dove si sia riposato qualche santo.
Il sogno confuso della fanciulla era già illuminato da un desiderio, oltre che di purezza, di cose grandi, al di sopra delle difficoltà quotidiane: e le sembrava davvero, riprendendo a salire il sentiero tra le felci e le chine già morbide di capelvenere e di sottilissime erbe di montagna, all’ombra dei grandi elci patriarcali, di evadere dal suo piccolo mondo e ritrovarsi fra i giganti che vivono alti sino quasi al cielo, compagni dei venti, del sole e degli astri.
Una seconda tappa fu alla sorgente d’acqua pura e luminosa come il diamante, che scaturiva in una piccola conca di pietre e si spandeva modesta e quasi furtiva fra l’erba calpestata e fangosa, in un cerchio di lecci qua e là arrampicati sulle cime azzurre. Già si sentiva il grido delle ghiandaie, e l’aria sembrava un liquore profumato di menta.
Le ragazze s’inginocchiarono sulla pietra e si protesero a bere nella fontana: e nel piccolo specchio d’onice dell’acqua in ombra Cosima vide i suoi occhi che le parvero della stessa miracolosa luce: luce che scaturiva dalla profondità della sua terra e aveva un giorno riflesso davvero l’anima assetata di divinità dei suoi avi pastori e poeti.
La realtà doveva consistere nell’abitazione che, simile alla capanna scavata fra le rocce dai medesimi avi, aspettava questa nuova tribù di fanciulle che anelavano allo spazio del mondo lontano, alle città affollate e rumorose. E le sorelle di CON IL PRIMOGENITOIL SECONDO FIGLIO Cosima si rivoltarono, sul principio, nel vedere che il giaciglio, in comune con la zia Paola, era steso per terra, fatto di uno strato di felci, di coperte, cuscini e grosse lenzuola; che gli armadii erano i piuoli e, per lavarsi, c’era in un angolo, su una panchina di pietra, accanto alla brocca per bere, un vaso di creta; e per ribellarsi, ma anche divertirsi, cominciarono a rotolarsi sul giaciglio, scovarono la parrucca dello zio Ignazio, che viveva nella stanzetta accanto, e ne fecero scempio. Ma poi uscirono nel bosco e si confortarono con lo sfarzo del meraviglioso luogo pieno di recessi, di divani coperti di musco, di quadri e broccati mai visti così belli, dei quali erano ricchi gli sfondi.
Solo Cosima non era disillusa: anzi l’interno dell’abitazione, col suo odore di umido e di felci, coi suoi arnesi trogloditici, con quella porticina coperta dalla tenda sul verdone del bosco, quei sedili di pietra grezza, quell’anfora di creta e i recipienti pastorali fatti di sughero e di corno, le diedero uno strano senso di ricordanze remote, come quello che provava da bambina incosciente nel veder apparire la piccola nonna materna, – la nonnina che partecipava della natura delle fate nane della tradizione locale, che abitavano nelle casette di granito in mezzo ai monti e sugli altipiani rocciosi: – e prima di raggiungere le sorelle si diede da fare per rendere più abitabile la primordiale dimora. Cominciò con l’appendere i pochi vestiti suoi e delle sorelle ai piuoli, coprendoli con uno scialle per preservarli dalla polvere e dalla curiosità degli estranei; stese davanti al giaciglio, dalla parte dove avrebbero dormito loro, a mo’ di tappeto, un lungo sacco di lana che invero ne aveva lo spessore; nascose le scarpe in un cestino, e infine, con un piccolo specchio e una mensoletta che aveva previdentemente portato da casa sua, preparò la toeletta. Intanto, fuori, il servo di zia Paola costruiva una capanna di frasche, abbastanza alta e larga, che doveva servire da cucina. Avevano portato un fornello a mano e un sacco di carbone; ma la serva volle dietro la capanna, in un angolo riparato, una specie di focolare di pietre e dichiarò che avrebbe cucinato col fuoco di legna. E queste non mancavano davvero a portata di mano, quali erano e pronte ad accendersi come torcie. Anche alcune sedie e un tavolo erano stati portati sul carro; e il tavolo avrebbe dovuto servire per i pasti e per scrittoio a prete Ignazio, ma egli non intendeva perdere neppure un minuto per impugnare la penna; e così il tavolo fu collocato nella stanza grande, accanto alla luce della porta e servi, sì, per i pasti, ma anche da scrittoio a Cosima. Oh, e ben il calamaio ella aveva portato, avvolto in uno straccio nero e ficcato dentro una scarpa perché nel transito non si rovesciasse; e trovò anche, nella primordiale dimora, una specie di nicchia, che avrebbe dovuto servire per qualche lumino e qualche immagine sacra, e della quale, invece, ella si servì per deporvi il calamaio, la penna, il suo scartafaccio e alcuni libri, formandone così un altarino per i suoi misteri d’arte.
Poi raggiunse le sorelle nel bosco; e furono ore e poi giorni di appassionata gioia. Non fu tutto un sogno? Uno di quei sogni che bastano a illuminare una vita, anche negli angoli più ombrosi, come il sole e la luna illuminavano, in quei favolosi giorni di agosto, la boscaglia di elci intorno alla miracolosa chiesetta. Che importava l’umiltà e la rozza accoglienza della capanna? Serviva di rifugio solo nella notte, e a Cosima nelle ore delle sue scritture; il rumorìo del bosco la copriva col suo suono di organo, e la luna col suo drappo d’argento. E le ragazze dormivano cullate da quella musica che non aveva l’eguale poiché era la musica della fanciullezza che risuona una sola volta nella vita. Ma per Cosima era qualche cosa di più grande e trepido: era tutta una rete di mistero, uno svolgersi di cose sorprendenti, come se ella galleggiasse in un fondo oceanico, circondata, non dal selvaggio bosco di elci e dalle roccie fantastiche, ma da tutte le meraviglie delle foreste sottomarine.
E tutto questo, oltre la reale dolcezza del soggiorno, allietato dalla libertà e dallo spazio del luogo, dalla bellezza del paesaggio e delle lontananze e dai semplici svaghi della poca gente che dimorava intorno alla chiesetta, dipendeva dalla presenza, in una delle stanze verso la parte opposta di quella del cappellano, della famiglia di Antonino. Egli non c’era, ma doveva pure qualche giorno venirci, come tutti gli altri giovani della città, che anche se i loro parenti non erano lassù, combinavano gite e passavano anche la notte nel luogo incantevole, accendendo grandi fuochi, combinando cene e balli, bivaccando sotto gli alberi e facendo la corte alle ragazze; doveva arrivare; e la sola speranza di vederlo, anche alla sfuggita, in quello sfondo che era lo sfondo stesso della Poesia, riempiva l’animo di Cosima di una gioia senza limiti. Ma ella non andava mai dalla parte ove la famiglia di lui abitava, e ne sfuggiva le sorelle come per paura che indovinassero il suo segreto e la sbeffeggiassero, o semplicemente perché il suo segreto era per lei grande e sacro come un tabernacolo che nessuno doveva profanare. Ed ecco egli arriva davvero, un giorno: è solo, a piedi, con una fronda in una mano e il cappello di paglia nell’altra. Cosima, che vigilava sempre sul sentiero dall’alto di una roccia, lo vede salire un po’ stanco, frustando le felci con la sua fronda: le sembra scontento e disincantato, e pensa che, certo, il luogo, per quanto pittoresco, non è degno di lui: per lui occorrono i parchi coi viali lisci come il velluto, le scalee e le terrazze delle ville principesche, le fontane e le grotte artificiali dei giardini settecenteschi, come ella li ammirava nelle riviste illustrate. E GRAZIA NELLA SUA CASA DI ROMA sentì quasi pietà di lui, decisa a nascondersi per non aumentargli il malumore che doveva provare. Eppure la sola idea che egli era lì, nell’umile portico dove le sorelle gli servivano il caffè, illuminava ancora di più, se era possibile, il paesaggio intorno: e le felci toccate da lui scintillavano come palme dorate, e il cielo era più vasto e azzurro.
Incantesimi della fanciullezza, che nel ricordo dànno un’idea di quello che debba essere un giorno, per l’anima che ci crede e lo aspetta in ricompensa degli innumerevoli disinganni della vita, il regno di Dio sulla terra.
Adesso Cosima è di nuovo nella sua casa melanconica, dove ogni cosa, dopo il ritorno dalla montagna, ha preso un aspetto più triste, quasi di decadenza, o meglio di appassimento, un colore umido di autunno, un odore funebre di crisantemi. Ella ha freddo, nell’alta stanza dalla cui finestra si vede il Monte, già anch’esso coperto di nebbia: il grido dei corvi annunzia l’inverno. Ma ancora ci sono, per lei, momenti nei quali il cielo torna a spalancarsi, e un tepore primaverile le scalda il sangue. Ella scrive: piegata sul suo scartafaccio, quando le sorelle tengono a bada la madre, e Andrea è fuori in campagna, e Santus dorme uno dei suoi soliti terribili sonni, ella si slancia nel mondo delle sue fantasie, e scrive, scrive, per un bisogno fisico, come altre adolescenti corrono per i viali dei giardini, o vanno a un luogo loro proibito; se possono, a un convegno d’amore.
Anche lei, nelle sue scritture, combina convegni di amore: è una storia, la sua, dove la protagonista è lei, il mondo è il suo, il sangue dei personaggi, le loro ingenuità, le loro innocenti follie sono le sue. Il titolo del libro non può essere che quello che è: Rosa di macchia. E un giorno, quando è finito, ella lo sente palpitare vivo fra le sue mani fredde, come un uccello che le sguscia fremente fra le dita e vola a batter le ali contro i vetri chiusi della finestra.1
Ella non esita a cercare il modo di liberarlo, lasciarlo andar via per gli spazi infiniti. Scrive all’editore della rivista di mode, e l’uomo, che ha l’intelligenza istintiva e il cuore grande del lavoratore sbocciato dal popolo, capisce con chi ha da fare. Risponde che gli mandi il manoscritto.
Cosima si stacca con dolore ed orgoglio dalla famiglia dei suoi personaggi, e la manda per il vasto mondo. Il plico del manoscritto è accuratamente involto in tela e carta, con una rete di spaghi che deve resistere al lungo viaggio di terra e di mare: ed è anche raccomandato: tutte spese che Cosima non può sopportare col suo scarno bilancio personale composto dai pochi centesimi che la madre le dà ogni domenica. Ma poiché è necessario andare avanti a tutti i costi, ecco che la scrittrice, la poetessa, la creatura delle nuvole, scende in cantina e ruba un litro d’olio: è facile, questa ladroneria, perché lei e le sorelle, quando la madre e la serva sono occupate in cucina, e qualche donna viene a comprare olio o vino, non sdegnano di servirla. Arriva dunque la donna di servizio della famiglia del cancelliere del Tribunale, che abita da pochi giorni la casa della zia Paola, in fondo alla strada, e compra un fiasco d’olio: Cosima riceve la somma, in piccole monete di argento da mezza lira l’una: a lungo, andata via la donna, ella tiene quei semi bianchi entro il pugno, fino a scaldarli; ha scrupolo, ha paura, anche un po’ di vergogna; ma poi pensa che un familiare non esita a intascare metà del fitto del bosco e del provento delle mandorle, per sprecarlo col gioco e con le donne, e divide anche lei le monete: metà alla casa, metà alla gloria. È vero che poi rivelò il peccato al confessore, dicendo di aver rubato, senza però riferirne il motivo: e per penitenza digiunò il venerdì e il sabato.
Presto arrivarono le bozze di stampa del romanzo. Cosima non sapeva con precisione di che si trattasse: credette che l’editore le mandasse un campione, e si meravigliò che le pagine fossero lunghe come le colonne di stampa dei giornali. Le tenne lì, trovando buffo e quasi allucinante quel trasformarsi del suo lavoro. Il suo nome, in cima, sovrastante al titolo, le dava quasi soggezione: le pareva fosse troppo esposto alla curiosità del lettore. Non vedendo ritornare le bozze l’editore scrisse quasi seccato, richiedendole corrette. Allora Cosima si decise a correggere i molti errori di stampa, e sentì la prima tortura di ricercare le doppie lettere sul frusto vocabolario che era appartenuto a suo padre e ancora aveva odore e macchie di tabacco da naso; ma le correzioni ella le fece in un modo nuovo, mai veduto, cioè non sul margine del foglio, sibbene sul corpo stesso delle parole errate; talché ne germogliò una fioritura selvatica di sgorbi, un groviglio che terrorizzò il tipografo destinato a sbrogliarlo. L’editore decise di non mandare le ulteriori bozze alla scrittrice, ma le richiese una fotografia da mettere sulla porta del romanzo.2
Di fotografie Cosima ne possedeva solo una, che era stata anch’essa una delle prime sue disillusioni personali. S’era voluta fotografare coi capelli sciolti, col vestito nuovo color viola di mezzo lutto e il fermaglio d’argento al collo: ne era venuta una immagine torva, corrucciata, con gli occhi selvaggi, la bocca sdegnosa, il petto legnoso; la prima deformazione della sua personalità spirituale, che sotto le asprezze fisiche dell’adolescenza ella sentiva invece bella e fina. Era abbastanza vanitosa per non pensar neppure di mandare quel cupo ritratto di sé stessa ad affacciarsi all’apertura del suo libro di sogni: ma farne un altro era un po’ difficile, ed anche dispendioso. Forza e coraggio, e sopra tutto astuzia: altri mezzi litri di olio e di vino furono sottratti al bilancio domestico: fu combinata una gita ad un orto di proprietà della famiglia, vicino alla casa del fotografo, e tutto, questa volta, riuscì bene: la testa di Cosima emergeva da un grande ventaglio di piume di struzzo nere, ch’ella aveva con arte aperto sul suo scarno petto; emergeva come da un’ala, che poteva anche avere un simbolo; e gli occhi avevano il loro languore orientale, un po’ esagerato, il viso tutto dolce, sornione, un po’ per volontà di lei, un po’ per abilità del fotografo intelligente, che aveva capito a modo suo di che si trattava. Aveva capito che quell’immagine era destinata a un amatore, a qualcuno che Cosima voleva attirare per passione, ma anche per arte: e questo primo innamorato lontano, ricco come un re e forse anche più potente, era il pubblico dei lettori, specialmente giovani, intelligenti e affini all’anima e alle fantasie di lei.
Il libro invece ebbe un successo femminile: lo lessero le fanciulle, e vi si ritrovarono, coi loro amori più libreschi che reali, coi loro convegni notturni immaginari, con le loro finte ali di struzzo che non possono volare. L’editore mandò cento copie del volume, per tutto compenso dell’opera: il valore non superava quello dell’olio e del vino rubati in cantina; e il grosso pacco piombò in casa come un bolide sconquassatore. La madre ne fu atterrita, la sera gli girò attorno con la diffidenza spaventata di un cane che vede un animale sconosciuto: per fortuna Cosima ricordò che un suo cugino in terzo grado aveva una bottega di barbiere e spacciava giornali e riviste. Era un intellettuale anche lui, a modo suo, perché mandava la corrispondenza locale al giornale del capoluogo: e la proposta di Cosima, di spacciare qualche copia del romanzo, fu da lui accolta con disinteresse assoluto.
Ma per la scrittrice fu un disastro morale completo: non solo le zie inacidite, ma i ben pensanti del paese, e le donne che non sapevano leggere ma consideravano i romanzi come libri proibiti, tutti si rivoltarono contro la fanciulla: fu un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine: la voce del Battista che dalla prigione opaca della sua selvaggia castità urlava contro Erodiade era meno inesorabile.3
Lo stesso Andrea era scontento: non così aveva sognato la gloria della sorella: della sorella che si vedeva minacciata dal pericolo di non trovare marito.
Ma a consolare l’umiliazione sdegnosa di Cosima arrivarono le prime lettere delle sue ammiratrici, ed anche di qualche giovanissimo ammiratore, cosa che maggiormente la confortò. Uno le mandò, da Roma, — da Roma! — una piccola poesia d’amore, musicata, dedicata a lei. Ella aveva già un certo spirito critico per giudicare puerili e sgrammaticati i versi, — non più dei suoi, ma incoraggiò la propria vanità col credere che la musica fosse migliore; per conto suo non conosceva una nota, e di musica aveva finora sentito quella della chitarra e della fisarmonica e quella dell’organo della cattedrale: ma quello che più la lusingava e la cullava in una risonanza immaginaria, era il fatto che l’omaggio veniva da un giovane, forse un ragazzo, un ragazzo che se sapeva comporre musica, oltre a poesia, doveva essere di condizione civile, di gente educata; forse era un Antonino ancora acerbo, forse anzi in via d’evoluzione più raffinata di quella dell’esteta locale; e aveva su di questi il vantaggio di essere meno indifferente, e di pensare dunque a lei, di essere all’altra riva del solitario oceano di sogni dov’ella viveva. Fu il suo primo amore lontano, tutto suo, poiché dell’ignoto musicista non seppe mai l’indirizzo, neppure il nome, – e se ne sapeva l’età e il sesso era perché i versi li svelavano: – ed egli non scrisse, non parlò, non cantò più. Fu come un grido d’uccello nella notte, un richiamo passeggero di usignuolo, illuso anche lui dal chiarore delle lontananze; la serenata di un fantasma di trovatore sceso dalla foresta lunare delle pagine di un libro romantico. Questo fatto cominciò a staccarla da Antonino, tanto più che egli non diede il minimo segno di essersi accorto di quello che per lei, certo, era un avvenimento straordinario. Un filo di dispetto si intrecciò al ricordo di lui, anzi fu come una trama che si rompe, in un tessuto prezioso, e a poco a poco tira le altre, irrimediabilmente. Poi un’altra cosa accadde: un altro poeta si accorse di lei: e questo era vicino e accostabile: oh, anche troppo, accostabile, poiché egli faceva di tutto per esserlo. Ma, ahimè! era un ben piccolo e triste e meschino poeta, in tutto. Era zoppo, fin dalla nascita; non poteva studiare per mancanza di mezzi, non riusciva a trovare un posto decoroso per mancanza di studio: era il figlio illegittimo del cancelliere, quello venuto ad abitare in fondo alla strada, e, si diceva, del cancelliere stesso, che non lo riconosceva ma se lo tirava appresso, lo manteneva, gli faceva fare il copista, e gli permetteva di scrivere versi.
Il cancelliere era vedovo: aveva due figlie già anziane, una tutta riccioli neri, tinti e grassi, l’altra di un biondo di stoppia bruciata, con una guancia pelosa come quella di un gatto. Si volevano tutti bene: le ragazze sognavano un ricco matrimonio per il presunto fratello. Fortunio, si chiamava, ed esse speravano che il nome gli portasse fortuna: ed era anche bello di viso, con due grandi occhi castanei, femminei, i capelli lisci, dello stesso colore, quasi della stessa lucentezza, un non so che di carezzevole e languido in tutta la persona, anche nel modo di trascinare la gamba storta con la scarpa che pareva di ferro.
Le sorelle riuscirono a fare amicizia con Cosima; un’amicizia un po’ sostenuta e cerimoniosa, però; mandavano la serva a domandare quando potevano, senza disturbo, far visita, e arrivavano puntuali, coi vestiti nuovi, i cappellini che sembravano spoglie di pappagalli; e trovavano sempre il modo di parlare di Fortunio: sì, anche Fortunio aveva pubblicato un volumetto di versi; anche Fortunio scriveva un romanzo; anche Fortunio riceveva e spediva tante lettere. Ne mandò una anche a lei, con la serva, e istintivamente Cosima la nascose: ma quando l’aprì rise, un po’ delusa, poiché il collega la pregava di tradurgli in italiano una parola dialettale molto usata nella città, ma della quale egli non sapeva con precisione il significato. Ella rispose: egli scrisse ancora, ringraziando. Le loro lettere avevano le impronte oleose delle dita della serva.
Poi l’amicizia si strinse: Cosima andò con le sorelle a visitare le nuove amiche e osservò che la loro casa era povera, disordinata, quasi sudicia: e quei riccioli neri unti, quella frangia di stoppia che ricadeva fin sugli occhi bianchi della più vecchia delle zitelle, le destarono un senso di diffidenza, quasi di ripugnanza. Che si ingrandì, questo senso, quando, non seppe come, le due streghe trovarono il modo di condurre le ragazze più piccole a vedere un vaso di gerani nella loggetta della casa, e nella stanzetta che serviva da pranzo e da ricevere entrò come per caso lo zoppo. Ella che s’era piegata a guardare sul tavolo coperto da un tappeto fatto con orribili ritagli di scatole di fiammiferi, alcune di quelle immagini con paesaggi, sentì la scarpa di lui come la zampata di un cavallo che si ferma davanti ad un ostacolo: e balzò in piedi rossa e spaventata. A dire il vero anche lui arrossì e le sue labbra tremarono: ma ciò valse a far notare a Cosima che egli aveva una bella bocca, carnosa ma non sensuale, o, se mai, di una sensualità sana e attraente come quella di un frutto maturo. Per la prima volta ella ebbe la sensazione di ciò che doveva essere un bacio, la sensazione fisica; un bacio carnale, fra due che si desiderano e sono spinti ad attaccarsi l’uno all’altro da una terribile forza di natura: e anche la sua bocca tremò, ma come quella di un bambino che sta per piangere e neppur lui sa perché.
Fortunio fu certo, almeno in apparenza, fortunato con Cosima. Ma lo fu perché era audace e spinto, in fondo, da un misterioso senso di odio verso di lei e verso tutta la classe boriosa e orgogliosa senza motivo alla quale ella apparteneva. Ella era quasi ricca, quasi nobile, e nonostante le gravi pecche dei fratelli, considerata una ragazza di rango superiore. La sua stessa ambigua qualità di scrittrice le attirava, dopo tutto, l’attenzione di un intero paese, e di gente più lontana ancora: e Fortunio era abbastanza intelligente per capire ch’ella giocava una carta: poteva perdere ma poteva anche vincere. Lui sapeva benissimo, meglio di quelli del paese, che un vero artista non manca mai al suo avvenire. E in Cosima egli sentiva l’artista; mentre lui era diseredato in tutto, anche nelle sue velleità di intellettuale. La passione che egli cominciò a provare sul serio per lei era in parte sincera, in parte avida e interessata. Le lettere che cominciò arditamente a scriverle, facendogliele pervenire incollate nelle copertine dei libri che si scambiavano apertamente, erano belle, poetiche, sensuali; forse le cose migliori che egli scrisse in tutta la sua, d’altronde breve, carriera di scrittore: Cosima se le sorbiva con avidità, e le nascondeva ben bene per il terrore che venissero scoperte da Andrea: se Andrea le avesse scoperte sarebbero successi certamente dei guai. Poiché Fortunio era per lui un essere assolutamente inferiore, socialmente e fisicamente: era peggio di un servo, peggio di un suonatore ambulante, e come tale gli perdonava, anche perché nulla ancora di sospetto gli passava nella mente, le serenate che, con chitarra e relative appassionate canzoni dialettali, il giovane zoppo, con altri suoi amici, si permetteva di eseguire sotto le finestre di casa. Era un uso locale, abbastanza antico sebbene del tutto diverso da quello delle vere serenate popolari composte di cori vocali e di canzoni arcaiche, quello delle serenate diremo borghesi, combinate da studenti e giovanotti della classe non esclusivamente paesana.
Canzoni semi-dotte accompagnate dalla musica della chitarra, del mandolino, anche della fisarmonica, facevano sollevare la testa dai loro guanciali quasi monastici, alle fanciulle sognanti: ma era un po’ difficile identificare a chi la voce appassionata che rompeva il silenzio notturno coi suoi richiami d’amore, era diretta: poiché l’amatore, per lo più ostacolato nelle sue aspirazioni amorose, per crearsi una specie di impunità non si fermava, con la sua compagnia solo sotto le finestre dell’amata, ma sotto molte altre dove c’erano fanciulle: così che il suo sfogo poteva passare per quello di un dilettante di serenate, di uno spirito innamorato del suo universale sogno d’amore: o anche di un artista in esercizio di canto e di notturne melodie.
Cosima non si ingannò un istante quando una notte sentì, dapprima lontana, poi sempre più vicina e quasi tempestosa e tiepida, quasi palpabile, come appunto il levarsi del vento dalle lontananze del mare e poi dalla valle, nelle notti di marzo, il vento che porta dalle terre d’Oriente l’annunzio della primavera, la voce di Fortunio. Bisogna dirlo, era una voce potente, calda, un po’ raffreddata come quella di un vero tenore, – e anche su questa le sorelle di Fortunio contavano, sperando di far di lui un cantante; – ed egli sapeva scegliere, aggiustandole con anelli di sua invenzione, le poesie più adatte a penetrare come in sogno nel letto delle fanciulle, ad avvolgerle con ali d’angelo sempre più calde, sempre più strette, fino a tramutarsi in un abbraccio umano appassionato.
Cosima tenta di reagire: in fondo non è romantica e già, per tante prove crudeli, conosce la vita; ma la monotonia dei giorni senza speranza di notevole mutamento le gravava intorno come una ingiusta condanna, – antica condanna delle donne della sua stirpe, – e lei ardeva tutta di desideri di volo, di più vasti orizzonti, di vita movimentata. Così diede ascolto alla voce lusingatrice, sebbene Fortunio le destasse diffidenza e quasi disprezzo.
Un giorno, in maggio, quando le prime ebbrezze della sua avventura letteraria erano dileguate, per lasciar posto, in lei, ad uno scoraggiamento pesante, per colmo di disdetta, le arriva una lunga critica, manoscritta, della sua povera ma sincera fatica: il romanzo, la novella, persino un timido racconto per bambini pubblicato in una rivistina per ragazzi, tutto è stroncato, e non con debole malizia, ma a vigorosi colpi di accetta: tutto, con logica, con coscienza: tutto ridotto a scheggie, buone, – conclude il critico, – per accendere il fuoco del forno ove la madre di Cosima cuoce il pane. Torni, torni, la piccola grafomane, nel limite dell’orticello paterno, a coltivare i garofani e la madreselva; torni a fare la calza, a crescere, ad aspettare un buon marito, a prepararsi ad un avvenire sano di affetti famigliari e di maternità.
Cosima piange; di rabbia, di umiliazione: piange, ma in fondo si sente tutta scossa, ha coscienza di aver sbagliato strada, decide di ritornare davvero al chiuso esilio del suo vero destino. Strappa il foglio di condanna, e riprende i suoi lavori di ricamo, di cucina, le passeggiate con le sorelle, le gite confortevoli nelle belle campagne rallegrate dalla fastosa primavera. Ad una di queste gite presero parte anche le sorelle di Fortunio: anzi furono loro che portarono le provviste per fare una merenda sull’erba, accanto alla sorgente dell’acqua che scaturiva da una roccia alle falde del monte. E furono ore di schietta, innocente allegria; e Cosima poté anche, contemplando il tramonto sulle cime opposte della valle, sopra gli oliveti sognanti, mettere da parte i tenebrosi propositi di abbandonare i suoi sogni di poesia; la ferita si chiudeva, ed ella provava come una gioia di convalescenza, quando, a stendere un’ombra sulla luce del suo cuore, – la sola luce ch’ella sentiva di essere vera, limpida e dissetante come la sorgente della roccia, – apparve, sulla strada sovrastante, la figura di Fortunio. Al solito, pareva che egli fosse sopraggiunto per caso. Dall’alto del paracarri si affacciò e parlamentò con le sorelle, che lo invitavano ad avvicinarsi, a prender parte alla merenda, con un certo diritto, poiché la roba l’avevano portata loro: ma egli rifiutò, severo e triste, conscio, anche lui, del posto che gli spettava: affacciato al parapetto dello stradone in modo che la sua gamba storta non si vedesse, e risaltasse la bella testa con gli occhi e le vivide fresche labbra lucenti al riflesso del tramonto, guardava con tristezza lontano, e appoggiava la guancia alla mano fina, dalle unghie che parevano di alabastro rosa. A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; così, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d’edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l’eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l’eterna poesia del dolore umano: e così, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorìo melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si ricorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi.
Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l’illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell’orizzonte; l’odore della vegetazione inumidisce l’aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull’ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima.
Che cosa vuole, Cosima? Non lo sa bene neppure lei: vorrebbe fermarsi, non tornare nella sua casa soffocante, appoggiarsi anche lei al parapetto dello stradone, sopra la valle piena di mistero, seguire il corso della luna sul cielo sempre più chiaro e luminoso.
Le compagne non badavano a lei: le sorelle, stordite dall’allegria delle amiche, si lasciavano trascinare avanti, e lei rimaneva sola, sperduta, come dimenticata nella strada e nel mondo. Sopraggiungeva qualche carro di contadini, trainato dai buoi sonnolenti, qualche uomo a cavallo, qualche tarda donnicciuola che ritornava dall’aver lavato i panni al torrente: le ombre si allungavano di traverso sulla strada bianca, le voci e i passi risonavano dolci nell’aria molle e profumata. Ed ecco un passo diverso dagli altri, con qualche cosa di ambiguo, come il passo di un essere fantastico, uno gnomo, un gigante che tenta di non far rumore, o un Belfagor fatale, o un arcangelo che con un batter d’ali può trasportarti fra le torri d’argento e gli spalti lunari della montagna.
È Fortunio: sarebbe stato più in carattere con la chitarra a tracolla, come un trovatore sceso appunto dai boschi d’elci che circondavano gli illusorii castelli dell’orizzonte: ad ogni buon fine aveva ancora un libro in mano; un libro che biancheggiava alla luna, con le parole magiche che aprono la porta dei sogni. Versi; versi d’amore. LA PRIMA CARTELLA DEL ROMANZO “CENERE„
Autografo di Grazia Deledda.
Raggiunse Cosima e le si mise a fianco, silenzioso. Ella non si stupì: tutto doveva procedere così; e quando egli le cinse lievemente le spalle col braccio che tremava ella non protestò, non cercò di liberarsi. Tutto doveva procedere così: era una cosa ordita dalle sorelle maliziose di Fortunio, ma pareva anche un incantesimo prodotto dall’ora, dal luogo, dalla sorte che protegge gl’innamorati. Anche l’ombra folta che si stendeva al margine dello stradone, in una svolta ove le rocce scendevano fino al paracarri, parve una tenda di velluto, che avvolse i due giovani poeti e permise ai loro freschi volti di formarne uno solo: il volto dell’amore.
Tutto sembrava proteggerli: il modo facile di scambiarsi le lettere, la strada in comune, la vicinanza dei loro orti. E dell’orto di Cosima, di notte, quando si sapeva che la madre e le sorelle riposavano, la prima avvolta anche nel sonno dal suo velo di sofferenza e di preghiere, le seconde nei loro sogni ancora bianchi di innocenza, Fortunio riusciva, nonostante la sua infermità, a scavalcare il muricciuolo, e ritrovare, sinceramente ansante e appassionato, all’ombra di un angolo protettore, la sua piccola amica che sembrava, così sbalordita e silenziosa, il fantasma di sé stessa. Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i fremiti e gli ànsiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto portarsela via; ma una fredda, quasi malvagia potenza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro sé stessa e contro l’altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso. Anche di rimorso: poiché credeva, fra le altre cose, di commettere peccato: ella non avrebbe mai sposato Fortunio.
Finché la vicenda non trapelò, destando una nuova ondata di scandalo fra la gente per bene del luogo. Eh! si capiva; Cosima sola era capace di quelle avventure, con uno storpio, un bastardo, un rinnegato dalla sorte. E un giorno Andrea disse, in pubblica piazza, che avrebbe fracassato col bastone l’altra gamba del «suonatore di chitarra»; e a Cosima somministrò una dose di schiaffi e pugni che oltre le membra le pestarono l’anima come il sale nel mortaio.
- ↑ [p. 227 modifica]Rosa di macchia: in realtà, Fior di Sardegna. (La prefazione, dell’A., al Fiore, comincia con queste parole: «Fermarsi in un sito sconosciuto e montuoso dell’isola di Sardegna, cogliere fra i lentischi e le rocce una timida rosa montana nata all’ombra degli elci e fra i profumi delle folte borraccine — esaminarla foglia per foglia... ecco lo scopo del presente racconto ». Il [p. 228 modifica]romanzo, ed. da Perino nel 1891, è dedicato «Alla contessa Elda di Montedoro in segno d’affettuosa gratitudine». Tale era lo pseudonimo di Epaminonda Provaglio, direttore — come s’è detto — dell’Ultima moda, col quale la giovine scrittrice ebbe dall’isola frequente carteggio ignorando per un po’ di tempo sesso e carattere del suo corrispondente. «Hai ragione su quanto mi scrivi circa il mio modesto romanzo», scriveva la D. alla immaginaria Elda, «mi correggerò sempre più sui difetti che ti son gratissima di avermi indicato, ma permettimi che io non accetti l’inverosimilità dei capitoli in cui Lara e Massimo si trovano insieme per quasi una notte intera senza che per ciò accadesse qualche guaio... È vero: la virtù di Lara è un po’ troppo invulnerabile, un po’ troppo fenomenale [a pag. 101 di Cosima, conviene sul carattere libresco di quegli amori e immaginario di quei convegni notturni], ma dimmi, se Lara non fosse stata così si sarebbe poi meritata il nome di Fiore che ho messo per titolo alla sua storia? E che mi dirai se ti assicuro che la tela di quel convegno io la ho rubata dalla lettera di un giovine scritta ad una fanciulla pallida e triste come Lara, il giorno dopo una notte passata insieme così, in un angolo di cortile, sotto un mantello, e senza alcun danno?... Oh, Elda, Elda! Tu l’hai detto: io conosco profondamente il cuore umano e, benché sia molto giovine, forse non ho più nulla a imparare su ciò: i personaggi del mio racconto non sono esistiti, ma le passioni che ho descritto sono quasi generali in tutti, ed io non ho dovuto che semplicemente studiare intorno a me, dentro di me, nel libro della vita...». Lettera del 16 gennaio 1892 pubbl. in Quadrivio, 23 agosto 1936. La Deledda rifiutò sempre di ristampare quel suo romanzo giovanile e s’imbronciava a sentirselo ricordare. Fu spesso ristampato alla macchia.
- ↑ [p. 228 modifica]«Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho vent’anni e sono bruna e un tantino anche... brutta, non tanto però come sembro nell’orribile ritratto posto in prima pagina di Fior di Sardegna... Sono una modestissima signorina di provincia, che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la più timida e mite ragazza del mondo». Lett. a E. Provaglio, 15 maggio 1892 (Quadrivio, num. cit.). Molte volte, col favore della terza persona romanzata, la D. tornerà a delineare il proprio ritratto fisico e morale intorno a [p. 229 modifica]quel tempo giovanile. Tra i più riusciti quello del primo capitolo de Il paese del vento: «Piccola, scura, diffidente e sognante come una beduina [Io son di saracino sangue ardente..., cominciava una poesia intitolata Noi pubblicata in «Sardegna artistica» nel febbraio del 1893] che pur dal limite della sua tenda intravvede, ai confini del deserto, i miraggi d’oro di un mondo fantastico, raccoglievo negli occhi il riflesso della vastità ardente...». Ivi, a pag. 12, ritroveremo nel cortile un mufloncino che ci riconduce a quello dello straordinario racconto di Proto, pag. 29 di Cosima. Altra bella storia di muflone malinconico e fedele nella prima parte del romanzo Il vecchio e i fanciulli (1928). Nel racconto intitolato Il mio padrino in Il dono di Natale la D. ricorda il dono che il padrino per appunto le fece di un piccolo muflone.
- ↑ [p. 229 modifica]Sullo scandalo che fecero a Nuoro i primi scritti stampati della D. vedi la cit. Casa paterna in Nell’azzurro e Primi passi in «Corriere della Sera» del 21 giugno 1930.