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[v. 13-27] | c o m m e n t o | 573 |
liquore, sicchè noi stiamo digiuni; quasi dica: Poi che noi siamo in atto di purgare lo nostro peccato per lo digiuno e per la fame che sostegnamo; cioè per la contrizione. E questo dice per quelli del mondo che, quando è stato alcuno grande peccatore, e sia di santa vita, è contento a sua maggiore confusione et umilità che sia noto lo suo peccato: imperò che la penitenzia lo scusa. Questi; e dice l’autore che Forese disse costui, (e mostrò col dito); cioè additollo, è Bonagiunta; et adiunge, per dichiararlo mellio: Bonagiunta da Lucca; questi fu Bonagiunta Orbizano1 da Lucca, lo quale fu goloso e fu dicitore e fu noto de l’autore, sicchè l’uno mandò sonetti all’altro. e quella faccia Di là da lui, più che l’altre trapunta; finge qui l’autore che l’uno fusse più magro che l’altro, secondo ch’avea più peccato ne la gola, e però dimostra ora uno più magro che l’altri; e questi fu papa Martino dal Troso di Francia papa iv che sedette anni 3 mese 1 di’ 27, e fu molto goloso, e tra l’altre golosità n’ebbe una la quale conta nel testo; ch’elli si facea recare l’anguille del lago da Bolsena, che è una città nel Patrimonio, le quali sono le milliori anguille che si mangino: tanto sono grasse e di buono sapore, e faceale mettere e morire nella vernaccia e poi battere e meschiare con cacio et uova e certe altre cose, e facevane fare vivande in più maniere, le quali sono tanto ingrassative che ’l ditto papa continuandole moritte di grassezza; e però dice: Ebbe la santa Chiesa in le suo’ braccia: imperò che fu papa. D’Altroso2 fu; Al troso è una terra in Francia, unde fu papa Martino, e purga per digiuno; lo quale fa ora, L’anguille di Bolsena; cioè del lago di Bolsena, e la vernaccia; imperò che le mangiava morte et affogate ne la vernaccia: vernaccia è vino che nasce ne la riviera di Genova, millior vino che si trovi, e forsi che anco ne bea3 volontieri; unde di lui si dice che dicea, quando tornava a la cambera sua da consistoro: Quanta mala patimur pro Ecclesia sancta Dei, ergo bibamus! — Molti altri; cioè spiriti, mi nomò; cioè Forese, ad uno ad uno; com’elli li vedea, e del nomar parean tutti contenti. Questo finge l’autore per più onestà che Forese li nomasse; ma la verità è ch’elli se li redusse a la memoria e scrisse chi li parve degno più di nota; e finge che fusseno contenti d’esser nomati per scusa di sè; cioè licito m’è di nominarli, poi che sono indutti da me emendati e pentuti de’ loro peccati. Sì ch’io; cioè Dante, però non viddi un atto bruno; cioè uno turbamento; cioè non viddi che di ciò si turbasseno, perchè fusseno nominati.
C. XXIV — v. 28-39. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come venisse a ragionamento con Bonaiunta da Lucca; e come