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[v. 121-138] | c o m m e n t o | 839 |
non attenderli la promessa, come non gliele attese. Rispose adunque; colui: Io son frate Alberigo: questo frate Alberigo fu de’ Manfredi da Faenza di Romagna, et in sua vecchiezza si fece cavaliere gaudente, e però fu chiamato frate, et avea guerra con certi suoi consorti, e non potendo avere copia di loro, pensò uno grandissimo tradimento; cioè di pacificarsi con loro e poi nella pace ucciderli, e così fece; e mise mezzani a far la pace e, fatta la pace, disse che si volea ritrovare con loro, et ordinò uno bello convito et invitò tutti questi suoi consorti co’ quali avea fatta la pace; e quando essi ebbono desinato tutte le vivande, elli comandò che venessono le frutta1; et allora venne la sua famiglia armata, com’elli avea ordinato, et uccisono tutti costoro alle mense com’erano a sedere; e però s’usa di dire: Elli ebbe delle frutta di frate Alberigo; e però dice: Io son quel dalle frutte del mal orto: il tradimento è frutto di mal cuore, e così fatto frutto diede elli, Che qui riprendo dattero per figo; cioè ricevo pena del tradimento ch’io feci.
C. XXXIII — v. 121-138. In questi sei ternari l’autor nostro finge il ragionamento, ch’ebbe con frate Alberigo, dicendo: Oh, diss’io lui; cioè io Dante dissi a frate Alberigo, or se’ tu ancor morto? Vero è che quando l’autor finge ch’avesse questa deliberazione, frate Alberigo non era ancor morto, nè li altri di che fa menzione qui. Et elli a me; cioè frate Alberigo rispose a me Dante: Come il mio corpo stea Nel mondo su, nulla scienzia porto; cioè io non so s’io sono nel mondo quanto al corpo, e non so come si stia. Cotal vantaggio à questa Tolomea; dalli altri giri del nono cerchio; e chiama questo terzo giro Tolomea da Tolomeo principe del popolo giudaico, lo quale essendo nel campo di Ierico ricevette nel tabernacolo suo Simone principe de’ Sacerdoti, suo suocero con due suoi figliuoli; et, apparecchiato il convito, a tavola lo fece uccidere co’ suoi figliuoli, per avere tutta la maggioria e l’oro e l’argento ch’avea Simone, Che spesse volte l’anima ci cade; pone questa fizione che molti inanzi che moiano, l’anime loro sono poste in quel luogo come ànno fatto il tradimento, e il corpo sia2 poi governato e cibato dal demonio tutto il tempo che à vivere. E questo finge, per mostrare l’ostinazioni di sì fatti traditori, che rade volte si pentono di sì fatto peccato, se non viene grazia speziale da Dio; e però si può dire che mentre che vivono in sì fatta ostinazione, che il dimonio governi quel corpo: imperò che, quando l’uomo è in peccato mortale, sempre è governato dal demonio che l’à in balia, e l’anima si può dire essere nell’inferno, perchè tutta via è obligata allo inferno, mentre ch’ella sta in quella ostinazione; e dice spesse volte, perchè non tutti: