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254 | p u r g a t o r i o xi. | [v. 22-36] |
Sed libera nos a malo; ecco l’altra. Ma l’autore nostro la recò ad una, perché amburo non s’appartegnano a quelli del purgatorio; ma sì alli omini che sono nel mondo, come apparrà di sotto per lo testo che seguita.
C. XI — v. 22-36. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come una di quelle anime dichiarasse alcuno dubbio a Dante, che occorrea per l’orazione detta di sopra; cioè per l’ultima parte; a presso pone una persuasione ad ogni uno che debbia pregare per l’anime del purgatorio, dicendo così: Quest’ultima preghiera; cioè Nostra virtù ec.; parla una dell’anime, che andavano sotto li pesi a Dante dicendoli che l’ultimo prego de la orazione detto di sopra non si facea per loro; et usa qui una figura che si chiama antifofora, che si fa quando l’omo risponde a l’obiezione che si potrebbe fare 1. L’omo dice all’anime di purgatorio: Voi pregate che non siate indutte in tentazioni; ma siate liberate da male: voi non potete più essere tentate e siete libere dal male de la colpa e con speransa d’esser libere dal male de la pena, adunqua invano pregate. A che elli risponde che questo non si prega per loro; ma per quelli che sono nel mondo, che possono essere tentati c possono incorrere nel male e ne la colpa; e però dice a Dante: Signor caro; ecco che induce ne li stati superbi umilità, fingendo che dicano a lui Signore caro; e carità in quanto diceno caro, Già non si fa per noi; del purgatorio, che non bisogna: imperò che non possiamo incorrere più male di colpa, nè di pena che noi siamo incorsi, quia post mortem non est locus meriti; neque demeriti — Ma per color che dietro a noi restaro; cioè per quelli che sono nel mondo. E sopra questa parte occorre uno dubbio; cioè come finge l’autore che quelle anime preghino per noi: conciossiacosach’elle non possano meritare, nè demeritare, nè sapere di nostro stato se non in quanto per grazia è revelato loro; cioè a quelli del purgatorio; et a quelli de lo inferno per loro pena et afflizione; e dove non è merito, non è esaudizione; dunque in vano è lo loro orare; dunque in vano fa l’autore questa finzione et àe fatto l’altre, dove àe finto che l’anime dicano l’orazione: imperò che ’l prego nè a loro, nè a quelli del mondo vale infine a tanto che non sono in paradiso, come colui che è in bando, che infine a tanto che non è fuora del bando non è udito a ragione in corte, benché dimandi iusto. A che si può rispondere che tanto valliano loro le loro orazioni e l’altre orazioni fatte per loro da altrui, e l’orazioni che fanno per altrui, quanto meritato ànno in questa vita che debbiano valere, sicché non valliano per lo merito che allora acquistino; ma per l’acquistato. E finge questo l’autore, per
- ↑ C. M. fare innanzi che si faccia, come ora. Potrebe l’omo dire a l’anime