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Peraltro, rendo qui ragione dei principali dubbi e degli argomenti pro e contro, che agitano e agiteranno un pezzo, secondo me, la critica dei «Frammenti.»

Il primo dubbio riguarda l’autenticità ed è avvalorato specialmente da ragioni paleografiche. Infatti, dei moltissimi codici che contengono o tutti o parte di questi frammenti, nemmeno uno è del s. XIV, anzi il più antico non risale più indietro del s. XVI. S’aggiunga che in tutta l’opera l’anonimo autore, che pure dà frequenti notizie di se e della sua vita, non dice mai d’esser romano e che la storia di Roma non è il solo oggetto di questa Cronaca, la quale abbraccia nella sua estensione Dante e il giubileo di Clemente VI e il dilagamento del Tevere del 1345, la battaglia di Parabiago e la storia di Andrea re di Puglia, Cia degli Ordelaffi e gli avvenimenti di Spagna e di Francia, la venuta del re d’Ungheria in Italia e le scale di S. Maria d’Ara Caeli.

Non solo, ma neanche nella narrazione dei momenti più solenni della storia di Roma gli prorompe mai dall’anima un grido, che ci permetta di riconoscere il sentimento della patria, quell’orgoglioso sentimento della romanità, che s’è continuato nella vicenda dei secoli e fu vivo perfino nella infinita ruina del medio evo, ed è ancora oggi nella coscienza confusa del popolo l’unico resto dell’antica grandezza.

Ben si poteva dubitare, trattandosi di tempi così tristamente famosi per contraffazioni letterarie, d’un’altra contraffazione, per quanto abilissima, tanto più che la recente indagine paleografica non è fino ad ora riuscita a scoprire un solo codice del s. XIV, sì che per questa parte i dubbi rimangono.

L’indagine glottologica non ha condotto a migliori risultati. Certo, avremmo fatto un gran passo se avessimo potuto dimostrare che la lingua del testo è veramente quella che si parlava a Roma ai tempi di Cola di Rienzo; ma purtroppo siamo ben lontani dal poterlo affermare con sicurezza. Il Muratori, nella prefazione all’edizione citata di questa Cronaca, nota che è «Neapolitana sive Romana dialecto conscripta», trovandosi anch’egli in quella persuasione o in quella passione che il dialetto antico di Roma sia qualche cosa di assai affine, come una variante di quello napoletano.