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122 | grazia deledda |
gnare in fila i nomi e il numero delle macinate; era una poesia anche quella, e il sole, che sbaragliava le ultime rocciose nuvolette e splendeva alto sui monti, dorava il foglio dove lei scriveva e lucidava i suoi capelli severi.
Così ella veniva a contatto col popolo, col vero popolo, laborioso e mite, che se pure poteva, come il mugnaio, mettere le grinfie sulla piccola roba del prossimo, lo faceva con parsimonia e poi andava a confessarsene. Magari anche la confessione era un po’ fraudolenta, come quella del famoso contadino che tentò d’ingannare il confessore dicendogli di aver rubato una corda, e alle insistenti inquisizioni dell’uomo di Dio, finì col dire che alla corda c’era attaccato un bue; ad ogni modo tutta gente buona: donnine rispettose e sornione, uomini che dovevano combattere con la terra ingrata e solitaria e i venti e gli uccelli e le volpi per strappare il grano e il vino, dei quali si nutrivano come il sacerdote nella Messa. Cosima li osservava, li studiava, ne imparava il linguaggio, le superstizioni, le maledizioni e le preghiere: e dal suo posto di osservazione vedeva anche il quadro e le figure del frantoio; sentiva le storielle che vi si raccontavano, le canzoni dell’ubriaco, e se le doleva il cuore e piegava la testa umiliata nel vedere Santus, il fratello nato per grandi destini, intagliare carrettini di ferula per i bambini del mugnaio, o spolpare le ossa di un arrosto di gatto con gli altri compagnoni,