Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/171


cosima 129


e appena usciva dal portone spalancato il cacciatore rosso dalle coscie possenti e dagli occhi verdi brillanti di gioia beffarda e feroce, sul suo balzano quasi ancora indomito, la comitiva si slanciava al galoppo inondando la strada come un’orda diretta alla conquista di un luogo nemico: i passi dei cavalli risonavano a lungo, anche quando la strada ritornava deserta, e pareva uno scalpitìo di treno che s’allontanava: Cosima, alla finestra, mentre ritirava, dopo averlo sgrullato, il piccolo soppedaneo del suo lettuccio, s’incontrava a seguire nell’aria l’eco della cavalcata: e pensava al suo esploratore, alla caccia dei selvaggi; e si sentiva anche lei in corpo una smania di amazzone, un ardore di eroina da avventure audaci; ma poi le toccava rifare i letti e pulire le camere, e, per risalire a galla da questo stagno di realtà, aspettare almeno il passaggio del portalettere.

Era un uomo rude, il portalettere, anche lui rosso di pelo e di pelle; e quando passava, con le sue grosse scarpe, battendo alle porte dei cittadini e gridando forte: «posta, posta», tutti gli echi intorno si risvegliavano, persino i cani abbaiavano, l’aria prendeva un colore di inquietudine. Per Cosima rappresentava un personaggio quasi mitologico, apportatore di bene e di male, e quando ne sentiva la voce di lontano tremava come se il destino fosse in cammino verso di lei. Era stato lui, in fatti, a portarle le lettere di gloria e di amore, di