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c o m m e n t o |
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e Lanfranchi, et ordinò che costoro levassono il romore et incitassono il popolo contra lui; et elli in persona cavalcò con la croce inanzi alla casa del detto conte con le dette casate e col popolo, e presono il detto conte con quattro suoi figliuoli e rinchiusonli in una torre della fame1, che è in sulla piazza delli Anziani. E chiuso l’uscio della torre con le chiavi, gittarono le chiavi in Arno, perchè niuno potesse loro aprire, nè andare a loro a dare o portar loro alcun cibo, e così li lasciarono morire di fame nella detta torre, che in publico non ebbe ardimento di farli morire. E benchè niuno sapesse del modo della loro morte, nè di quello che si facessono dentro della torre sopradetta, l’autore finge che ora il detto conte gliele manifesti, e fìnge cose verisimili come appare nel testo, e molto piatosamente2 fa la sua fizione, ad inducere a compassione ognuno di tanta crudeltà; e però dice: Tu dei saper ch’i’ fu’ il conte Ugolino, E questi è l’arcivescovo Ruggieri; lo quale io rodo così in vendetta del tradimento, ch’elli ordinò contra di me. E notantemente finge l’autor costoro esser puniti in questo secondo giro del nono cerchio, perchè amenduni, secondo la fama, furono traditori e rompitori di fede alla patria; l’uno dando le castella alla parte guelfa; e l’altro in fare trattato e divisione tra’ cittadini e contra il suo figliuolo spirituale, e massimamente fidandosi elli di lui. E però finge che l’arcivescovo Ruggieri sia più fìtto nella ghiaccia3; e ch’elli roda la collottola, finge l’autore che in vendetta de’ mali pensieri, che in quella parte ritenitiva, o vero memorativa, stettono quando ordinò il tradimento e lo trattato; e per mostrare allegoricamente che la memoria di sì fatto peccato sempre stava al detto arcivescovo nella mente, e rodevali la mente come fa il vermine della coscienzia, mentre che visse; e se a dannazione andò, che non si pentesse e confessasse di sì fatto peccato ancora tuttavia poi: imperò che sì fatta pena mai non viene meno a’ dannati. Or ti dirò perchè son tal vicino; fìnge Dante che il conte Ugolino, detto il nome suo e dell’arcivescovo, offerì a lui di dirli la cagione, perchè così lo rode; e perchè la cagione sta nell’effetto e nelle circustanzie, e l’effetto è noto e le circunstanzie no, però finge che offeri le circunstanzie e dimostri che l’effetto sia noto, e però dice: Che per l’effetto de’ suoi ma’ pensieri, Fidandomi di lui; cioè dell’arcivescovo, io fossi preso, E poscia morto, dir non m’è mestieri; cioè non m’è bisogno, perchè è cosa nota. Però quel che non puoi aver inteso; Cioè come la morte
- ↑ C. M. in una torre, che oggi si chiama la torre della fame, che
- ↑ Piatosamente, piatà dissero i nostri antichi per pietosamente, pietà, imitando i Provenzali, che aveano piatos, pietoso; piatat, pietà. E.
- ↑ C. M. nella ghiaccia, e ’l conte stia pur fuor della ghiaccia, e che li roda la cottula,