Contributo alla storia della letteratura romanesca/Testo
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La più antica letteratura romanesca ha avuto la fortuna di richiamare su di se l’attenzione e di eccitare le ricerche del prof. E. Monaci1, e i saggi che già egli ne ha dati non fanno che suscitare un impaziente desiderio dell’intera illustrazione.
Il primo monumento, che si offre alla indagine di chi studia le manifestazioni del volgare romanesco oltre il s. XIII, è quella interessante raccolta di frammenti, cui il Muratori, pubblicandola, dette impropriamente il nome di «Fragmenta historiæ romanæ.»2 L’importanza di questi frammenti non è sfuggita ad alcuno, sia perchè rappresentano la sola cronaca romanesca del s. XIV, sia perchè in mezzo a molte ingenuità e a molti errori ci sono pure lunghi brani pieni di sentimento vivace, dove lo stile assurge ad altezze veramente artistiche, sia perchè in quei frammenti è narrata per intero la vita di Cola di Rienzo, intorno al quale scarseggiano documenti sincroni. Dell’interesse che questa cronaca suscitò, rendono testimonianza i molti codici che la diffusero più largamente d’altre cronache, parecchi dei quali non ci danno se non l’estratto dei capitoli sulla vita di Cola di Rienzo, il rifacimento di Zefirino Re3, e le parole del Muratori stesso, il quale, nel pubblicarla, scrisse che fu «a Literatis viris multo plausu excepta, majorique voluptate perlecta.»4
Il dott. Ugo Fancelli ha recentemente pubblicato i suoi «Studi e Ricerche sui Fragmenta historiæ Romanæ»,5 nei quali esaminando criticamente tutto quanto potesse riferirsi alla questione della loro autenticità, è venuto a queste conclusioni:
a) «che l’anonimo veramente si trovò dov’egli stesso dice e che perciò potè assistere a molti avvenimenti da lui narrati;»
b) «che gli avvenimenti non potevano venir descritti con tanti particolari se non da un contemporaneo; »
c) «che le notizie ricavate dai «Fragmenta» hanno piena conferma nei documenti autentici del tempo.»
Avverte, però, che queste conclusioni hanno bisogno d’esser corroborate con un’indagine filologica e glottologica del testo.
Confesso, che il primo movimento dell’animo mio è stato di giubilo, nel vedere aperto alle mie ricerche un campo così vasto, così bello, così inesplorato, e mi posi all’opera con lena giovanile, pieno di confidenza di risolvere molte se non tutte le gravi questioni che offuscano la luce di questo importantissimo documento.
Ma, ahimè, non appena inoltrato nel faticoso cammino ho dovuto accorgermi che «non è impresa da pigliare a gabbo» e da risolversi per incidente nella trattazione d’un altro argomento, e pur col proposito di riprender la ricerca quando potessi dedicarvi tutto il mio tempo, come è necessario, ho dovuto per ora rinunciarvi, tantæ molis erat.
Peraltro, rendo qui ragione dei principali dubbi e degli argomenti pro e contro, che agitano e agiteranno un pezzo, secondo me, la critica dei «Frammenti.»
Il primo dubbio riguarda l’autenticità ed è avvalorato specialmente da ragioni paleografiche. Infatti, dei moltissimi codici che contengono o tutti o parte di questi frammenti, nemmeno uno è del s. XIV, anzi il più antico non risale più indietro del s. XVI. S’aggiunga che in tutta l’opera l’anonimo autore, che pure dà frequenti notizie di se e della sua vita, non dice mai d’esser romano e che la storia di Roma non è il solo oggetto di questa Cronaca, la quale abbraccia nella sua estensione Dante e il giubileo di Clemente VI e il dilagamento del Tevere del 1345, la battaglia di Parabiago e la storia di Andrea re di Puglia, Cia degli Ordelaffi e gli avvenimenti di Spagna e di Francia, la venuta del re d’Ungheria in Italia e le scale di S. Maria d’Ara Caeli.
Non solo, ma neanche nella narrazione dei momenti più solenni della storia di Roma gli prorompe mai dall’anima un grido, che ci permetta di riconoscere il sentimento della patria, quell’orgoglioso sentimento della romanità, che s’è continuato nella vicenda dei secoli e fu vivo perfino nella infinita ruina del medio evo, ed è ancora oggi nella coscienza confusa del popolo l’unico resto dell’antica grandezza.
Ben si poteva dubitare, trattandosi di tempi così tristamente famosi per contraffazioni letterarie, d’un’altra contraffazione, per quanto abilissima, tanto più che la recente indagine paleografica non è fino ad ora riuscita a scoprire un solo codice del s. XIV, sì che per questa parte i dubbi rimangono.
L’indagine glottologica non ha condotto a migliori risultati. Certo, avremmo fatto un gran passo se avessimo potuto dimostrare che la lingua del testo è veramente quella che si parlava a Roma ai tempi di Cola di Rienzo; ma purtroppo siamo ben lontani dal poterlo affermare con sicurezza. Il Muratori, nella prefazione all’edizione citata di questa Cronaca, nota che è «Neapolitana sive Romana dialecto conscripta», trovandosi anch’egli in quella persuasione o in quella passione che il dialetto antico di Roma sia qualche cosa di assai affine, come una variante di quello napoletano.
Ora, come dal confronto della grammatica di questo testo colla grammatica d’altri testi romaneschi immediatamente anteriori e posteriori doveva emergere luminosa la prova della sua romanità, mi posi all’opera conducendo l’indagine sull’edizione muratoriana del testo. Mi limito qui a notare le divergenze più essenziali.
Il romanesco dei ss. XIII, XIV, XV offre o non offre il dittongamento dei suoni tonici brevi o, e, secondo l’esito della parola:
ó breve | è breve | |
uo.......i | ie.......i | |
uo.......o | ie.......o | |
uo.......u | ie.......u |
ma,
ò.......a | è.......a | |
ò.......e | è.......e |
La costante esattezza di questo trattamento fu già messa in luce dal prof. E. Monaci. Ora, nei «Fragmenta Historiæ Romanæ» la mirabile costanza di questo riflesso è continuamente turbata, ed è frequentissimo il caso di ò breve, è breve dittongati con esito di a, e. Nè tre casi di ò breve dittongato, che si trovano nel Memoriale di Paolo dello Mastro, valgono a infirmare l’importanza capitale di questo argomento.
Un altro punto di divergenza è nella vocalizzazione di l + cons., che è costante nell’edizione muratoriana. Fin dalla prima pagina ne troviamo esempî abbondanti, i quali sono continuati per tutta l’opera con una fissità, che toglie ogni dubbio, che si tratti di alterazione di copisti. Ora, in nessun documento del s. XIII, come in nessuno del s. XV, come in nessuna epigrafe romana troviamo esempî di questa vocalizzazione. Qualche caso di vocalizzazione della l si trova, è vero, in certe lettere d’un Boccapaduli riprodotte dal Bicci6 nella sua storia di questa famiglia, ed é frequentissima nella «Vita del tribuno Matalieno delli Porta in Casa»; ma questa Vita, il Bicci stesso la giudica una pessima contraffazione della vita appunto di Cola di Rienzo, e le lettere del Boccapaduli, anche ammesso che sieno autentiche, e che il Bicci le abbia sapute trascrivere fedelmente, non sono certo di gran valore, poiché i signori romani vivono molto nella campagna circostante, dove hanno vasti possedimenti, e il fenomeno è appunto vivo nella Toscana e nella regione nord-est di Roma, e qualche esempio mal dissimulato se ne coglie facilmente anche a Marino.7 Altri pochi esemplari se ne rinvengono nel Diario di Stefano Infessura, ch’ebbe dalle sapienti cure di Oreste Tommasini la sua reintegrazione; ma il fatto stesso che scompare fin dalle prime pagine e non se ne trova più traccia per tutto il corso dell’opera, autorizza a credere che si tratti d’un errore di copisti, i quali, del resto, non attinsero all’originale, che è andato perduto.
Pertanto, nel dubbio che l’edizione muratoriana non fosse criticamente la più fedele, sentii la necessità di procedere ad una collazione del testo coi manoscritti che il dott. Fancelli ha riconosciuto come archetipi dei 23 ch’egli esaminò, ai quali aggiungo, per conto mio, il Lancisiano LXXIV, 2, che non è certamente copia di nessuno degli archetipi fissati dal Fancelli. E la collazione incominciai dall’archetipo Ottoboniano 2616, perchè più ricco di fenomeni dialettali, ricercando se le divergenze grammaticali di questo con altri testi di sicura provenienza romana si trovassero negli archetipi e con quella stessa frequenza e costanza. Ma durante la faticosa collazione ho dovuto convincermi e deplorare io stato miserevole cui fu ridotto questo lavoro e misurai, preoccupato, le difficoltà che s’incontrano per ricostituirne la lezione critica. Nè finché essa sia un desideratum, ci sarà possibile di rimuovere tutti gli ostacoli, di scioglier tutti i problemi che s’affollano intorno a questo disgraziato lavoro, che è pure così straordinariamente importante.
Un codice del s. XIV di minuscola gotica, certamente romano, si conserva nella Biblioteca Nazionale V. E.,8 e contiene una traduzione del «Liber Dialogorum» di S. Gregorio Magno.
Nell’explicit è detto: « librum istum dialogorum Sancti Gregorii scripsit frater philippus de Roma», così che m’illusi un istante di poter trovare in esso larga messe d’osservazioni grammaticali sul dialetto romanesco di quel secolo, e ne fece lunghi estratti. Ma, purtroppo, la traduzione è fatta in un linguaggio misto nel quale predomina l’elemento toscano, e di romanesco c’è tanto poco, da far dubitare, che Fra Filippo da Roma non fosse l’autore, ma piuttosto un copista, come, del resto, potrebbe indicare lo scripsit dell’explicit.
Ad ogni modo, sia anche egli l’autore, certo si studiò con ogni cura di uscir dalla rozzezza del volgo, e di attingere alle fonti toscane, forse alla traduzione che dello stesso libro fece il Cavalca. In un primo confronto che ho fatto delle due traduzioni, m’è venuto il sospetto, che se il povero frate non copiò proprio dal Cavalca, ci ricorse assai spesso, dove, per avventura il testo originale gli riusciva un po’ oscuro, tanto la sua traduzione pare un travestimento di quella toscana, se pure non fu copia di un codice passato pel territorio sabino.
Comunque sia, neanche questa traduzione ci può dare elementi sufficienti per la storia del parlar romanesco nel s. XIV, che tuttavia non dovette subire grandi variazioni, poichè tutti i fenomeni che il prof. Monaci notò nel «Liber Ystoriarum Romanorum» li riscontrò anche nelle opere del s. XV.
In migliori condizioni ci troviamo nel secolo XV.
A questo secolo appartiene un manoscritto sicuramente romano, che l’Armellini trasse per primo dall’Arch. Vaticano.9 Il documento merita d’esser con cura minuziosa, perchè segna l’agonia del mondo medioevale in Roma.
L’opera è divisa in cinque parti:
«lo tractato delle battaglie che essa beata abe dalli malingni spiriti;
lo tractato como essa beata fu menata in spirito dal angilo Raphaello ad vedere lo luoco dello inferno;
lo tractato como essa beata fu menata in ispirito dal angilo Raphaello ad vedere lo luoco del purgatorio;
lo tractato dello felice obito de essa beata.»
Seguono «le laude facte ad essa beata Francesca.»
Francesca Ponziani, ossia S. Francesca, nobile signora romana, fu una povera mistica, che l’Armellini chiama «uno dei più grandi spiriti del s. XV.»10 Incline naturalmente al misticismo, in un’età e in una città, dove alle anime candide non era altro rifugio che la fede, dalla tempesta delle pubbliche fazioni, dovette più che mai ricoverarsi nell’ombra del divino mistero, per l’orrore onde fu compresa l’anima sua alla morte del marito, ucciso nella presa di Roma che fece Ladislao (1404), chiamato dai Colonna, perchè li sostenesse contro gli Orsini. È da notarsi che questa morte sarebbe stata predetta da Evangelista, il più piccolo dei loro figliuoli: una vera famiglia di santi, dove il miracolo si trasmette di generazione in generazione.
Quali fossero le virtù della Santa, è detto nella prima pagina del libro: «non pateva che lo suo patre la toccassi,» e «schifava tutti gli uomini, quanto ben fussi lo suo proprio figlio!» S’aggiunga una vita di penitenza, di digiuni, di discipline, e parrà quasi impossibile di trovarci alla fine del medio evo, nel secolo di Lorenzo il Magnifico e di Cristoforo Colombo.
Questa povera donna cadeva in frequenti catalessi, durante le quali la mente malata le rappresentava quelle rozze visioni, che potevano aver luogo in un’anima incolta, tutta piena di disprezzo per la vita terrena, tutta ardente d’amore pel Signore, tutta aspirazione alla Patria Celeste. Codeste visioni non furono le sole che produsse il sentimento religioso nel medio evo, e per tacere di quelle di S. Caterina da Siena, basterà ricordare le numerose visioni di S. Brigida, anch’ella romana. Uno studio di confronto delle diverse estasi darebbe luogo a curiose e interessanti osservazioni, ed è necessario che qualcuno lo intraprenda con intelletto d’amore, per tracciare la storia del misticismo nella letteratura.
Il parroco di S. Maria in Trastevere, Giovanni Mattioti, che successe nella direzione spirituale di Francesca a frate Antonio «de monte Sabello», il quale l’aveva governata per oltre quaranta anni, si faceva raccontare dalla Santa le sue visioni, e ne prendeva appunti coll’intenzione di ordinarli, in seguito, per tradurli in latino. Questi appunti sono quelli contenuti nel codice vaticano pubblicati dall’Armellini.
Il dott. Mario Pelaez11 procurò un’edizione più corretta dei due trattati dell’Inferno e del Purgatorio, e la traduzione latina ebbe la luce per opera dei Bollandisti.12
Le visioni sono scritte in una lingua rozza, ma non priva di un certo calore, direi quasi che la forma prende attitudini e movenze, secondo il grado della passione che l’agita, e assai spesso dà l’impressione di un inno: poveri inni di povere anime, in una prosa verseggiata, piena di frequenti assonanze e spesso addirittura di rime.
Che una donna debole, mal nudrita per ispirito di penitenza, colle carni lacerate dai cilizî e tutto l’organismo impoverito, cada in frequenti deliqui non è da meravigliare, ora che la scienza ha spiegato tanti misteri e risoluto tanti problemi; che nel deliquio la tenacia dello spirito continui la vita anteriore, di modo che le rappresentazioni fantastiche non subiscano alterazioni dalla sospensione della vita vegetale, anche questo è un fenomeno psichico troppo studiato e dichiarato perchè ci possa lasciare meravigliati.
Così, Francesca cadeva in queste catalessi o in chiesa, dopo essersi accostata al sacramento dell’altare, cioè dopo il rituale digiuno, che aveva stremato più che mai il corpo già debole, o quando, la sera, si rinchiudeva nella camera a far penitenza e a meditare sui divini misteri.
Del resto, come ai giorni nostri tutte queste visioni sono fenomeni psichici spiegabilissimi, così nel s. XIV, in Roma, e ad anime semplici, quali erano Francesco e il parroco Mattioti, e a tutti quelli che vivevano nel loro ambiente e nello stesso ordine d’idee, dovevano parere e parvero miracoli.
Le visioni contenute nel I libro sono 77 e vanno dal luglio 1430 al dicembre 1440, mentre la Santa morì nel marzo di quest’anno: anacronismo che basta da solo a dimostrare quanta fede meriti il povero parroco. Spesso la visione si riconnette colla festa più prossima della Chiesa, celebrata, o da celebrare, p. es., il 25 decembre 1431 ebbe la visione della nascita di Cristo, l’11 gennaio 1432 quella dei Re Magi, l’11 febbrajo quella della Purificazione, il 26 dicembre 1440 la visione di S. Stefano.
Quanto al contenuto, più eloquente d’ogni parola sarà qualche citazione.
Nel luglio 1431 vide la piaga del fianco di Cristo larga 5 oncie e mezzo, «cioè uno deto per una oncia», vide che la lancia era penetrata nel Sacro Costato un palmo, che 25 furono quelli che lo flagellarono alla colonna; vide la Maddalena che numerava le punture delle spine nel capo del Signore, che furono 300, «perchè la corona fu ad muodo de cappello», mentre le battiture e le punture sommate insieme furono 6666 «tutte numerate dalla Maddalena!» E, particolare sfuggito a tutti gli storici del divino sacrificio, Gesù Cristo, dopo d’essere stato flagellato alla colonna, quando andò per rivestire le povere carni addolorate, non trovò più le vesti, che gl’iniqui giudei gli avevano nascoste!
Nella visione dell’8 settembre 1431 le apparve un’ostia smisurata, «como grande quantità de neve candidissima», nel cielo cristallino, e la Madonna circondata di spiriti angelici, «collo Signore nelle braccia, piccolino quasi de octo mesi!» Dietro istanza del Mattioti, descrive le tre corone di Maria simboleggianti l’umiltà, la verginità, la gloria. La corona dell’umiltà è di rose bianche, quella della verginità è composta di dodici castoni, in ognuno dei quali splende una stella dai raggi sfolgoranti di vario colore; ma il numero dei raggi, e i colori, e i simboli sono tanti, che mi pare non inutile riassumerli in uno specchio dimostrativo.
stelle | raggi | simboli | colore |
---|---|---|---|
I | 3 | Trinità | |
II | 4 | un sol colore | |
III | 7 | sette doni dello Spirito Santo | varî |
IV | 7 | sette sacramenti | » |
V | 4 | quattro virtù cardinali | dodici colori
|
VI | 3 | tre virtù teologali | rosso, carità verde, fede vermiglio, speranza |
VII | 12 | dodici articoli di fede | vari |
VIII | 5 | pena e martirio della Croce | rosso acceso |
IX | 7 | sette opere di misericordia | |
X | 10 | dieci comandamenti | vari |
XI | 1 | Carità di Dio | candidissimo |
XII | 4 | onestà, benignità, pudore, discretezza | violetti |
Dello stesso genere è la terza corona, composta di dodici pietre preziose:
pietre | simbolo | colore | |
---|---|---|---|
I. | diamante | fortezza | |
II. | carbongio | amore | infocato |
III. | zaffiro | costanza | |
IV. | smeraldo | obbedienza | |
V. | balascio | magnilucenza | |
VI. | berillo | recordante memoria | |
VII. | calcedonio sardonico | intelletto | misto |
VIII. | granata | volontà | |
IX. | crognola | virilità | |
X. | turchese | verità | |
XI. | topazio | conservazione | |
XII. | coppe di zaffiro | sapienza |
E quanto ai primi trattati credo che basti.
Il terzo e quarto trattato contengono una rappresentazione dell’inferno e del purgatorio colla guida dell’arcangelo Raffaello.
Il medio evo fu assai ricco in questo genere di rappresentazioni, che trovarono nel genio di Dante l’espressione più solenne e completa. Dei precursori di Dante molti si sono occupati, ma dei successori non è ancora fatta la storia. Credo, però, che questo del Mattioti segni l’ultimo informe tentativo di simili rappresentazioni, lasciando da parte «le Visioni» di Alfonso Varano e i poemetti del Monti, che a metterli insieme colle visioni medioevali sarebbe un po’ grossa.
Se fossi sicuro che il buon parroco di S. Maria in Trastevere avesse avuto notizia dell’Inferno di Dante, affermerei recisamente che nella sua composizione il Mattioti ebbe in mira di rappresentarci un inferno più cristiano, più dogmatico, più ortodosso di quello dantesco. Ed ho detto pensatamente: «nella sua composizione», perchè qui meno che altrove riesce possibile di distinguere dove cessi l’opera di Francesca e cominci quella del povero prete.
Già ho notato che Francesca racconta le sue visioni per obbedire a un’ingiunzione del suo padre spirituale, ed anche talvolta si diffonde in particolari minuziosi, come quelli della corona di Maria, in seguito a speciale insistenza di lui. Come potremmo affermare che il Mattioti fu sempre un semplice e fedele trascrittore? Come potremmo distinguere quanto nella trascrizione mise di suo? E, d’altra parte, anche ammesso che il Mattioti fu un vero stenografo della inspirata parola di Francesca, possiamo noi immaginare, trattandosi d’un soggetto così facilmente suggestionabile, fino a che punto il pensiero di lei si colorò del pensiero del suo direttore spirituale?
Del resto, descrizione più grossolana, più grottesca di questa non è possibile, e resta molto indietro, per valore artistico, alla stessa «Babilonia infernale» di fra Giacomino da Verona.13 L’unico scopo dell’opera è d’infondere nelle anime un immenso terrore del peccato, anche in quelle «delli cristiani che non fecero li magiuri peccati et che fuoro negligenti ad confessarse, non curando della sancta confessione.»
Nessuna architettura, nessun disegno razionale, nessuna topografia: l’inferno è diviso in tre parti, come quello dantesco, «il loco de sopre», quello «de meçço» con pene maggiori, e il «luoco de socto», con infinite magiure pene.» Un dragone si stende per l’inferno in tutta la sua lunghezza, di guisa che viene a trovarsi col capo nella parte superiore, col corpo in quella di mezzo, colla coda all’imo. La bocca spalancata e fiammeggiante del dragone è la bocca dell’inferno, nella quale i demoni gettano l’anima malnata, che, prestamente divorata, riesce dal ventre ed è presentata al principe Satanasso che sta «in uno luoco quasi honorato.»
Lucifero, il Minosse di S. Francesca, «prestamente la judicava, et subito la meschina anima era menata da certi altri demonî sopra de ciò deputati et ordinati, allo luoco indicato, secundo li peccati commessi.» Ogni anima, oltre che da tutti i demoni in generale, è più specialmente custodita da due demoni, uno dei quali la colpisce, l’altro la dileggia. Tutte sono punite colle pene comuni del fuoco, del freddo, delle tenebre, della fame ecc., e ciascuna in particolare da pene, che, per solito, collimano col peccato per cui sono punite. La miseria della concezione, la povera e falsa idea del peccato, l’assoluta mancanza di ogni criterio topografico e architettonico è, meglio che con parole, dimostrata dallo specchio seguente.
N. B. Il peccato è scritto sulla fronte dei dannati.
CERCHIO I | I. Bambini nati da genitori cristiani | tenebre |
Non battezzati | II. Bambini nati da ebrei | tenebre maggiori |
III. Bambini nati da adulterio, o da unioni di religiosi e di sacerdoti con monache. | tenebre fittissime | |
II. Sodomiti | puniti dai demoni collo stesso peccato | |
III. li cani usurari | inchiodati ciascuno su di una tavola, colle braccia distese, ma non in forma di croce: i demoni versano loro, per un pertugio, nel cuore oro ed argento liquefatto. | |
IV. Bestemmiatori (luoco de socto) |
vari tormenti: i demoni strappan loro la lingua con uncini infocati, gettan le lingue nel fuoco, ed empion la bocca di carboni accesi. | |
V. Traditori. | gravissimi tormenti: estirpazione del cuore per mezzo di grappi infocati, quindi immersione in un tino di pece bollente. |
Obbiezione di S. Francesca sulla materialità della pena, trattandosi di spiriti. L’arcangelo Raffaello risponde che codesta è una rappresentazione materiale delle pene sofferte intellettualmente. Dopo il giudizio universale, per la riunione delle anime col corpo, i dannati soffriranno anche materialmente.
VI. Omicidiari | immersi in un tino di sangue bollente, poi in un altro di ghiaccio, percossi dai demoni nella lingua e nel cuore, con pali di ferro infocati.
|
VII. Rinnegati. | segati con seghe infocate, poi risanati, poi di nuovo segati. I demoni versano loro nella gola «una cosa liquefacta de grande pena.» |
VIII. Incestuosi. (luoco de socto) quasi presso ai sodomiti. |
immersi in un gran tino di cose fetenti, che sono costretti ad ingoiare. Quindi squartati, risanati ecc. |
IX. Fattucchiari e chi li crede (luoco de mieso) |
lapidati con palle di ferro roventi, e posti su una catasta di legna ardenti. |
X. Scomunicati [nel più profondo luogo] |
immersi in un lago d’olio, zolfo e pece ardente ecc. |
XI. Superbi. | gettati nella bocca irta di aghi e nella gola sparsa di rasoi infocati d’un leone infocato anche lui, e col corpo pieno di serpenti. I demoni strappano i dannati dal di dietro con grappi infocati. |
XII. Iracondi. | spinti dai demoni nella gola spalancata di un mostruoso serpente e dilaniati dai ferri roventi di cui è irta la gola del mostro. |
XIII. Avari. [luoco de socto] |
straziati da serpenti e dilaniati dai demoni con pettini ardenti. |
XIV. Invidiosi. | assisi nel fuoco di cui sono coperti. Un verme avvelenato li rode nel cuore, uscendo per la gola. Risanati, un demonio li spacca nel petto, ne caccia il cuore, dove «stercoriçava» gettandolo poi così immondo sulla faccia dei dannati. Il verme è il rimorso di coscienza. |
XV. Accidiosi. | assisi anch’essi e coperti di fuoco, quindi posto su una pietra rovente e scavata a righe. Due demoni li «carroççavano» con ferri infocati, un altro fende loro il cuore e per la fenditura versa olio bollente e vermi. |
XVI. Golosi. (luoco profondo) |
trascinati su carboni accesi, calpestati, gettati in un tino di pece liquefatta, poi in un altro di ghiaccio: il vino ardente gorgoglia loro nella bocca, poi sono gettati in un pozzo diviso in tre parti: a) tino d’acqua ghiacciata; b) tino di piombo liquefatto; c) tino «pieno di serpenti e buocti.» |
XVII. Idolatri. [profondo luoco] |
legati insieme da catena infocata, spalla contro spalla, e immersi nelle fiamme. |
XVIII. Mancanti ai voti. | immersi in un tino pieno di pece e zolfo liquefatto, donde li traggono i demoni con grappi infocati e li gettano in un tino di ghiaccio, per porli in seguito tra due piastre di ferro infocate, irte di chiodi acuti. |
XIX. Ruffiani delle figlie. | posti sotto una campana, su d’una catasta di legna accecese, con quattro demoni arrabbiati, che li lacerano miseramente: varietà di pene secondo la varietà del peccato, cioè secondo se proviene da lussuria, o da cupidigia di denaro ecc.
|
XX. « Odiosi» | assisi nel fuoco, come gl’invidiosi, e dilaniati dai pettini dei demoni. |
XXI. Giudici falsari. | immersi in un tino d’oro e argento liquefatto: i demoni strappan loro la lingua, taglian le mani ecc. |
XXII. Detrattori. | nel fuoco, tormentati da un demonio eptacefalo, che col primo capo caccia loro la lingua, col secondo la mangia, col terzo la sputa ecc. |
XXIII. Vergini paççe [vergini «secundo lo cuorpo, ma non de mente»] |
frustate dai demoni con catene infocate. |
XXIV. Vedove paççe | poste su un albero e legate, col capo volto all’indietro. Un dragone strappa loro cuore e lingua. |
XXV. Femmine vane. | addentate nel capo da molti «scorsoni» e straziate da demoni con piastre acuminate e roventi. |
XXVI. Falsi predicatori. [luoco de socto] |
gettati in una fornace tenebrosa piena di sterco, scacciati da serpenti, risospinti dai demoni in forma di cani: varietà di pene secondo le modalità del peccato. |
XXVII. Confessori simoniaci. | immersi in una fossa piena di brutture, colla gola piena d’oro e argento liquefatto e il collo avvinto da una macina, quindi posti dai demoni su una scala arroventata. |
XXVVI. Sommi Pontefici, sacerdoti, chierici, simoniaci, lussuriosi, ecc. | i demoni li scorticano nella chierica, e strappan loro la cute, taglian le dita dalle consacrate mani sacrileghe, e pongon loro sulla testa mitre infocate, quindi li gettano a capo fitto in un luogo di massima oscurità pieno di brutture, ecc. |
XXIX. Barattieri. | collocati su ossa spezzate, tra carboni ardenti. I demoni spingon loro nella gola dardi di ferro infocati, coi quali trafiggon pure le loro mani. |
XXX «Dançatori» | legati ad un palo di ferro rovente, saettati da demoni che danzano loro intorno, ecc. |
XXXI. Maritate. | squarciate nel petto, dove brulicano vermi. Molti serpenti le mordono nei membri con cui peccarono. |
XXXII. Bestemmiatori. | continuano a bestemmiare. |
XXXIII. Medici. (luoco de socto) |
a capofitto, fra piastre infocate, per i libri che hanno usato, e per l’uccisione dei figli allo scopo di salvare le madri: la gola piena d’oro e argento liquefatto per la cupidigia di guadagno, ecc. |
XXXIV. «Speciali» | per la loro cupidigia e ignoranza, sono immersi in un tino d’immondizie. I demoni traggon loro il cuore, dandolo a mangiare a cani arrabbiati. |
XXXV. Tavernari (luoco de socto) |
immersi in tre tini, di ghiaccio, di vino ardente, di aceto, pel peccato di metter l’acqua nel vino.
|
XXXVI. Macellari | posti in una bilancia, sull’altro piatto della quale è un peso enorme. I demoni sbatton loro sul viso trippe fradicie, e li pestano sul bancone come per farne salsicce. |
Questo è l’inferno del Mattioti, nel quale è appena necessario notare il disordine della distribuzione, la povertà dell’immaginazione, la ripetizione continua delle stesse pene per peccati diversi. Il disordine giunge a tal segno, che i Bestemmiatori sono puniti due volte, nei cerchi IV e XXII.
Ma non voglio tralasciar di osservare, che nel «luoco de socto», cioè nel più profondo abisso, dove sono «le infinite magiure pene», sono puniti i bestemmiatori, gl’idolatori, i falsi predicatori e i medici che uccidono i bambini per salvar le madri nel parto; cioè sono puniti colle pene più atroci tutti quelli che in un modo o in un altro hanno recato offesa al dogma, come già avevo notato più sopra; e fra costoro, nel più profondo abisso dell’inferno, gemono gli osti che metton l’acqua nel vino: eloquente manifestazione, forse, d’un sentimento e d’una indignazione personale.
Per la storia del costume, è da notare che un secolo dopo di Dante e del calunniato Boccaccio, un sacerdote, e in Roma, pone all’inferno tra i non battezzati i bambini nati dall’unione illecita di sacerdoti e di frati con monache; che per significare adultere è detto semplicemente «Maritate»; che quattro secoli prima di Marcello Prévost, un parroco romano condannava all’inferno le demi-vierges, col nome più espressivo, forse, di «vergini paççe.»
Quanto al Mattioti, da ultimo, è opportuno ricordare, che non scrisse per ispirito di vendetta questo inferno, dove non è mai fatto nome d’alcuno; e un sacerdote morto da poco punito pel peccato della gola appare con un panno innanzi agli occhi, benchè, in questo caso, l’allusione dovesse essere assai trasparente.
Più brevemente il buon parroco tratta del Purgatorio, «loco di speranza» come è detto nella scritta sull’entrata, e diviso anch’esso in tre parti, il luogo mundativo, il purgativo, il meritorio, dove le anime sono vigilate da angeli. L’anima purgata è condotta dal suo angelo nel «syno de Abraaz», specie di paradiso terrestre, e quindi dal seno di Abraaz trasportata nel regno dei beati da un angelo del Coro a cui è destinata. Ad ogni anima che sale, se non trema tutto d’amore il purgatorio, si commuove esultando il Paradiso e la Madonna intuona un canto di giubilo.
Il libretto si chiude colla narrazione della placida morte della Santa, la quale si spense
non come fiamma che per forza è spenta,
ma che per se medesma si consuma,
dopo aver miracolosamente predetto il giorno e l’ora della sua morte. In ultimo sono aggiunte tre laude, specie d’inni semplici e rozzi, dove s’accoglie tutto il mistico lirismo che qua e là trabocca nel corso dell’opera in una prosa rimata e talora in vere misure di verso; e sono come il tributo d’affettuosa ammirazione, di tenera gratitudine del povero pastore, che aveva avuto la fortuna di avviare ai pascoli celesti una sì candida agnella.
Anche al s. XV appartiene il memoriale di Paolo dello Mastro, che ci fu conservato da parecchi manoscritti di diverse redazioni, e del quale dette un’edizione il de Antonis14 e un’altra più corretta il dott. Mario Pelaez.15 Si tratta d’un semplice libretto d’appunti, senza alcuna pretesa letteraria, delle cose occorrenti dall’anno 1422 al 1484. È in gran parte un nudo registro degli avvenimenti lieti o tristi di famiglia; ma l’autore non trascura di dar notizia anche dei fatti più importanti della città, e qualche volta, ma con poca fortuna e minore esattezza, tocca anche di fatti esterni, conservando sempre libertà di giudizio e un certo sentimento d’indipendenza, per cui abborrì dalle guerre civili che funestavano ogni giorno la sua patria, ed accolse e protesse un membro del governo popolare che amministrò lo stato durante la fuga di Eugenio IV, e dimostrò non dubbie simpatie per Stefano Porcari.
La figura del nobile romano, che si è appena delineata nel povero registro di Paolo dello Mastro, si disegna con miglior luce nell’opera di Marco Antonio Altieri, che va dalla seconda metà del s. XV alla prima del secolo XVI. Il suo lavoro più conosciuto sono i «Nuptiali», dei quali e della vita dell’autore dette ampia notizia il Narducci.16
Eccone un breve riassunto.
Il nobile Gabriello Cesarino, trovandosi in età avanzata, pensa di dar moglie a Iuvangiorgio suo figlio «per recreare la sua senile età da qualche humano et delectevole transtullo» sperando «per la gratia del summo creatore, succurrer possa casa Cesarina de algun mellito et amabile figliolo.» Pertanto, in una conversazione di nobili romani della quale fa parte l’autore, si discute di tutto quello che è conveniente a sì magnifiche nozze, riferendosi ai costumi degli antichi, con profusa copia dell’erudizione del tempo. Ebbe M. Antonio Altieri profondo il senso della romanità classica, fu latinista più che mediocre, così che il suo stile è più latino che italiano, e la forma è tutta intesa con evidente sforzo a evitar quanto sapesse di volgare, e in conseguenza, tutto quello che di romanesco sorprendiamo nell’opera sua, gli è sfuggito involontariamente, per l’abitudine del parlar quotidiano. E quando sul Campidoglio arringava i baroni con infiammata eloquenza, per ridurli ad amichevole componimento, dovè sembrare agli astanti, che lo spirito di qualche console aleggiasse nel luogo sacro per tante solenni memorie.
Calda d’ amor per l’Italia e specialmente per Roma é una novella che fa parte dei «Baccanali», opera ancora inedita di M. A. Altieri.17 Io credo che l’autore abbia voluto con essa adombrare la disfida di Barletta, o adattare ai limiti e ritorcere al significato di quella un duello avvenuto in Milano fra il Romano Iuliano dello Mastro e lo spagnuolo Montagnes. La narrazione, benché goffa nelle linee e piena di puerilità, è pure tutta spirante d’amor patrio e di sentimenti romani, e sarebbe l’unica espressione artistica contemporanea di quel nobile fatto: segno, questo, assai più eloquente d’ogni altro della misera fortuna d’Italia in quel tempo.
Al s. XVI appartengono tre sonetti in dialetto romanesco, il primo dei quali, conservato nel cod. Lancisiano LXXIV, 2, è il sonetto caudato di «Madonna Iacovella» veramente notevole, tanto per sincerità di forma, quanto per efficacia di rappresentazione, ed è un lamento dialogato contro il mal costume dei giovani, che vanno a zonzo per le chiese, amoreggiando tra le donne. Come è vero che certi costumi sono proprî di tutti i luoghi e di tutte l’età!
Trattandosi d’un sonetto inedito credo opportuno di riportarlo:
Ben si trovata Madonna Iacouella
Quesi zitielli tiei chinto staco.18
Staco bene Dio gratia, ma lacho19
Con mecho, perchè uongo a Santo Ianni
Riballi quanti si pigliano afanni20
Me facho spesso scorocciar me facho,21
In cagna de stare alla predica essi vacho22
Per la Chiesia che pargo23 sacomànni.
Lo faco sore24 perchè só zitielli,
La Ioventù bisogna lassa fare.
Lo faco sore cha so tristarielli
Se uieco fra le femine a ficcare,
Faco l’amore con ogni chiuielli25
E le uoco con luochi manecare.
Non se puoco fermare
Ma daco per la Chiesia mille turni
E uaco in frotta che pargono sturni
Per tutti li conturni.
Uoco metter lo naso in ogni cantu
Lo Puopolo uoruotta tutto quantu.
Gli altri due sonetti sono conservati nel cod. Ottoboniano 2817 a carte 43 r, 43 v, donde li ha tratti e pubblicati il Cesareo26, ed alludono a un tumulto del popolo di Roma, dopo il conclave che alla morte di Leone X elesse papa il cardinal di Tortosa (1522). Anche questi sono notevoli per la forma sinceramente popolare, e per certa vivezza di sentimento, che li ricollega, secondo me, a quello precedente di Madonna Iacovella, e furono, forse, opera d’uno stesso autore. Questi tre sonetti sono documento d’uno sviluppo artistico così elevato, che non mi sembrano doversi considerare come germogli isolati, e forse sono parte d’una più larga fioritura, che non sarà difficile allo storico della letteratura romanesca di rimettere in luce, procedendo ad una larga e intelligente esplorazione di tutto quanto è sepolto nelle biblioteche e negli archivî. Solo dopo una esplorazione di tal genere potremo dir l’ultima parola sull’antica letteratura romanesca e sul secolo di Leone X.
Ai primi anni del s. XVI si deve fissare l’apparizione di Pasquino nella vita e nella storia di Roma. Delle sue origini, delle sue vicende, delle sue relazioni col popolo romano molti si sono occupati, tentando alcuno27 di ricollegare l’opera di Pasquino con quella del Belli, del quale sarebbe un precursore. Ma l’opera immortale del poeta romanesco fu oggettiva ed impersonale, ebbe di mira i costumi e trascurò le persone, come la satira di Orazio; il verso di Pasquino, invece, nato dall’omaggio alla Corte Pontificia, diventò a mano a mano l’espressione del malcontento, dell’ira o anche dell’indignazione sarcastica individuale, e fu sempre aggressivo, e piacque al popolo, che spesso, trovandovi l’eco dei suoi stessi pensieri e sentimenti, lo ripetè come proprio. Del resto, se molti sono i contributi recati all’illustrazione di questo argomento, la storia completa di Pasquino è ancora nel desiderio di tutti, e diventa ogni giorno più necessaria, perché versa tanta luce sulla storia del papato.
Un altro studio importante sarebbe da fare sui diaristi, che delle cose di Roma scrissero nei secoli XV, XVI in un latino così intinto di volgare, che il suo studio costituisce una parte non trascurabile dell’indagine dialettale romanesca, senza contare che qua e là si colgono interi squarci in volgare. Di questi diaristi dette ampia notizia Oreste Tommasini,28 di guisa che non rimane se non di seguire la via da lui con tanto intelletto d’arte tracciata.
Giunti con questa rapida scorsa al s. XVII, è necessario accennare ad un fenomeno che, già incominciato in tempi assai più remoti, ebbe in quel secolo il suo pieno sviluppo. Intendo parlare dell’evoluzione del parlare romanesco sotto l’influenza del dialetto toscano.
Che la vicina Firenze, dove tanta luce d’ingegno era raccolta, esercitasse un’azione importante su lo svolgimento della civiltà romana, è cosa tanto naturale, che ci dovremmo meravigliare se le cose fossero andate altrimenti; tanto più che ben presto cominciò l’esodo dei cittadini toscani29 per Roma, specialmente degli artisti, che è quanto dire del fiore dell’intelligenza toscana, i quali trovavano ampio campo per la loro attività qui, dove la munificenza dei papi e il lusso della corte pontificia valsero mirabilmente a suscitare quei miracoli d’arte, che ridono di pura luce, eternamente, sulle tele e nei marmi della rinascenza. Pertanto, lo storico della letteratura romanesca non dovrà trascurare questa indagine essenziale, dovrà, anzi intendere a determinare i limiti di questa influenza, della quale possiamo già sorprendere segni non dubbi, per tacer d’altro, nell’obituario di S. Ciriaco, che si conserva nell’Archivio di S. Maria in Via Lata.
Nel s. XVII l’evoluzione del parlare romanesco era compiuta, di guisa che tutti i fenomeni fonetici e morfologici dei tempi del Belli, hanno già riscontro nel «Maggio romanesco» di Gio. Camillo Peresio,30 che è appunto del s. XVII. Codesto è un mediocre poema epico-giocoso di 12 canti in ottava rima, scritto — è detto nel frontispizio — «nel linguaggio del volgo di Roma»; ma l’autore avverte nella prefazione che ha mescolato «le parole barbare con le buone», «et in più sentimenti taluolta le buone sole, e tal uolta le barbare», astenendosi però, «dalle voci aspre che costumino i più giovani», e lasciando addirittura «quelle in gergo per essere incognite, e affatto oscure, e dette da pochi, che parlano furbesco per intendersi frà di loro, e non essere capiti dagli altri.» Inutile, dunque, ricercare in questo ed in altri lavori consimili tutto il vernacolo romanesco; contentiamoci del fatto, che la lingua del popolo abbia acquistata tanta stabilità organica da poter essere atteggiata in opera d’arte. Così, il parlare del volgo, che fino al cinquecento s’insinua e trapela nelle opere letterarie per l’ignoranza degli scrittori, nel s. XVII ha già fatto un gran passo, entra in una seconda fase, c’è chi non isdegna di prenderlo in esame e d’adoperarlo come espressione della propria idea, pur avendo cura di ripulirlo, di limarlo, per toglierne certe asprezze troppo acute, certe volgarità troppo grossolane. Che se il lavoro riesce mediocre, la colpa è tutta dell’artefice e non della parola volgare, e forse dipende appunto dall’averla voluta nobilitare, atteggiandola in una forma ripugnante all’indole del popolo, per vestire un argomento, che, certo, dal popolo non traeva l’origine.
Il poema è dedicato «all’Em. e Rev. Prencipe il Cardinale Francesco Maria de’ Medici» ed ha «il fondamento storico nel tempo della tirannide che per lo spazio di mesi sette esercitò nella città di Roma Nicolò di Lorenzo detto Cola di Rienzo, col titolo di tribuno del popolo l’anno 1347.» L’argomento è la festa del Maggio romanesco ordinata da Cola. I popolani capi dei 12 rioni in cui era divisa Roma si sforzano di salire il palo elevato nel mezzo d’una piazza, dalla cima del quale pende il «maggio», cioè il palio, premio del vincitore. Sorge una contesa tra Iacouccio de’ Monti e Titta di Trastevere, cui non vale a comporre l’intervento di Cola. Il popolo, non pago delle decisioni del Tribuno si divide in due fazioni, che vengono spesso a contesa fra loro, quindi il divieto perpetuo di portar armi. Finalmente, in una festa ordinata da Cola, il palio è vinto da Iacaccio e la sua vittoria termina il contrasto e il vincitore viene portato in trionfo dal popolo per le vie di Roma.
Questo il tenue contenuto dell’azione, che non desta nessun interesse, anche per l’imperizia della condotta e per l’incertezza delle figure principali. Nel poema ricorrono qua e là i nomi di Destino, Fato, Sorte, Fortuna ecc.; ma l’autore avverte d’averle usate come «chimere poetiche, hauendo la mente diretta a creder quello conuiene, come Christiano Cattolico.» Melanconico indice dei tempi! É aggiunto, in fondo, un elenco delle «Voci, Proverbi, o dettati Romaneschi, in quel significato l’usano, che non sono ne’ Dizzionari», che è un informe tentativo di dichiarazione lessicale.
Un altro poema giocoso, ma più conosciuto del «Maggio», anche perchè trasportato sulle scene, è il Meo Patacca,31 «ouero Roma in feste nei Trionfi di Vienna» scritto da «Giuseppe Berneri romano Accademico Infecondo» e «dedicato all’ Illustrissimo et Eccellentissimo Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi», in 12 canti d’ ottava rima. Quanto alla forma, l’autore seguì gli stessi criteri del Peresio, l’argomento è «di uoler descrivere le curiose feste che si fecero in Roma dalla Plebe, per contrassegno d’una interna e straordinaria Allegrezza, quando s’udì la tanto desiderata Nuova della Liberazione dell’Augusta Città di Vienna, allora che dalle Armi Ottomane fu sì strettamente assediata.» L’azione incomincia dall’arrivo di un corriere a Roma con la nuova che i Turchi hanno assediato Vienna. Meo Patacca «el più brauo trà i Sgherri32 Romaneschi », pensa di radunare una truppa di «Sgherri arditi e scaltri», per correre al soccorso della città assediata. Nuccia, sua amante, lo scongiura di non andare alla guerra, e colle sue lagrime lascia turbato e indeciso l’eroe. Il quale, intanto, aveva bastonato Calfurnia, una specie d’indovina, che non gli aveva dato una spiegazione soddisfacente di un suo sogno. L’oltraggiata Calfurnia si vendica sparlando di lui con la Nuccia e inducendo Marco Pepe un altro degli Sgherri romaneschi, a sfidar in duello l’odiato bastonatore. Marco Pepe è vinto gloriosamente da Meo, e Calfurnia è aspramente inguriata da quello e percossa in malo modo da Nuccia, indignata di tanta iniquità. Fornito il suo piccolo esercito d’armi e d’insegne, fatta la rassegna delle sue forze alla presenza del popolo e della nobiltà romana, che l’incoraggia anche con sussidi di denaro, ritornato in pace con la Nuccia, mentre è sul partire, giunge una notte la notizia che l’assedio di Vienna era tolto. Allora, invidiando alla sorte dei valorosi difensori, l’eroe dà principio alle feste d’esultanza, che con maggior pompa di girandole e luminarie furono rinnovate quando giunse la conferma ufficiale della vittoria. Tra il tumulto assordante della folla, Meo si trova impegnato in mille brighe, dalle quali sa uscir con onore, dando altre prove di valore e di sentimento cavalleresco. Il poema termina colle festeggiate nozze di Meo colla Nuccia.
Sarebbe ingiustizia non riconoscere che questo poemetto ha qualche pregio, per cui sta molto più in alto, nel cielo dell’arte, che non quello del Peresio. Infatti, l’argomento è schiettamente popolare e la figura di Meo rende bene il tipo del popolano romanesco pieno di coraggio, un po’ goffo, forse, ma incapace di una finzione, nonchè d’un tradimento, pronto a commuoversi per ogni idea che abbia qualche cosa d’eroico, facile a soccorrere ogni sventura. La lingua è assai più ricca di frasi popolari che non quella del Peresio, e le dichiarazioni lessicali, che accompagnano a mano a mano lo svolgimento dell’azione, sono quasi sempre giuste e opportune. Un particolare degno di nota: alla fine d’ogni canto, l’autore rimanda il lettore al canto seguente, alla maniera che l’Ariosto derivò dalla tradizione epica popolare.
Dell’uno e dell’altro poema, benché nessuno dei due possa per se stesso aspirare all’eternità, dovrà occuparsi chi voglia descrivere completamente la storia dell’umorismo nella letteratura italiana.
Intorno alla metà del s. XVII, un maestro di musica, Benedetto Micheli33, romano, o Iachello de la Leuzara, come egli stesso si chiama, scrisse un noioso poema in dodici canti sulla «Libertà romana acquistata e defesa»34 dove abbonda l’imitazione dell’Ariosto e del Tasso, mentre manca assolutamente l’elemento popolare. Miglior prova di se dette il Michele nei sonetti,35 alcuni dei quali, specialmente quelli amorosi, non mancano di una certa spigliatezza originale, e di delicata ed affettuosa malinconia.
Anche del s. XVIII e propriamente dei tempi della Rivoluzione è un codice inedito,36 conservato nella Biblioteca V. E. di Roma. Esso è composto di due volumetti in-8 contenenti «Diversi Sonetti | sopra la | Caduta | di tutto il Regno di Francia | Nella diabolica Setta de’ | Frammasoni | e sù di altre occasioni, e circostanze | accadute in Roma nell’anno 1793 | riguardanti gli effetti cagionati dalla medesima | con alcune prudenziali disposizioni | per impedire ogni tumulto popolare | e per difesa in tutto lo Stato | da detti Francesi.»
Così nel frontespizio, identico nel primo e nel secondo volume, tranne che in questo al raccoglitore è sfuggito un «affetto» invece di «effetto», esempio di dissimilazione assai frequente nel dialetto romanesco. Sull’uno e sull’altro frontispizio è scritto il nome del proprietario, «Galimberti Salvatore», che non è, certo, il raccoglitore di questi sonetti. I quali, poi, non sono tutti sonetti, ma vi sono mischiate qua e là poesie d’altro metro, come per es., «la Musica nel Teatro dell’Europa» (I,17), che è composta di ottonari in quartine; non solo, ma vi sono aggiunti, per dichiarazione o comento del testo, copie di documenti originali, come «l’Editto sulla Proibizione de’ Teatri» emanato «dal Palazzo del Governo il dì 29 Decembre 1792» firmato da «G. Rinuccini Governatore e Vice-Camerlengo, e da «Gaspare Castellani Notaro Amministratore per la Carità»: editto che fa appunto riscontro alla citata poesia. Il titolo di «Sonetti», che dette alla raccolta il compilatore, si deve, forse, al numero d’essi, o più probabilmente al valore romanesco del vocabolo, che non è quello di sonetto, forma metrica, ma di poesia in generale.
Questi due volumetti, pertanto, rappresentano una curiosa e interessante antologia di sonetti senza nome d’autore, molti in lingua italiana, parecchi in dialetto romanesco, qualcuno, anche, in dialetto napoletano. E accanto ai versi v’è pure qualche prosa, oltre a quella accennata degli editti, ed anche prosa romanesca, come la lettera di «Peloso II a Fabione I Capo-Lazzaro.» (II, 29) Sonetti, documenti, prose, tutto trae origine, trova argomento e s’inspira dalla Rivoluzione e dall’episodio del Basville in Roma; tutto è improntato d’un sentimento d’orrore profondo per gli eccessi nefandi di quella e per l’empietà dell’attentato alla Chiesa di Cristo. Il raccoglitore, evidentemente devotissimo della Sedia Apostolica, e dilettante di letteratura, ha riunito in questi volumetti non tutto quello che conobbe della fioritura poetica sorta da quella rivoluzione, ma soltanto quello che potesse render testimonianza della devozione romana al Papato, ed ha aggiunto alla sua raccolta manoscritta una serie di 17 opuscoli pubblicati in quella congiuntura e improntati agli stessi sentimenti. I sonetti romaneschi, pur essendo di scarso valore artistico, hanno particolare interesse, trattandosi di tempi così prossimi al Belli.
Dopo meno di quaranta anni Giuseppe Gioacchino Belli cominciò a scrivere i suoi sonetti.37 Di lui, della sua vita, della sua opera é stato già scritto molto, di guisa che mentre troppo resta ancora da fare, per render accessibile all’intelligenza anche dei non romani l’opera meravigliosa del poeta romanesco, quanto alla critica, credo che essa abbia già fatto abbastanza per lumeggiare la figura del poeta nel suo valore originale.38
Il poeta stesso ci rivela nella prefazione l’intento dell’opera: «io ho deliberato — egli dice — di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma.»39 Questa plebe che aveva agitato la sua vita oscuramente per tanti secoli vicino allo splendore della Corte pontificia e dell’aristocrazia romana, aveva, intanto, sviluppato tutte le sue qualità, acuito tutte le sue attitudini, era diventato un popolo se non cosciente della sua origine e de’ suoi diritti, certo, almeno, che la sua origine era molto gloriosa e i suoi diritti assai diversi da quelli che gli erano riconosciuti.
Così, questo popolo che non aveva avuto una letteratura sua propria, che se era stato oggetto d’attenzione da parte di qualche scrittore, non aveva, però, nel corso dei secoli incontrato ancora mai chi lo comprendesse tutto e lo sapesse rappresentare, questo povero popolo o trascurato o maltrattato da un governo indegno e da un’aristocrazia ignorante e superba, trovò finalmente chi lo sapesse intendere, chi si sentisse anima e ingegno capaci di rappresentarlo. Come a certi fiori favolosi di plaghe orientali, così al popolo nostro sono occorsi dei secoli per maturare; ma quando ruppe bruscamente l’involucro, quando al bacio ardente del sole offrì tutto se stesso, il mondo meravigliato vide la doppia ribellione della coscienza religiosa e politica, e i miracoli della rivoluzione umana, e la marcia faticosa d’un popolo verso la sua rigenerazione.
Non ci voleva meno di un osservatore minuzioso, acuto e costante, come il Belli, per riprodurre un popolo in un momento storico così solenne; ma non ci voleva meno di un popolo come quello di Roma, e in quel periodo di tempo, per eccitare e richiamare su di se tutta l’attenzione d’ un osservatore profondo come il Belli. Il dott. Bovet, nell’opera che ho citata, ricercando gli elementi dell’opera di lui, si propone di studiarla in dodici capitoli riguardanti: la famiglia, il carattere, il sentimento religioso, il papa e i preti, il papato, la superstizione, l’ignoranza, i mestieri, la vita fuori di casa, la vita attraverso le vie, la prostituzione, i servitori. Ma è possibile dividere in categorie un’opera così complessa, così organica, così armoniosa, come quella del Belli? E ancora: in quale di questi capitoli studieremo, per esempio, l’amore, come è sentito dal popolo e come è riprodotto dal Belli? E l’umorismo, l’umorismo talvolta fine, sottile, come un taglio di rasoio, talvolta acuto, mordace, aggressivo, è possibile di studiarlo tutto nel capitolo del carattere del popolo romanesco? E in quale dei capitoli citati troverà luogo lo studio del sentimento, del patetico, che il Romano, rozzo e di poche parole, cela quasi sempre, ma che pure talvolta prorompe in lagrime ineffabili, in grida tanto più dolorose, quanto più insolite e inaudite?
La verità è che il Belli, avendo avuto per primo l’idea di riprodurre tutta la vita d’un popolo in un momento caratteristico, ci è riuscito meravigliosamente, con una semplicità di mezzi anche più meravigliosa, facendo parlare il popolo colle sue proprie parole, coi suoi dolori, colle sue passioni, colle sue bestemmie. E come per riprodurre quelle passioni non ci voleva meno di quella forma aspra, forse, ma colorita ed efficace, egli non pensò di ripulirla, ma con isquisito senso d’arte raccolse di sulle labbra del volgo la frase incisiva, scultoria, e la chiuse in un sonetto, che parve ed è veramente un brano di discorso parlato.
Così, non egli scelse il sonetto, ma il sonetto gli balenò alla mente innamorata, come la sola forma poetica, che, nella sua brevità, fosse capace di rispecchiare il carattere arguto e poco loquace del popolo romano. E il sonetto maneggiò con abilità unica nella storia delle letterature dialettali, piegandolo ad accoglier tutto, l’ira del cittadino conculcato, lo spasimo del padre disonorato, l’infame astuzia del lenone, la crapula del clero corrotto, lo sfacelo della morale, il ghigno del servitore consapevole, il pianto commovente d’una madre senza pane. E passa con la stessa disinvoltura, con una naturalezza veramente mirabile, dall’atroce invettiva, dalla satira flagellante, all’urlo spaventoso della disperazione, al lamento fioco della rassegnazione, e il sonetto piange, grida, freme, ride cinicamente, bestemmia, dando l’immagine d’una successione di quadri veri, luminosi, nei quali è tutta la sincerità, tutta la varietà della vita d’un popolo. Non è facile, invero, di trovare un altro scrittore, che sia capace d’astrarre, quasi, dal proprio io, di rendersi una cosa sola coll’oggetto, di vivere la stessa sua vita.
Senonchè, nella satira contro la religione passò il segno, e talvolta riversò nella strofa audace l’espressione del dubbio suo, di guisa che non riesce facile, per questa parte, di segnare fin dove arriva l’empietà, lo scetticismo del popolo e dove comincia quello del Belli, ed è questo, forse, l’unico difetto dell’opera.
Che se al Belli fu rimproverato d’aver negli ultimi anni rinnegato tutta l’opera sua, io penso, invece, che da questo stesso fatto si debba trarre argomento di nuova lode per lui. Poichè, quando la rivoluzione del ’48 scoppiò, ed egli restò inorridito agli eccessi, che sempre, fatalmente, accompagnano tutte le rivoluzioni, la ruppe bruscamente e assolutamente col passato, ma tacque. Non ritorse la musa popolare ad esprimere idee, aspirazioni, sentimenti che le ripugnavano, non carezzò quelli che aveva flagellato, non esaltò quelli che aveva demolito per sempre. Tacque addolorato e si chiuse in una solitudine piena d’amari dubbî, di selvaggi sconforti, temendo d’essere stato causa non ultima di conseguenze tanto gravi e imprevedute. Allora cominciò nel silenzio dell’anima sua una lotta assidua, faticosa gigantesca, fra l’uomo vecchio, che aveva con se la ragione, la logica spietata, il sentimento naturale, e l’uomo nuovo perseguitato dai fantasmi della religione, dal terrore tradizionale dell’inferno. Ma in questa lotta, se l’uomo antico perdè lena e calore e non potè più far sentire la sua voce, pure egli vinse: egli infatti, non permise che un sonetto solo, un sol verso fosse tolto o cambiato, di quel prezioso patrimonio artistico, che adesso la Nazione custodisce con gelosa cura.
Chi ci perdette, poveruomo, fu lui, il Belli!, che divenne fastidioso a se e agli altri, inquieto sempre colla propria coscienza, perchè non aveva il coraggio di distruggere quello, che, malgrado tutto, egli sentiva essere già illuminato dai raggi della gloria.
Così il Belli è anche uno degli esempi più luminosi di coscienza artistica severa e immacolata, e se negli ultimi anni di sua vita spinse la reazione oltre i limiti del ragionevole, noi dobbiamo compatire alla malattia dello spirito tormentato dal dubbio, che andava cercando con quelle esagerate manifestazioni di confermar se stesso in sentimenti e in credenze che ripugnavano alla ragione, e dobbiamo dolerci di questo, non altrimenti che dello spietato malore che spense il divin raggio negli occhi di Galileo.
Ma il popolo, che aveva perduto il suo poeta, si consolò ripetendo i suoi canti, e confortandosi con essi a percorrer la via, ch’Egli aveva illuminato con la luce del suo ingegno; e la percorse animoso nei pericoli, instancabile nella avversità, cadendo qualche volta sul cammino, ma rialzandosi sempre, più forte, più infiammato d’indomabile amore, fino alla gloria di Porta Pia.
Note
- ↑ Ernesto Monaci. — Sul «Liber Ystoriarum Romanorum» prime ricerche. Roma 1889, nella sede della Società Romana di storia patria: estratto dal vol. XII dell’Arch. di detta Società. — Aneddoti per la Storia letteraria dei Laudesi, dei Disciplinati e dei Bianchi del medio evo. Roma 1892, estratto dai rendiconti della R. Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. I fase. 2, seduta del 21 febbraio 1892. — L’Italia dialettale nel medio evo e la formazione della lingua letteraria. Roma, R. Università degli studi, anno accademico 1897-98.
- ↑ Muratori. — Antiquitates italicæ medii ævi, t. III 251-545. Mediolani 1740.
- ↑ Zefirino Re. — La vita di Cola di Rienzo Tribuno del popolo romano scritta da incerto autore del s. XIV, e ridotta a miglior lezione, ed illustrata con note e osservazioni storico-critiche, ecc. Forlì 1828.
- ↑ Muratori, op. cit. p. 249.
- ↑ Roma, 1897.
- ↑ Bicci — Notizie storiche della famiglia Boccapaduli.
- ↑ p. e.: caviccio (calcio) da caiccio, ca-v-iccio.
- ↑ Mss. S. Francesco a Ripa 6, 362.
- ↑ Mariano Armellini — Vita di S. Francesca Romana 1882 cfr. anche: dott. Mario Pelaez — Le visioni di S. Francesca Romana, in Arch. Ro. di Storia Patria, vol. XIV p. 371 e segg., vol. XV p. 251 e segg.
- ↑ Op. cit., prefazione.
- ↑ cfr. Op. cit.
- ↑ Atta Santorum, Martii, t. IX, 326, Venetiis 1735.
- ↑ cfr. Mussafia, Monumenti antichi di dialetti italiani.
- ↑ Il Buonarroti, serie II, vol. X, quaderno I.
- ↑ Arch. Romana di Storia Patria, vol. XVI, fase. I-II, p. 41 e segg.
- ↑ Li Nuptiali di M. Antonio Altieri, Roma, Bartoli 1873.
- ↑ Biblioteca V. E., fondo Vitt. Em. 348.
- ↑ come stanno?
- ↑ hanno.
- ↑ Ribaldi, quante ne fanno!
- ↑ fanno.
- ↑ vanno.
- ↑ paiono.
- ↑ sorella.
- ↑ con chiunque
- ↑ cfr. Giornale storico della lett. it., a. XVI fase. 92,93, in nota ad una recensione del libro di E. Bovet «Le peuple de Rome vers 1840 etc.» Neuchâtel 1897.
- ↑ cfr. la prefazione del Morandi ai «Sonetti» del Belli, Città di Castello, Lapi 1896.
- ↑ Oreste Tommasini — Il diario di Stefano Infessura, studio preparatorio alla nuova edizione di esso. Arch. della Soc. Ro. di Storia Patria, vol. XI pp. 481-640. — Nuovi documenti illustrativi del diario di S. I., ib. vol. XII, 5 e segg.
- ↑ cfr. D. Gnoli — Censimento della Città di Roma sotto Clemente VII. Arch. cit. XVII, 375 e segg. — Armellini — Un censimento della Città di Roma sotto Leone X, nel periodico «Gli studi in Italia» a. V, vol. I, n. 69-84 e 160-192.
- ↑ Ferrara, Bernardino Pomatelli, 1688.
- ↑ Roma 1695.
- ↑ in senso eroico.
- ↑ Di lui, della sua vita e delle sue opere scrisse il Narducci, cfr. Atti della R. Accademia dei Lincei, 1877-78.
- ↑ Povema eroicomico di B. M., Roma 1765.
- ↑ Povesie in lengua romanesca, Roma 1767.
- ↑ fondo Risorgimento 27-28.
- ↑
- Versi inediti di G. G. Belli. Lucca, Giusti 1843.
- Poesie inedite di G. G. Belli. Roma, Salviucci 1865,66.
- Duecento sonetti di G. G. Belli, Firenze, Barbèra.
- I Sonetti Romaneschi di G. G. B. pubblicati dal nipote Giacomo a cura di Luigi Morandi, Città di Castello, Lapi, 1896.
- Gl’Inni ecclesiastici secondo l’ordine del Breviario Romano, volgarizzati da G. G. Belli. Roma, Tip. della Rev. Camera Apostolica, 1856.
- ↑
- Tarnassi — Elogio storico di G. G. B. Roma, Salviucci 1865,66.
- Gnoli D. G. G. B. e i suoi scritti inediti. Bologna, Zanichelli, 1883.
- Schuchardt — G. G. B. und die roemische Satire, in «Romanisches und Keltisches.»
- Morandi, nella prefazione alle sue edizioni del B.
- Bovet E. — Le peuple de Rome vers 1840, d’après les sonnets en dialecte transteverin de G. G. B. Neuchàtel, Attinger frères, 1897.
- ↑ Morandi — Cinque Lettere e due Note di viaggio di G. G. B. Perugia 1886.