Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/160

120 grazia deledda


cizia per potergli spillare un po’ di quattrini; ma egli, nonostante la torbida incoscienza in cui spesso affondava, capiva il suo stato, conosceva il cuore del prossimo, e amava solo la compagnia dei rinnegati del frantoio perché appunto si sentiva già loro compagno di fatalità.

Non si creda che queste riunioni fossero melanconiche. Tutt’altro. Quando il fuoco aveva seccato addosso i poveri vestiti, spesso bagnati dalla pioggia, di questa specie di vagabondi, e, per benignità della sorte, essi erano riusciti a bere vino, o meglio ancora acquavite, l’allegria più infantile regnava fra loro: uno di essi arrivava a cantare pezzi d’opera, un altro tirava fuori un pane, lo spaccava, si faceva facilmente versare sulla mollica un filo d’olio, e lo abbrustoliva sulla brace, dividendolo poi fraternamente coi compagni. E Santus mandava a comprare un fiasco di vino, che bevevano alla salute di tutti. Salute e lunghi anni: la vita è di chi si contenta di viverla.

Le giornate erano quasi sempre grigie, nel freddo mattino del tardo autunno: ma a poco a poco il cielo si schiariva e si sollevava sopra i monti che prendevano una lucentezza opaca di stagno, e sull’alto si apriva l’occhio, bianco prima, poi perlato del sole, come di un dormiente che dopo aver lottato con un triste sogno si sveglia ridente alla dolce realtà. Allora tutto prendeva colore; il cielo sembrava un mare sparso d’isolette rocciose, sui ra-