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Sol nel mondo uscio; cioè in fin che venne l’altro di’. Come un poco di raggio si fu messo; per qualche buco, Nel doloroso carcere; detto di sopra, et io scorsi Per quattro visi il mio aspetto stesso; cioè vidi l’immagine mia nel volto de’ miei quattro figliuoli, Ambo le mani per dolor mi morsi; provocato da ira che la movea il dolore; Et ei pensando ch’io il fessi per voglia Di manicar, di subito levorsi; cioè li miei figliuoli, avendo compassione a me, E disser: Padre, assai ci fia men doglia, Che tu mangi di noi: tu ne vestisti; cioè tu vestisti noi, Queste misere carni: però che la nostra carne è della tua generata, e tu ne spoglia; cioè e tu ce ne priva. Queta’mi allor; io conte, per non farli più tristi; ch’elli si fossono: Lo di’; cioè quel di’ ch’era il secondo, e l’altro; cioè il terzo di’, stemmo tutti muti; cioè il di’ secondo e ’l terzo, et eglino et io non parlammo. Ahi dura terra! perchè non t’apristi; a inghiottire noi per levarci di tanta miseria, o per inghiottire coloro che ciò ci faceano sostenere? Et è qui colore che si chiama esclamazione.

C. XXXIII — v. 67-78. In questi quattro ternari finge l’autore che ’l conte, seguitando suo parlare, manifesta la morte de’ figliuoli e sua, dicendo: Poscia che fummo al quarto di’ venuti; dal di’, che fu chiavato l’uscio e vietato il cibo, Gaddo; questo è il nome dell’altro figliuolo, mi si gittò disteso a’ piedi; venendo meno per la fame: dicono li medici che tre di’ può vivere l’uomo sanza mangiare, e però finge che così vivesse costui: è vero che chi è di forte natura viverebbe più; ma comunemente ogniuno tre di’, Dicendo: Padre mio, che non m’aiuti? Odi parole accoratorie che l’autor finge! Quivi morì; cioè Gaddo, a’ piedi miei disteso; e come tu mi vedi; cioè come tu vedi me, Vid’io cascar li tre ad uno ad uno; cioè li altri tre miei figliuoli; cioè1 Anselmuccio, Uguccione, e Brigata, Tra il quinto di’ e il sesto; sì che v’ebbe di quelli che vennono al sesto di’, ond’io mi diedi; cioè io conte, Già cieco a brancolar sopra ciascuno; cioè diventato cieco per la fame, E due di’ li chiamai, poi che fur morti; sì che per questo mostra che vivesse qualche otto di’2: Poscia, più che il dolor, poteo il digiuno; cioè poscia il digiuno finì la vita mia, la quale conservava il dolore; e così rende ragione come potee tanto vivere, e dice che ne fu cagione il dolore. E questo finge l’autore, perchè dopo li otto di’ ne furono cavati e portati inviluppati nelle

  1. I quattro infelici, che morirono di fame insieme col conte Ugolino nella torre de’ Gualandi, non erano tutti di lui figliuoli; ma solamente Gaddo ed Uguccione. Gli altri due erano suoi nepoti, perchè Nino detto il Brigata era figlio del conte Guelfo, primogenito di Ugolino; ed Anselmuccio, del conte Lotto, altro figliuolo. Moglie del suddetto conte Ugolino fu la contessa di Montegemoli da Siena; ed ebbe ancora un altro figliuolo, nomato Banduccio, il quale nel 1285 sposò Manfredina, figlia di Manfredi Malaspina, marchese di Villafranca. E.
  2. C. M. in fine all’ottavo di’,
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