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Se fossi sicuro che il buon parroco di S. Maria in Trastevere avesse avuto notizia dell’Inferno di Dante, affermerei recisamente che nella sua composizione il Mattioti ebbe in mira di rappresentarci un inferno più cristiano, più dogmatico, più ortodosso di quello dantesco. Ed ho detto pensatamente: «nella sua composizione», perchè qui meno che altrove riesce possibile di distinguere dove cessi l’opera di Francesca e cominci quella del povero prete.

Già ho notato che Francesca racconta le sue visioni per obbedire a un’ingiunzione del suo padre spirituale, ed anche talvolta si diffonde in particolari minuziosi, come quelli della corona di Maria, in seguito a speciale insistenza di lui. Come potremmo affermare che il Mattioti fu sempre un semplice e fedele trascrittore? Come potremmo distinguere quanto nella trascrizione mise di suo? E, d’altra parte, anche ammesso che il Mattioti fu un vero stenografo della inspirata parola di Francesca, possiamo noi immaginare, trattandosi d’un soggetto così facilmente suggestionabile, fino a che punto il pensiero di lei si colorò del pensiero del suo direttore spirituale?

Del resto, descrizione più grossolana, più grottesca di questa non è possibile, e resta molto indietro, per valore artistico, alla stessa «Babilonia infernale» di fra Giacomino da Verona.1 L’unico scopo dell’opera è d’infondere nelle anime un immenso terrore del peccato, anche in quelle «delli cristiani che non fecero li magiuri peccati et che fuoro negligenti ad confessarse, non curando della sancta confessione.»

Nessuna architettura, nessun disegno razionale, nessuna topografia: l’inferno è diviso in tre parti, come quello dantesco, «il loco de sopre», quello «de meçço» con pene maggiori, e il «luoco de socto», con infinite magiure pene.» Un dragone si stende per l’inferno in tutta la sua lunghezza, di guisa che viene a trovarsi col capo nella parte superiore, col corpo in quella di mezzo, colla coda all’imo. La bocca spalancata e fiammeggiante del dragone è la bocca dell’inferno, nella quale i demoni gettano l’anima malnata, che, prestamente divorata, riesce

  1. cfr. Mussafia, Monumenti antichi di dialetti italiani.