Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXXIII

Inferno
Canto trentatreesimo

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Inferno - Canto XXXII Inferno - Canto XXXIV

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CANTO XXXIII.


1La bocca sollevò dal fiero pasto
      Quel peccator, forbendola a’ capelli1
      Del capo, ch’elli avea di rietro guasto.
4Poi cominciò: Tu vuoi, ch’io rinnovelli
      Disperato dolor che il cor mi preme,
      Già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
7Ma se le mie parole esser den seme,
      Che frutti infamia al traditor ch’io rodo,
      Parlare e lagrimar udrai insieme.2
10Io non so chi tu se’, nè per che modo
      Venuto se’ qua giù; ma fiorentino
      Mi sembri veramente, quand’io t’odo.
13Tu dei saper ch’i’ fu’ ’l conte Ugolino,3
      E questi è l’arcivescovo Ruggieri:
      Or ti dirò perchè son tal vicino.
16Che per l’effetto de’ suoi ma’ pensieri,
      Fidandomi di lui io fossi preso,
      E poscia morto, dir non m’è mestieri.
19Però quel che non puoi aver inteso;
      Cioè come la morte mia fu cruda,
      Udirai, e saprai se m’à offeso.

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22Breve pertugio dentro dalla muda,4
      La qual per me à il titol della fame,
      E in che conviene ancor ch’altri si chiuda,
25M’avea mostrato per lo suo forame
      Più lume già, quando feci il mal sonno,
      Che del futuro mi squarciò il velame.
28Questi parea a me maestro e donno,
      Cacciando il lupo e i lupicini al monte,
      Per che i Pisan veder Lucca non ponno.
31Con cagne magre, studiose e conte,
      Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
      S’avea messi dinanzi dalla fronte.5
34In piccol corso mi pareano stanchi
      Lo padre e’ figli, e con l’agute scane6
      Mi parea lor veder fender li fianchi.
37Quando fui desto inanzi la dimane,
      Pianger senti’ fra il sonno i miei figliuoli,7
      Ch’eran con meco, e dimandar del pane.8
40Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli,
      Pensando ciò, che al mio cor s’annunziava;9
      E se non piangi, di che pianger suoli?
43Già eran desti, e l’ora s’appressava10
      Che il cibo ne solea essere addotto,
      E per suo sogno ciascun dubitava;
46Et io senti’ chiavar l’uscio di sotto11
      Dell’orribile torre, ond’io guardai12
      Nel viso a’ miei figliuoi sanza far motto.

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49Io non piangea: sì dentro impetrai;
      Piangevano elli, et Anselmuccio mio
      Disse: Tu guardi sì, padre, che ài?
52Perciò non lagrimai, nè rispuos’io
      Tutto quel giorno, nè la notte appresso,
      In fin che l'altro Sol nel mondo uscio.
55Come un poco di raggio si fu messo
      Nel doloroso carcere, et io scorsi
      Per quattro visi il mio aspetto stesso;
58Ambo le mani per dolor mi morsi;
      Et ei pensando ch’io il fessi per voglia
      Di manicar, di subito levorsi,13
61E disser: Padre, assai ci fia men doglia,14
     Che tu mangi di noi: tu ne vestisti
      Queste misere carni, e tu ne spoglia.
64Queta’mi allor, per non farli più tristi:
      Lo di’ e l’altro stemmo tutti muti.15
      Ahi dura terra! perchè non t’apristi?
67Poscia che fummo al quarto di’ venuti,
      Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
     Dicendo: Padre mio, che non m’aiuti?
70Quivi morì; e come tu mi vedi,
      Vid’io cascar li tre ad uno ad uno,
      Tra il quinto di’ e il sesto; ond’io mi diedi
73Già cieco a brancolar sopra ciascuno,
      E due di’ li chiamai, poi che fur morti:16
      Poscia, più che il dolor, poteo il digiuno.17
76Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
      Riprese il teschio misero coi denti,
      Che forar l’osso, come d’un can, forti.18

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79Ahi Pisa, vituperio delle genti
      Del bel paese là, dove il Sì suona;
      Poi che’ vicini a te punir son lenti,
82Movasi la Cavrara e la Gorgona,19
      E faccian siepe ad Arno in su la foce,
      Si ch'elli anneghi in te ogni persona.
85Che se il conte Ugolino avea voce20
      D’aver tradita te delle castella,21
      Non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.22
88Innocenti facien l'età novella,23
      Novella Tebe, Ughiccione, e il Brigata,24
      E li altri due, che il canto suso appella.
91Noi passammo oltre, dove la gelata2526
      Ruvidamente un’altra gente fascia,
      Non volta in giù; ma tutta riversata.
94Lo pianto stesso li pianger non lascia,
      E il duol, che truova in su li occhi rintoppo,
      Si volve iv’ entro a far crescer l’ambascia:27
97Chè le lagrime prime fanno groppo,
      E, sì come visiere di cristallo,
      Riempion sotto il ciglio tutto il coppo.
100Et avvegna che, sì come d’un callo,
      Per la freddura ciascun sentimento
      Cessato avesse del mio viso stallo,
103Già mi parea sentire alquanto vento;
      Perch’io: Maestro mio, questo chi move?
      Non è qua giù ogni vapore spento?

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106Ond’elli a me: Avaccio sarai dove
      Di ciò ti farà l’occhio la risposta,
      Veggendo la cagion che il fiato piove.
109Et un de’ tristi della fredda crosta
      Gridò a noi: O anime crudeli,
      Tanto che data v’è l’ultima posta,
112Levatemi dal viso i duri veli,28
      Sì che io sfoghi il duol che il cor m’impregna,
      Un poco in pria, che il pianto si raggieli.
115Per ch’io a lui: Se vuoi ch’io ti sovvegna,
      Dimmi chi se’; e, s’io non ti disbrigo,
      Al fondo della ghiaccia ir mi convegna.
118Rispose adunque: Io son frate Alberigo,
      Io son quel dalle frutte del mal orto,29
      Che qui riprendo dattero per figo.3031
121Oh, diss’io lui, or se’ tu ancor morto?
      Et elli a me: Come il mio corpo stea
      Nel mondo su, nulla scienzia porto.
124Cotal vantaggio à questa Tolomea,
      Che spesse volte l’anima ci cade,
      Inanzi ch’Antropos mossa li dea.32
127E perchè tu più volentier mi rade33
      Le invetriate lagrime dal volto,
      Sappi che, tosto che l’anima trade,34
130Come fec’io, il corpo suo l’è tolto
      Da un demonio, che poscia il governa,
      Mentre che il tempo suo tutto sia volto.

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133Ella ruina in sì fatta cisterna;
      E forse pare ancor lo corpo suso
      Dell’ombra, che di qua dietro mi verna.
136Tu il dei saper, se tu vien pur mo giuso:35
      Elli è ser Branca d’Oria, e son più anni
      Poscia passati, ch’el fu sì racchiuso.36
139Io credo, diss’io lui, che tu m’inganni:
      Chè Branca d’Oria non morì unquanche,
      E mangia e bee e dorme e veste panni.
142Nel fosso su, diss’el, dei Malebranche,37
      Là dove bolle la tenace pece,
      Non era giunto ancora Michel Zanche,
145Che questi lasciò il diavolo in sua vece
      Nel corpo suo; et un suo prossimano,
      Che il tradimento insieme con lui fece.
148Ma distendi oggimai in qua la mano,
      Aprimi li occhi; et io non gliel apersi,38
      E cortesia fu in lui esser villano.
151Ahi Genovesi, uomini diversi
      D’ogni costume, e pien d’ogni magagna,
      Perchè non siete voi del mondo spersi?
154Chè col piggiore spirto di Romagna
      Trovai di voi un tal, che per sua opra
      In anima in Cocito già si bagna,
157Et in corpo par vivo ancor di sopra.

  1. v. 2. C. M. peccator, forbendolo
  2. v. 9. vedra’mi insieme.
  3. v. 13 C. M. io fui conte Ugolino,
  4. v. 22. C. M. pertuso
  5. v. 33. C. M. messo
  6. v. 35. C. M. acute
  7. v. 38. C. M. nel sonno
  8. v. 39. C. M. Ched eran meco,
  9. v. 44. C. M. che il mio cor
  10. v. 43. Si legge nel Landino «e l’ora trapassava E.
  11. v. 46. Chiavare; inchiodare, dal latino clavus, chiodo. E.
  12. v. 47. C. M. All’orribile torre,
  13. v. 60. Levorsi; sincope di levorosi, si levoro. E.
  14. v. 61. C. M. dissen:
  15. v. 65. C. M. Quel dì
  16. v. 74. E tre dì
  17. v. 75. C. M. potè ’l
  18. v. 78. C. M. Che foran
  19. v. 82. C. M. la Capraia
  20. v. 85. Altr. boce
  21. v. 86. C. M. tradito
  22. v. 87. Dovei; dovevi, sottratto il v come in avei, Inf. C. xxx. v. 110, 111. Figliuoi; figliuoli, fognata l’l, come truovasi eziandio negli scrittori del dugento. Abbiamo in fra Guittone «In ciò, che vale quanto avete, anima e corpo e figliuoi vostri, è danno». E.
  23. v. 88. C. M. Innocenti i facea
  24. v. 89. C. M. Uguiccione,
  25. v. 91. oltre là ’ve
  26. v. 91. Gelata; gelo, come usata per uso, ec. E.
  27. v. 96. C. M. volle
  28. v. 112. Levatemi dal volto
  29. v. 119. C. M. quel delle frutta
  30. v. 120. C. M. dattilo
  31. v. 120. figo; fico. Per maggiore dolcezza i nostri antichi mutavano in g il c, dicendo Gaio, Gostanza, miga, aguto per Caio, Costanza, mica, acuto ed altri. E.
  32. v. 126. C. M. Antropos morte li dea.
  33. v. 127. C.M. ne rade
  34. v. 129. Trade; terza persona singolare dell’indicativo dall’infinito tradere. E.
  35. v. 136. dei; devi, dall’infinito deere o deire. E.
  36. v. 138. C.M. rinchiuso.
  37. v. 142. C. M. di Male branche,
  38. v. 149. C. M. Apremi

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C O M M E N T O


La bocca sollevò ec. In questo xxxiii canto l’autor compie di trattare del secondo giro et entrò1 nel terzo, e fa principalmente due cose: imperò che nella prima induce a notificare l’uno di quelli due detti di sopra, addomandato da lui chi erano, e così ancora la lor condizione e del loro peccato, e così si spaccia del secondo giro; nella seconda pone come entra nel terzo, quivi: Noi passammo oltre ec. Questa prima, ch’è la prima lezione, si divide in sette parti: imperò che prima pone come colui si dispose a manifestarli quel ch’avea domandato, e come fa suo esordio; nella seconda, come comincia la sua narrazione in generale, notificando le persone, quivi: Io non so chi tu se’ ec.; nella terza pone come narra la cagione speziale della sua offensione, e finge che facesse uno sogno che li manifestò il futuro, quivi: Breve pertugio ec.; nella quarta manifesta l’avvenimento del sogno, quivi: Quando fui desto ec.; nella quinta manifesta il modo, ch’elli tenne nella sua condizione in fino al quarto di’, quivi: Io non piangea ec.; nella sesta narra la morte sua e de’ suoi figliuoli, quivi: Poscia che fummo ec.; nella settima pone l’autore una invezione contra Pisa, quivi: Ahi Pisa, vituperio ec. Divisa dunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Quel peccatore addomandato da me, sollevò la bocca sua dal fiero pasto, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea guasto di rietro, mordendolo come fu detto di sopra; e poi cominciò a parlare a Dante, dicendo: Tu vuoi ch’io rinnovelli disperato dolore, che mi duole pur pensando di ciò, non che parlandone; ma per dare infamia a costui che mi tradie, io dirò e piagnerò insieme. Io non so chi tu se’; ma tu mi pari fiorentino alla favella, e non so per che modo se’ venuto quaggiù: tu dei sapere ch’io fui conte Ugolino da Pisa, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò per ch’io li fo questo. Dirti come fui preso e poscia morto non n’è bisogno, che tu lo sai, che il debbi2 avere udito; ma tu non ài udito il modo, e però ti voglio dire come la mia morte fu cruda, e saprai se m’à offeso. Quella torre che è in Pisa, chiamata per me la torre della fame, nella quale io fui richiuso co’ miei figliuoli, avea uno buco per lo quale io vedea il di’ quand’elli appariva3; e già era l’alba della mattina ch’io m’addormentai e pareami vedere costui come mio maestro e signore, cacciando uno lupo co’ suoi lupicini in sino a monte pisano con cagne magre molto sollicite e preste; e poco correndo questo lupo [p. 827 modifica]et i lupicini, mi pareano stanchi et essere sopraggiunti da quelle cagne e stracciati e morti. E questo sogno m’annunciò quello che mi dovea avvienire4; ond’io fui svegliato, inanzi che fosse chiara mattina: io sentii li miei figliuoli piagner sognando, e domandavano del pane, i quali erano meco in quella torre rinchiusi. E dice l’autore ch’elli disse in verso lui: Ben se’ crudele, se già non ti duoli, pensando ciò che il mio cuore s’annunziava; e se non piangi di questo, di che pianger suoli? Poi che’ miei figliuoli furono svegliati e ciascuno dubitava per lo sogno ch’elli avea fatto, e l’ora s’approssimava del cibo, io sentie chiavare l’uscio della torre, ond’io sanza dire alcuna cosa, guardai nel viso a’ miei figliuoli; elli piangeano, et io non potea piangere: sì era impetrato5 dentro; et uno di miei figliuoli ch’avea nome Anselmuccio, disse: Tu guardi sì a noi, padre, che ài? E per tutto questo non lagrimai, e non rispos’io tutto quel giorno, nè la notte seguente, infino che non venne l’altro di’; e come il sole entrò per lo buco della torre, et io vidi il mio aspetto medesimo nel viso di quattro miei figliuoli i quali io ragguardai, allora mi morsi amendu’ le mani per lo dolore; et i miei figliuoli, pensando ch’io il facesse per brama di mangiare, si levarono e vennono a me dicendo: Padre mio, assai ci fìa minor dolore che tu mangi di noi: tu ci vestisti di questa misera carne, e tu ci spoglia. Allora mi racquetai, per non farli più tristi, e quel di’ e l’altro stemmo come mutoli e sanza parlare. Ahi dura terra, come non t’apristi a tanta crudeltà! Poi che fumo venuti al quarto di’, Gaddo mio figliuolo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: Padre mio, che non m’aiuti? E morissi dinanzi a me disteso; e come tu mi vedi, vid’io cascare li altri tre ad uno ad uno tra il quinto di’ e il sesto, ond’io poi, accecato per la fame, andava brancalando sopra loro, e due di’ vissi dopo loro; poi lo digiuno potè più che il dolore, e finì la mia vita che non l’avea potuta finire il dolore. E dice l’autore che, finito questo, riprese il teschio, ch’elli rodea prima, coi denti forti che foravano l’osso; onde l’autore fa una invezione contra Pisa, dicendo: Ahi Pisa, vituperio delle gente italice6, poi che i tuoi vicini sono lenti di fare vendetta sopra di te di tanta crudeltà, muovasi la Cavrara7 e la Gorgona, e facciano siepe ad Arno in su la foce sì, che in te annieghi ogni persona: imperò che, se il conte Ugolino era infamato d’avere tradite le tue castella, non dovevi porre i figliuoli a sì fatto tormento, ch’elli erano innocenti per la età tutti e quattro; cioè Gaddo, Anselmuccio, e Brigata, et Ughiccione; ma tu ài renduto certezza, come tu se’ [p. 828 modifica]Tebe novella: imperò che di Tebe discese il tuo edificatore; quasi dica: Come quella citta fu crudele; così se’ tu. E qui finisce la prima lezione: ora è da vedere lo testo con l’allegorie e moralità.

C. XXXIII — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro finge che colui, che rodeva la cottola dell’altro addomandato da lui, come detto fu di sopra, li rispondesse e facesse esordio alla sua narrazione, dicendo: La bocca sollevò dal fiero pasto; cioè sollevò la sua bocca dal capo che li rodea8, ch’era pasto di fiera e non d’uomo, Quel peccator; del quale fu detto di sopra, forbendola a’ capelli Del capo, ch’elli avea di rietro guasto; cioè roso a quell’altro peccatore che gli era inanzi. Poi cominciò; cioè a parlare in questa forma: Tu vuoi; cioè tu, che domandi, ch’io rinnovelli Disperato dolor; cioè dolore di disperazione, che il cor mi preme; cioè m’aggrava, Già pur pensando, pria ch’io ne favelli; cioè innanti ch’io ne parli, pur lo pensieri me ne dà gravezza. Ma se le mie parole esser den seme, Che frutti infamia al traditor ch’io rodo; cioè che per questo ne debba ricevere infamia questo traditore, il quale io rodo, Parlare e lagrimar udrai insieme; cioè insiememente m’udirai parlare e piangere: però che sanza pianto noi potrei narrare.

C. XXXIII — v. 10-22. In questi quattro ternari finge l’autore che quel peccatore, ch’elli à indotto a parlare, fatto lo suo esordio, continuasse la sua orazione, narrando chi egli era; e così colui ch’era con lui, e l’offensione ricevuta, dicendo così: Io non so chi tu se’; dice costui, che parla, a Dante, nè per che modo Venuto se’ qua giù; ma fiorentino Mi sembri veramente, quand’io t’odo; quasi dica: Alla favella mi pari fiorentino. Tu dei saper; cioè poi che tu se’ fiorentino, e se sì vicino alla patria ond’io fui, ch’i’ fu’ ’l conte Ugolino: questo conte Ugolino fu de’ conti della Gherardesca da Pisa, e fu grandissimo cittadino della detta città, intanto che il governo della città era nelle sue mani e del suo consiglio; e trattò sì male la sua signoria, che nel suo reggimento perdè quasi tutte le sue castella, salvo che Vico e Morrona et aveale prese la parte guelfa di Toscana co’ Fiorentini; onde si credette che, come favoreggiatore di parte guelfa, elli le tradisse loro forse per esser fatto general signore, come fanno molti che riducono9 le loro terre in malo stato, per averne la signoria; et in suo tempo era arcivescovo di Pisa messer Ruggieri degli Ubaldini da Pisa. Occorse caso che uno nipote del detto arcivescovo fu morto da un parente del detto conte, perchè vagheggiavano una medesima donna; onde il detto arcivescovo, proposto di vendicarsi, fece trattato contra il detto conte, et incitò contra di lui tre grandi case di gentili uomini da Pisa; cioè Gualandi, Sismondi, [p. 829 modifica]e Lanfranchi, et ordinò che costoro levassono il romore et incitassono il popolo contra lui; et elli in persona cavalcò con la croce inanzi alla casa del detto conte con le dette casate e col popolo, e presono il detto conte con quattro suoi figliuoli e rinchiusonli in una torre della fame10, che è in sulla piazza delli Anziani. E chiuso l’uscio della torre con le chiavi, gittarono le chiavi in Arno, perchè niuno potesse loro aprire, nè andare a loro a dare o portar loro alcun cibo, e così li lasciarono morire di fame nella detta torre, che in publico non ebbe ardimento di farli morire. E benchè niuno sapesse del modo della loro morte, nè di quello che si facessono dentro della torre sopradetta, l’autore finge che ora il detto conte gliele manifesti, e fìnge cose verisimili come appare nel testo, e molto piatosamente11 fa la sua fizione, ad inducere a compassione ognuno di tanta crudeltà; e però dice: Tu dei saper ch’i’ fu’ il conte Ugolino, E questi è l’arcivescovo Ruggieri; lo quale io rodo così in vendetta del tradimento, ch’elli ordinò contra di me. E notantemente finge l’autor costoro esser puniti in questo secondo giro del nono cerchio, perchè amenduni, secondo la fama, furono traditori e rompitori di fede alla patria; l’uno dando le castella alla parte guelfa; e l’altro in fare trattato e divisione tra’ cittadini e contra il suo figliuolo spirituale, e massimamente fidandosi elli di lui. E però finge che l’arcivescovo Ruggieri sia più fìtto nella ghiaccia12; e ch’elli roda la collottola, finge l’autore che in vendetta de’ mali pensieri, che in quella parte ritenitiva, o vero memorativa, stettono quando ordinò il tradimento e lo trattato; e per mostrare allegoricamente che la memoria di sì fatto peccato sempre stava al detto arcivescovo nella mente, e rodevali la mente come fa il vermine della coscienzia, mentre che visse; e se a dannazione andò, che non si pentesse e confessasse di sì fatto peccato ancora tuttavia poi: imperò che sì fatta pena mai non viene meno a’ dannati. Or ti dirò perchè son tal vicino; fìnge Dante che il conte Ugolino, detto il nome suo e dell’arcivescovo, offerì a lui di dirli la cagione, perchè così lo rode; e perchè la cagione sta nell’effetto e nelle circustanzie, e l’effetto è noto e le circunstanzie no, però finge che offeri le circunstanzie e dimostri che l’effetto sia noto, e però dice: Che per l’effetto de’ suoi ma’ pensieri, Fidandomi di lui; cioè dell’arcivescovo, io fossi preso, E poscia morto, dir non m’è mestieri; cioè non m’è bisogno, perchè è cosa nota. Però quel che non puoi aver inteso; Cioè come la morte [p. 830 modifica]mia fa cruda; che è una delle circunstanzie; et è qui da notare che le circunstanzie sono quelle che aggravano il peccato, secondo la loro gravezza, Udirai, e saprai se m’à offeso; e questo apparirà nella circunstanzia della mia morte: cioè nel modo il quale io ti manifesterò.

C. XXXIII — v. 23-37. In questi cinque ternari l’autor nostro finge che il conte Ugolino incomincia a narrare il modo della sua crudele morte, e finge ch’elli dica che, poi che fu rinchiuso nella detta torre, la notte innanzi lo chiaro giorno, in su l’aurora elli fece uno sogno che li manifestò quello che li dovea avvenire; e questo sogno finge lo autore poeticamente, lo quale fu in questa forma, che li parea vedere l’arcivescovo Ruggieri andare come maestro e signore alla caccia per lo piano, in verso il monte pisano, dietro a uno lupo che avea dietro i suoi lupicini, et inanzi all’arcivescovo andavano a questa caccia li Gualandi, li Sismondi e li Lanfranchi; et erano a questa caccia, dietro a questo lupo e lupicini, cagne magre et atte e volonterose di sì fatta caccia; e questo lupo e lupicini, poco che ebbono corso, pareano stanchi sì, che queste cagne li giugneano e fendeano loro li fianchi co’ denti e stracciavanli et uccideanli. Questo sogno finge l’autore assai bene, secondo la materia quanto al tempo: imperò che lo finge in su la mattina, quando si dicono li sogni essere veri; e quanto alla significazione: imperò che l’arcivescovo Ruggieri fu ordinatore e trattatore del trattato contra il conte sì, che ben parea maestro e signore nella caccia; e ben li andavano inanzi le tre case, perchè di loro avea fatto bolcione contra il conte; ben vi furono le cagne magre; cioè il popolo, el lupo e lupicini fu il conte e figliuoli; la caccia in verso il monte pisano era ch’elli ordinavano di cacciarlo; et elli si fortificava a Lucca e con la parte guelfa; che il lupo e’ lupicini fossono stanchi in piccolo corso si è che poco durò, o s’indugiò ch’elli fu preso dal popolo, essendone capi le dette casate, e fu impregionato nella detta torre; e che fossono forati per li fianchi coi denti delle cagne significava lo rubamento de’ lor beni e la loro morte. Or dice così il testo: Breve pertugio; cioè una piccola balestriera, o buco, che avesse la detta torre, dentro dalla muda: muda è luogo chiuso ove si tengono li uccelli a mudare: muda chiama l’autore quella torre, o forse perchè così era chiamata perchè vi si tenessono l’aquile del Comune a mudare, o per transunzione che vi fu rinchiuso il conte e li figliuoli, come li uccelli nella muda, La qual per me à il titol della fame: imperò che, poi che vi fu rinchiuso il conte e morivi di fame co’ figliuoli, fu chiamata poi la torre della fame, E in che conviene ancor ch’altri si chiuda; qui finge l’autor che il detto conte profetasse ch’ancora altri vi si dovesse rinchiudere; e benchè l’autor finga [p. 831 modifica]che sia predizione del conte, ella è sua; e questo finge l’autore per sua congettura, considerando che i Pisani aveano fatto allora sì fatta crudeltà, et elli vedea che nella città sempre erano di quelli cittadini che intendevano a maggioria, et elli vedea spesso mutamenti di stati: assai bene potea congetturare che in processo di tempo, avuto sì fatto esempro, ancora fossono di quelli che facessono lo simile; o sarà vero questo o no, pur verisimilmente potea questo congetturare, M’avea mostrato per lo suo forame; cioè per lo foro del pertugio detto di sopra, Più lume già, quando feci il mal sonno; cioè inanzi che sognassi, svegliato vidi grande lume e molto per quel buco sì, che ben era l’aurora, e poi m’addormentai e feci il reo sogno, Che del futuro; cioè di quel che mi dovea addivenire, mi squarciò il velame; cioè m’aperse ogni occultazione. Et incomincia a narrare lo sogno, dicendo: Questi; cioè l’arcivescovo, parea a me maestro e donno; cioè signore, e così fu quando fu preso, e poi quando si diliberò della sua morte, Cacciando il lupo e i lupicini al monte; cioè ordinando di cacciare me e’ miei figliuoli verso Lucca, Per che; cioè per lo qual monte, i Pisan veder Lucca non ponno; se non fosse il monte pisano in mezzo tra Pisa e Lucca: sono tanto presso, che l’una città vedrebbe l’altra. Con cagne magre; questi sono lo popolo minuto che comunemente è magro e povero, studiose; cioè desiderose di sì fatte cose, e conte; cioè ammaestrate a sì fatte cose fare, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi; queste sono tre case di gentiluomini della città di Pisa, di grande onore e di grande potenzia nell’antico; e benchè ancora sieno, pur sono molto mancate come l’altre famiglie antiche e l’altre cose, e sono denominate così da loro antichi; cioè Gualandi da Gualando, Sismondo Sismondi da Sismondo, e Lanfranchi da Lanfranco; e sono divise le dette case in più altre sì, come appare che i Gualandi sono Macaioni, e Sismondi sono Buzacherini13 Guinicelli, e Lanfranchi sono Rossi Gualterotti, S’avea messi dinanzi dalla fronte: però che queste case avea messe per capo del trattato e della setta. In piccol corso mi pareano stanchi Lo padre e’ figli; cioè poco pareva che durassono dopo questo trattato il conte e figliuoli, ch’elli furono presi e morti, e come detto fu di sopra, e con l’agute scane: scane sono li denti pungenti del cane, ch’elli à da ogni lato coi quali elli afferra, Mi parea lor veder fender li fianchi; e così recarli a morte. Questo veramente si può chiamare sogno: imperò che sotto alcuno velame dimostrava quello che doveva avvenire, come appare di sopra cap. xxvi, quando fu detto de’ sogni; e seppelo ben comporre l’autore.

C. XXXIII — v. 37-48. In questi quattro ternari l’autor nostro [p. 832 modifica]fìnge come il conte Ugolino, detto il suo sogno, procede oltre a narrare il modo della sua morte, dicendo: Quando fui desto; cioè io conte Ugolino, avuto il detto sogno, inanzi la dimane; cioè inanzi la chiara mattina, Pianger senti’ fra il sonno i miei figliuoli; ch’ancor dormivano, Ch’eran con meco; nella detta prigione, e dimandar del pane; sentilli14 dormendo ch’era segno che dormivano. Ben se’ crudel; dice il conte a Dante, se tu già non ti duoli: imperò che crudeltà è non aver compassione, e non dolersi della miseria, Pensando ciò, che al mio cor s’annunziava; che li dovesse addivenire, e sì per lo sognio ch’avea fatto io, e sì per lo sognio ch’io m’avvedea che aveano fatto ciascun de’ miei figliuoli; e tutto questo è fizione dell’autore: imperò che suole incontrare che, quando l’uomo è posto in miseria, e sieli per venire alcun gran male, che li sia rivelato nel sonno; e questo può essere per impressione de’ corpi celestiali che, come ànno nel loro movimento a cagionare queste mutazioni mondane, così l’ànno a mostrare tutte le più volte a coloro che le sostengono o ad altri. E se non piangi; cioè di questo ch’io m’annunziava, di che pianger suoli? Quasi dica: Di nulla. Già eran desti; i miei figliuoli, e l’ora s’appressava; cioè della terza, Che il cibo ne solea essere addotto; l’altre volte, E per suo sogno; ch’avean fatto, che significava che dovea esser15 tolto loro il cibo, ciascun dubitava; cioè de’ miei figliuoli, Et io senti’ chiavar l’uscio di sotto Dell’orribile torre; della quale è detto di sopra, ond’io guardai Nel viso a’ miei figliuoi sanza far motto. A che finge l’autore ch’elli guardassi16 li suoi figliuoli? Per veder s’elli s’avvedessono di quel che lui17 dice: sanza far motto; per non farneli a vedere.

C. XXXIII — v. 49-66. In questi sei ternari l’autor nostro finge che lo conte, seguendo suo parlare, manifesta il modo che tenne nella sua condizione infino al quarto di’, dicendo: Io non piangea; non perch’io non mi dolessi; ma per ch’iera18 indurato; e però dice: sì dentro impetrai; cioè indurai: imperò che alquanti indurano, et alquanti inteneriscono, Piangevano elli; cioè i figliuoli che erano più teneri, et Anselmuccio mio; questo è il nome dell’uno de’ figliuoli, e forse ch’era il minore poi ch’el fa diminutivo, Disse: Tu guardi sì; cioè noi, padre, che ài? Perciò; cioè benchè dicesse così, non lagrimai nè rispuos’io; questo dice, perchè quella dimanda era di fare intenerire, Tutto quel giorno, nè la notte appresso, In fin che l’altro [p. 833 modifica]Sol nel mondo uscio; cioè in fin che venne l’altro di’. Come un poco di raggio si fu messo; per qualche buco, Nel doloroso carcere; detto di sopra, et io scorsi Per quattro visi il mio aspetto stesso; cioè vidi l’immagine mia nel volto de’ miei quattro figliuoli, Ambo le mani per dolor mi morsi; provocato da ira che la movea il dolore; Et ei pensando ch’io il fessi per voglia Di manicar, di subito levorsi; cioè li miei figliuoli, avendo compassione a me, E disser: Padre, assai ci fia men doglia, Che tu mangi di noi: tu ne vestisti; cioè tu vestisti noi, Queste misere carni: però che la nostra carne è della tua generata, e tu ne spoglia; cioè e tu ce ne priva. Queta’mi allor; io conte, per non farli più tristi; ch’elli si fossono: Lo di’; cioè quel di’ ch’era il secondo, e l’altro; cioè il terzo di’, stemmo tutti muti; cioè il di’ secondo e ’l terzo, et eglino et io non parlammo. Ahi dura terra! perchè non t’apristi; a inghiottire noi per levarci di tanta miseria, o per inghiottire coloro che ciò ci faceano sostenere? Et è qui colore che si chiama esclamazione.

C. XXXIII — v. 67-78. In questi quattro ternari finge l’autore che ’l conte, seguitando suo parlare, manifesta la morte de’ figliuoli e sua, dicendo: Poscia che fummo al quarto di’ venuti; dal di’, che fu chiavato l’uscio e vietato il cibo, Gaddo; questo è il nome dell’altro figliuolo, mi si gittò disteso a’ piedi; venendo meno per la fame: dicono li medici che tre di’ può vivere l’uomo sanza mangiare, e però finge che così vivesse costui: è vero che chi è di forte natura viverebbe più; ma comunemente ogniuno tre di’, Dicendo: Padre mio, che non m’aiuti? Odi parole accoratorie che l’autor finge! Quivi morì; cioè Gaddo, a’ piedi miei disteso; e come tu mi vedi; cioè come tu vedi me, Vid’io cascar li tre ad uno ad uno; cioè li altri tre miei figliuoli; cioè19 Anselmuccio, Uguccione, e Brigata, Tra il quinto di’ e il sesto; sì che v’ebbe di quelli che vennono al sesto di’, ond’io mi diedi; cioè io conte, Già cieco a brancolar sopra ciascuno; cioè diventato cieco per la fame, E due di’ li chiamai, poi che fur morti; sì che per questo mostra che vivesse qualche otto di’20: Poscia, più che il dolor, poteo il digiuno; cioè poscia il digiuno finì la vita mia, la quale conservava il dolore; e così rende ragione come potee tanto vivere, e dice che ne fu cagione il dolore. E questo finge l’autore, perchè dopo li otto di’ ne furono cavati e portati inviluppati nelle [p. 834 modifica]stuoie al luogo de’ Frati minori a san Francesco e sotterrati nel monimento, che è al lato alli scaloni a montare in chiesa alla porta del chiostro, coi ferri in gamba; li quali ferri vid’io, cavato del detto monimento. Quand’ebbe detto ciò; lo conte Ugolino, con li occhi torti; questo dice, perchè per traverso guardava Dante, Riprese il teschio misero coi denti; cioè la cottola di dietro, come avea prima, Che forar l’osso; cioè della testa, come d’un can, forti.

C. XXXIII — v. 79-90. In questi quattro ternari l’autor nostro fa una invezione contra la citta di Pisa, riprendendola di tanta crudeltà; et è colore retorico che si chiama esclamazione, o vero apostrofa, dicendo così: Ahi: questa è una intergezione d’indegnazione, che dimostra l’animo indegnato, Pisa, vituperio delle genti Del bel paese là, dove il Sì suona; cioè vituperio della gente italica: Italia è una regione, dove per tutto s’usa questo vocabolo , volendo affermare, et è comunemente chiamata, reputata bella, e però dice bel paese; e dice vituperio: imperò che in questo atto fu vituperata la giustizia e clemenza italica: imperò che queste due virtù massimamente furono de’ Romani; e quel che faceano i Romani era onore di tutta Italia: imperò che con l’Italia insieme sempre acquistavano ogni grande onore, e chiamavansi l’Italiani compagni de’ Romani. Poi che’ vicini a te punir son lenti; cioè poichè di tanta ingiustizia e crudeltà li tuoi vicini non ànno fatto vendetta, Movasi la Cavrara e la Gorgona: queste sono due isolette poste in mare innanzi a Pisa, E faccian siepe ad Arno in su la foce; acciò che l’acqua dell’Arno non entri in mare, e però dice: Sì ch’elli anneghi in te ogni persona; cioè sì che l’Arno cresca tanto, che sommerga et annieghi in te ciascuno. E perchè alcuno dubita in questa parte e fa obiezione che l’autore pare contradire a sè: imperò che per ingiustizia21 e per crudeltà priega elli e desidera maggior crudeltà: imperò che, se male era avere ucciso così crudelmente quattro figliuoli del conte Ugolino, perch’erano innocenti del peccato del padre, maggior crudeltà era uccidere et annegare tutti i figliuoli innocenti de’ Pisani, che di ciò non aveano colpa; la qual cosa pare desiderare nella detta sua preghiera. A che si può rispondere che l’autore usa qui uno colore retorico che si chiama significazione, quando si fa per esuperazione quando immoderatamente si riprende la cosa che è stata immoderata. E per questo si dimostra lo zelo della giustizia grande ch’avea l’autore: altrimenti si può rispondere che non n’è ingiustizia desiderare che sia punita l’università, quando l’università à commesso il peccato, e che l’autor non desidera questo per ingiustizia; ma per soddisfacimento di giustizia, che richiede che, chi è in colpa di [p. 835 modifica]condannare lo innocente, sia condannato elli a quella medesima pena. Che se il conte Ugolino avea voce; cioè fama, D’aver tradita te delle castella; come detto fu di sopra, Non dovei tu i figliuoi porre a tal croce; cioè a tal tormento22. Ecco la cagione; perchè erano innocenti. Innocenti facien l’età novella: imperò ch’erano tutti garzoni, Novella Tebe; cioè, o Tebe, o vero cioè o Pisa, che se’ novella Tebe: imperò che di Tebe citta di Grezia, della quale fu detto di sopra cap. xiv, fu l’edificatore di Pisa; cioè Pelope figlio del re Tantalo re di Tebe, lo quale venne in Italia e fece Pisa dal nome d’una sua città ch’era nel regno suo, la quale si chiamava Pisa nella quale correa uno fiume, che si chiamava Alfeo, come corre l’Arno per Pisa; e però fu ancora chiamata dal suo principio Alfea, come testifica Virgilio nella Eneida23: e come quelli Tebani furono crudeli tra loro, come per Istazio e per le tragedie appare; così sono stati i Pisani in tra loro e fanno e sono nel detto caso; e però la chiama novella Tebe. Ecco che nomina coloro i quali l’età escusava, ch’erano garzoni, o dall’adolescienzia in giù, Ughiccione e il Brigata; ecco li nomi de’ due figliuoli maggiori, E li altri due, che il canto suso appella; cioè Gaddo et Anselmuccio, che furono nominati di sopra in questo canto medesimo, e però dice: il canto suso appella; cioè di sopra nomina; e qui finisce la prima lezione di questo canto.

Noi passammo oltre ec. In questa seconda lezione finge l’autore lo suo passamento dal secondo giro nel terzo, dove si puniscono li traditori, che, per poter meglio fare lo lor tradimento, mostrarono e mostrano alcuno segno di carità, facendo qualche benificio acciò che l’uomo si fidi e ch’ellino possano meglio tradire, e chiamasi la Tolomea denominata da Tolomeo, come si dirà di sotto; e dividesi in sei parti: imperò che prima finge lo passamento del secondo giro nel terzo; nella seconda domanda da Virgilio dichiarazione d’uno accidente, ch’elli sentì in quello terzo giro, quivi: Et avvegna ec.; nella terza, come un’anima di quelle del terzo giro lo priegò d’alcuno servigio, quivi: Et un de’ tristi ec.; nella quarta finge com’elli se li manifesta, et ancor delli altri, quivi: Oh, diss’io lui ec.; nella quinta finge uno contasto, ch’ebbe con quell’anima per maggiore dichiaragione, quivi: Io credo, diss’io ec.; nella sesta et ultima pone una invezione contra li Genovesi, quivi: Ahi Genovesi ec. Divisa adunque la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Poi che l’autore fece la detta invezione contra Pisa, dice che [p. 836 modifica]seguitò suo cammino, e però dice: Noi passammo oltre su per la gelata in verso il centro, e venimo in luogo dove la ghiaccia fasciava un’altra gente, la quale stava rovesciata in su, e volendo piangere non poteano: imperò che le lagrime congelate serravano loro li occhi sì, che non poteano uscire; el duolo non potendo esalare, si tornava dentro ad accrescere l’affanno loro. E bench’io avessi perduto ogni sentimento del mio volto quanto al senso comune, pur mi parve sentire alquanto vento; e perciò dice che elli domandò Virgilio onde veniva questo vento: Non n’è, qua giù spento ogni vapore? Onde Virgilio li rispose che tosto sarebbe, onde24 quel vento veniva. Et allora uno di quelli miseri gridò: O anime crudeli, in tanto che voi penate ad essere allogate, levatemi questo velo ch’io ò all’occhio sì, ch’io sfoghi un poco il dolore. E Dante rispuose: Se vuogli ch’io ti sovvenga, dimmi chi tu se’; e si non25 ti sovvegno, mi convenga andare al fondo. Allora rispose colui ch’elli era frate Alberigo, che seminò le frutta del mal orto, e che quivi era di ciò ben meritato. E Dante li rispose, maravigliandosi e addomandandolo: Or se’ tu ancor morto? Et elli li rispose che non sapea come stesse il suo corpo nel mondo: imperò che quelli che sono in quel terzo giro, che si chiama Tolomea, avviene che vi caggiono spesse volte l’anime inanzi che moiano: imperò che, come l’uomo commette sì fatto tradimento, il corpo è preso da uno demonio a governare per tutto il tempo che à poi a vivere, e l’anima cade nell’inferno in quel giro; e forse che costui, che m’è dietro, à ancora lo corpo suso: elli è messer Branca d’Oria, ch’è stato molti anni così. Onde Dante li disse: Io credo che tu m’inganni: imperò che messer Branca non è ancor morto; ond’elli li risponde: Io ti so dire che messer Branca fu prima qui, che Michele Zanche fosse nella bolgia della pegola che tu ài trovata di sopra, et ancora uno suo parente con lui che fece insieme con lui il tradimento; ma distendi oggimai in qua la mano, et aprimi li occhi. E Dante dice non gliele volle aprire: imperò che non attenere a lui la promessa fu cortesia: imperò che fu non ovviare alla giustizia di Dio; et al fine pone l’autore una invezione contra li Genovesi, dicendo: Ahi Genovesi, uomini diversi da ogni costume e pien d’ogni magagna, perchè non siete voi spersi del mondo, ch’io trovai uno di voi col piggiore spirito di Romagna, che con l’anima è nel fondo dell’inferno, e nel mondo pareva ancora vivo? E qui finisce la sentenzia litterale: ora è da vedere il testo con l’allegorie.

C. XXXIII — v. 91-99. In questi tre ternari l’autor nostro finge il dipartimento suo dal secondo giro, e il processo nel terzo giro, dicendo così: Noi: cioè Virgilio et io, passammo oltre, dove la [p. 837 modifica]gelata; cioè l’acqua agghiacciata, Ruvidamente; cioè aspramente, un’altra gente; che quella del secondo giro, fascia; cioè intornia, Non volta in giù; come quella del primo e del secondo giro, ma tutta riversata. E questo finge l’autore, a dimostrare che nel mondo ànno mostrato segno di carità per meglio fare il tradimento sì, che il tradito non si guardi, e non si sono vergognati del tradimento, e però non l’ànno fatto occultamente; ma abandonatamente, e però finge che stanno col capo riversato e col corpo. Lo pianto stesso li pianger non lascia; come questo sia, lo manifesta poi, E il duol; cioè le lagrime, che per duolo si gittano fuori, che truova in su li occhi rintoppo; cioè riscontro delle lagrime che vi sono aggelate, Si volve iv’entro a far crescer l’ambascia: imperò che, quando l’uomo non può scialare il dolore, li cresce la fatica. Ecco che manifesta lo modo, dicendo: Chè le lagrime prime fanno groppo; aggelate in sulle palpole26 delli occhi, E, sì come visiere di cristallo; questo dice, perchè le lagrime ghiacciate paiono cristallo, Riempion sotto il ciglio tutto il coppo; cioè tutta la tana delli occhi, che è sotto il cillio. E questo finge l’autore in vendetta della simulazione ch’ànno usato nel mondo che, come ànno simulato di voler bene altrui per poter meglio tradire; così pone che quivi abbino d’entro il dolore e nol possono dimandare27 di fuori, sì come nel mondo ànno portato l’odio d’entro, e di fuori un pezzo ànno mostrato amore tanto, che possino ingannare; e questo medesimo ne’ mondani, che non possono mostrare l’odio ch’ànno d’entro perchè altri non si guardi da loro, e mostrano chiarezza nelli occhi e buona cera, perchè l’uomo si fidi di loro.

C. XXXIII — v. 100-108. In questi tre ternari l’autor nostro finge ch’elli sentisse alcuno accidente di vento in quello luogo, che non v’avea sentito altro; onde domanda Virgilio della cagione, e però dice così: Et avvegna; fa qui avversazione che, benchè avesse perduto lo senso come28 che nel volto; pur non l’avea in tanto perduto, che non sentisse alquanto vento, che, sì come d’un callo; fa una similitudine, che come in uno callo che l’uomo abbia nella mano, o nel piede, elli perde lo sentimento; cioè che non sente29, come quelli che non sente quivi nè caldo, nè freddo al tatto, se non poi che è rimosso il callo; così elli avea perduto quasi nel volto il sentimento per lo freddo, e però dice: Per la freddura ciascun sentimento; di ciascuna cosa, Cessato avesse del mio viso stallo; cioè, benchè il sentimento, come d’ogni cosa, sua stanza; cioè fermezza, avesse cessata del mio volto per lo freddo che quivi era; non si dee però intendere [p. 838 modifica]che l’avesse perduto al tutto, ch’altrimenti contradirebbe a sè medesimo; o vogliamo intendere che al tutto l’avesse perduto, e però fa l’avversazione, per mostrare che quel vento è sopra natura: imperò che, benchè avesse perduto allora ciascuno sentimento; pur sentì il vento, e non volle dire ancora che avessi perduti li sentimenti particulari, come è il vedere e l’udire ec.; ma il senso comune, Già mi parea sentire alquanto vento; benchè per lo freddo si fosse cessato il senso comune, Perch’io; cioè Dante, Maestro mio; diss’io a Virgilio: questo chi move; cioè questo vento? Non è qua già ogni vapore spento? Quasi dica: Lo vento si genera di vapore che si genera e lieva della terra; non n’è quaggiù, in questo centro, ogni vapore spento? E però questo vento unde viene, dice Dante a Virgilio? Ond’elli; cioè Virgilio, a me; Dante disse: Avaccio sarai dove Di ciò ti farà l’occhio la risposta; cioè tu vedrai la cagion di questo vento; e però dice: Veggendo la cagion che il fiato piove; questo vento finge l’autore, come apparirà di sotto, che venga da due alie che continuamente batte lo Lucifero; e quivi porrò la sua allegoria.

C. XXXIII — v. 109-120. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che uno di quelli fitti nella ghiaccia, ch’avea di sopra fatto crosta, gridò a loro, domandando alcuna cosa facessono; e come Dante gli rispuose, e quello ne seguì; e però dice: Et un de’ tristi della fredda crosta; cioè uno di quelli, ch’era in quella fredda ghiaccia30, Gridò a noi; cioè a me Dante et a Virgilio: O anime crudeli; questo dice per due respetti; l’uno, perchè credea che per simile peccato che lui31, elli fossono dannati quivi, et elli v’erano per tradimento, così di loro credea, et ogui traditore è crudele; o vero, perchè non lo sovveniano, li chiama crudeli, Tanto che data v’è l’ultima posta; cioè infino a tanto, che voi siete allogati nel luogo dove sarete posti, che mai non sarete posti altrove; cioè in questo mezzo, Levatemi dal viso i duri veli; cioè le lagrime congelate in su la fossa delli occhi: potrebbe altri dubitare: Elli, perchè non se le levava? Perchè non potea: imperò che tutti per la freddura finge che sieno delle mani e de’ piedi inabili. Sì che io sfoghi il duol che il cor m’impregna; cioè m’enfia il cuore, Un poco in pria, che il pianto si raggieli; cioè ch’io pianga un poco inanzi, che il freddo agghiacci le lagrime e chiuda la via all’altre. Per ch’io; cioè Dante, a lui; dissi: Se vuoi ch’io ti sovvegna, Dimmi chi se’; e, s’io non ti disbrigo, Al fondo della ghiaccia ir mi convegna; pone qui Dante come fece esecrazione di quello ch’elli avea in proponimento; cioè d’andare infino giù al fondo della ghiaccia; e finge di dirlo come s’elli fosse di quelli dannati, per ingannarlo e [p. 839 modifica]non attenderli la promessa, come non gliele attese. Rispose adunque; colui: Io son frate Alberigo: questo frate Alberigo fu de’ Manfredi da Faenza di Romagna, et in sua vecchiezza si fece cavaliere gaudente, e però fu chiamato frate, et avea guerra con certi suoi consorti, e non potendo avere copia di loro, pensò uno grandissimo tradimento; cioè di pacificarsi con loro e poi nella pace ucciderli, e così fece; e mise mezzani a far la pace e, fatta la pace, disse che si volea ritrovare con loro, et ordinò uno bello convito et invitò tutti questi suoi consorti co’ quali avea fatta la pace; e quando essi ebbono desinato tutte le vivande, elli comandò che venessono le frutta32; et allora venne la sua famiglia armata, com’elli avea ordinato, et uccisono tutti costoro alle mense com’erano a sedere; e però s’usa di dire: Elli ebbe delle frutta di frate Alberigo; e però dice: Io son quel dalle frutte del mal orto: il tradimento è frutto di mal cuore, e così fatto frutto diede elli, Che qui riprendo dattero per figo; cioè ricevo pena del tradimento ch’io feci.

C. XXXIII — v. 121-138. In questi sei ternari l’autor nostro finge il ragionamento, ch’ebbe con frate Alberigo, dicendo: Oh, diss’io lui; cioè io Dante dissi a frate Alberigo, or se’ tu ancor morto? Vero è che quando l’autor finge ch’avesse questa deliberazione, frate Alberigo non era ancor morto, nè li altri di che fa menzione qui. Et elli a me; cioè frate Alberigo rispose a me Dante: Come il mio corpo stea Nel mondo su, nulla scienzia porto; cioè io non so s’io sono nel mondo quanto al corpo, e non so come si stia. Cotal vantaggio à questa Tolomea; dalli altri giri del nono cerchio; e chiama questo terzo giro Tolomea da Tolomeo principe del popolo giudaico, lo quale essendo nel campo di Ierico ricevette nel tabernacolo suo Simone principe de’ Sacerdoti, suo suocero con due suoi figliuoli; et, apparecchiato il convito, a tavola lo fece uccidere co’ suoi figliuoli, per avere tutta la maggioria e l’oro e l’argento ch’avea Simone, Che spesse volte l’anima ci cade; pone questa fizione che molti inanzi che moiano, l’anime loro sono poste in quel luogo come ànno fatto il tradimento, e il corpo sia33 poi governato e cibato dal demonio tutto il tempo che à vivere. E questo finge, per mostrare l’ostinazioni di sì fatti traditori, che rade volte si pentono di sì fatto peccato, se non viene grazia speziale da Dio; e però si può dire che mentre che vivono in sì fatta ostinazione, che il dimonio governi quel corpo: imperò che, quando l’uomo è in peccato mortale, sempre è governato dal demonio che l’à in balia, e l’anima si può dire essere nell’inferno, perchè tutta via è obligata allo inferno, mentre ch’ella sta in quella ostinazione; e dice spesse volte, perchè non tutti: [p. 840 modifica]imperò che alcuna volta addiviene che l’uomo more nel tradimento, et allora non rimane il corpo nel mondo. Inanzi ch’Antropos mossa li dea: Antropos34 è una delle tre Fate, che à a riducere la vita da essere a non essere, come detto fu di sopra cap. xxv, Purg. quando disse: E quando Lachesis non à più lino; et ancora vuol dire inanzi che naturalmente si finisca la vita: imperò che allora si divide l’anima dal corpo; e questo è l’officio d’Antropos che si dice stroncare lo filo, e tanto viene a dire Antropos, quanto sanza conversione: imperò che non si ritorna poi da non essere ad essere, se non dopo al fine del mondo al giudicio universale, quando ciascuno resuciterà35 per non morire più. E perchè tu più volentier mi rade Le invetriate lagrime dal volto; li promette di dire più inanzi e così osserva, acciò che più volentieri li faccia il servigio addomandato, Sappi che, tosto che l’anima trade; cioè se determinata di fare lo tradimento, et a quella determinazione dà opera, Come fec’io; dice frate Alberigo, il corpo suo l’è tolto Da un demonio, che poscia il governa, Mentre che il tempo suo tutto sia volto; e finge costui essere di quelli che ànno più a vivere, secondo che gli è dato36 di sopra; ma non di quelli che moiono nel tradimento; e però disse di sopra: spesse volte l’anima ci cade; quasi dicesse: Non sempre. Ella; cioè quell’anima che fa il tradimento, ruina; cioè cade, in sì fatta cisterna; come è questa, che tu vedi del terzo giro del nono cerchio, E forse pare ancor lo corpo suso; parla dubitativamente del corpo d’un’anima che gli era dietro: imperò che come fu disfinito per l’autore di sopra cap. x, nulla sanno li dannati del mondo, o vero de’ fatti del mondo; onde disse: Nulla sapem di vostro stato umano — . Dell’ombra, che di qua dietro mi verna; cioè di quell’anima che dietro a me sta fitta nella ghiaccia; perchè l’anima si chiami ombra l’autore ne rende ragione nella seconda cantica: vernare è fare lo verno, et in questa parte piglia l’autore per sostenere freddo. Tu il dei saper; cioè tu, Dante, se tu vien pur mo giuso; se il corpo è su vivo di costui, ch’emmi di rietro; et acciò che tu lo possi sapere, Elli è ser Branca d’Oria: questo messer Branca d’Oria fu uno genovese, genero di donno Michele Zanche signore di Logodoro di Sardigna, del quale fu detto di sopra cap. xxii, nella bolgia della pegola; e per avere la signoria invitò a mangiare37 il suocero, et a tavola l’uccise con consiglio et aiuto d’uno suo parente; e per questo tradimento finge l’autore che sia l’anima in Cocito e il corpo sia ancor su nel mondo: imperò che, [p. 841 modifica]quando fìnge che avesse questa deliberazione, messer Branca d’Oria non era ancor morto: dicesi d’Oria, perchè fu di quelli di casa d’Oria e finge l’autore che frate Alberigo dica ser Branca: imperò che fu romagnuolo, e questi romagnuoli non sanno onorare alcuno con parole; o che ’l dica per istrazio: imperò che i Genovesi tutti si chiamano messere; e però dice: e son più anni Poscia passati, ch’el fu sì racchiuso; in questa ghiaccia.

C. XXXIII — v. 139-150. In questi quattro ternari l’autor finge come, ragionato con frate Alberigo di messer Branca, elli si partì da lui sanza farli il servigio addomandato, dicendo così: Io credo; dice Dante a frate Alberigo, col quale à parlato infino a qui, diss’io lui; cioè diss’io a lui, che tu m’inganni: dicendo che dietro ti sia Branca d’Oria; e però dice: Chè Branca d’Oria non morì unquanche; cioè non è morto ancora, E mangia e bee e dorme e veste panni; che sono segni che l’uomo viva. Nel fosso su, diss’el; cioè disse frate Alberigo, dei Malebranche, Là dove bolle la tenace pece, Non era giunto ancora Michel Zanche: questo fu lo suocero di messer Branca, ucciso da lui a tradimento, come detto fu di sopra, cap. xxii, Che questi; cioè messer Branca, losciò il diavolo in sua vece Nel corpo suo; et un suo prossimano; cioè di Michel Zanche: imperò che concorse con messer Branca a fare il tradimento, e così lasciò un diavolo a governo del corpo suo, come messer Branca, e però dice: Che il tradimento insieme con lui fece; cioè insieme con messer Branca, e che fosse parente di Michele, appare per lo testo di sotto: pone che inanzi che morisse Michele Zanche, costoro fossono nell’inferno, perchè, fatta la deliberazione del tradimento, finge l’autore che l’anima sia menata all’inferno. Ma distendi oggimai in qua la mano; dimanda e richiede frate Alberigo a Dante la promessa, finito il suo sermone, dicendo che distenda la mano ad aprirli li occhi; e però dice: Aprimi li occhi; ecco che domanda, et io; cioè Dante, non gliel apersi; bench’io gliel avessi promesso quanto al suo intendimento; ma non al mio che puosi, che s’io non gliele aprissi, mi convenisse andare al fondo della bolgia, com’io voleva e doveva andare, E cortesia fu in lui esser villano; questo si intende che il non far cortesia a frate Alberigo fu cortesia: imperò che non si dee fare villania al maggiore, per fare cortesia al minore che non la merita; aprir li occhi a colui era secondo la fizione di Dante fare contro alla giustizia di Dio, la qual cosa sarebbe stato grande villania, e però non farlo fu cortesia: ancora mondanamente si può dire che cortesia è non fare cortesia al villano che non la merita.

C. XXXIII — v. 151-157. In questi due ternari et uno verso l’autore fa una invezione contra i Genovesi, dicendo così: Ahi Genovesi, uomini diversi D’ogni costume; cioè differenti da ogni costume [p. 842 modifica]dell’altre genti: imperò ch’ànno lor costumi differenti da tutti li altri, e pien d’ogni magagna: forse che era così al tempo dell’autore; ma quanto alla fama che ora è di loro, da rubare il mare in fuori et ancora in fare buona la ragione del cittadino loro contra al forestieri, assai sono l’altre magagne di che sono netti; disselo forse l’autore parlando superlativamente: imperò che in rubare et in arrecare roba a casa et in superbia; e perchè è lo più grave peccato che sia e madre di tutti li altri, forse per questo dice così, Perchè non siete voi del mondo spersi; cioè tolti via del mondo? Et assegna la cagione perchè à detto così: Chè col piggiore spirto di Romagna; cioè frate Alberigo, Trovai di voi; cioè genovesi, un tal; cioè messer Branca, che per sua opra In anima in Cocito già si bagna; come detto è di sopra, Et in corpo par vivo ancor di sopra; perchè, secondo la fizione dell’autore, ancora era vivo quanto al corpo; e questo si dee intendere come esposto fu di sopra cap. xxii. E qui finisce il canto xxxiii della prima cantica ec.: seguita lo xxxiiii canto.

Note

  1. C. M. entra
  2. C. M. il puoi avere
  3. C. M. quand’appare;
  4. C. M. avvenire;
  5. Osserva qui T. Tasso «Quasi l’estrema calamità non ricerchi lagrime, ma induri l’animo nel dolore». E.
  6. Italice; italiche, dove è fognata l’h, sì come in fisice, metafisice per fìsiche, metafisiche: Par. c. xxiv. v. 134. E.
  7. C. M. la Capraia
  8. C. M. ch’elli rodea,
  9. C. M. che arregano le
  10. C. M. in una torre, che oggi si chiama la torre della fame, che
  11. Piatosamente, piatà dissero i nostri antichi per pietosamente, pietà, imitando i Provenzali, che aveano piatos, pietoso; piatat, pietà. E.
  12. C. M. nella ghiaccia, e ’l conte stia pur fuor della ghiaccia, e che li roda la cottula,
  13. C. M. Busacarini Guinisselli,
  14. C. M. sentitti
  15. C. M. essere loro vietato lo cibo,
  16. C. M. guardasse
  17. Lui in caso retto oggi non sarebbe da adoperare, quantunque si truovi non di rado presso gli antichi. Così per lo contrario vuolsi intendere di ello, ne’ casi obliqui. E.
  18. iera. Costumavano i nostri antichi premettere un i all’imperfetto del verbo essere, imitando gli antichi Franzesi che avevano iere, ieres ec. E.
  19. I quattro infelici, che morirono di fame insieme col conte Ugolino nella torre de’ Gualandi, non erano tutti di lui figliuoli; ma solamente Gaddo ed Uguccione. Gli altri due erano suoi nepoti, perchè Nino detto il Brigata era figlio del conte Guelfo, primogenito di Ugolino; ed Anselmuccio, del conte Lotto, altro figliuolo. Moglie del suddetto conte Ugolino fu la contessa di Montegemoli da Siena; ed ebbe ancora un altro figliuolo, nomato Banduccio, il quale nel 1285 sposò Manfredina, figlia di Manfredi Malaspina, marchese di Villafranca. E.
  20. C. M. in fine all’ottavo di’,
  21. C. M. per iniustizia dimanda maggiore iniustizia, e per crudeltà
  22. C. M. a tal martirio. Ecco
  23. C. M. Eneide, undecimo; quando dice: Alpheae ab origine Pisae, Urbs Etrusca solo; benchè Servio pone pure Alphaea adiettivo del sustantivo origine, e così non fu chiamata se non sempre Pisa: e come
  24. C. M. ove quel
  25. C. M. e s’io non ti
  26. C. M. in su le lappule delli occhi,
  27. C. M. nol possino scialare di fuora,
  28. C. M. come è nel volto;
  29. Altrim. non sente quivi ne caldo, ne freddo a toccarlo, se non poi
  30. C. M. ghiaccia, che avea di sopra fatto grosta, Gridò
  31. C. M. peccato ch’elli fusseno dannate
  32. C. M. venisseno le fruttora;
  33. C. M. sia poscia vegetato da uno dimonio
  34. Antropos; Atropo, dove secondo l’uso degli antichi è frammesso un n come in Ensiona e simili. E.
  35. resuciterà; resusciterà. In antico levavasi talora l’s innanzi al c, come dicostarsi, arbucello per discostarsi, arbuscello ed altri. E.
  36. C. M. è ditto di sopra;
  37. C. M. invitò a desinare il suocero,
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