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832 i n f e r n o   xxxiii. [v. 36-66]

fìnge come il conte Ugolino, detto il suo sogno, procede oltre a narrare il modo della sua morte, dicendo: Quando fui desto; cioè io conte Ugolino, avuto il detto sogno, inanzi la dimane; cioè inanzi la chiara mattina, Pianger senti’ fra il sonno i miei figliuoli; ch’ancor dormivano, Ch’eran con meco; nella detta prigione, e dimandar del pane; sentilli1 dormendo ch’era segno che dormivano. Ben se’ crudel; dice il conte a Dante, se tu già non ti duoli: imperò che crudeltà è non aver compassione, e non dolersi della miseria, Pensando ciò, che al mio cor s’annunziava; che li dovesse addivenire, e sì per lo sognio ch’avea fatto io, e sì per lo sognio ch’io m’avvedea che aveano fatto ciascun de’ miei figliuoli; e tutto questo è fizione dell’autore: imperò che suole incontrare che, quando l’uomo è posto in miseria, e sieli per venire alcun gran male, che li sia rivelato nel sonno; e questo può essere per impressione de’ corpi celestiali che, come ànno nel loro movimento a cagionare queste mutazioni mondane, così l’ànno a mostrare tutte le più volte a coloro che le sostengono o ad altri. E se non piangi; cioè di questo ch’io m’annunziava, di che pianger suoli? Quasi dica: Di nulla. Già eran desti; i miei figliuoli, e l’ora s’appressava; cioè della terza, Che il cibo ne solea essere addotto; l’altre volte, E per suo sogno; ch’avean fatto, che significava che dovea esser2 tolto loro il cibo, ciascun dubitava; cioè de’ miei figliuoli, Et io senti’ chiavar l’uscio di sotto Dell’orribile torre; della quale è detto di sopra, ond’io guardai Nel viso a’ miei figliuoi sanza far motto. A che finge l’autore ch’elli guardassi3 li suoi figliuoli? Per veder s’elli s’avvedessono di quel che lui4 dice: sanza far motto; per non farneli a vedere.

C. XXXIII — v. 49-66. In questi sei ternari l’autor nostro finge che lo conte, seguendo suo parlare, manifesta il modo che tenne nella sua condizione infino al quarto di’, dicendo: Io non piangea; non perch’io non mi dolessi; ma per ch’iera5 indurato; e però dice: sì dentro impetrai; cioè indurai: imperò che alquanti indurano, et alquanti inteneriscono, Piangevano elli; cioè i figliuoli che erano più teneri, et Anselmuccio mio; questo è il nome dell’uno de’ figliuoli, e forse ch’era il minore poi ch’el fa diminutivo, Disse: Tu guardi sì; cioè noi, padre, che ài? Perciò; cioè benchè dicesse così, non lagrimai nè rispuos’io; questo dice, perchè quella dimanda era di fare intenerire, Tutto quel giorno, nè la notte appresso, In fin che l’altro

  1. C. M. sentitti
  2. C. M. essere loro vietato lo cibo,
  3. C. M. guardasse
  4. Lui in caso retto oggi non sarebbe da adoperare, quantunque si truovi non di rado presso gli antichi. Così per lo contrario vuolsi intendere di ello, ne’ casi obliqui. E.
  5. iera. Costumavano i nostri antichi premettere un i all’imperfetto del verbo essere, imitando gli antichi Franzesi che avevano iere, ieres ec. E.