Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXXIII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto trentatreesimo
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C A N T O X X X I I I.
1Deus, venerunt gentes, alternando
Or tre, or quattro, dolce salmodia
Le donne cominciaron lagrimando;1
4E Beatrice sospirosa e pia
Quelle ascoltava sì fatta, che poco
Più a la Croce si cambiò Maria.
7Ma, poi che l’altre vergini dier loco
A lei di dir, levata suso in pè2
Rispuose colorata come foco:
10Modicum, et non videbitis me;
Et iterum, sorelle mie dilette,
Modicum, et jam vos videbitis me.
13Poi le si misse inanti tutte e sette,3
E dopo sè, solo accennando, mosse
Me, e la donna, e ’l savio che ristette.
16Così sen giva; e non credo che fosse
Lo decimo suo passo in terra posto,
Quando colli occhi li occhi mi percosse,
19E con tranquillo aspetto: Vien più tosto,
Mi disse, tanto, che se io parlo teco,
Ad ascoltarmi tu sii ben disposto.
22Sì come io fui, come io doveva, seco,
Dissemi: Frate, perchè non t’attenti
A dimandarmi omai venendo meco?4
25Come a color, che troppo reverenti
Inanti a suo maggior parlando sono,5
Che non traggon la voce viva ai denti,
28Avvenne a me, che senza intero sono
Cominciai io: Madonna, mia bisogna6
Voi cognoscete, e ciò ch’ad essa è bono.7
31Et ella a me: Da tema e da vergogna
Vollio che tu omai ti disvoluppe,
Sì che non parli omai com om che sogna.
34Sappi che ’l vaso, che ’l serpente ruppe,
Fu, e non è; ma chi n’à colpa creda
Che vendetta di Dio non teme suppe.
37Non serà d’ogni tempo senza ereda8
L’aquila che lassò le penne al carro,
Per che divenne mostro, e poscia preda;
40Ch’io veggio certamente, e però ’l narro,
A darne tempo già stelle propinque,
Sigure d’ogni ’ntoppo e d’ogni sbarro,
43Nel quale un cinquecento diece e cinque,9
Messo da Dio, anciderà la fuia,
Con quel gigante che con lei delinque.
46E forse che la mia narrazion buia,
Qual Temi e Sfinge nette e persuade,10
Perch’a lor modo lo intelletto acuia;11
49Ma tosto fui li fatti le Naiade,12 13
Che solveranno questo enigma forte
Senza danno di pecore o di biade.
52Tu nota; e sì come da me son porte
Queste parole, sì le insegna ai vivi14
Di viver ch’è un correre a la morte;15
55Et aggi a mente quando tu le scrivi,16
Di non tacer quale ài vista la pianta,17
Ch’è or du’ volte dirobata quivi.18
58Qualunque rubba quella, o quella schianta,
Con biastema di fatto offende Iddio,19
Che solo all’uso suo la creò santa.
61Per morder quella, in pena et in disio
Cinque milia anni e più l’anima prima
Bramò colui che ’l morso in sè punio.
64Dorme lo ingegno tuo, se non la stima20 21
Per singular cagion esser eccelsa
Lei tanto, e sì traversa nella cima.22
67E se stati non fusser acqua d’Elsa
Li pensier vani intorno a la tua mente,
E ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
70Per tante circustanzie solamente
La giustizia di Dio nell’interdetto
Cognosceresti all’arbor moralmente.23
73Ma perch’io veggio te ne l’intelletto
Fatto di pietra, et impietrato, tinto,24
Sì che t’abballia il lume del mio detto,
76Vollio anco, e se non scritto, almen dipinto.
Che ’l te ne porti dentro a te per quello
Che si reca ’l bordon di palma cinto.
79Et io: Sì come cera di suggello,
Che la figura impressa non tramuta,
Segnato è or da voi lo mio cervello.
82Ma perchè tanto sovra mia veduta
Vostra parola disiata vola,
Che più la perde quanto più s’aiuta?
85Perchè cognoschi, disse, quella scola25
Ch’ài seguitato, e veggi sua dottrina
Come può seguitar la mia parola;
88E veggi vostra via da la divina
Distar cotanto, quanto si discorda
Da terra ’l Ciel che più alto festina.
91Ond’io rispuose a lei: Non mi ricorda,26
Ch’io straniasse me giammai da voi,
Nè ònne coscienzia che rimorda.
94E se tu ricordar non te ne poi,27
Sorridendo rispuose, or ti rammenta,
Come bevesti su di Lete ancoi:28
97E se dal fummo foco s’argomenta,29
Cotesta oblivion chiaro conchiude
Colpa ne la tua vollia altrove attenta.30
100Veramente ora mai seranno nude
Le mie parole, quanto converrassi
Quelle scoprir a la tua vista rude.
103E più corrusco, e con più lenti passi
Teneva ’l Sole il cerchio del merigge,31
Che qua e là, come la spera, fassi;32
106Quando s’affisen, sì come s’affigge33
Chi va dinanti a gente per iscorta,34
Se trova novitate in suo vestigge,35
109Le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
Qual sotto follie verdi e rami nigri
Sovra suo’ freddi rivi l’Alpe porta.
112Dinanzi ad esse Eufrates e Tigri36
Veder mi parve uscir d’una fontana,
E quasi amici dipartirsi pigri.
115O luce, o gloria de la gente umana,
Che acqua è questa, che qui si dispiega
Da un principio, e sè da sè lontana?
118Per cotal prego ditto mi fu: Prega
Matelda che tel dica; e qui rispuose,37
Come fa chi da colpa si dislega,
121La bella donna: Questo et altre cose
Ditte li son per me; e son sigura
Che l’acqua di Lete nolliel nascose.38
124E Beatrice: Forsi maggior cura,
Che spesse volte la memoria priva,
Fatt’à la mente sua nelli occhi oscura.
127Ma vedi Eunoe che là deriva:39
Menalo ad esso, e come tu se’ usa,
La tramortita sua virtù ravviva.
130Come anima gentil che non fa scusa,
Ma fa sua vollia de la vollia altrui,
Tosto che è per segno fuor dischiusa;
133Così poi che da essa preso fui,
La bella donna mossesi, et a Stazio
Onestamente disse: Vien con lui.40
136S’io avesse, o Lettor, più lungo spazio
Di scriver, io pur conterei in parte
Lo dolce ber che mai non m’avrea sazio;41
139Ma perchè ne son pien tutte le carte
Ordite a questa Cantica seconda,
Non mi lassa più ir lo fren dell’arte.
142Io ritornai da la santissim’onda
Rifatto sì, come piante novelle
Rinovellate di novella fronda,
145Puro e disposto a salir a le stelle.42
- ↑ v. 3. C. A. cominciaro e
- ↑ v. 8. C. A. levata dritta in piè
- ↑ v. 13. C. A. Poi se le mise innanzi tutte e sette.
- ↑ v. 24. C. A. a domandare omai
- ↑ v. 26. C. A. Dinanzi a’ suoi
- ↑ v. 29. C. A. Incominciai:
- ↑ v. 30. C. A. che adesso è buono,
- ↑ v. 37. C. A. Non serà tutto tempo senza reda
- ↑ v. 43. C. A. dieci
- ↑ v. 47. C. A. Qual teme e spinge men ti persuade
- ↑ v. 48. C. A. attuia;
- ↑ v. 49. Fin; saranno, proveniente dalla terza singolare fi’, aggiuntovi al solito no. E.
- ↑ v. 49. C. A. fien li fati e le
- ↑ v. 53. C. A. Così queste parole insegna a’
- ↑ v. 54. C. M. C. A. Del viver
- ↑ v. 55. Aggi; dall’infinito aggere, e codesto da aiere cambiato l’i in due g. E.
- ↑ v. 56. C. A. Di non celar quale
- ↑ v. 57. C. M. derobbata
- ↑ v. 59. C. A. Con biastemmia di fatto offende a Dio,
- ↑ v. 64. C. M. se non le stima
- ↑ v. 64. C. A. se non istima
- ↑ v. 66. C. A. sì travolta nella
- ↑ v. 72. C. A. Conosceresti e l’albor
- ↑ v. 74. C. A. impetrato,
- ↑ v. 85. Cognoschi; affinchè tutte le coniugazioni fossero pareggiate alla prima nella desinenza. E.
- ↑ v. 91. C. M. rispuosi
- ↑ v. 94. C. M. C. A. puoi,
- ↑ v. 96. C. A. beveste di Lete
- ↑ v. 97. C. A. fumo
- ↑ v. 99. C. A. Colpa della tua voglia
- ↑ v. 104. C. M. il corso del merigge,
- ↑ v. 105. C. A. come gli aspetti, fassi;
- ↑ v. 106. C. A. s’affisser,
- ↑ v. 107. C. A. dinanzi a
- ↑ v. 108. Vestigge. Tale in antico era l’ortografìa di alcune parole, come egreggi, preggio, reggia, e simili. E.
- ↑ v. 112. C. A. ad essi
- ↑ v. 119. C. A. che ’l ti dica;
- ↑ v.123. C. A. Letè non gliel
- ↑ v. 127. C. A. là si deriva:
- ↑ v. 135. C. A. Donnescamente disse:
- ↑ v. 139. C. A. piene son
- ↑ v. 145. C. A. salire alle
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C O M M E N T O
Deus, veuerunt gentes ec. Questo è xxxiii et ultimo canto de la seconda cantica, nel quale l’autore compie di ponere le suoe figurazioni; e finge come fu imbagnato et abbeverato nel fiume Eunoe. E dividesi tutto in du’ parti: imperò che prima finge come Beatrice li disse certe belle sentenzie e dichiaragioni; nella seconda finge come Beatrice anco li dichiara alcuno dubbio mosso da lui, e come s’imbagnò nel fiume Eunoe e bevène, et è la seconda lezione che incominciasi quive: Ma perch’io veggio ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima finge come per le ditte persecuzioni e trasformazioni de la Chiesa che è lo carro, de la corte ch’è lo timone, le virtù ditte di sopra si dolseno, et insiememente Beatrice lo confortò; ne la seconda parte finge come Beatrice lo sollicitò ch’elli la seguitasse et ammonittelo ch’elli la dovesse dimandare, et incorniciasi quive: Così sen giva ec.; nella tersa finge com’ella li dichiarò che chi fa male a la Chiesa d’Iddio ne fi’ punito, e come verrà uno duca che farà vendettta dei mali pastori e dei principi che corrompono li pastori, et incominciasi quive: Et ella a me ec.; nella quarta finge come Beatrice dichiara che tosto avverrà quello ch’ella à preditto, et ammonisce lui che lo scriva, et incominciasi quive: E forse che la mia ec.; nella quinta finge come Beatrice ancora continua belle sentenzie e dichiaragioni, e quive incomincia: Qualunque rubba ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizioni letterali, allegoriche e morali.
C. XXXIII — v. 1-15. In questi cinque ternari l’autore nostro finge che per lo trasformamento del carro e rubbamento de la pianta ditta di sopra si dolesseno le tre virtù teologiche e le quattro cardinali, e Beatrice le confortasse e consolasse, dicendo così: Le donne; cioè le sette virtù teologiche e cardinali, cominciaron lagrimando; cioè dolendosi con lacrime, quil salmo che incomincia: Deus, venerunt gentes in haereditatem tuam, et polluerunt templum sanctum tuum — , dolce salmodia; cioè dolce canto di salmo: e viene apponitive al Deus, venerunt gentes ec. salmodia; cioè canto di salmo, alternando; cioè scambiando et avvicendevilmente dicendo ciascune lo suo verso, come si fa in coro, Or tre; cioè ora le tre virtù teologiche, or quattro; cioè ora le quattro virtù cardinali. Questo salmo contiene lo lamento che fa lo Salmista del guastamento del tempio di Dio, e però finge l’autore che l’udisse cantare quando fu veduto lo trasformamento de la Chiesa di Dio e li rubbamenti de la pianta, per dare ad intendere che li virtuosi omini ogni volta si dolliano ch’elli odeno così trasformata la corte di Roma, che di spirituale sia fatta carnale, e di santa viziosa e peccatrice; e cusì li adornati di virtù cardinali, come li adornati di virtù teologiche, e che per questo li virtuosi ne siano perseguitati. E Beatrice sospirosa e pia; cioè dolorosa di quello trasformamento, e pietosa in verso Iddio, cioè amatrice dell’onore d’Iddio et in ver lo prossimo, cioè de la salute del papa e dei cardinali e di tutta la corte e dei virtuosi che sono perseguitati dal mondo, Quelle; cioè sette donne, ascoltava sì fatta; cioè sì penosa di tale trasformazione e persecuzione, che poco Più a la Croce; cioè di1 Geso Cristo, sì cambiò Maria; cioè la Virgine Maria, quando vidde in croce lo suo Filliuolo. Ecco che fa comparazione de la Virgine Maria a Beatrice: intende tutti li veri Teologi che si dolliono del trasformamento de la Chiesa, de la corte e de la persecuzione dei santi. Ma, poi che l’altre vergini; cioè sette virtù ditte di sopra, dier loco: imperò che ebbero compiuto lo salmo ditto di sopra, A lei; cioè a Beatrice, di dir; cioè lo suo confortamelo, levata suso in2 pè; cioè levata ritta, secondo la lettera, per confortarle; ma allegoricamente intende dei predicatori de la santa Teologia li quali stanno sempre ritti quando al popolo manifestano la parola d’Iddio, li quali parlano inspirati da lo Spirito Santo et ammaestrati de la santa Teologia; e però stanno ritti, com’è stato ditto di sopra, per dare ad intendere ch’elli stanno levati suso a Dio co la mente come col corpo, et anco per mostrare che siano messi d’Iddio. E però come lo messo che porta l’ambasciata, ritto la dà per mostrare la sua solicitudine e fede che non si riposa anco come iunge3, così la dà ritto; e così anco ora per noi lo sacerdote, perchè è nostro imbasciatore a Dio; e però finge che Beatrice si levasse ritta, et ancora perchè chi à a pronunziare, mellio pronunzia ritto che a sedere: imperò che mellio può mostrare li atti corporali; e la pronunziazione, secondo che dice Tullio, è moderazione con bellessa de la voce, del volto e dell’atto. Rispuose colorata come foco; cioè accesa del fervore de la carità Beatrice; e per questo dimostra lo volto in che qualità era. Modicum, et non videbitis me; ecco che Beatrice accesa del fervore de la carità, vedendosi lamentare e piangere le suprascritte virtù, come è stato ditto di sopra, confortando le suoe suore che sono le ditte virtù, arricordò loro le parole che disse Cristo ai suoi discepoli confortandoli, le quali sono poste di sopra, che predisse loro la persecuzione loro; cioè: Poco sarà già, che voi non mi vedrete: imperò ch’io me ne vado al Padre, e voi serete perseguitati, Et iterum, sorelle mie dilette; rispuose a le dette virtù ancora queste altre parole, che disse anco Cristo: Modicum, et jam vos videbitis me; ne le quali parole predisse loro la loro beatitudine, come appare ne le parole che seguitano ne l’Evangelio. E questo finge che dica Beatrice lo nostro autore, secondo la lettera, a conforto de le suoe suori, quasi dicesse: Arricordivi di quil che disse Cristo ai discepuli nell’Evangelio di san Gioanni cap. xvi, che pogo starebbe che nol vedrebbeno che se ne anderebbe al Padre, e pogo starebbeno ch’elli lo vedrebbeno: però ch’ellino andrebbeno a lui in cielo, e vedrannolo quive glorioso. E questo finge che dica Beatrice per conforto a le virtù, dicendo: Non vi turbate di quel che vedete fare contra Iddio e contra voi, che tosto serà lo fine; cioè quando li virtuosi seranno beatificati o quando Cristo verrà ad iudicare, et allora si farà iustizia dei peccatori. E così allegoricamente intende che i predicatori de la santa Teologia confortino li virtuosi e santi uomini, che si turbano dei mali che vedeno fare a sè che abbino pazienzia che tosto serà lo fine e farassene ancora iustizia. E cusì insegna ancora l’autore ai lettori che s’arricordino de la ditta autorità de l’Evangelio, quando pilliano turbazione di sì fatte cose; e se volessi dire come è pogo che è durato già tante centonaia4 d’anni, rispondoti che ogni tempo finito è pogo a respetto di quil che non à mai fine. Poi; cioè che ebbe ditto le ditte parole al loro conforto, le si misse inanti tutte e sette; sempre la Teologia manda inanti a sè in ogni suo atto le ditte virtù: imperò che sempre seguita quelle, E dopo sè; cioè di rieto a la Teologia, solo accennando; cioè solamente col cenno5, mosse Me; cioè Dante, e la donna; cioè Matelda, e ’l savio che ristette; cioè che rimase meco, quando Virgilio se n’andò; cioè Stazio. E per questo dà ad intendere che la sensualità di Dante e la dottrina de la Teologia e lo ingegno dello intelletto suo pur col cenno si mosseno di rieto a la Teologia; cioè avendo pur suo6 seguito.
C. XXXIII — v. 16-30. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice si mosse e come l’ammonì che li andasse presso sì, ch’elli intendesse li suoi ragionamenti, dicendo così: Così sen giva; cioè Beatrice, come ditto fu di sopra, e non credo; cioè io Dante, che fosse Lo decimo suo passo in terra posto; cioè non era anco ita diece passi, Quando colli occhi; cioè suoi, li occhi mi percosse; cioè percosse li occhi miei; cioè scontronnosi li suoi occhi coi miei. Questo è secondo la lettera; ma secondo l’allegoria che non avea anco passato diece orazioni di quella parte del libro de l’Apocalissi di santo Ioanni, lo quale elli studiava quando componeva questa parte di queste figurazioni, e di quinde le cavava; ben ch’elli le trasmutasse et arrecassele a sua intenzione, che la ragione e lo intelletto suo fu percosso da lo intelletto che ebbe santo Ioanni in quella parte, quando disse: Bestia, quam vidisti, fuit et non est; sì che li venne voglia di metterla qui appresso, e però fa questa figurazione. Chi guarderà nel ditto libro lo capitolo xvii che incomincia: Et venit unus de septem angelis, elli vedrà che da questo principio dov’è la figurazione de la meretrice che fornica coi re de la terra a quella sentenzia che detta è, cioè: Bestia, quam vidisti ec., non va diece passi d’orazione7 contenenti per sè perfette sentenzie. E con tranquillo aspetto; cioè con ragguardarmi riposatamente, Mi disse; cioè a me Dante Beatrice: Vien più tosto; ecco che finge ch’ella lo solliciti; ma elli si sollicitava sè medesmo, tanto, che se io parlo teco; cioè io Beatrice, Ad ascoltarmi; cioè ad ascoltar me Beatrice, tu sii ben disposto; cioè tu, Dante. Questa è fizione poetica conveniente a la lettera; ma anco si può intendere che l’autore la facesse perchè lo suo cuore altro vaneggiava e lo suo pensieri sì, ch’elli medesimo si fece attento. Si come io fui, come io doveva, seco; cioè con Beatrice, approssimato col pensieri a lei, Dissemi: Frate; cioè Beatrice a me Dante, chiamandomi fratello, perche non t’attenti; cioè perchè non t’assiguri, A dimandarmi omai; cioè ingiummai, venendo meco; come tu vieni? Colui va con Beatrice che studia e legge la santa Scrittura. Come a color; ecco che adduce una similitudine a suo proposito, et intendesi qui, addiviene, che; cioè li quali, sono troppo reverenti parlando Inanti a suo maggior; come dinanti ai signori, Che; cioè li quali, non traggon la voce viva ai denti; cioè non vegnano con la voce fuora, sicchè s’intenda; così: Avvenne a me; cioè Dante, che; cioè lo quale, senza intero sono; cioè de la voce e del proferire, Cominciai io; cioè Dante: Madonna; ecco che onorando lei, la chiama madonna, Voi cognoscete mia bisogna: imperò che con Beatrice è la grazia di Dio, lo quale sa tutti li nostri bisogni; e però bene dice ch’ella sa tutti suoi bisogni, e non solamente sapete li miei bisogni; ma eziandio sapete, e ciò ch’ad essa; cioè a la mia bisogna, è bono; cioè è utile; e però dite voi e non aspettate ch’io dimandi: così si dè l’omo rimettere ne la grazia d’Iddio e non dè dimandare nei suoi bisogni, che Iddio li sa mellio che noi, e quello che c’è utile; e però a lui si dè lassare provvedere.
C. XXXIII — v. 31-45. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice, dandoli prima sigurtà, li dichiara alcuna cosa de le vedute di sopra, dicendo così: Et ella; cioè Beatrice, a me; cioè Dante disse, s’intende: Da tema e da vergogna Vollio; io Beatrice, che tu; cioè Dante, omai ti disvoluppe; cioè ti liberi sì, che tu non abbi più paura, nè vergogna, Sì che non parli omai; cioè ingiummai tu, Dante, com om; cioè come omo, che sogna: chi sogna non parla espedito; ma agognando. Sappi; cioè tu, Dante, che ’l vaso; cioè lo carro che figura la Chiesa, che ’l serpente ruppe; cioè lo quale lo dragone ditto di sopra fesse co la coda e tiròne del fondo, come ditto fu di sopra, Fu; cioè vaso, e non è; cioè ora: imperò che ’l vaso dè essere intero, quello non è intero; dunqua non è più vaso. Questo è secondo la lettera; ma allegoricamente intende che la Chiesa di Roma non sia più intera e però non è vaso, che ’l vaso dè essere intero, altramente non è vaso, come ditto è, perchè non è unita insieme; ma divisa: et è fatta per la maggior parte di spirituale carnale, e di virtuosa viziosa; e questo cavò l’autore de l’Apocalissi del capitolo xvii, quando disse: Bestia, quam vidisti, fuit et non est — . ma chi n’à colpa; di questa rottura e di questa divisione, creda Che vendetta di Dio non teme suppe. Questo dice, perchè è vulgare opinione dei Fiorentini, non credo di quelli che senteno; ma forsi di contadini, o vero che sia d’altra gente strana; unde l’autore lo cavò non sò: non dè essere che non sia, dà che l’à posto; che se alcuno fusse ucciso, et in fra li 9 di’ dal di’ de l’uccisione l’omicida mangi suppa di vino in su la sepoltura, li offesi non ne possano mai fare vendetta; e però quando alcuno vi fusse morto, stanno li parenti del morto 9 di’ a guardare la sepoltura, acciò che li nimici non vi vegnino o di di’ o di notte a mangiarvi suso la suppa; e però dice l’autore che la vendetta di Dio non à paura d’essere impedita per suppe, ch’ella pur verrà ad effetto, che chi arà divisa la Chiesa ne patirà la pena per la iustizia di Dio. Non sera d’ogni tempo senza ereda L’aquila: cioè lo imperio non serà d’ogni tempo sensa imperadore; questo dice, perchè quelli ch’erano al suo tempo non erano imperadori: imperò che solea lo imperadore dirissare, unire e racconciare la Chiesa; ma al suo tempo de l’autore stavano sudditi a la Chiesa e non ardivano di correggerla sì, che non erano imperadori, che; cioè la quale aquila, lassò le penne al carro; questo dice, perchè Costantino dotò la Chiesa, come ditto è stato di sopra, Per che; cioè per la qual cosa, divenne mostro; cioè lo ditto carro: mostro è cosa che viene contra l’uso de la natura, contra l’uso de la natura è che il carro dovesse essere di nudo diventato pennuto e mettesse le sette suoe teste co le corna fuora, come detto fu di sopra, e poscia preda: imperò che fu menato via dal gigante, come ditto fu e sposto di sopra, Ch’io veggio certamante; cioè io Beatrice, e però ’l narro; cioè e però lo dico, già stelle propinque, Sigure d’ogn’intoppo; cioè d’ogni contraponizione, e d’ogni sbarro; cioè d’ogni ritenimento; cioè che non aranno impaccio veruno, A darne tempo; cioè a producere uno tempo, Nel quale; cioè tempo, un cinquecento; la lettera D rilieva 500, sicchè per questo intende uno D; diece, la lettera X rilieva diece, e per questo intende uno X; e cinque, la lettera V rilieva 5, e per questo intende uno V, sì che per queste 3 lettere DV et X intende questo nome DVX; sicchè per questo intende: Nel quale tempo uno duca8, et uno9 signore, Messo; cioè mandato, da Dio anciderà la fuia; cioè la meretrice, per la quale intende lo papa e la corte di Roma fuggitiva, che è fuggita, per mellio adulterare con lui, da Roma in Francia, Con quel gigante; cioè col re di Francia, lo quale figurò di sopra gigante, che; cioè lo quale, con lei delinque; cioè con lei pecca e falle: imperò che li benefici si danno a sua volontà e le grazie si fanno a sua volontà; e non secondo li meriti de le persone, e secondo la ragione e la iustizia.
C. XXXIII — v. 46-57. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice dichiarò che li fatti serebbeno esposizione de la sua profezia; et ammonittelo che scrivesse com’era fatta la pianta de l’obedienzia ditta di sopra, dicendo così: E forse che la mia narrazion buia; cioè oscura, Qual Temi; questa Temi fu una iddia, secondo che finge Ovidio Metamorfosi nel I, che dava risposte de le cose che doveano venire al suo tempo, e davale sì oscure che non si poteano intendere se non quando li fatti avveniano: e però finge che rispondesse a Deucalione e Pirra, quando dimandonno come doveano acquistare la generazione umana, perduta per lo diluvio fatto in Tessalia al tempo del ditto re Deucalione: Partitevi del tempio e copritevi lo capo e scingetevi e gittate l’ossa de la grande madre di po’ le spalle vostre. Ne la quale risposta volse che s’intendesse che gittasseno le pietre (che sono l’ossa de la terra, la quale è la grande madre: però che ogni cosa genera) di po’ le spalle loro, e cusì fenno. E dice Ovidio che quelle che gittò Pirra diventonno femine, e quelle che gittò Deucalione diventonno omini. Avvenne uno tempo, nel quale si trovonno certe iddie che abitavano a le fonte et ai fiumi che si chiamavano Naiade, le quali sponevano le risposte di Temi; unde ella indegnata di ciò mandò uno porco, ovvero una fiera ne la contrada, benchè Ovidio nel vii dice una bestia che divorava le biade e lo bestiame: imperò che le persone aveano incominciato a lassare lo suo culto lo quale prima mantenevano, perchè dicesse loro più chiaramente le suoe risposte, poi che le Naiade le comincionno a sponere; e però l’autore dice: Qual Temi; cioè si è fatta oscura la mia narrazione, come fatta, Temi nette; cioè quella iddia ordina e coniunge, e persuade; cioè conforta li omini che debbiano fare; et adiunge l’autore: e Sfinge; questo fu uno10 che, secondo che dice Stazio ne la Tebaide, stava in una spilonca11 d’uno monte che era tra Tebe et Argos e Micene; et avea lo volto vergineo, lo collo di cavallo, li piedi come orso o leone, lo corpo come uccello pennuto, e l’ale e la coda a modo di pescio, come dice Orazio nel principio de la Poetria: Humano capiti cervicem pictor equinam ec., e chiunqua passava quinde, costringea a solvere questo problema: Quale era quello animale che prima andava con quattro piedi, poi con du’ e poi con tre; e se nol sapea dire, combattendo lo gittava a terra de la spilonca e divoravalo; e se lo sapea, senza combattere lo lassava andare via, se volea; per la qual cosa molti v’erano già periti. Venendo poi Edippo filliuolo del re Laio di Tebe a quil luogo, solvè lo problema, dicendo che questo era l’omo, che prima andava coi piedi e co le mani quando è fanciullo, possa va con du’ quando è cresciuto poi va12, con tre quando è vecchio: imperocchè s’appoggia al bastone; e ditto lo problema volse combattere col mostro e gittollo a terra de la spilonca et ucciselo; e però dice l’autore, e tale, Qual; narrazione, Sfinge; cioè quil mostro, nette e persuade; cioè compone e conforta a chi passa che lo solva, Perch’a lor modo lo intelletto acuia; cioè e perchè dico che la mia narrazione è buia quale era quella di Temi e di Sfinge: imperò ch’ell’assottillia et oscura lo intelletto suo al loro modo; cioè a modo che oscurava Temi e Sfinge lo intelletto de la sua narrazione, Ma tosto fin li fatti; cioè che avverranno, le Naiade; cioè le iddie che13 sporranno la mia oscura narrazione, come quelle soleano sponere la narrazione di Temi, Senza danno di pecore o di biade: imperò che, come mandò Temi, non mandrà la bestia che devori lo bestiame e le biade, come fu ditto di sopra. Tu; cioè Dante, nota; quello ch’io t’abbo ditto, e sì come da me son porte Queste parole, si le insegna ai vivi; cioè a quelli del mondo le insegna queste parole, com’io te l’abbo dette, Di viver; cioè di quella vita, ch’è un correre a la morte14; Et aggi a mente; tu, Dante, quando tu le scrivi; cioè le parole ditte di sopra, Di non tacer quale ài vista la pianta; cioè l’arbore de l’obedienzia, Ch’è or du volte dirobata quivi; cioè l’una volta15 quando l’aquila si calò rompendo le foglie e li fiori e la scorsia, e l’altra volta fu quando lo preditto gigante disciolse ’l carro e menosselo via, e questo fu esposto di sopra. E qui si può muovere dubbio; cioè come è derobata la pianta, s’è menato via lo carro? A che si dè rispondere che, poi che ’l griffone legò lo carro a la pianta, lo carro e la pianta fu fatto una cosa, et era parte de la pianta; e così si può dire che la pianta sia stata rubbata due volte. Quel che s’intenda per la pianta, e per lo carro, e per l’aquila, e per lo gigante, e per lo rubbamento sposto fu di sopra.
C. XXXIII — v. 58-72. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice dichiara a Dante alcuna notabile cosa de la ditta pianta, dicendo così: Qualunque; cioè persona, rubba quella; cioè pianta, come fece lo gigante che ne levò la corte, o quella schianta; cioè rompe, come fece l’aquila che fa16 cascare le fronde e li fiori, e ruppe la scorsa perseguendo li santi, Con biastema di fatto: biastema è detrattazione17 e mancamento d’onore, e però una biastema è di ditto et altra è di fatto; biastema di ditto è quando con sole parole manchiamo l’onore d’Iddio; biastema di fatto è quando coi fatti manchiamo l’onore d’Iddio; e perchè li fatti sono maggior cosa che li ditti, però dice l’autore con biastema di fatto, a dimostrare maggiore offensione che fare si possa, offende Iddio; che è maggiore offensione d’ogni altra, Che solo all’uso suo la creò santa: cioè lo quale Iddio solamente creò la pianta de l’obedienzia e lo carro coniunto ad essa santa all’uso suo; cioè la santificò e consecrò ne la sua creazione e benedissela, acciò che essa usandola, l’omo intendesse18 lo culto, e così iustamente meritasse vita eterna, pria di fatica mentre che visse che fu anni 930, e poi di fatica mentale tanto. Iddio creò la religione dove s’osserva l’obedienzia e la santa Chiesa; santa, acciò che solamente servisse a lui. Per morder quella; cioè pianta de l’obedienzia, in pena; corporale e mentale19 di tenebre: imperò che nel limbo in tenebre stette lo primo padre Adam 4302 anni, et in disio; cioè in desiderio di vedere Iddio, Cinque milia anni e più l’anima prima; cioè d’Adam, che fu la prima anima che Iddio creasse, Bramò; cioè desiderò, colui; cioè Iesu Cristo, che ’l morso; cioè lo quale lo morso de la pianta che fece Adam, quando prese e morse e mangiò lo pomo a lui vietato contra ’l comandamento di Dio, in sè punio: imperò che, per ristoro di quella disobedienzia, Cristo filliuolo d’Iddio, Dio et omo sostenne pena in sul legno de la croce che fu di quella pianta, come ditto fu di sopra, e moritte per sodisfare la disobedienzia d’Adam co la sua obedienzia; dunqua bene punitte lo morso dell’omo Cristo in sè, omo fatto d’Iddio; e ben dice 5000 anni e più: imperò che Adam visse 930 anni, e nel limbo stette 4302 anni che è in tutto anni 5232, sì che ben sono più di 5000 anni. Dorme lo ingegno tuo; cioè di te Dante, se non la stima Per singular cagion esser eccelsa; cioè alta, Lei; cioè la ditta pianta, tanto; cioè quanto detto fu di sopra: imperò che l’obedienzia è tanto alta virtù, che adiunge infine a Dio iustamente, e sì traversa nella cima; cioè la ditta pianta. Come l’autore à detto di sopra, la ditta pianta era altissima, e quanto più andava in su tanto più stendeva li suoi rami in lato, che significa l’ampiessa de la ditta virtù che si stende in infinito come la scienzia del bene e del male. Ditto fu per me nel precedente canto, perchè l’autore àe finto le preditte condizioni a la ditta pianta, e però nollo replico qui. E se stati non fusser acqua d’Elsa: Elsa è uno fiume posto ne le confine tra santo Miniato del Tedesco et20 Empuli che è del contado di Fiorensa, e l’acqua sua à questa natura che mena pietra come molte altre acque menano solfaro, sicchè le groste de le ripe sono tutte gromate di pietra; e quando volliano li abitatori fare uno arco bello intero di pietra, metteno la pallia nel ditto fiume in quella forma che volliano l’arco, et in processo di tempo trovano apposto a la paglia del fiume la pietra in quella forma che vogliano l’arco tutto d’uno pesso, e però dice l’autore che Beatrice dicesse a lui: E se Li van pensieri non fusser stati acqua d’Elsa intorno a la tua mente; cioè non fusseno indurati come pietra e fatti pietra; e dèsi acconciare lo testo così: E se Li pensier vani; li quali tu ài avuto intorno a le cose del mondo, non fusser stati acqua d’Elsa; cioè non fusseno stati21 vani a fare impietrare la tua mente, come l’acqua de l’Elsa ad impietrare et indurare come pietra la pallia: imperò che intorno vi fa la grosta de la pietra, lo quale fiume credo che si chiami Elsa perchè la sua calata è grande e viene da alto, intorno a la tua mente: la mente è lo luogo dove stanno li pensieri; cioè se la tua mente non fusse stata indurata et impietrata dei vani pensieri, E ’l piacer loro; cioè dei ditti pensieri vani non fusse stato alterativo et infettivo de la tua mente, un Piramo a la gelsa; cioè come fu quel Piramo infettivo et alterativo del gelso, u’ e’ avea dato la posta a Tisbe che dovesse venire; per la qual cosa ne seguì la morte, come ditto fu di sopra nel canto xxvii, sì che di bianco lo fece diventare vermillio; cioè se lo piacere dei vani pensieri non fusse stato alterativo et infettivo de la tua mente, come fu Piramo alterativo del gelso che avea le gelse bianche e per lo suo sangue quando s’uccise diventonno vermiilie, e poi le fece vermillie, come fu detto nel preallegato luogo, Per tante circustanzie; quante ditte sono de la ditta pianta, solamente La giustizia di Dio; e non altro, Cognosceresti moralmente; cioè secondo moralità, all’arbor; cioè a la pianta detta di sopra, nell’interdetto; cioè nel vietamento che fu fatto ai primi parenti; cioè che mangiasseno d’ogni frutto, salvo che del legno de la notizia del bene e del male. Qui lo nostro autore parla molto sottilmente, e però è da considerare quello ch’elli vuole dire. Lo nostro autore finge che Beatrice li parli e dica che s’elli avesse fermato li suoi pensieri a le cose d’Iddio, e non a le cose vane del mondo, elli cognoscerebbe che Iddio per sola iustizia vietò all’omo che non toccasse quel pomo, secondo moralità; la qual cosa si dimostra per le circustanzie dell’arbore. La prima circustanzia è che Iddio ne la creazione22 consecrò e benedisse quella pianta, acciò che la creatura co l’osservanzia del comandamento rendesse lo culto debito a Dio, ch’è iustizia: imperò che come Iddio avea fatto l’omo di due nature, cioè carnea e spirituale; così due beni li apparecchiò al principio; l’uno temporale e l’altro eterno, l’uno corporale e l’altro spirituale; e perchè prima li era bisogno lo bene corporale e poi lo spirituale, lo corporale bene li diè prima e lo spirituale li promisse e proposelelo sì fatto che per merito lo potesse acquistare. Et acciò che l’omo lo bene corporale che li avea dato sapesse e potesse per merito guardare e lo promesso meritare, come dimanda la iustizia, in de la creazione diede a l’omo la ragione acciò che cognoscesse lo bene e lo male, e diedeli la libertà de l’arbitrio acciò che per quella, sottomessa a l’obedienzia, potesse meritare; et adiuniseli lo comandamento de l’obedienzia, per l’osservanzia de la quale non perdesse lo temporale bene che Dio li avea dato, et avesse lo bene promesso sì che per merito venisse al premio che tutto è secondo iustizia. Arebbe potuto Iddio, se avesse volsuto, darli di grazia l’uno bene e l’altro; ma non serebbe stata iustizia; ma grazia; e cusì lo bene de la iustizia non serebbe stato comunicato a l’omo; dunqua lo vietamento fu fatto, perchè la iustizia di Dio si cognoscesse e s’adempiesse. L’altra circustanzia è che Adam, perchè mangiò lo pomo, cinque milie anni e più penò a vedere la faccia di Dio, che tutto fu iustizia perchè avea disobedito. L’altra circustanzia è che mai Adam non arebbe veduto la faccia di Dio, se non si fusse sodisfatto co l’obedienzia a quella disobedienzia d’Adamo, per la quale sodisfece lo filliuolo di Dio fatto omo quando sostenne pena in sul legno de la croce per obedire al Padre che ’l mandò nel mondo, acciò che manifestasse la verità di Dio alli omini, e per questo fu morto e pendette in su quello legno medesmo nel quale fu commessa la disobedienzia: e come due mani si steseno a disubedire, cioè quella d’Eva e d’Adamo; così Cristo amburo le suoi mani in sul ditto legno stese per obedienzia; e cusì s’adempiè la iustizia di Dio inverso l’omo, e participò et accomunò Iddio con lui lo bene de la iustizia per questo così fatto modo; e così Iddio mostrò tutto sè a l’omo tanto, quanto l’omo è capace di lui. E queste circustanzie àe toccato l’autore nel testo, come appare di sopra; e per questo si cognosce moralmente che Iddio, per dimostrare et adimpiere la sua iustizia, fece lo ditto comandamento ai primi nostri parenti intorno a la ditta pianta. E qui finisce la prima lezione del canto xxxiii de la seconda cantica. Seguita la seconda.
Ma perch’io veggio ec. In questa seconda lezione del canto xxxiii lo nostro autore finge come Beatrice li dichiara, parlando con lui, alquante belle sentenzie; e come ella lo fece immergere nel fiume Eunoe. E dividesi tutta in sei parti: imperò che prima finge come Beatrice li rende la ragione, perchè di sopra lo fece cauto de la ditta sentenzia; ne la seconda muove dubbio Dante a Beatrice, per ch’elli non può comprendere l’altezza del suo parlare, et ella li rende la cagione, et incominciasi quive: Ma perchè tanto ec.; ne la tersa finge com’elli fece scusa a Beatrice, a la quale scusa Beatrice rende la cagione perchè quella non è sofficente scusa, et incominciasi quive: Ond’io rispuose ec.; ne la quarta finge come pervenneno al fiume Eunoe; cioè a la sua fonte, et incominciasi quive: E più corrusco ec.; ne la quinta finge come fu ammonito ch’elli dimandasse d’esser bagnato nel fiume Eunoe, et incominciasi quive: O luce o gloria ec.; ne la sesta parte finge come fu imbagnato nel ditto fiume, e conchiude lo suo poema, et incominciasi quive: Come anima gentil ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione litterale, allegorica o vero morale.
C. XXXIII — v. 73-81. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice rende la cagione, per che li disse le parole ditte di sopra, le quali funno molto sottili, dicendo così: Io dissi di sopra che se li vani pensieri non t’avasseno impietrata et indurata la mente come pietra, e lo loro piacere non te l’avesse tinta e mutata di bianca in nera, tu cognosceresti che per iustizia Iddio vietò ai primi parenti lo pomo; ma ora ti dico che, perchè tu ài lo cuore et impietrato e tinto sì che tu non intendi le mie parole, vollio che la sentenzia ditta di sopra te ne la porti, se non scritta, al meno dipinta dentro nel tuo cuore, acciò che si paia che tu sii stato qui meco; e però dice: Ma perch’io; cioè Beatrice, veggio te; cioè Dante, Fatto di pietra ne l’intelletto; cioè indurato come pietra nel tuo intendimento da i vani pensieri, come l’acqua dell’Elsa indura la pallia apponendovi la groma23 de la pietra, come fu ditto di sopra, et impietrato, tinto; cioè e non solamente impetrato; ma tinto e mutato lo tuo intelletto dal piacere dei vani pensieri di bianco in vermillio, come si mutò lo gelso per lo sangue di Piramo; cioè mutato di puro e netto in infetto e macchiato, Sì che t’abballia il lume del mio detto: come24 lo lume abballia l’occhio quando è infetto; così lo lume e la chiarezza delle mie parole abballiano lo vedere del tuo intelletto che è indurato et infetto dei vani pensieri, Vollio; io Beatrice, anco, e se non scritto: la scrittura dichiara mellio che la dipintura: imperò che ti dimostra particolarmente lo suo intendimento co le parole scritte, e la dipintura rappresenta li atti all’occhio li quali spesse volte non s’intendeno, se la scrittura non v’è che ’l dichiari; e però mal fa chi scrive se non scrive aperto, sicchè s’intenda, almen dipinto; cioè se non scritto, sì che s’intenda pienamente come si dè intendere la scrittura, al meno scritto per sì fatto modo che s’intenda confusamente come fa la dipintura, Che ’l te ne porti dentro a te; cioè tu, Dante, quello ch’io ti dissi di sopra dentro nel cuore ne porti la sua25 somma, ben che non intendi la particularità sì che paia che tu sii stato qui meco, e che tu vegni da me: imperò che chi ti udirà dire tali sentenzie elli dirà: Questi viene da Beatrice, come lo peregrino che reca dal sepolcro lo bordone cinto de palma, acciò che paia ch’elli vegna di Ierusalem: imperò che la palma abbondevilmente si trova di là; e però dice: per quello; cioè per simile cagione a quello, Che; cioè per lo quale, si reca ’l bordon; da’ peregrini che tornano di Ierusalem, di palma cinto; cioè torneato di palma: palma è la follia de l’andattalo, e di là n’è copia grandissima, e però in segno che sieno stati di là li peregrini arrecano lo bordone cinto di palma. Et io; cioè Dante rispuosi, s’intende, a Beatrice: Sì come cera di suggello, Che; cioè la quale, non tramuta la figura impressa; cioè suggellata in essa, Segnato è or da voi; cioè Beatrice, lo mio cervello; dice Dante come li Stoici diceano che la mente nostra era come cera che ricevea da le cose di fuora le impressioni, e così l’una impressione cacciava poi l’altra; così parla qui l’autore, e come lo Filosofo che dice: Anima nostra est sicut tabula rasa, in qua nihil est pictum; ma qui l’autore dice cervello: imperò che nel celebro sono le cellule dell’apprensiva e de la retentiva et imaginativa. Per queste parole dà ad intendere ch’elli è sì bene suggellato e segnato lo mio cervello del vostro segno, che bene si parrà ch’io torni da voi, Beatrice; e quello ditto di sopra cavò l’autore dal maestro de le sentenzie nel quale è la Teologia, sì che bene è segno che Dante l’avea studiato e ch’elli avea veduto quive la Teologia significata per Beatrice; e però àe fatto l’autore la preditta fizione, per mostrare questo ai suoi lettori.
C. XXXIII — v. 82-90. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli mosse uno dubbio a Beatrice, del quale ella li rende la cagione, dicendo così: Ma perchè tanto sovra mia veduta; dice Dante a Beatrice, Vostra parola disiata; cioè desiderata da me Dante: potrebbe dire lo testo: disviata vola; cioè perchè vola la vostra parola disviata dal mio intendimento tanto sovra mia veduta, cioè mio intelletto, Che; cioè la quale veduta e lo quale intelletto, più la perde; cioè la vostra parola, quanto più s’aiuta; d’intenderla? Questo si dè intendere che, quando lo intelletto umano vuole comprendere le cose d’Iddio co la ragione umana, quanto più vi s’affatica più li paiano non vere: imperò che s’apprendono per fede e non per ragione; e però dice la Scrittura santa: Fides non habet meritum ubi humana ratio perhibet experimentum. Et a questo dubbio finge l’autore che Beatrice risponda: Perchè; cioè acciò che tu, Dante, cognoschi, disse; cioè Beatrice, quella scola; cioè dei Filosofi, Ch’ài seguitato; cioè, tu Dante; e per questo dimostra ch’avea studiato in Filosofia, e veggi sua dottrina; cioè de la scuola dei Filosofi, che seguita pur la ragione, Come può seguitar la mia parola: le parole de la santa Teologia sono sì alte, che ad esse non adiunge l’umana ragione, E veggi; ancora tu, Dante, vostra26 via; cioè del mondo da la divina; cioè via, Distar cotanto; cioè esser tanto differente, quanto si discorda Da terra ’l Ciel che; cioè lo quale cielo, più alto festina; cioè più alto si volge tostamente; e questo è lo primo mobile che si muove contrario al muovimento delli altri cieli, et in 24 ore fa la sua revoluzione. La via mondana seguita la terra e li beni terreni, e la via divina seguita li cieli e li beni celesti; e però bene s’adatta la similitudine posta dall’autore.
C. XXXIII — v. 91-102. In questi quattro ternari lo nostro autore finge com’elli rispuose ad alcuno ditto di Beatrice; a la quale risposta ella contradice con sottile ragione, e bene respondente a la poesi, dicendo così: Ond’io; cioè per la qual cosa io Dante, rispuose a lei; cioè a Beatrice: Non mi ricorda, Ch’io; cioè che io Dante, straniasse me; cioè dilungasse me, giammai da voi; cioè da Beatrice, Nè ònne coscienzia che rimorda; cioè me d’essermi dilungato da voi; unde Beatrice rispuose: E se tu ricordar non te ne poi; cioè tu, Dante, Sorridendo rispuose; cioè Beatrice a Dante, or ti rammenta; cioè ora ti ricorda, Come bevesti su di Lete; cioè del fiume de la dimenticagione, ancoi; cioè ancora oggi; la qual cosa non dei avere diminticata: imperò che Lete non fa dimenticare se non lo male, secondo la fizione poetica. E se dal fummo foco s’argomenta; cioè e se si può fare argomento27 quando esce lo fummo d’unqua dov’è lo fuoco; lo quale argomento si fa, Cotesta oblivion; cioè cotesta dimenticagione, chiaro conchiude Colpa ne la tua vollia; cioè ne la tua volontà, altrove attenta; cioè inverso altre parte, quasi dicesse: Se tu non te ne ricordi d’esserti partito da me, questo è perchè ài bevuto di Lete, che è fiume che fa dimenticare ogni peccato, e fallo commesso: e cotesto non ricordarti è segno che la tua volontà fu colpevile, attendendo ad altro a che tu non dovei: che se tu non avessi ad altro atteso che a me, tu aresti fermezza, e non arricordandoti d’esserti partito è segno dimostrativo che ti partisti: et è segno che partire fu colpa e peccato: imperò che per lo bere di Lete si dimentica solamente la colpa e lo peccato e non lo bene, e però bene si conchiude: con ciò sia cosa che tu ti partisti da me, e non te n’arricordi, e Lete fa dimenticare solamente lo male, dunqua seguita che lo partire da me e darsi a la Filosofia o a la Poesi sia male e peccato. E questo è quello che intese propriamente provare l’autore, che lassare la Teologia per li altri studi sia peccato, secondo la sua fizione. Veramente ora mai: cioè ingiummai, seranno nude Le mie parole; dice Beatrice a Dante: Ingiummai ti parlerò apertamente, quanto converrassi; cioè tanto, quanto si converrà, Quelle scoprir; cioè aprire e manifestare, a la tua vista rude; cioè al tuo intendimento rozzo. Poi ch’io t’abbo mostrato che la vostra dottrina non si confà co la mia, io ti parlerò ingiummai apertamente.
C. XXXIII — v. 103-114. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, andando per lo paradiso, pervenneno a la fonte di Lete e d’Eunoe; ma prima descrive lo tempo, dicendo così: E più corrusco; cioè splendiente che non era stato inanti: imperò che sempre cresce lo splendore in fine al mezzo di’, e con più lenti passi; che non era stato inanti, Teneva ’l Sole il cerchio del merigge; cioè lo meridiano: imperò ch’era più alto che non era stato; e quanto è più alto lo sole, tanto più lentamente va lo sole; e più risplendiente è nel mezzo di’, che la mattina o la sera, Che; cioè lo quale meridiano, qua e là, come la spera; cioè del sole, fassi; cioè secondo che la spera del sole si muta: imperò che ’l sole a chi si leva più adrieto et a chi più inanti secondo lo sito in che lo omo è, e così si muta28 lo meriado, ora inverso l’oriente più e meno, ora inver l’occidente più e meno, secondo li diversi siti de la terra, Quando s’affisen; cioè quando si fermonno le sette donne ch’erano inanti a Beatrice: imperò che lei sempre guidano, era mezzo di’, sì come s’affigge; cioè si ferma; ecco che fa similitudine, Chi va; cioè colui lo quale va, dinanti a gente per iscorta; cioè per guidatore d’alcuna gente e scorgitore de la via, Se trova novitate; cioè la ditta scorta, in suo vestigge; cioè ne le suoe pedate, cioè ne la sua via ch’elli àe a scorgere, Le sette donne; queste sette donne si dè rendere dinansi a quello s’affisen, perchè è lo suo supposito, secondo la Gramatica, al fin d’un’ombra smorta; cioè a le confine d’una ombra smorta che trovonno, Qual; cioè ombra, sotto follie verdi e rami nigri: quando le selve sono folte, li rami paiano neri perchè la luce non vi può intrare, Sovra suo’ freddi rivi; cioè d’acqua, l’Alpe porta; cioè nell’Alpe si solliano trovare. Dinanzi ad esse; cioè a le ditte sette donne, Eufrates e Tigri; cioè due fiumi quale sono Eufrates e Tigri, Veder mi parve uscir d’una fontana; cioè a me Dante, E quasi amici dipartirsi pigri; cioè mi parve vedere a me Dante. E questi due fiume, che esceno d’una fontana, finge l’autore che fusseno Lete et Eunoe dei quali fu ditto di sopra, li quali finge uscire d’una fonte come esceno Eufrates e Tigris: imperò che queste sono due grazie; cioè l’una a diminticare29 lo male e lo suo fomite e lo suo incentivo, e l’altra d’arricordarsi del bene e del suo amore, che esceno d’una fonte; cioè da Dio, che è fonte di tutte le grazie e di tutti li beni.
C. XXXIII — v. 115-129. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come dimandò Beatrice che fiumi erano quelli che aveano trovati; et ella lo mandò a Matelda, e Matelda si scusa che già liel’a manifestati; e Beatrice dice a Matelda, dimostrandoli Eunoe che vi meni Dante e che ve lo ’mbagni dentro e raccendali la virtù; e però dice così: O luce, o gloria de la gente umana; ecco che parla l’autore a Beatrice, e chiamala luce de la gente umana: imperò che come per la luce; cioè per lo suo mezzo, si vedeno le cose visibili; così per la Teologia si vede da la gente umana Iddio, e chiamala gloria de la gente umana: imperò che la gloria umana perfetta è vedere e cognoscere Iddio, e la santa Teologia ci fa cognoscere e vedere Iddio; dunqua bene si può chiamare luce e gloria de la gente umana, Che acqua è questa; ecco che dimanda per volere sapere che acqua quella era, che; cioè la quale acqua, qui; cioè in questo luogo, si dispiega; cioè si deriva, Da un principio; cioè da una fonte, e sè lontana; cioè dilunga, da sè: imperò che si divide, e l’uno rivo corre inverso mano ritta, e l’altro inverso mano sinistra? Per cotal prego; cioè per tal dimando quale io fei, dice l’autore, ditto mi fu; cioè risposto fu a me Dante: Prega Matelda; cioè la mia filliuola: la dottrina de la santa Teologia è filliuola de la Teologia, che tel dica; cioè quello che tu dimandi, e qui; cioè et a questo, rispuose La bella donna; cioè Matelda, Come fa chi; cioè come fa colui lo quale, da colpa si dislega; cioè si disciolge: se l’ammaestratore che è posto ammaestrare non ammaestrasse li discepuli di quello che li è tenuto, serebbe colpevile; e però finge l’autore che Matelda risponda ch’ella à ben fatto quello che a lei s’apparteneva, dicendo: Questo et altre cose; cioè necessarie a la sua salute, Ditte li son per me; cioè Matelda, e son sigura; io Matelda, Che l’acqua di Lete; che è fiume di dimenticagione estintivo del fomite del male, nolliel nascose; cioè nolliel à appiattato: imperò che non è male questo, anco è bene, e Lete à ad appiattare pur lo male. E Beatrice; ecco che induce Beatrice rispondente al ditto di Matelda, disse, si dè intendere: Forsi maggior cura; cioè maggior solicitudine, Che; cioè la quale, spesse volte la memoria priva; de le cose che ella, Fatt’à; cioè à fatto, la mente sua; cioè di Dante, nelli occhi oscura; cioè ne la ragione e ne lo intelletto, che sono li occhi de la mente. Ma vedi; tu, Matelda, Eunoe; questo è lo nome del fiume che corre inverso mano destra; quel che significa fu ditto di sopra; cioè buona mente, quando si trattò d’essi fiumi, che; cioè lo quale, là; cioè in quello luogo, deriva; cioè fa lo corso suo, Menalo ad esso; cioè tu, Matelda, mena Dante a quello fiume Eunoe, e come tu se’ usa: imperò che la pratica della Chiesa significata è per Matelda; la quale pratica sta in predicare, in confessare, in batteggiare, in dare li sacramenti de la Chiesa e fare tutti li esercizi che sono da fare ne la Chiesa; e però dice e come tu se’ usa, La tramortita sua virtù ravviva: in de l’omo naturalmente Iddio puose la virtù e suo fomite; ma poi lo peccato spense la fiamma de la virtù, e la sua favilla e lo suo fomite appiattò come s’appiatta la favilla del fuoco sotto la cenere sì, che necessario è che per la grazia d’Iddio si ravvivi, la quale viene a noi oltra lo proveniente, che viene sensa alcuno nostro merito, per li nostri atti meritori, li quali si fanno per noi alcuna volta, secondo che siamo ammaestrati de la Chiesa.
C. XXXIII — v. 130-145. In questi cinque ternari et uno versetto lo nostro autore finge come la donna ditta di sopra; cioè Matelda, ricevuto lo comandamento di Beatrice, lo misse ad esecuzio, e scusasi l’autore perchè non disse come beve dell’acqua d’Eunoe: imperò che riserba questa materia all’altra cantica, dicendo così: Come anima gentil; ecco che arreca la similitudine: l’anima gentile è piena di virtù e così è piena di carità, e però imbasciata o richiesta a bisogno altrui non si scusa; ma adopera quello che sa o può, e però dice, che; cioè la quale, non fa scusa; cioè quando è imbasciata, Ma fa sua vollia de la vollia altrui: imperò che s’arreca a volere quil che altri vuole, Tosto che è; cioè la volontà altrui, per segno; cioè o per parole che sono segno de la nostra volontà, o per cenni, fuor; cioè dell’animo, dischiusa; cioè manifesta, Così poi che da essa; cioè da Matelda, preso fui; cioè io Dante; ecco che adatta la similitudine: La bella donna; cioè Matelda, che figura la pratica de la santa Chiesa, mossesi; cioè mosse sè, et a Stazio; lo quale era rimaso con Dante, che figura lo intelletto, Onestamente disse: Vien con lui: lo intelletto conviene accompagniare la sensualità in sì fatti atti, et onestamente dè essere mosso; e questo moralmente è notabile ai predicatori, che onestamente debeno muovere lo intelletto umano. Ora si scusa l’autore che di questo bere di questo fiume non dè trattare qui: imperò che è materia de la tersa cantica; e così licenzia la materia, dicendo: o Lettor, S’io; cioè Dante, avesse più lungo spazio; ch’io non abbo: però che sono stretto dal fine de l’opera: imperò che non debbo uscire li termini de la materia, che sono la penitenzia e purgazione del peccato e la reduzione de l’anima allo stato de la innocenzia, Di scriver, io pur conterei in parte Lo dolce ber; del fiume Eunoe: dolce è lo bere de la virtù, che; cioè lo quale, mai non m’avrea sazio: mai non si sazia l’anima de la virtù: quanto più n’à più ne vorrebbe: quanto più ne ragiona, più ne vorrebbe ragionare. Ma perchè ne son pien tutte le carte; cioè di questa materia, Ordite; cioè ordinate, a questa Cantica seconda; cioè a la cantica tersa, che è segonda da questa seconda e tersa da la prima, Non mi lassa più ir lo fren dell’arte; cioè la ragione e la regula da la poesi, che vuole che ’l poema sia simplice per simplicità di materia, et uno per unità di forma. Io; cioè Dante, ritornai da la santissim’onda; cioè del fiume Eunoe, che rammenta e raccende l’amor de le virtù, Rifatto sì, come piante novelle: le piante novelle de li ulivi sono fresche e verdi; e però dice lo Salmista: Filii tui, sicut novellæ olivarum in circuitu mensæ tuæ. — Rinovellate di novella fronda; cioè di nuovi atti virtuosi et opere, Puro; cioè netto da ogni macchia, e disposto a salir a le stelle; cioè al cielo nel quale sono le stelle: imperò che da quinci inanti abbo a trattare de le virtù che sono delli animi purgati contemplativi, li quali sono in terra per grazia et in cielo per gloria, poi che io abbo trattato pienamente de le virtù purgatorie, come è manifesto per lo processo de la materia. E qui finisce la lettera co l’esposizione allegorica e morale de la seconda cantica, de la quale sia onore e gloria al nostro Signore Iddio Onnipotente Padre, Filliuolo e Spirito Santo, che m’à conceduto grazia di compierla. In sæcula sæculorum amen. Deo gratias.
Finito libro, sit laus et gloria Cristo, Theodricus de Andrea Teutonicum scripsit 1413. Compiutolo a di’ 29 di Genai.
FINE DEL TOMO SECONDO.
Note
- ↑ Geso per Gesù adoperarono talora gli antichi. Nella Tavola Rotonda «la fede del nostro Signore Gieso Cristo». E.
- ↑ Pè; pie, giusta il pes latino. E.
- ↑ C. M. come giunge,
- ↑ C.M. centinaia
- ↑ C. M. nel cenno,
- ↑ C. M. suo segno.
- ↑ C. M. d’orationi
- ↑ Forse non è lontana la pienezza dei tempi in che questo Duca, attuando il concetto del massimo nostro Poeta, arrecherà pace all’Italia e all’Europa. E.
- ↑ C. M. uno duca cioè uno signore,
- ↑ C. M. uno mostro che,
- ↑ C. M. spelonca
- ↑ Il Magliab. ci à aiutato nel supplire da — poi va con tre — a — gittollo -
- ↑ C. M. che solveranno cioè sporranno
- ↑ C. M. morte, ecco che à descritto la nostra vita, che non è altro che corso a la morte; Et aggi
- ↑ Da — quando — a — scorsia — giunta del Magliabechiano.
- ↑ C. M. che fece cascare
- ↑ C. M. detrazione
- ↑ C. M. li rendesse
- ↑ C. M. mentale, mentre che visse che fu anni 930, e poi di fatica mentale tanto di
- ↑ C. M. Empoli
- ↑ C. M. stati duri a fare
- ↑ C. M. nella cosecrazione
- ↑ C. M. gromma della
- ↑ C. M. cioè lo
- ↑ C. M. la sua soma,
- ↑ Il Gioberti interpetra che qui via è dottrina, discorso, processo intellettuale e quindi anche pratica: è la via delle Scritture e d’alcuni Poeti nostrali. E.
- ↑ C. M. argomento quinde esce lo fummo, donqua v’è lo fuoco;
- ↑ C. M. muta lo meridiano, ora
- ↑ C. M. di dimenticare