Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XVII

Purgatorio
Canto diciassettesimo

../Canto XVI ../Canto XVIII IncludiIntestazione 5 marzo 2024 100% Poemi

Purgatorio - Canto XVI Purgatorio - Canto XVIII
[p. 386 modifica]

C A N T O     XVII.

___________


1Ricorditi, Lettor, se mai nell’alpe
     Ti colse nebbia, per la qual vedessi
     Non altramente che per pelle talpe,1
4Come, quando i vapori umidi e spessi2
     A diradar cominciansi, la spera
     Del Sol debilemente entra per essi;
7E sia la tua imagine leggiera3
     In giungere a veder com’io rividi
     Lo Sol in pria, che già nel corcar era.
10Sì, pareggiando i miei coi passi fidi
     Del mio Maestro, usci’ fuor di tal nube
     Ai raggi morti già ne’ bassi lidi.4
13O imaginativa, che ne rube
     Tal volta sì di fuor, ch’om non s’accorge,5
     Perchè d’intorno suonin mille tube,
16Chi muove te, se ’l senso non ti porge?
     Muoveti lume che nel Ciel s’informa,
     Per sè, o per Voler che giù lo scorge.

[p. 387 modifica]

19De l’empiezza di lei, che mutò forma
     Ne l’uccel che a cantar più si diletta,
     Nell’imagine mia apparve l’orma:6
22E qui fu la mente mia sì stretta7
     D’entro da sè, che di fuor non venia
     Cosa che fusse ancor da lei ricetta.8
25Poi piobbe dentro all’alta fantasia
     Un crocifisso dispettoso e fero
     Ne la sua vista, e cotal si moria.
28Intorno ad esso era ’l grande Assuero,
     Ester sua sposa, e ’l giusto Mardoceo,
     Che fu al dir et al far così intero.
31E come questa imagine rompeo9
     Sè per sè stessa a guisa di una bulla,
     Cui manca l’acqua sotto, e tal si feo;10
34Surse in mia vision una fanciulla,
     Piangendo forte, e dicea: O reina,11
     Perchè per ira ài voluto esser nulla?
37Ancisa t’ài, per non perder Lavina:
     Or m’ài perduta: io son essa che lutto,
     Madre, alla tua pria che a l’altrui ruina.
40Come si frange ’l sonno, ove di butto
     Nova luce percuote ’l viso chiuso,
     Che fratto guizza pria, che mora tutto;
43Così l’imaginar mio cadde giuso,
     Tosto che ’l lume il volto mi percosse,12
     Maggior assai che quel ch’è in nostro uso.

[p. 388 modifica]

46Io mi volgea per veder dov’io fosse,
     Quando una voce disse: Qui si monta,
     Che da ogni altro intento mi rimosse;
49E fece la mia vollia tanto pronta
     Di ragguardar chi era che parlava,
     Che mai non posa, se non si raffronta.
52Ma come al Sol, che nostra vista grava,
     E per soverchio sua figura vela;
     Così la mia virtù quivi mancava.
55Questo è diritto spirito, che ne la13
     Via d’ire in su ne drizza senza prego,14
     E col suo lume sè medesmo cela.
58Sì fa con noi, come l’om si fa sego;15
     Che qual aspetta prego, e l’uopo vede,
     Malignamente già si mette al nego.
61Or accordiamo a tanto invito il piede;
     Procacciam di salir pria che s’abbui:
     Chè poi non si poria, se il di’ non riede.16
64Così disse il mio Duca; et io con lui
     Volgemmo i nostri passi ad una scala;
     E tosto ch’io al primo grado fui,
67Senti’mi presso quasi un muover d’ala,17
     E ventarmi nel viso, e dir: Beati
     Pacifici, che son senza ira mala.
70Già eran sovra noi tanto levati18
     Li ultimi raggi che la notte segue,
     Che le stelle apparivan da più lati.19

[p. 389 modifica]

73O virtù mia, perchè sì ti dilegue?
     Fra me stesso dicea: chè mi sentiva
     La possa de le gambe posta in tregue.
76Noi eravam dove più non saliva
     La scala su, et eravam affissi,
     Pur come nave ch’a la piaggia arriva:
79Et io attesi un poco s’io udissi
     Alcuna cosa nel nuovo girone;20
     Poi mi rivolsi al mio Maestro, e dissi:
82Dolce mio Padre, di qual’ offensione
     Si purga qui nel giro dove semo?
     Se i piè si stanno, non stia tuo sermone.
85Et elli a me: L’amor del bene, scemo
     Del suo dover, qui ritta si ristora,21
     Qui si ribatte ’l mal tardato remo.
88Ma perchè più aperto intendi ancora,22
     Volgi la mente a me, e prenderai
     Alcun buon frutto di nostra dimora.
91Nè creator, nè creatura mai,
     Cominciò ei, filliuol, fu senza amore,
     O naturale o d’animo; e tu il sai.
94Lo naturale è sempre senza errore;
     Ma l’altro puote errar per male obietto,
     O per troppo o per poco di vigore.23
97Mentre ch’elli è nel Primo Ben diretto,24
     E nel segondo sè stesso misura,
     Esser non può cagion di mal diletto;
100Ma quando al mal si torce, o con più cura,
     O con men che non dè, corre nel bene,
     Contra il Fattore adovra sua fattura.25

[p. 390 modifica]

103Quinci comprender poi, ch’esser conviene26
     Amor sementa in voi d’ogni virtute,27
     E d’ogni operazion che merta pene.
106E perchè mai non può da la salute28
     Amor del suo subietto volger viso,
     Dall’odio proprio son le cose tute.
109E perchè intender non si può diviso,
     E per sè stante, alcun esser dal Primo,
     Da quell’odiar ogni affetto è deciso.
112Resta, se dividendo bene stimo,
     Che ’l mal che s’ama è nel prossimo; et esso
     Amor nasce in tre modi in vostro limo.
115È chi, per esser suo vicin soppresso,
     Spera eccellenzia, e sol per questo brama
     Che sia di sua grandezza in basso messo:
118È chi podere, grazia, onore e fama
     Teme di perder, perch’altri su monti;29
     Ond ei s’attrista sì, che ’l contraro ama:
121Et è chi per ingiuria par ch’adonti,
     Sì che si fa de la vendetta ghiotto;
     E tal convien, che mal altrui impronti.
124Questo triforme amor qua giù di sotto
     Si piange; or vo’ che tu dell’altro intende,
     Che corre al ben con ordine corrotto.
127Ciascun confusamente un bene apprende,
     Nel qual si cheti l’anima e disira;
     Perchè di giunger lui ciascun contende.
130Se lento amor a lui veder vi tira,
     O a lui acquistar, questa cornice,
     Di po’ giusto penter, ve ne martira.30

[p. 391 modifica]

133Altro bene è che non fa l’om felice:
     Non è felicità, non è la buona
     Essenzia, d’ogni ben frutto e radice.31
136L’amor, che ad esso troppo s’abbandona,
     Di sovra noi si piange per tre cerchi:
     Ma come tripartito si ragiona.
139Tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi.

  1. v. 3. C. A. altrimenti
  2. v. 4. C. M. Come e quando
  3. v. 7. C. A. E fia
  4. v. 12. C. A. giù
  5. v. 14. om non s’accorge. — Gli antichi adoperavano di frequente la parola uomo ad articolo indeterminato. E.
  6. v. 21. C. A. rimase l’orma;
  7. v. 22. C. A. E qui fu la mia mente sì
  8. v. 24. C. A. allor da lei
  9. v. 31. C. A. imagin si rompeo
  10. v. 33. C. A. qual si feo;
  11. v. 35. C. A. Forte piangendo,
  12. v. 44. C. A. che un lume
  13. v. 55. C. A. è divino
  14. v. 56. C. A. da ir su ne
  15. v. 58. Sego; seco, per la facilità dello scambio di queste due consonanti, come amigo, pogo, per amico, poco. E.
  16. v. 63. C. A. se il sol non riede.
  17. v. 67. C. A. Sentiimi
  18. v. 70. C. A. montati
  19. v. 72. C. A. apparien da più de’ lati.
  20. v. 80. C. A. nell’altro
  21. v. 86. C. A. Di suo
  22. v. 88. C. A. intenda
  23. v. 96. C. A. E per troppo e
  24. v. 97. C. A. ne’ primi ben
  25. v. 102. C. A. adopra
  26. v. 103. C. A. puoi,
  27. v. 104. C. A. in noi
  28. v. 106. C. A. Or perchè
  29. v. 119. C. A. sormonti,
  30. v. 132. C. A. Dopo giusto pentir,
  31. v. 135. C. A. buon frutto radice,

___________


C O M M E N T O


Ricorditi, Lettor, se mai ec. In questo xvii canto lo nostro autore finge come uscitte del terso balso, dove si purga lo peccato dell’ira: e come montò su al quarto, dove si purga lo peccato dell’accidia. E dividesi questo canto principalmente in due parti: imperò che prima finge come li apparveno certe imaginazioni; e come, partite le imaginazioni, trovò l’angiulo che lo guidò con Virgilio a la scala che monta al quarto balso; e come su montonno. Ne la seconda finge come entra in ragionamento con Virgilio del peccato, che si purga in quel balso e nelli altri che sono montati et a montare, et incomincia quive: Già eran sovra noi ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima finge che uscisse fuor de la nebbia, guidato da Virgilio, inducendo due similitudini; ne la seconda pone sua sentenzia de la potenzia imaginativa, e finge come elli ebbe una imaginazione d’alcuna finzione poetica, quive: O imaginativa ec.; ne la tersa finge come ebbe un’altra imaginazione d’alcuna istoria de la Bibbia, quive: Poi piobbe dentro ec.; ne la quarta finge come un’altra imaginazione li venne d’una istoria poetica, quive: E come questa imagine rompeo ec.; ne la quinta finge come, partite l’imaginazioni, uditte una voce che invitò a montare all’altro balso, percosso da uno grande splendore, quive: Come si frange ’l sonno ec.; ne la sesta finge come Virgilio lo dichiara che quella voce fu dell’angiulo, e come lo conforta a montare, e come montonno su al quarto balso, quive: Questo è diritto ec. Divisa la lezione, ora veggiamo lo testo co l’esponizioni litterali, allegoriche, o vero morali.

C. XVII — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore fa due similitudini di sè a lettore: prima del vedere poghissimo ne la [p. 392 modifica]nebbia; secondo nel vedere alquanto più per lo intramento ne la nebbia del raggio del Sole, et usa uno nuovo modo di parlare: imperò che induce lo lettore a considerare sè medesimo ne le ditte due cose, e poi imaginare l’autore per sè medesimo, e vedrà che così era l’autore come serebbe lo lettore ne le ditte due cose. Dice adunqua così: Ricorditi; cioè reduciti a memoria: arrecare a memoria non è altro che la fantasia mossa per alcuno obietto richiedere da la retentiva quello, che già v’àe allogato e riposto, benchè di questo si dirà di sotto, Lettor; cioè tu, che leggi lo mio libro, se mai nell’alpe; cioè ne’ luoghi altissimi de’ monti: imperò che in sì fatti luoghi questo, che dirà, suole addivenire più che nelli altri luoghi, Ti colse nebbia: nebbia è vapore denso et umido che esce dei fiumi, de li stagni e paludi, la quale è a modo d’uno fummo, e spesse volte si leva nell’alpe; e però dice: Ti colse nell’alpe; cioè ti iunse te, lettore, nell’alpe; e perchè tale fummo àe ad impedire la vista, sicchè l’omo non può vedere da la lunga, nè anco lo compagno che li fu un pogo inansi, e però dice: per la qual; cioè nebbia, vedessi; cioè tu, lettore, Non altramente che per pelle talpe; ecco che induce la similitudine del vedere de la talpa al vedere del lettore, quando è la nebbia: la talpa è uno animale simile al topo, la quale vive di terra, e dicesi non mangiarne tanto, quanto li è bisogno per paura che nolli vegna meno; e dicesi in questo simile a l’avaro che per avarizia non tocca le richezze, avendone smisuratamente: questo animale si dice avere una pellicula in su li occhi, la quale impedisce la sua vista che non può bene vedere; e però dice l’autore, inducendo la similitudine per la qual nebbia tu, lettore, vedessi non altramente che vegano1 le talpe per la pelle che ànno inanti alli occhi, la quale benchè sia sottile pur impaccia la vista sua, che non può vedere da lunga, nè bene da presso; et adiunge l’altra cosa che vuole che consideri lo lettore, acciocchè d’amburo si facci la similitudine di Dante a sè, dicendo: E ricorditi Come, quando i vapori umidi e spessi; che cagionano la nebbia, de la quale ditto è, A diradar cominciansi; cioè rallargarsi, la spera Del Sol debilemente entra per essi: imperò che in queste nebbie, benchè alcuna volta incomincino in fine la sera, tutte le più volte si soleano levare la mattina; e come lo Sole s’inalsa, così le risolve e diradale coi suoi raggi; et allora risolvendo la loro densità col suo caldo che risolve l’umido, incominciano un pogo li raggi a passare dentro ne la nebbia: e però dice debilemente. E fatto cauto lo lettor che si ricordi de le ditte due cose; cioè del vedere ne la nebbia [p. 393 modifica]simile a quello de la talpa; e del trapassamento dei raggi del Sole molto debile ne la nebbia, dice ch’elli imagini che così era l’autore prima stato ne la nebbia, e poi tale presso a la uscita a rivedere lo Sole; e però dice: E sia la tua imagine; cioè la tua imaginazione: e qui imaginazione s’intende per l’imaginativa potenzia, ch’è2 ne la fantasia del capo: però che quella potenzia àe a componere, dividere et assimilare3 che non fa la prima imaginativa, che tiene l’appreso in assenzia de l’appreso: imperò che tiene le figure: queste potenzia sono sì subordinate, che dell’una si viene all’altra, leggiera: cioè agevile e non profonda, In giungere; queste similitudini da te a me, o giungere; me a te ne le sudette due cose, a veder, cioè per veder, com’io; cioè Dante, rividi Lo Sol in pria: cioè inansi ch’io uscisse fuora al tutto de la nebbia, che; cioè lo quale Sole, già nel corcar era; cioè già era all’occaso; e così dimostra che già fusse presso finito quil di’. ; cioè per sì fatto modo, come ditto è; cioè prima con poco vedere o nulla, e poi con poco vedere dei raggi del Sole, pareggiando i miei; cioè passi, coi passi fidi; cioè fidati, Del mio Maestro; cioè di Virgilio, andando parimente a lui, come di sopra àe ditto che per quella nebbia andava co la mano in su la spalla di Virgilio, come va lo cieco a la guida4, usci’ fuor di tal nube; cioè io Dante, Ai raggi; cioè del Sole, morti; cioè incominciati a venire meno, già ne’ bassi lidi; cioè ne le basse piaggie del mare: imperò che ’l Sole pare, quando si leva, uscire su dal mare, e quando descende andare giuso dal5 mare; e ponsi qui lidi per termini: imperò che la piaggia è termine del mare, e però bassi lidi; cioè bassi termini del mare, di sotto ai quali non può vedere la nostra vista, perchè v’è l’orizonte6 terminativo dell’emisperio di quelli di sotto, dove finge l’autore che allora fusse. Che Virgilio guidasse l’autore per quella nebbia fu sposto di sopra; ma che ora sia ritornato ai raggi del Sole, significa che, purgato del peccato dell’ira, co la satisfazione dell’opera s’apparecchiava co la grazia di Dio a montare a purgarsi delli altri; o vero essente presso che a la fine del trattato de la purgazione dell’ira, de la quale anco avea a dire un poco, come apparrà di sotto, s’apparecchiava a trattare de la seguente materia.

C. XVII — v. 13-24. in questi quattro ternari lo nostro autore, fingendo ch’elli avesse una forte immaginazione, pone un’ammirativa esclamazione in verso l’imaginativa potenzia, volendo investigare chi la muova, dicendo così: O; questo avverbio O sta in questo [p. 394 modifica]luogo, come segno d’invocazione e d’ammirazione: imperò che dirissa lo suo parlare a la imaginativa potenzia, e del suo movimento si meravillia, imaginativa; cioè potenzia: tre potenzie àe l’anima nostra che serveno a lo intelletto, le quali sono locate nel cerebro; cioè apprensiva, o vero fantasia, o vero7 spirito, o vero imaginazione, o vero memorativa ne la cottula di rieto, e l’una serve all’altra: imperò che l’apprensiva apprende e dà a la imaginazione, e la imaginazione dà a la imaginativa ad estimare e pensare, e la imaginativa dà a la retentiva a ritenere; e versa vice, la retenti va rende lo ritenuto all’apprensiva, e l’apprensiva8 lo rende a la imaginativa, e l’imaginativa a la retentiva. Ora parlando de la imaginativa; cioè di quella che si chiama imaginazione, che è ne la prima cellula e concavità9 del cerebro, l’autore dice: che ne rube; cioè la quale tolli, Tal volta; cioè alcuna volta sì lo intelletto umano, sì di fuor; cioè per sì fatto modo fuora di sè, cioè fuora de la sua attività, ch’om; cioè che l’omo, non s’accorge; cioè non s’avvede, Perchè; cioè benchè, d’intorno; cioè all’omo, suonin; cioè suonino, mille tube; cioè mille trombe; et è qui superlativo sermone e colore retorico, che si chiama iperbole; e muove qui l’autore uno dubbio; cioè che, considerato che l’apprensiva muove l’imaginazione e l’apprensiva è mossa da’ sensi esteriori che sono cinque; ma quello che si dice comune interiore è quil medesmo che l’apprensiva; e questo nome apprensiva può essere comune a tutte le ditte potenzie; ma per eccellenzia si dà a la prima, chi muove dunqua alcuna volta l’imaginazione; cioè quando non si muove per li sentimenti del corpo che ministrano a l’apprensiva, e l’apprensiva ministra alla imaginazione; e che non si muova per li sentimenti appare per quello che è ditto che, benchè suonino mille tube, l’omo non s’accorge d’esse; lo quale suono s’apprende per l’udire, dunqua appare che altro movimento abbia l’imaginativa, che da l’apprensiva mossa per li sentimenti: imperò che se per li sentimenti si movesse come si muove l’apprensiva, non serebbe mai sì ratta che non si movesse per li sentimenti, e noi veggiamo per esperienzia che l’omo viene subitamente in una imaginazione, che non è mossa da niuna apprensione; dunqua unde viene? E però dice: Chi muove te; cioè imaginativa, dimanda l’autore, se ’l senso; cioè comune interiore che tanto vale, quanto l’apprensiva, o volliamo intendere lo senso particulare esteriore, non ti porge; movendo l’apprensiva, e l’apprensiva te? A questo risponde l’autore, e verificasi quello che dissi di sopra; che la retentiva10 [p. 395 modifica]ministra all’apprensiva alcuna volta, rendendoli l’accomandato, et ella lo ministra alla imaginativa, e la imaginativa lo rende poi alla retentiva. Ma ora è lo dubbio; chi muove la retentiva: imperò che vegghiando, o dormendo l’omo imagina cosa che mai noll’apprese per li sentimenti, come spesse volte subitamente viene a la fantasia, o vegghiando, o dormendo, cosa che non pensò mai? A che si può rispondere, come dice lo Filosofo, che nessuna cosa è nello intelletto che non sia stata prima nel sentimento; e se dicessi: Mai non viddi monte d’oro, e sì l’apprende11, puòsi rispondere: E tu ài veduto monte et oro, e però la fantasia li apprende, come uno componimento; e però apprende monte d’oro. Ma ora sta lo dubbio; chi muove la fantasia a fare questa componizione? E se dicessi: Le forme riposte dentro ne lo intelletto, lo quale benchè non abbia luogo, nè sedia propria, pure sono nel cerebro tre sedie dove stanno tre potenzie che serveno a lo intelletto, che sono ditte di sopra; e ne la retentiva tiene quelle forme, et àe lo intelletto uno lume datoli da Dio, che opera sopra le figure puntate12 a lo intelletto, che meschia le figure a le forme riposte dentro. Ma ora sta lo dubbio; chi muove lo lume, chi rappresenta le figure? A che si dè rispondere che alcuna volta muove Iddio sensa mezzo, alcuna volta le influenzie celesti, alcuna volta li dimoni, et alcuna volta li angeli; ma l’autore non fa menzione ora, se non de’ movimenti13 supremi: de l’inferiori non intese in questa parte, e però se tu dimandi: Chi muove l’imaginativa? A questo risponde l’autore, dicendo: Muoveti lume; cioè de lo intelletto agente, che nel Ciel s’informa; cioè che pillia essere da le influenzie dei corpi celesti, che giù ministrano a tale lume attività et operazione, Per sè; cioè per sè medesmo le ditte influenzie sensa mezzo, o per Voler; cioè o per Volontà Divina sensa altro mezzo, o per ministerio delli angiuli: imperò che li angiuli sono volontadi libere confermate in grazia, che; cioè lo quale Volere Divino, o vero lo quale angiulo, giù lo scorge; cioè giù lo guida; cioè l’operazione e l’attività del detto lume; e questo è contra l’opinione de li Stoici, che diceano che lo intelletto umano era passivo, sicchè l’autore vuole accordarsi con quelli che diceno che, benchè lo intelletto sia passivo, secondo che ministrano li sentimenti esteriori, anco è attivo in quanto fa l’operazione sua sopra la cosa presentata per li sentimenti, et alcuna volta sopra le cose non ministrate dai sentimenti; ma solamente influsse da Dio o per sè immediate, o per le seconde cagioni; cioè per li angiuli, come ditto è. [p. 396 modifica]E posta questa sentenzia, l’autore dichiara in che era così ratta la sua immaginazione, dicendo: Nell’imagine mia; cioè ne la mia potenzia imaginativa: altramente si può intendere ne l’imagine ch’è specie d’apprensiva, che ritiene le cose apprese e ministra a la imaginativa e chiamasi imaginazione, come è ditto di sopra, apparve l’orma; cioè l’apparenzia e lo vestigio, De l’empiezza; cioè de la crudelità, di lei; cioè di cole’, che; cioè la quale, mutò forma; cioè si trasmutò, Ne l’uccel che a cantar più si diletta; cioè nel rusignuolo, lo quale canta più che tutti li altri uccelli: imperò che canta di di’ e di notte; e questa fu Filomena, de la quale fu ditto di sopra ne la prima cantica, et anco in questo canto ix, come finge Ovidio, Metamorfosi libro vi. Questa fu filliuola del re Pandione d’Atene, e viziata da Tereo re di Tracia suo cognato, e tagliatoli la lingua perchè nol potesse dire e tenuta apo lo stabulario de l’armento, sì ch’ella notificato a la suore Progne in una tela tessuta da lei tutto ’l fatto, venne con lei a la città et ucciseno Iti filliuolo di Tereo e diennolo a mangiare al padre; unde ella fu mutata in rusignuolo, e Progne in rondina, e Tereo14 in upupa. Ne la quale finzione li Poeti inteseno che costoro andonno scacciate da Tereo per lo mondo piangendo e lamentandosi; e per dare ad intendere questo, fingono che si mutasseno in uccelli, e l’altre cose tutte funno vere. E questo finge l’autore che li venisse ne la imaginazione sua, per dimostrare quanto nuoce l’ira a chi si lassa signoreggiare a lei: imperò che questa per ira si mosse a fare sì fatto male, et ella ne portò sì fatta pena. L’autore avendo posto li esempli esortativi a la temperanzia di sopra, che è contraria all’ira, induce ora li esempli ritrattivi dall’ira, mostrando li mali che d’essa seguitano; e però àe indutto la detta finzione poetica, et inducerà l’istorie che seguitranno. E qui; cioè in su quella immaginazione de la ditta crudeltà, fu la mente mia; cioè di me Dante, sì stretta D’entro da sè; cioè in sè medesmo, imaginando la ditta crudeltà, che di fuor; cioè da’ sentimenti, non venia; a la mia mente, Cosa che fusse ancor da lei: cioè da la mia mente, ricetta; cioè ricevuta: imperò che, benchè sentisse altre cose, a niuna applicava l’apprensiva.

C. XVII — v. 25-30. In questi due ternari lo nostro autore finge come ne la fantasia venne una istoria de la Bibbia, la quale si scrive, Ester vii; cioè che ’l re Assuero re di Persia e di Media ebbe per donna Ester, la quale per nazione iudea fu, et avea seco nel regno uno suo zio che si chiamò Mardoceo, lo quale fu iusto omo, et ebbe lo ditto re per principe de la sua milizia uno fiero omo che si nominò Aman; lo quale Aman ebbe in odio ultra misura li Iudei; [p. 397 modifica]e però mosso da ira e da furore15, fatto comandamento che per tutto lo regno li Iudei fusseno crocifissi, e così avea anco comandato di Mardoceo zio de la reina Ester, come de li altri. Unde ella, saputo questo, inebriò lo re; et inebriato che l’ebbe, espuose lo suo lamento a re contra Aman; unde lo re comandò a prego de la reina che Mardoceo e li altri Iudei fusseno liberati, et Aman sostenesse lo tormento che volea fare sostenere loro; e così Aman fu crocifisso. E però finge l’autore che questa16 li occorresse ne la fantasia per considerazione del male che induce l’ira, per fare venire in despetto al lettore et ogni uno, che si vuole purgare del peccato dell’ira, esso peccato, dimostrando quanto male facea Aman incitato dall’ira, e come quello male cadde sopra di lui; e però dice lo testo: Poi; cioè di po’ la prima visione, piobbe; cioè venne mandata di sopra, come l’acqua quando piove; e per questo afferma quello che ditto fu di sopra, dentro all’alta fantasia; cioè a la profonda fantasia: imperò che la imaginazione in questa istoria molto era profondata et assorta: fantasia si chiama la potenzia imaginativa dell’anima, e notavilmente dice all’alta fantasia: imperò che la imaginazione diceno li Filosofi17 che è ne lo estremo de la concavità del cerebro, ch’è ne la fronte, Un crocifisso; cioè uno posto e ficcato in croce, e questo fu Aman come appare di sopra, dispettoso e fero; cioè pieno di dispetto e crudele. Queste due cose induce l’ira in chi ella signoreggia; cioè despetto e crudeltà: despetto è avere a vile ognuno, e crudeltà è contraria a la pietà et è propriamente de le fiere; e però si dice fero chi è crudele, e l’iracundo propriamente àe queste condizione, ch’elli vilipende ogni uno e di niuno à pietà; e però finge che tale li occorresse ne la fantasia, Ne la sua vista; cioè ne la sua apparenzia: certamente l’iracundi mostrano nell’abito del volto lo suo vizio; stanno col naso arricciato, colli occhi levati e defissi; nel naso dimostrano lo despetto, e ne li occhi la ferocità, e cotal si moria; cioè e così dispettoso e fero si moria: imperò che li omini18 incitati nel vizio muoiano con esso. Intorno ad esso; cioè intorno ad Aman posto in croce, era ’l grande Assuero; cioè lo re detto di sopra, Ester sua sposa; ditta di sopra, e ’l giusto Mardoceo; zio de la ditta reina; questo dice, perchè così era ne la sua fantasia; cioè colui che avea sostenuto la pena dell’ira, e coloro che n’erano stati cagione, Che; cioè lo quale Mardoceo, fu al dir et al far così intero; cioè in parole et in fatti fu sì iusto, come dice la Bibbia. La integrità de la mente significa iustizia: imperò che li vizi stracciano la mente. [p. 398 modifica]

C. XVII — v. 31-39. In questi tre ternari lo nostro autore finge come ne la imaginazione sua occorse un’altra istoria; cioè de la reina Amata mollie del re Latino re di Laurento, la quale pone Virgilio nel libro xii de l’Eneide. Dice Virgilio che la ditta reina sentendo che ’l marito; cioè lo re Latino volea dare la filliuola sua, ch’avea nome Lavina19, per mollie a Enea troiano che era arrivato a le suoe contrade, e non a Turno filliuolo del re Dauno d’Ardea (Ardea fu una città presso a Roma per 18 millia; ma ora è disfatta) che era suo parente, per ira s’appiccò a la trave. E questa istoria ancora induce l’autore, venuta ne la sua fantasia, per20 dar terrore a lo lettore e chi si purga dal peccato de l’ira, da esso peccato considerando quanto male ne seguita, e però dice: E come; cioè et altresì tosto come, questa imagine; de la quale fu detto di sopra rompeo; cioè sparve et uscitte de la mia fantasia, Sè per sè stessa; cioè per sè medesma, a guisa di una bulla; cioè a similitudine d’una campanella d’acqua che si chiama bulla; ecco che induce la similitudine de le campanelle, che fa spesse volte l’acqua quando piove: cade alcuna volta l’acqua sì grossa giuso, che iungendo insù l’altra acqua, riceve vento e gonfia e fa bulla; e per lo movimento dell’acqua, sfiata lo vento e la bulla si rompe subito e ritorna in acqua; così dice che di subito si sfece la imaginazione ditta di sopra, Cui; cioè a la quale campanella, manca l’acqua sotto; e però si disfà, perchè sfiata di sotto lo vento conceputo in essa, e tal si feo; cioè e come si fece tale21, chente la bulla che si sfà e torna in acqua e sparisce la imagine ditta di sopra; altresì tosto Surse; cioè si levò, in mia vision; cioè ne la mia fantasia che è vedere mentale; e però dice visione, e continua la similitudine de la bulla: imperò che come si disfà l’una, si leva l’altra; e però àe detto: Surse una fanciulla; questa fu la detta Lavina, Piangendo forte; vedendo la madre appiccata, e dicea; cioè Lavina in verso la madre: O reina; cioè Amata, madre mia, Perchè per ira ài voluto esser nulla imperò che per ira t’ai privato dell’essere corporale? Ancisa t’ài; tu, Amata, per non perder Lavina; cioè me Lavina tua filliuola; cioè la cagione, che ti indusse ad ira et a desperazione, fu per ch’io non fusse data ad Enea, che dicei22 che si dovea andare via e menarmene, e così pareva a te dovemmi23 perdere; e per non vedere questo t’ài ucciso, [p. 399 modifica]et in questa occisione24 m’ai perduta, e però dice: Or m’ài perduta; che non m’ài più, perchè tu non ài ancora più te, io son essa; cioè Lavina, che lutto; cioè piango, Madre; cioè, o madre Amata, alla tua pria che a l’altrui ruina; cioè prima a la tua morte che all’altre, le quali debbo ancora piangere, e così profeta la morte del padre e la fuga sua che sostenne, morto Enea. E queste cose finge l’autore che fusseno ne la sua fantasia, perchè verisimile è che Lavina ne la morte de la madre dicesse simili parole.

C. XVII — v. 40-54. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, sparite l’imaginazioni, uditte una voce che lo invitò a montare all’altro balso, prima percosso da uno grande splendore; e prima induce una similitudine, dicendo così: Come si frange ’l sonno; cioè come si rompe lo sonno, ove, cioè poi che, di butto; cioè di subito, Nova luce; cioè nuovo splendore, percuote ’l viso chiuso; cioè l’occhio chiuso, Che; cioè lo quale sonno, fratto; cioè rotto da la luce, guizza pria; cioè fa guissare e scuotere l’omo inanti, che mora tutto; cioè vegna meno lo sonno tutto, Così l’imaginar mio cadde giuso; de la mia fantasia, Tosto che ’l lume il volto mi percosse; cioè siccome lo splendore dell’angiulo ch’era apparito mi percosse nel volto, cadde da la mia fantasia lo imaginare, come cade lo sonno quando nuova luce percuote nelli occhi, e fecemi scuotere come fa scuotere lo sonno inanti che al tutto si parta, Maggior assai; cioè lo lume, che quel; cioè lume, ch’è in nostro uso; cioè assai maggiore, che lo lume del Sole che noi usiamo. Io mi volgea; cioè io Dante, per veder dov’io fosse; che mi parea essere stato come addormentato, Quando una voce disse; questa fu quella dell’angiulo ch’era apparito: Qui; cioè in questo luogo è la scala da montare; e però dice, si monta; all’altro balso, Che; cioè la quale voce, da ogni altro intento; cioè da ogni altra25 intentazione, mi rimosse; cioè rimosse me Dante, E fece la mia vollia tanto pronta; cioè tanto sollicita, Di ragguardar chi era che parlava; cioè le parole ditte di sopra, Che mai non posa; cioè la mia vollia, se non si raffronta; cioè col ditto angiulo che avea parlato, cioè se nollo ragguarda ne la faccia. Ma come al Sol; ora induce la similitudine che, come l’occhio umano non può patire lo raggio del Sole; così non potette l’occhio suo patire lo splendore del volto dell’angiulo, e però dice: Ma come al Sol; s’intende, fa lo nostro occhio umano, che; cioè lo quale, nostra vista grava; sì ch’ella ne riceve nocimento, E per soverchio; cioè per soperchio de la sua luce, sua figura vela; cioè cuopre all’occhio umano la sua rota, Così la mia virtù; cioè visiva di me Dante, quivi mancava; cioè nel ragguardamento de la faccia de l’ [p. 400 modifica]angiulo sì, ch’io nol potea vedere. E per questo dimostra l’autore sotto questa finzione due cose; cioè che la volontà de l’angiulo ch’è significata per lo volto, era confermata per grazia, e però lo26 finge tanto lucente; appresso dimostra come nostra sensualità non può comprendere la natura angelica, nè la grazia illuminante significata per l’angiulo, quando discende in noi.

C. XVII — v. 55-60. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Virgilio li manifesti che questo lume sia l’angiulo, che l’invia a salire all’altro balso, dicendo così, incominciando dal quarto ternario; cioè: Così disse ’l mio Duca; cioè Virgilio come seguitrà ora: Questo è diritto spirito; a differenzia dei mali spiriti dice diritto, che ne la Via d’ire in su; cioè all’altro balso, ne drizza; cioè dirissa noi, senza prego; cioè sensa che noi nel preghiamo, E col suo lume sè medesmo cela; cioè col suo splendore cela sè, sicchè noi nol possiamo comprendere; questo è stato sposto di sopra. Sì fa con noi; cioè lo detto angiulo, come l’om si fa sego; cioè come dè fare seco: cioè l’uno coll’altro, avvicendevilmente l’uno omo dè sovvenire al bisogno dell’altro: e però adiunge: Che qual; cioè omo, aspetta prego; dal prossimo suo, e l’uopo vede; cioè lo bisogno del prossimo, Malignamente già si mette al nego; cioè già si mette a negare l’aiuto suo. E questo è notabile che noi debbiamo sovvenire lo prossimo vedendo lo bisogno, e non debbiamo aspettare ch’elli dimandi: imperò che alcuna volta l’omo vergognoso, inanti si lassa morire ch’elli dimandi; e non sovvenendo che27 vede lo bisogno, già dimostra a chi à lo bisogno che, s’elli addimandasse, non sovverrebbe; e però desperando non dimanda, e così si viene meno. E posto questo notabile, adiunge lo conforto che Virgilio adiunge a montare suso, dicendo: Or; questo è interiezione esortativa, o volliamo dire che sia avverbio temporale; cioè ora, accordiamo; cioè tu, Dante, et io Virgilio, a tanto invito il piede; cioè moviamo li nostri piedi insieme tu et io; cioè tu, Dante, lo piede de la sensualità, et io lo piede la volontà a sì grande invito, come è questo di montare suso ne l’atto de la penitenzia; e, come è stato sposto più volte, li piedi significano l’affezione e li desidèri: secondo la lettera dimostra lo conforto de l’andamento corporale; e secondo l’allegoria, dell’andamento mentale, Procacciam di salir pria che s’abbui; cioè che si faccia sera, imperò che non si potrebbe poi montare, secondo la lettera che dice che di notte non si può montare; e secondo l’allegoria, sensa la grazia di Dio non si può montare in virtù, e la notte significa lo dipartimento28 del Sole: e però adiunge: Chè; cioè imperò che, poi non si [p. 401 modifica]poria; cioè montare, venuta la notte, se il di’ non riede; cioè se ’l di’ non torna; cioè infine a tanto che non ritorna la grazia illuminante de lo Spirito Santo. E finto la dichiaragione e l’esortazione del sallire, mostra come s’invionno a sallire. et io; cioè Dante con Virgilio, e però dice: con lui Volgemmo i nostri passi; cioè io la sensualità: et elli, che significa la ragione, la volontà, ad una scala: cioè ad una altessa, E tosto ch’io; cioè Dante, al primo grado fui; de la ditta scala, che montava al quarto balso, Senti’mi presso quasi un muover d’ala, e per questo vuole dimostrare che l’angiulo sì ’l ventilasse ne la fronte coll’ala, e così li cancellasse lo terso P de la fronte, che segnava lo peccato dell’ira: imperò che n’avea fatto la penitenzia et erane purgato; e però dice: E ventarmi nel viso; cioè farmi vento ne la faccia, che significa la volontà: quive, dove lo Spirito Santo spira, caccia via ogni peccato; sicchè per questo significa che la grazia del Santo Spirito inspirò29 in lui, fatta la purgazione del peccato dell’ira, con proposito di non più raccadervi. e dir: Beati Pacifici; sentitti: ancora questa è autorità de l’Evangelio di santo Matteo cap. v: Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur; ma l’autore arrecandola a suo proposito, adiunge, che son senza ira mala: li pacifici ànno sedato la passione dell’ira, e però si possano dire beati, che son senza ira mala; ben dice senza ira mala: imperò che ira per zelo non è ira, come fu ditto ne la prima cantica dove si trattò dell’ira. E qui finisce la prima lezione del canto xvii, et incomincia la secunda.

Già eran sovra ec. Questa secunda lezione del canto xvii contiene la divisione dei peccati che si purgano nel purgatorio, e l’altra radice: e dividesi in sette parti, imperò che prima dimostra come, montati suso nel quarto balso, si fermonno e non trovonno alcuna cosa, e però entra in ragionamento con Virgilio e dimanda qual peccato si purga quive: ne la seconda Virgilio incomincia da la radice de le virtù e dei peccati, e prima li manifesta lo peccato che in quil quarto girone si purga, quive: Et elli a me ec.; ne la tersa dichiara, come quello che è ditto di sopra; cioè che una sia la radice del bene e del male; cioè de le virtù e de’ vizi, quive: Mentre ch’elli è ec.; ne la quarta dimostra l’obietto dell’odio30, e provato per ragione, quive: E perchè mai ec.; nella quinta adiunge la divisione de l’odio tripartita, quive: È chi, per esser ec.; ne la sesta dichiara li peccati che si purgano ne’ tre balsi passati, e quello che si purga nel quarto da qual radice vegnano, quive: Questo triforme amor ec.; ne la settima dimostra quali peccati, e da quale radice discesi, si purgano ne’ tre balsi che sono a montare, quive: Altro bene ec. [p. 402 modifica]divisa adunqua la lezione, ora è da vedere l’esposizione litterale del testo coll’allegorie, o vero moralitadi.

C. XVII — v. 70-84. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, approssimandosi la notte, elli si trovò montato al quarto girone del purgatorio; e come fermatosi, dimandò Virgilio qual peccato si purgava in su quel balso, dicendo così: Già eran sovra noi tanto levati; cioè allora, Li ultimi raggi; cioè del Sole, sovra noi; ch’eravamo in quello emisperio allora, dice l’autore: allora li raggi si levano in su, quando la spera del Sole va giù, sicchè allora andava giù che venia a noi che siamo di qua, e però li raggi alsavano sopra loro sè, dirissandosi in verso lo celo; e però veggiamo la sera quando lo Sole va giù, li raggi che ànno lo di’, dirissatosi alla terra, s’inalsano a le cime de le torri, e tanto poi in su che più non se ne vedeno, e seguita la notte; e dice ultimi raggi: imperò che di po’ li ultimi seguita la notte; e però dice, che la notte segue; cioè li quali raggi ultimi la notte seguita, Che le stelle apparivan: ne lo emisperio, dove io era allora, da più lati; e così descritto lo tempo, mostra che già fusse fatto sera nell’episperio, dove finge l’autore che fusse allora, et a noi nel nostro emisperio era fatto di’; unde l’autore, vedendosi indebolito che non potea più montare, perchè era partito lo Sole, esclama contra la sua potenzia andativa, dicendo: O virtù mia; cioè quanto a la lettera, o potenzia31 mia andativa; ma quanto all’allegoria, o potenzia mia intellettiva, perchè sì ti dilegue; cioè ti diparti da me, Fra me stesso dicea; dice Dante che dicea le ditte parole tra sè medesmo, et assegna la cagione perchè, dicendo: chè mi sentiva; cioè imperò ch’io sentiva a me, La possa de le gambe posta in tregue; cioè quanto a la lettera la potenzia del montare tolta, che le gambe si riposavano come fanno li nemici, quando fanno tregua; et allegoricamente la potenzia intellettiva del procedere più oltre ne la sua materia e ne la penitenzia incominciata. Et addiviene alcuna volta che chi è in stato di penitenzia, arrena e non pare che possa procedere più oltra, e questo è segno che la grazia di Dio per32 qual peccato incorso sia partita, la quale si vuole addimandare cacciando via lo peccato; e di questo si duole l’autore, e conferma quanto alla lettera et allegoria quello che è ditto di sopra, che di notte non si può montare. Dichiara ora lo luogo u’ era, dicendo: Noi; cioè Virgilio et io Dante, eravam dove più non saliva La scala su; sicchè eran iunti in sul quarto balso, et eravam affissi; cioè fermati, Pur come nave; ecco che fa similitudine, ch’a la piaggia arriva; cioè la quale arrivi a la piaggia del mare, così, noi eravamo arrivati a la piaggia del balso. Et io; cioè Dante, attesi un poco; cioè stetti attento, s’io udissi Alcuna cosa nel nuovo girone; cioè in sul quarto girone, [p. 403 modifica]dove eravamo salliti; e non udendo niente. Poi mi rivolsi al mio Maestro; cioè a Virgilio, e dissi; io Dante: Dolce mio Padre; ecco che chiama Virgilio padre, di qual’offensione; cioè di qual peccato, Si purga qui nel giro dove semo; cioè in questo quarto balso? Se i piè si stanno; che non possino33 montare più, non stia tuo sermone; cioè non tacere, insegnami; e questa è moralità che, quando l’omo non può operare alcuna virtù coll’atto, almeno dè operare col ragionamento e col pensamento, per non perdere lo tempo al tutto. Questa finzione usa qui l’autore, per mostrare che ragione lo mosse a trattare con questo ordine de la purgazione dei peccati, e per mostrare la loro radice e la loro divisione; e però finge che li piedi; cioè l’affezione e lo desidèro stava del procedere più inanti de la materia e de la purgazione sua; e per questo prega che non stia lo ragionamento, che dimosterrà la sua intenzione.

C. XVII — v. 85-96. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio lo dichiarò qual peccato quive si purgava; e stendendo lo suo parlare, brevemente li mostrò la radice del bene e del male, dicendo così: Et elli; cioè Virgilio disse, a me; cioè Dante: L’amor del bene; cioè34 lo sommo, ch’è Iddio e le virtù, scemo; cioè manco, Del suo dover; cioè quando s’ama Iddio, e le virtù se esercitano et amansi con minor cura, che non si dè, qui ritta; cioè in questo quarto girone, si ristora; cioè si rammenda: imperò che quive si purga lo peccato de l’accidia, et accidia è esser negligente al bene, Qui si ribatte ’l mal tardato remo; cioè in questo luogo se emenda quello che s’è male indugiato nel mondo; e parla per similitudine: come li naviganti che sono stati infingardi a vogare, sono fatti dal nocchieri ristorare poi nel luogo dove può intendere a loro; così quive s’emenda coll’ardore de la mente la negligenzia avuta in questa vita ne le buone operazioni. Che cosa sia accidia e de le suoe spezie trattato fu per me sopra la prima cantica, e però quive lo ritrovi chi ne vuole sapere; ma perchè, poi ch’à detto lo peccato che quive si purga, estende lo suo parlare per dare ad intendere perchè disse di sopra: L’amor del bene ec.; e dimostra come amore è radice d’ogni virtù e d’ogni vizio: imperò che ogni nostro atto da amore procede, e però dice: Ma perchè più aperto intendi ancora; cioè ma acciò che tu, Dante, intendi ancora più apertamente quel ch’io abbo ditto di sopra, Volgi la mente a me; cioè la tua intenzione a la ragione, e prenderai; tu, Dante, Alcun buon frutto di nostra dimora; cioè alcuna buona utilità di questo stallo che noi facciamo qui, e non procediamo più inanti. Et incomincia ora a [p. 404 modifica]dimostrare la sentenza che ditta è; cioè come amore è radice d’ogni nostro atto, dicendo Nè creator; cioè Iddio che àe creato ogni cosa, nè creatura; ch’è tutte le cose create: e benchè in tutte le cose create, secondo che dice Boezio, sia inclinazione naturale a conservare lo suo essere; la quale inclinazione chiama amore, lo nostro autore ristringe ora questo nome creatura solamente all’omo, lo quale per li atti del libero arbitrio merita e demerita; e così debbiamo intendere, fu mai senza amore; questa proposizione è verissima, che mai Iddio non fu sensa amore: imperò che sempre fu co lo Spirito Santo, e similemente l’omo non fu mai sensa amore: imperò che non si trova omo, nè trovò mai sensa volontà, Cominciò ei, filliuol; cioè Virgilio incominciò a dire a me Dante, chiamandomi filliuolo, O naturale o d’animo; qui dimostra l’autore che l’amore si divide in due spezie: imperò che alcuno è naturale, et alcuno è animale: lo naturale amore è la inclinazione naturale, che tutte le cose create ànno ad acquistare la perfezione del suo essere se non l’ànno, et a conservare lo suo essere, s’ei l’anno; l’animale amore è solamente ne le creature ragionevili. e tu; cioè Dante, il sai: imperò che ài studiato la Filosofia che dimostra questo. Lo naturale; cioè amore, è sempre senza errore: imperò che niuna cosa creata è che non desideri la perfezione del suo essere naturalmente, se non l’àe, e lo conservamento de l’essere che àe, et in questo non si può errare, Ma l’altro: cioè l’amore animale, puote errar per male obietto; cioè per amare lo male e ’l vizio: e questo è l’uno modo in che l’amore animale erra; cioè amando lo male. O per troppo o per poco di vigore35; questi altri sono due modi ne’ quali erra l’amore animale; cioè o amando troppo36 o amando poco quello che si dè amare moderatamente; cioè lo bene utile mondano e dilettevile amandolo troppo, o amando pogo quello che vigorosamente si dè amare e perfettamente sopra tutte le cose, cioè lo primo e lo sommo bene; cioè Iddio, e lo bene onesto che sono le virtù. E così abbiamo che l’amore animale, che procede de la volontà nostra, non può errare se non in tre modi: cioè in amare lo male lo quale non si può amare, se non sotto specie di bene; in amare lo sommo bene, e onesto pogo; et in amare lo ben mondano o pogo o troppo. Et intendesi lo bene mondano l’utile e lo dilettevile; li quali beni si debeno amare moderatamente.

C. XVII — v. 97-105. In questi tre ternari lo nostro autore dimostra come Virgilio, seguitando la divisione posta di sopra, [p. 405 modifica]conchiude come amore è radice d’ogni virtù e così d’ogni male, dicendo così: Mentre ch’elli; cioè l’amore animale, è nel Primo Ben; cioè in Dio, diretto; cioè dirissato37, E nel segondo; cioè bene, ch’è le cose create da Dio: imperò che ogni cosa, che Dio à creato, è buona38, sè stesso misura: cioè l’amore animale, cioè che non l’ami più che si convegna, nè meno, Esser non può; l’amore animale, cagion di mal diletto; e così è virtù: se non può esser cagione di male diletto, dunque è cagione di buono diletto, e così è cagione di virtù. Lo Filosofo parlando del bene, lo distinse in tre spezie; onesto, utile e dilettevile; ma lo nostro autore, come appare nel testo, pillia una divisione bipertita; cioè bene primo, e bene secondo. Per lo bene primo intendendo lo creatore; cioè Iddio e le virtù suoe; et accordando questo col Filosofo, puòsi dire che questo sia quel che chiama lo Filosofo lo bene onesto. E per lo bene secondo intendendo le cose create, e questo è quel che lo Filosofo chiama bene utile e dilettevile; e però accordi lo lettore, se vuole, l’una distinzione coll’altra, o pilli la divisione dell’autore, dicendo che due sono le specie del bene; cioè creato et increato; e lo increato è Iddio e le virtù, in quanto son in Dio, e lo creato si distingua in tre specie, come dice lo Filosofo; cioè onesto (e questo è le virtù in quanto sono atto de la mente bene ordinata) et utile che sono le ricchesse, e dilettevile che sono li diletti carnali. Perchè la preditta esponizione àe diviso lo testo de l’autore, la più e la meno cura arrecando al bene creato, e pur la meno a lo increato, intendendo l’accrescimento e ’l mancamento de la cura stare nel fervore de la carità, lo quale non potrebbe mai essere troppo in Dio: ma meno sì, debbiamo ancora considerare che l’accrescimento e ’l mancamento de la cura si può intendere pur del desiderio e non del fervore de la carità, e cusì si può adiungere insieme ancora: imperò che colui ama Iddio con più cura che non dè, quando desidera altrochè lui insieme con lui; e colui con meno cura che l’ama, quanto sè, e non sopra sè, benchè lo primo credo che sia milliore intendimento: imperò ch’è impossibile che l’omo ami Iddio con più cura che debbia: imperò che nol potrebbe tanto amare, che anco nol dovesse più amare; et amarlo con altro desiderio non sarebbe amarlo con più cura; ma con meno, e però è mellio lo primo intendimento. Ma quando al mal si torce; cioè l’amore animale: ecco lo primo modo di peccare39, o con più cura, O con men [p. 406 modifica]che non dè, corre nel bene; cioè creato, cioè ne le cose del mondo; e questo è lo secondo modo di peccare, O con men cura che non dè, corre nel bene; cioè increato, cioè Iddio, et ecco lo terso modo di peccare; e però adiunge: Contra il Fattore; cioè contra Iddio, che à posto ordine a tutte le cose, et à posto questo ordine che l’omo ami lo bene e ricusi lo male, e che lo sommo bene ami più che può, e lo bene mondano ami quanto si dè e non più, nè meno, e però chi fa altramente, fa contra Iddio; e però dice: adovra sua fattura; cioè l’omo, che è fattura e creatura creata da Dio. E di quinci conchiude la intenzione sua; cioè che amore è cagione d’ogni virtù e d’ogni vizio, e però dice: Quinci; cioè da questo che ditto è, comprender poi; tu, Dante, dice Virgilio, ch’esser conviene Amor sementa; cioè radice e principio, in voi; cioè omini, d’ogni virtute; ecco che generalmente conchiude, E d’ogni operazion che merta pene: l’operazion, che meritano pene, sono li vizi e i peccati.

C. XVII — v. 106-114. In questi tre ternari finge l’autore che Virgilio descenda a trattare de l’amore che si torce al male, conchiudendo che questo cotale amore non può esser, se non inverso ’l prossimo, dicendo così: E perchè mai non può da la salute Amor del suo subietto volger viso; cioè imperò che niuno può non amare sè medesmo o voler male a sè medesmo, seguita questa conclusione che, le cose; cioè tutte, son tute40; cioè sigure, Dall’odio proprio; cioè da odiare sè medesmo: odiare è amore male41 a la cosa odiata: nessuno ama male a sè medesmo, se non sotto specie di bene, come colui che s’uccide, non già per fare male a sè; ma per farsi bene, e così s’inganna. L’autore intende in quanto non s’inganni lo iudicio de la ragione, et adiunge un’altra proposizione e conclude un’altra bella conclusione; cioè che nessuno può odiare Iddio, e però dice: E perchè intender non si può diviso, E per sè stante, alcun esser dal Primo; cioè et imperò che alcuna cosa ch’abbia essere, non à essere se non in quanto Iddio, ch’è lo primo essere la conserva, non si può alcuno essere intender diviso; dal primo essere, ch’è Iddio, nè per sè stante: imperò che depende dal primo essere, e però come ogni cosa naturalmente ama lo suo essere; così ama Iddio, unde depende lo suo essere; e però conclude: Da quell’odiar; cioè da odiare Iddio, ch’è lo primo esser, ogni affetto; cioè ogni desiderio, è deciso; cioè separato e diviso è. Et anco questo si dè intendere, stante lo iudicio de la ragione; et ora conclude lo principale intento; cioè che l’omo non può amare male a Dio, nè a sè, et elli ama lo male e desideralo, [p. 407 modifica]stante lo iudicio de la ragione; seguita dunqua che l’ama nel prossisimo, e però dice: Resta: dunqua a concludere, se bene stimo; cioè se ben iudico, dividendo; cioè facendo buona divisione, ch’è questa; lo bene che s’ama o elli è inverso Iddio, o inverso sè medesmo, o inverso ’l prossimo, et in più modi: non può essere così lo male ch’è opposito del bene, non si può amare se non ne’ ditti tre modi. E provato è che ’l male non si può amare in verso sè medesmo, nè inverso Iddio, dunqua rimane che lo male si può amare inverso ’l prossimo; e però dice: Che ’l mal che s’ama; da alcuno omo, è nel prossimo; come dimostrato è, et esso; cioè, Amor; del male inverso il prossimo, nasce in tre modi; cioè si muove per tre cagioni, le quali si diranno di sotto; e così si divide questo amore in tre specie, in vostro limo; cioè nel vostro vizio: imperò che vizio è amare lo male del prossimo, e limo è lo limaccio; e la bruttura e la volontà viziosa si può dire limacciosa e brutta.

C. XVII — v. 115-123. In questi tre ternari lo nostro autore finge che, poichè Virgilio ebbe conchiuso che il male che s’amava non potea essere se non nel prossimo, distinse quello male in tre modi, secondo che per tre fini diversi s’ama il male del prossimo: imperò che nessuno simplicimente può amare lo male; ma a fine di bene, sì: imperò che non ama lo male; ma lo bene che spera quinde seguitare; e però dice così: È chi; cioè è alcuno lo quale, Spera eccellenzia, cioè grandezza di sè medesimo crede ottinere, per esser suo vicin soppresso; cioè se ’l suo vicino serà scalcato e tornato a basso, e sol per questo; cioè per la speransa ch’elli à de l’eccellenzia e grandezza di sè medesimo, brama; cioè desidera, Che sia; cioè lo vicino suo, di sua grandezza in basso messo; cioè che sia privato di sua eccellenzia. E questi è lo superbo che ama l’eccellenzia di sè medesimo, e per aver questa ama e desidera lo male del prossimo suo; cioè che sia diposto del suo stato e de la sua grandezza; e così àe dimostrato che l’amore disordinato de l’eccellenzia di sè medesmo è radice de la superbia. È chi; cioè è alcuno lo quale, podere, grazia, onore e fama Teme di perder; le quali cose elli ama disordinatamente; cioè più che non si conviene, perch’altri su monti; cioè se ’l prossimo suo monta in alto, Ond’ei; cioè unde elli, s’attrista sì; de la grandezza del suo vicino, che ’l contraro ama; cioè bassezza del suo vicino. E questi è lo invidioso che s’attrista del bene altrui, temendo di perdere lo bene suo per quello; lo quale bene ama più che non dè; e così dimostra che l’amore disordinato di potenzia, onore, grazia e fama di sè medesimo è radice de la invidia. Et è chi; cioè et è alcuno lo quale, per ingiuria; che àe ricevuta, par ch’adonti; cioè abbia dispetto e dispiacere, Sì che si fa de la vendetta ghiotto; cioè per questo dispetto si fa desideroso [p. 408 modifica]di vendetta. E tal; cioè questo così fatto, convien, che mal altrui impronti; cioè faccia o faccia fare male al nimico suo. E questi è l’iroso che fa male al nimico, et ama lo male del nimico suo per la vendetta che desidera più che non dè; e così dimostra che l’amore disordinato de la vendetta: cioè più che non si dè, è radice dell’ira; e così appare che l’amore del male è cagione de la superbia, invidia et ira. E dèsi qui notare che amare queste tre cose dette di sopra moderatamente non serebbe peccato; ma virtù; ma amarle più che non si dè, ch’è quando s’amono42 con male del prossimo, sono li tre peccati ditti di sopra: e quando s’amano meno, sono altri peccati dei quali non si fa qui menzione, perchè non sono al proposito de la materia. Et è da notare che l’autore finge che Virgilio àe dimostrato che la volontà umana simplicimente non ama lo male del prossimo; ma a fine di suo proprio bene, sicchè vero è quello che è ditto, che la volontà non può desiderare simplicemente lo male.

C. XVII. — v. 124-132. In questi tre ternari l’autor finge che, poi che Virgilio puose la divisione de l’amore che corre43 nel male, adiunse la demostrazione de l’amore che corre nel bene con meno vigore che non dè, dicendo prima come l’amore che torce nel male si purga nei tre gironi, dei quali è trattato di sopra, dicendo così: Questo triforme amor; cioè questo amor che torce nel male, ch’è in tre specie diviso; cioè in superbia, invidia et ira, qua giù di sotto; e dimostrò Virgilio a Dante li tre gironi già montati da loro e valicati: imperò che ora erano in sul quarto, Si piange; cioè si purga, come appare, nel primo balso la superbia, nel secondo la invidia, nel terso l’ira, or vo’; cioè ora vollio io Virgilio, che tu; cioè Dante, dell’altro intende; cioè amore; del secondo: imperò che di sopra fu trattato del primo amore che torce noi male, ora tocca lo secondo che44 corre nel bene con meno vigore che non si dè, e però dice: Che corre al ben con ordine corrotto; cioè corre al sommo bene ch’è Iddio, o alle virtù, non con quel45 fervore che si dè; ma con minore. Ciascun; cioè omo, confusamente; cioè non chiaramente, un bene apprende; cioè vede ne l’apprensione sua che li è uno sommo bene, Nel qual; cioè bene, si cheti l’anima: cioè si contenti l’anima, sicchè più non desideri, e disira; cioè e desidera esso sommo bene, Perchè; cioè per la qual cosa, di giunger lui: cioè esso sommo bene, ciascun contende; cioè si sforsa e cercalo quanto può: imperò che come dice Boezio, iii Filosofica Consolazione: Est enim mentibus [p. 409 modifica]hominum veri boni naturaliter inserta cupiditas; sed ad falsa devius error abducit. — Se lento amor; cioè che non abbia lo vigore che dè avere, a lui veder; cioè a cognoscere questo sommo bene, vi tira; cioè voi omini, O a lui acquistar: cioè ad acquistar esso sommo bene si va con lentessa e non con ferventissimo amore, come si dè, questa cornice; ne la quale siamo ora, che è la quarta, Di po’ giusto penter, ve ne martira; cioè poi che ve ne siete pentuti46, ve ne purga con la pena questo quarto girone, dove si purga lo peccato de l’accidia; et amare lo sommo bene, cioè di cognoscerlo o d’acquistarlo con pogo vigore, e non quanto si dè: imperò che si dè amare di cognoscerlo e d’acquistarlo più che noi medesmi, è peccato d’accidia lo quale finge l’autore che si purghi ne la quarta cornice. E così fa qui l’autore pur menzione de l’amore che si fa con minore cura che non si dè, perchè quinci si cagiona l’accidia de la quale intende qui: imperò che quando s’ama47 con maggior cura che non si dè, intendendo al modo ditto di sopra, sono altri peccati dei quali non s’intende qui; e questo intendimento è sforsato, e non credo che fusse dell’autore.

C. XVII — v. 133-139. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Virgilio dimostrò come l’amore disordinato inverso le cose mondane è cagione e radice delli altri peccati mortali; cioè avarizia, gola e lussuria, dicendo cosi: Altro bene è; cioè diverso da quel che è ditto di sopra, che; cioè lo quale, non fa l’om felice: imperò che l’omo, se avesse tutto ’l mondo, non serebbe però felice: imperò che felice è colui che à lo desiderio suo quietato, sicchè niente desideri più; ma stia contento a quel ch’elli à. Questo bene sono tutte le cose mondane create da Dio, le quali tutte sono buone; ma sono bene imperfetto, e però disse Salomone: Vanitas vanitatum, et omnia vanitas — . Non è felicità; questo così fatto bene non è la vera e perfetta felicità, non è la buona Essenzia; questo bene imperfetto non è la buona essenzia; cioè divina, frutto e radice d’ogni ben; cioè non è lo ben perfetto, che è frutto d’ogni bene: imperò che c’è dato per merito de le nostre buone operazioni nell’altra vita: imperò che in questa non si può avere perfettamente, et è radice d’ogni bene: imperò che da lui si diriva ogni bene, sì come da la radice lo frutto de l’arbore. L’amor; cioè umano, che; cioè lo quale, troppo s’abbandona ad esso; cioè troppo si fida in esso bene imperfetto più che non dè, tanto che spesse volte n’abbandona lo ben perfetto; e dice troppo, intendendo pur de l’amore che ad esso va con più cura che non dè: imperò che quel che va con meno cura, non [p. 410 modifica]fa al proposito, e questo è l’amor disordinato de le cose mondane, Di sovra noi si piange per tre cerchi; cioè si purga ne’ tre gironi li quali sono a montare; cioè nel primo l’avarizia ch’è inverso li beni de la fortuna; nel secondo la gola ch’è inverso li diletti del gusto; nel terso et ultimo la lussuria ch’è inverso le cose dilettevili, massimamente carnali. Ma come tripartito si ragiona; cioè ma come sia diviso in tre spezie, Tacciolo; io Virgilio, acciò che tu; cioè Dante, per te ne cerchi; cioè per la tua sensualità lo consideri e dividilo. Bene dice l’autore, fingendo che Virgilio dica così: imperò che ’l bene perfetto e sommo non è sensibile; ma intelligibile, e però Virgilio, che significa la ragione, l’àe dichiarato che la sensualità non n’aggiungea48; ma questo bene imperfetto è bene sensibile, et a questo bene adiunge la sensualità, e però àe finto che Virgilio lo taccia acciò che la sensualità lo consideri e dividalo. E però volendolo dividere si dè dividere così: lo bene imperfetto sensibile o elli è tale che muove tutti li sentimenti, o è tale che ne muove pur uno. Se è lo primo, o è in desiderio tanto, o è in operazione e desiderio. Se è pure in desiderio, et a quello si stenda l’amor disordinato, allora cagiona l’avarizia; s’elli è in desiderio et operazione, et a quello intende l’amor disordinato, allora cagiona la lussuria; s’elli è lo secondo è tale che muove pur uno senso tanto; cioè lo gusto, et a quello si stende l’amor disordinato o con desiderio o con opera, o con l’uno e l’altro insieme; allora cagiona la gola. E perchè in più modi non si può dividere, non sono più; e perchè l’avarizia muove tutti li sentimenti e sta nel desiderio e non seguita bene niuno, però la puose l’autore di sotto a la gola et a la lussuria49; perchè per la gola non seguita tanto bene, quanto per la lussuria: imperò che non ne seguita se non lo conservamento del proprio subietto, però la puose di sotto a la lussuria; e perchè per la lussuria seguita lo conservamento de l’umana specie, ch’è maggior bene che d’uno individuo, però la puose di sopra a tutti. Potrebbesi anco pilliare questa divisione in questa forma; lo bene imperfetto, in che può intendere l’amore disordinatamente, o è utile o è dilettevile: se è utile, quinde si cagiona l’avarizia; se è dilettevile, o è pure dilettevile ad uno sentimento o a più; se pur ad uno; cioè al gusto, è la gola; se a più, è la lussuria. E questo s’intende quando lo detto bene s’ama con più cura che non dè; ma quando s’ama con meno cura che non si dè, sono altri peccati dei quali non s’intende ora dall’autore di dimostrare quive, perchè non sono a suo proposito; et anco possano essere sotto queste specie, come appare de la prodigalità ch’è sotto l’ avarizia. E qui finisce il canto xvii, et incomincia lo canto xviii.

Note

  1. C. M. veggano — ; e il nostro Codice vegano dall’infinito vegere. Nella Storia aquilana sta scritto «Tutte quattro le quartora insieme vui vegate». E.
  2. C. M. che è nella sommità del capo:
  3. C. M. assimilliare
  4. C. M. a la guida, che conviene che così muti lo passo lo cieco, come la guida, usci’
  5. C. M. del mare
  6. C. M. l’oriente
  7. C. M. o vero senso comune, o vero imaginazione nella fronte, imaginativa, o vero cogitativa, o vero estimativa è in su l’altezza del capo, e retentiva, o vero memorativa
  8. C. M. e la riprensiva lo rende
  9. C. M. concavità del capo, l’autore
  10. C. M. ritentiva
  11. C. M. l’apprendo; — Ma nel Codice nostro apprende; terminazione in e della prima persona del presente indicativo, della quale ci forniscono esempi gli antichi scrittori. E.
  12. C. M. le figure presentate a lo intelletto,
  13. C. M. dei movimenti superni: de l’inferiori
  14. C. M. Tereo in vipara. Ne la quale fizione
  15. C. M. da furore avea fatto comandamento per tutto lo regno che li Iudei
  16. C. M. questa istoria li occorresse
  17. C. M. li Fisici
  18. C. M. li omini abituati nel vizio
  19. Lavina, Tarquino e simili truovansi nelle antiche scritture e in verso e in prosa. E.
  20. C. M. per deterrere lo lettore e chi si purga del peccato dell’ira da esso peccato, considerando
  21. C. M. tale, quale la bulla
  22. Dicei; dicevi, sottratto l’ultimo v, come si costuma da’ Classici. E.
  23. C. M. dovermi; — Il Riccard. dovemmi, dove la particella pronominale à la consonante raddoppiata, perchè aggiunta ad un infinito mozzato ed accentato; dovè. E.
  24. C. M. uccisione
  25. C. M. altra intenzione, mi rimosse,
  26. C. M. in grazia e però la finge
  27. C. M. chi vede
  28. C. M. lo dipartimento della grazia per lo dipartimento del Sole;
  29. C. M. spirò in lui, fatta la purgazione del peccato de l’ira, con proposito
  30. Dell’odio — - tipartita, quive: — giunta del Magi. E.
  31. C. M. lettora o virtù mia
  32. C. M. per qualche peccato
  33. Possino; desinenza comune anche ai nostri Cinquecentisti, e derivata dalla terza singolare in i con l’aggiunta del no, comechè non piaccia ai Grammatici. E.
  34. C.M. cioè onesto, nel quale s’intende lo bene sommo,
  35. Nel libro terzo, alle Dichiarazioni all’Etica d’Aristotele, B. Segni accennando a questo ternario, manifesta come ne’ desidèri naturali e comuni non s’erra; ma sì ne’ propri. E.
  36. C. M. troppo moderatamente ciò, e lo secondo è imperfetto bene utile e dilettevile, o amando poco quello che si dè amare; cioè lo bene mondano, o amando poco quello che vigorosamente
  37. C. M. dirizzato, sì che lui per lui dirittamente ama, e non per altra cosa ami lui, E nel segondo,
  38. C. M. è buona; e questo secondo bene s’intende, secondo lo Filosofo, lo bene utile e dilettevile, sè stesso
  39. C. M. di peccare; e bene dice si torce: imperò che lo male per diritto non si può amare; ma sì per obliquo; cioè quando s’ama per seguitare alcuno bene, et allora non s’ama lo male; ma lo bene che se ne aspetta, o con più cura,
  40. Tute; sicure, dal latino tutus. E.
  41. Male. Presso gli antichi truovansi parecchi nomi con doppio finimento, come appo de’ Latini, i quali avevano semianimis e semianimus, simplex e simplus. E però da noi si dice celeste, fine, male egualmente che celesto, fino, malo ec. E.
  42. S’amono. Così fu scritto da parecchi antichi per una cotale uniformità, essendosi tutti i verbi da principio modellati sulla seconda coniugazione. E.
  43. C. M. che torce nel male,
  44. C. M. che torce nel bene
  45. C. M. con quell’ordine e fervore
  46. Pentuto da pentere: verbo trasportato dalla terza coniugazione alla seconda. E.
  47. C. M. s’ama con minore cura
  48. C. M. non v’aggiungea
  49. C. M. lussuria; e perchè
Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Purgatorio - Canto diciassettesimo