Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXVII

Inferno
Canto ventisettesimo

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C A N T O   XXVII.





1Già era dritta in su la fiamma, e queta
      Per non dir più; e già da noi sen gia
      Con la licenzia del dolce Poeta;
4Quando un’altra, che dietro a lei venia,
      Ne fece volger li occhi alla sua cima,
      Per un confuso suon che fuor n’uscia.
7Come il bue cicilian, che mugghiò prima1
      Con pianto di colui (e ciò fu dritto)2
      Che l’avea temperato con sua lima,
10Mugghiava con la voce dell’afflitto,
      Sì che, con tutto che fosse di rame,
      Pur ei pareva dal dolor trafitto;
13Così, per non aver via, nè forame,
      Dal principio del fuoco in suo linguaggio
      Si convertivan le parole grame.
16Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio
      Su per la punta, dandole quel guizzo,
      Che dato avea la lingua in lor passaggio,
19Udimmo dire: O tu, a cui io drizzo3
      La voce, e che parlavi mo lombardo,
      Dicendo: Istà, ten va, più non t’adizzo;4

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22Perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
      Non t’incresca restare a parlar meco:
      Vedi che non rincresce a me, et ardo.5
25Se tu pur mo in questo mondo cieco
      Caduto se’ di quella dolce terra
      Latina, ond’io tutta mia colpa reco;
28Dimmi, se i Romagnuoli àn pace, o guerra;
      Ch’io fui de’ monti là intra ad Orbino6
      E il giogo, di che il Tevero disserra.7
31Io era giuso ancora intento e chino,8
      Quando il mio Duca mi tentò di costa,
      Dicendo: Parla tu: questi è Latino.9
34Et io, ch’avea già pronta la risposta,
      Sanza indugio a parlar incominciai:
      O anima, che se’ là giù nascosta,
37Romagna tua non è, e non fu mai
      Sanza guerra nei cuor de’ suoi tiranni;
      Ma in palese nessuna or vi lasciai.
40Ravenna sta, come stata è molti anni:10
      L’aquila da Polenta la si cova,
      Sì che Cervia ricuopre con suoi vanni.
43La terra, che fe già la lunga pruova,
      E de’ Franceschi sanguinoso mucchio,
      Sotto le branche verdi si ritrova:
46E il Mastin vecchio, e nuovo da Verruchio
      Che fecer di Montagna il mal governo,
      Là dove soglion, fan de’ denti succhio.

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49La città di Lamone e di Santerno11
      Conduce il leoncel del nido bianco,
      Che muta parte dalla state al verno:
52E quella, a cui il Savio bagna il fianco,
      Così com’ella siè tra il piano e il monte,12
      Tra i tiranni si vive in stato franco.13
55Ora chi se’ ti priego che ne conte:
      Non esser duro più, ch’altri sia stato,
      Se il nome tuo nel mondo tegna fronte.
58Poscia che il fuoco alquanto ebbe rugghiato
      Al modo suo, l’acuta punta mosse
      Di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
61S’io credessi, che mia risposta fosse
      A persona, che mai tornasse al mondo,
      Questa fiamma staria sanza più scosse;
64Ma però che già mai di questo fondo14
      Non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
      Sanza tema d’infamia io ti rispondo.
67Io fui uom d’arme, e poi fu’ cordelliero,
      Credendomi sì cinto fare ammenda:
      E certo il creder mio veniva intero,
70Se non fosse il gran Prete, a cui mal prenda,
      Che mi rimise nelle prime colpe;
      E come e quare voglio che m’intenda.
73Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe,
      Che la madre mi diè, l’opere mie
      Non furon leonine; ma di volpe.

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76Li accorgimenti e le coperte vie
      Io seppi tutte, e sì menai lor arte,
      Che al fine della terra il suono uscie.
79Quando mi vidi giunto in quella parte
      Di mia etade, ove ciascun dovrebbe
      Calar le vele e raccoglier le sarte;
82Ciò, che prima mi piacque, allor m’increbbe,
      E pentuto e confesso mi rendei:
      Ahi! miser lasso, e giovato sarebbe.
85Ma il Principe de’ nuovi Farisei,
      Avendo guerra presso a Laterano,
      E non con Saracin, nè con Giudei:
88Chè ciascun suo nimico era Cristiano,
      E nessuno era stato a vincer Acri,
      Nè mercatante in terra di Soldano:
91Nè sommo officio, nè ordini sacri
      Guardò in sè, nè in me quel capestro,
      Che solea far li suoi cinti più macri.
94Ma come Costantin chiese Silvestro
      Dentro Siratti a guarir della lebbre;
      Così mi chiese questi per maestro,
97A guarir della sua superba febbre:
      Domandommi consiglio; et io tacetti,
      Perchè le sue parole parver ebbre.
100E poi ridisse: Tuo cor non sospetti:
      Fin or ti assolvo, e tu m’insegna fare,
      Sì come Penestrino in terra getti.15
103Lo Ciel poss’io serrare e disserrare,
      Come tu sai; però son due le chiavi,
      Che il mio antecessor non ebbe care.

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106Allor mi pinser li argomenti gravi,
      Onde il tacer mi fu avviso il peggio,
      E dissi: Padre, da che tu mi lavi
109Di quel peccato, ov’io mo cader deggio,
      Lunga promessa con l’attener corto16
      Ti farà triunfar sull’alto seggio.17
112Francesco venne, poi com’io fu’ morto,
     Per me; ma un de’ neri Cherubini
     Li disse: Non portar, non mi far torto.
115Venir sen dee là giù tra’ miei meschini,18
      Perchè diede il consiglio frodolente,
      Dal quale in qua stato li sono ai crini:
118Chè assolver non si può chi non si pente;
      Nè pentere e volere insieme puossi,19
      Per la contradizion che nol consente.
121O me dolente! com’io mi riscossi,
      Quando mi prese, dicendomi: Forse
      Tu non credevi ch’io loico fossi?2021
124A Minos mi portò; e quelli attorse
      Otto volte la coda al dosso duro;
      E poi che per gran rabbia la si morse,22
127Disse: Questi è de’ rei del foco furo;
      Perch’io là, dove vedi, son perduto,
      E sì vestito andando mi rancuro.
130Quand’elli ebbe il suo dir così compiuto,
      La fiamma dolorando si partio,
      Torcendo e dibattendo il corno acuto.

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133Noi passammo oltre, et io e il Duca mio
      Su per lo scoglio insino in su l’altro arco,
      Che cuopre il fosso, in che si paga il fio
136A quei, che scommettendo acquistan carco.

  1. v. 7. C. M. sicilian,
  2. v. 8. Col pianto
  3. v. 19. C. M. a cui dirizzo
  4. v. 21. C. M. istra, - Secondo il Commento dee dire issa, che è spiegato ora. L’Antaldino riporta: Stra, ten va, — e Vindelino: Istrà, ten va. Forse l’r è trammesso al modo che truovasi in listra, arismetrica e simili. E.
  5. v. 24. C. M. che ardo.
  6. v. 29. C. M. entro ad Orbino
  7. v. 30. C. M. Nel giogo, da che il Tever si disserra.
  8. v. 31. C. M. in giuso ancora attento
  9. v. 33. Il Poeta chiama Latino il conte Guido, perchè il Montefeltro era compreso nell’Esarcato di Ravenna. E.
  10. v. 40. C. M. come stette molti anni:
  11. v. 49. C. M. La terra di Lamone
  12. v. 53. Siè; siede, proviene dal verbo sere, frammessovi l’i, come in diè, siedo, stiè per dè, sedo, stè ec. E.
  13. v. 54. Tra tirannia si vive e stato franco.
  14. v. 64. C. M. S’io credesse, che mai risposto fosse
  15. v. 102. C. M. Prenestrino
  16. v. 110. Il Testo legge con le Comuni attender; il Commento mostra che debba dire attener. E.
  17. v. 111. nell’alto seggio.
  18. v. 115. C. M. dee qua giù
  19. v. 119. C. M. Nè pentir e voler
  20. v. 123. Non pensavi ch’io logico fossi?
  21. v. 123. Loico; logico, per la fognatura del g, come in reina per regina. Bono Giamboni lasciò scritto « questo appartiene alla seconda ed alla terza parte della filosofia; cioè a pratica e a loica ». E.
  22. v. 126. C. M. E poi per la gran rabbia la si morse,


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C O M M E N T O

Già era dritta ec. In questo canto xxvii l’autor nostro tratta ancora de’ fraudulenti consiglieri; e dividesi principalmente in due parti: imperò che prima dimostra come, passata la fiamma d’Ulisse e di Diomede, ne venne un’altra; cioè quella del conte Guido da Monte Feltro, et inducesi a parlar con essa; nella seconda induce quella a dir chi era, e per che cagione era dannato a così fatta pena; et incominciasi la seconda parte, quivi: Io fui uom d’arme, ec. E la prima, che sarà la prima lezione, si divide in sei parti, perchè prima pone lo dipartimento della detta fiamma d’Ulisse e Diomede, et appresso soggiugne l’avvenimento dell’altra; nella seconda parte pone una comparazione, et induce a parlare l’anima che finge che fosse nella detta fiamma, quivi: Come il bue cicilian, ec.; nella terza pone quel che disse quell’ anima ch’era in quella fiamma, e di quel che domandò, quivi: Ma poscia ch’ebber ec.; nella quarta dimostra la risposta ch’elli fece, quivi: Io era giuso ec.; nella quinta pone Dante com’elli priega quell’anima che se li manifesti, quivi: Ora chi se’ ec.; nella sesta pone la risposta generale, che fece prima quell’anima, quivi: S’io credessi, ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia del testo la quale è questa.

Poi che Ulisse ebbe narrato la sua sommersione, la fiamma si levò ritta in su e stette cheta per non dir più, et andavasene licenziata da Virgilio, quando un’altra, che li venia dietro, fece volgere li occhi nostri alla sua cima per uno confuso suono che quindi uscia; e fa una similitudine che così mugghiava, come mugghiò lo bue del rame in Sicilia, quando vi fu rinchiuso colui che l’avea. trovato; e poi uscirono dalla fiamma le parole, dimenandosi la punta della fiamma, come si mena la lingua quando parla, e disse: O tu, che parlavi mo lombardo, a te dirizzo la mia voce: perch’io sia giunto un poco tardo, non t’incresca di restarti a parlar con meco: vedi che non incresce a me che ardo. Se tu se’ ora caduto in questo inferno d’Italia ond’io sono disceso qui, per le colpe quivi commesse per me, dimmi, se i Romagniuoli ànno pace o guerra, ch’io fui da [p. 692 modifica]Monte Feltro onde esce il Tevero di Roma. E dice l’autore ch’elli stava attento e chinato, per intendere; e Virgilio lo sottoccò e disse: Parla tu, Dante: questi è latino. E Dante, che dice ch’avea già pronta la risposta, incontanente cominciò a rispondere in questa forma: O anima, che se’ nascosta la giù, Romagna tua non è, nè fu mai sanza guerra, quanto al cuore de’suoi tiranni; ma manifestamente 1 nessuna guerra vi lasciai ora; e dirotti delle sue condizioni. Ravenna sta come è stata molti anni, quelli da Polenta la signoreggiano, et ancora quell’altra città che si chiama Cervia. Forli è sotto li Ordelaffi, quelli da Verrucchio signoreggiano quivi, ove sogliono; cioè a Rimino, e questi erano i Malatesti. Lamone e Santerno sono due fiumi, per li quali s’intende Faenza et Imola, e sono sotto la signoria di Mainardo 2 da Susinana; e Cesena, che à allato uno fiume che si chiama Savio, vive a comune. Ma io ti priego che mi dichiari chi tu se’, ch’io ò dichiarato te non essere più duro a me, ch’io sia stato a te, se vuoi che il nome tuo sia publicato nel mondo. Onde la fiamma cominciò a parlare, e disse: Se io credessi parlare a persona che tornasse di là, io tacerei; ma perchè mai di qui non tornò alcuno vivo su, se io odo il vero, però sanza paura d’infamia ti rispondo. E qui finisce la sentenzia testuale: ora è da vedere la lettera con l’esposizioni.

C. XXVII — v. 1-6. In questi due ternari l’autor nostro passa dalle cose dette a quelle, che sono da dire, dicendo: Già era dritta in su la fiamma; cioè d’Ulisse ch’avea parlato, e queta Per non dir più: imperò ch’avea compiuto la sua narrazione, e già da noi sen gia; cioè da noi si partia, Con la licenzia del dolce Poeta: imperò che Virgilio già l’avea licenziata, dicendo, come si dirà di sotto; Quando un’altra; cioè fiamma, che dietro a lei venia; cioè a quella che è detta di sopra, Ne fece volger li occhi; cioè nostri, alla sua cima; cioè alla punta della fiamma, Per un confuso suon che fuor n’uscia; ecco la cagione perchè volgemmo li occhi, dice Dante; cioè per lo confuso suono che n’uscie fuori.

C. XXVII — v. 7-15. In quésti tre ternari pone l’autore nostro una comperazione, et adattala al suo proposito, dicendo così: Come il bue. Qui è da sapere che Fallari 3 di Gergenti di Cicilia, tiranno crudelissimo, signoreggiò alcun tempo Sicilia, e fu di tanta crudeltà, che molti tormenti trovò di sua invenzione a tormentare li uomini; li quali tormenti prima non erano saputi. Onde essendo in Cicilia uno nominato Perillo, orafo più crudele di lui, pensò per venirli in grazia di trovare uno tormento crudelissimo di nuovo, e [p. 693 modifica]fabricò uno bue di rame, grande sì, che un uomo vi potesse capere, con una finestrella nel ventre, per la quale si potesse inchiudere lo malfattore nel ventre del bue, la quale suggellava sì artificiosamente, che, chiusa, niuna spirazione potesse dare; e di fuori intorno a questo bue si facesse un grande fuoco, inchiusovi d’entro lo malfattore; e così per lo caldo a stento vi morisse dentro 4; e che per la pena gridando, uscisse per la bocca del bue lo rimbombamento della voce: lo quale rimbombamento rappresentasse lo mugghiamento del bue e non voce umana. E, trovato questo tormento e composto, lo presentò al detto Fallari, al quale benché piacesse la invenzione del tormento, non li piacque lo trovatore, e però li disse: Tu sarai il primo, poiché primo se’ stato il trovatore di sì fatto tormento: sarai, dico, il primo esperimentatore; e fecevelo al detto modo morire dentro; e però dice l’autore: Come il bue cicilian; cioè perchè in Cicilia fu trovato, che mugghiò prima Con pianto di colui, Che l’avea temperato con sua lima; cioè di Perillo che l’avea fatto con suo artifìcio, (e ciò fu dritto); cioè e questo fu manifesto o vero giusto, che costui fosse punito della sua crudeltà, e che esperimentasse lo suo artificio; et 5 interposita questa orazione nella predetta per quella figura, che chiama il Grammatico parenthesis-, Mugghiava con la voce dell’afflitto; cioè di colui che v’era rinchiuso, lo quale era tormentato dall’incendio, Sì che, con tutto che fosse di rame; il detto bue, Pur ei pareva dal dolor trafitto; cioè il bue, quando mugghiava; Così, per non aver via, nè forame; ora adatta la similitudine, dicendo che così cominciò dal principio quella fiamma a rendere uno mugghio, perchè non era ancor fatta la via alla voce, Si convertivan le parole grame; cioè dolorose, Dal principio; cioè nel principio, del fuoco; cioè di quella fiamma, in suo linguaggio; cioè nel modo del parlare che è propio al fuoco; cioè mugghiare come il bue del rame, quando n’uscia la voce umana; e così appare propia la similitudine: imperò che così era inchiusa l’anima nella fiamma, come Perillo in quello bue.

C. XXVII — v. 16-30. In questi cinque ternari l’autor nostro finge che quell’anima, ch’era dentro a quella fiamma, producesse fuori della fiamma le parole intelligibili dopo il mugghio, e che domandasse delle contrade sue, dicendo: Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio; cioè le parole, che dicea l’anima ch’era nella fiamma, Su per la punta; della fiamma, dandole quel guizzo, Che dato avea la lingua in lor passaggio; cioè al modo d’una lingua, quando parla, se menava la punta della fiamma, Udimmo dire; Virgilio et io Dante: O tu, a cui io drizzo La voce; cioè mia, e che parlavi mo; [p. 694 modifica]cioè ora, lombardo; e questo dice, perchè di sopra s’indusse a parlar Virgilio, quando à cominciato Ulisse, Dicendo: Istà, ten va più non t’adizzo; cioè or te ne va, che più non ti domando; Perch’io sia giunto forse alquanto tardo; dicea quest’anima che è indotta ora a parlare; cioè tardo, per rispetto di te, che non puoi aspettare, Non t’incresca restare a parlar meco; e ch’el debba fare, aggiugne: Vedi che non rincresce a me, et ardo; cioè in questa fiamma; e continua lo suo parlare: Se tu pur mo in questo mondo cieco; cioè dell’inferno, Caduto se’ di quella dolce terra Latina; cioè se se’ venuto quaggiù d’Italia; e dice dolce, perch’elli era stato italiano, et a ogni uomo pare dolce la terra e la provinzia sua; e non dice questo, perchè dubiti che venga d’Italia, che già n’era certo per lo parlar lombardo; ma perchè dubitava del tempo: imperò che volea sapere del presente; et aggiugne: ond’io tutta mia colpa reco; quasi voglia dire: Tutto il peccato, per lo qual sono dannato qui, ò commesso in Italia, Dimmi, se i Romagnuoli àn pace, o guerra; ecco quel che vuol sapere, Ch’io fui de’ monti; cioè del colle, là intra ad Orbino; cioè de’ monti che sono più là che Orbino, che è una città di Romagna, E il giogo, di che il Tevero disserra; cioè dal quale giogo lo fiume del Tevere, che va per Roma, nasce, e questo è Monte Feltro; e così circunscrivendo, manifesta ond’elli fosse e la cagion, per ch’elli vuol sapere novelle di Romagna.

C. XXVII — v. 31-54. In questi otto ternari l’autor nostro finge che di volere di Virgilio, che li commise la risposta, elli rispondesse alla domanda del conte Guido da Monte Feltro, manifestandoli lo stato di Romagna, dicendo: Io; cioè Dante, era giuso ancora intento e chino; per udir se più volesse dire, Quando il mio Duca; cioè Virgilio, mi tentò di costa; cioè me Dante, Dicendo: Parla tu: cioè Dante: questi è Latino; che à domandato, sicché ben li puoi risponder tu. Et io; cioè Dante, ch’avea già pronta la risposta; ch’io dovea fare, Sanza indugio a parlar incominciai; in questa forma: O anima, che se’ là giù nascosta; e notantemente l’autore non lo nomina, perchè il vuole inducere a nominarsi nel processo; e però finge di non saperlo, e comincia a dire delle condizioni di Romagna, della quale avea parlato e domandato, dicendo: Romagna tua; dice, tua, perchè già à manifestato di sopra, com’elli fu di Romagna: questa Romagna è una contrada o provincia che è al lato alla Marca, e confina con la marina 6 tra Ancona e Vinegia, non è, e non fu mai; cioè nè al presente, nè per lo passato; cioè che sempre quelli signori tiranni che la guidano, ànno mala volontà l’un [p. 695 modifica]contra l’altro; e perciò dice: Sanza guerra nei cuor de’ suoi tiranni; Ma in palese nessuna or vi lasciai; cioè benché le guerre sieno occulte nelle mente 7 di quelli signori, in palese, nè in publico, no ne lasciai ora veruna; e poi ch’à detto generalmente di tutta Romagna, discende a dire particularmente delle terre che vi sono, onde dice: Ravenna; che è una città di Romagna presso alla marina, sta, come stata è molti anni; cioè signoreggiata da quelli da Polenta, che ànno per arma l’aquila vermiglia nel campo giallo 8, e similmente signoreggiavano un’altra terra che si chiama Cervia; e però dice: L’aquila da Polenta la si cova; questo dice, perchè 9 signoreggia, Sì che Cervia ricuopre; quest’aquila, con suoi vanni; cioè con le sue ale: vanni si chiamano le penne presso alle penne 10 dell’alia che si chiamano coltelli. La terra, che fe già la lunga pruova; questa è Forlì la quale a tempo del re Carlo, quando venne in Romagna, sempre guerreggiarono con lui, e diede molte sconfitte a’ Franceschi, e mai non ubidì al re Carlo, nè al conte di Romagna messo in quel paese per la parte guelfa; e però aggiugne: E de’ Franceschi sanguinoso mucchio: imperò che molti ne uccisono li Forlivesi, Sotto le branche verdi si ritrova; cioè è signoreggiata da quelli di Capalboli; cioè delli Ordellaffi, li quali ànno per arme un mezzo leon verde nel campo 11: E il Mastin vecchio, e nuovo da Verrucchio; questo dice d’Arimino il quale era signoreggiato allora da messer Malatesta vecchio, e messer Malatestino giovane, li quali erano da Verrucchio del contado d’Arimino; e chiamali mastini; cioè cani, perch’erano sforzevoli uomini e di rapace condizione, Che fecer di Montagna il mal governo; questo, dice perchè al tempo loro era un gentiluomo in Arimino, grande cittadino, chiamato Montagna, lo quale poi feciono morire segretamente a mal modo, quando l’ebbono preso et imprigionato quando presono la signoria, per paura che non resistesse loro, Là dove soglion; cioè in Arimino, fan de’ denti succhio; cioè trivello, o vero succhiello; cioè forano e divorano co’ denti li Ariminesi; questo dice, perchè gli à chiamati mastini, a denotare la loro voracità. La città di Lamone; questa è Faenza, alla qual corre uno fiume che si chiama Lamone, e di Santerno; questa è Imola, alla qual corre un altro fiume che si chiama Santerno, Conduce il leoncel del nido bianco; questo dice, perchè queste due città signoreggiava Maghinardo da Susinana, lo quale avea per arme uno leone vermiglio nel campo bianco, Che muta parte dalla state al verno; questo Mainardo era uno uomo molto saputo de’ fatti del mondo, e non guardava se non al suo utile propio, sì come fanno naturalmente li [p. 696 modifica]Romagnuoli; onde sempre e spesso mutava parte come meglio li metteva, ora tenendo coi guelfi, ora co’ ghibellini: et ancora in Toscana tenea coi guelfi, consigliandoli et aiutandoli; et in Romagna coi ghibellini, consigliandoli et aiutandoli; e però dicono alquanti che l’autor disse dalla state; cioè da Toscana che è verso il mezzo di’, onde viene l’estate; al verno, cioè in Romagna che è in verso settentrione, onde viene il verno; o vogliamo intendere per la sua poca fermezza, che non ne stava tanto fermo nella parte, quanto à dalla state al verno, che va tre mesi in quel mezzo; cioè l’autunno e la primavera, che durano ciascuno tre mesi: E quella, a cui il Savio bagna il fianco; questa è Cesena, allato alla quale corre uno fiume che si chiama il Savio: questa città non era sotto alcuna signoria; ma reggevasi a comune, e però dice: Così com’ella siè tra il piano e il monte; e per questo s’intende che è in una valle, posta tra il monte e il piano, Tra i tiranni; che sono in Romagna, si vive in stato franco; cioè libero: imperò che nessuno la signoreggia.

C. XXVII — v. 55-60. In questi due ternari dimostra l’autore che, finito ch’ebbe di narrare le condizioni di Romagna universalmente e particularmente, elli pregò quell’anima che era in quella fiamma, alla quale egli avea parlato, che se li manifestasse, dicendo: Ora chi se’ ti priego; cioè io Dante, che ne conte; cioè che dichi, chi tu se’, o anima nascosa nella fiamma: Non esser duro più, ch’altri sia stato; cioè non esser più duro a me, ch’io sia stato a te, Se il nome tuo nel mondo tegna fronte; cioè abbia fama. Poscia che il fuoco; cioè nel quale era quell’anima, alquanto ebbe rugghiato Al modo suo; cioè come fa il fuoco, l’acuta punta mosse; cioè quella fiamma, Di qua, di là, cioè di qua et in là, e poi diè cotal fiato; quella fiamma cioè rende così fatta voce.

C. XXVII — v. 61-66. In questi due ternari finge l’autore che quell’anima facesse questo esordio alla sua narrazione; cioè che non credea parlare a persona che tornasse al mondo, che s’egli lo credesse non parlerebbe; e però dice: S’io credessi; dice quell’anima, che mia risposta fosse A persona, che mai tornasse al mondo; di questo luogo, Questa fiamma staria sanza più scosse; cioè io non parlerei più: imperò che tanto si scotea la fiamma, quanto parlava; Ma però che già mai di questo fondo; cioè della citta Dite, Non tornò vivo alcun; e questo dice: però che de’ morti sono tornati, secondo la fizion dell’autore, a dar risposta delle cose future, come appare di sopra nel nono canto, s’i’ odo il vero; dice dubitativamente, perchè non era stato uomo di scienzia che sapesse la Divina Scrittura, se non com’avea udito da’ predicanti, Sanza tema d’infamia; cioè sanza paura che tu mi publichi al mondo, ond’io ne riceva infamia, io ti rispondo; e seguita la sua narrazione, che si dirà nella seconda lezione seguente. [p. 697 modifica]Io fui ec. Questa è la seconda lezione del canto xxvii, nella quale l’autore nostro pone la narrazione della risposta, che finge che facesse il conte Guido da Monte Feltro alla sua dimanda; e dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima finge l’autore che il conte Guido narri la sua colpa e la sua conversione; nella seconda, la cagione della sua ruina, quivi: Ma il Principe ec.; nella terza, la sua ruina, quivi: Allor mi pinser ec.; nella quarta, la sua dannazion, quivi: Francesco venne ec.; nella quinta pone lo dipartimento dell’anima sopraddetta, e com’elli e Virgilio passarono in su la nona bolgia, quivi: Quand’elli ebbe ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

     Finge l’autore che, poi che il conte Guido ebbe detto che elli risponderebbe sanza paura d’infamia, perchè non si credea parlare a persona che mai tornasse al mondo, narrò in questa forma la sua condizione: Io fui uomo armigero nel mondo in prima, e poi fui frate minore per far penitenzia di miei peccati: e veramente mi sarebbe giovato, se non fosse il Papa che mi rimise nelle prime colpe; e dirotti come. Mentre ch’io fui al mondo col corpo, l’opere mie furono fraudulenti, e seppi tutti li argomenti e le vie coperte, et usaile, sì che al fine della terra andò la mia fama; e quando mi vidi invecchiato, mi cominciò a dispiacere tal vita, e confessatomi e pentutomi, mi diedi alla religione di san Francesco; e ben mi sarebbe giovato, se non fosse che papa Bonifazio, avendo guerra coi Colonnesi di Roma, non guardando nè a sè, nè a me, mi domandò consiglio com’elli potesse disfare i detti Colonnesi; et io a tale domanda non risposi perchè mi parve piena di grande retà 12 e malvagitade, ond’elli vedendomi star cheto, disse: Non aver sospetto: tu sai ch’io posso aprire lo cielo e serrare: imperò ch’io ò le chiavi che il nostro Signore Idio diede a san Piero, le quali non ebbe care il mio antecessore: in fin da ora t’assolvo d’ogni colpa; e tu m’insegna come io possa disfare Penestrino. Allora io, vinto da così fatti argomenti, li diedi lo consiglio che promettesse assai et attenesse poco, e verrebbe alla sua intenzione; e per questo frodolento consiglio io sono dannato alla pena che vedi: imperò che, quand’io fu’ morto, san Francesco venne per me per menarmene a vita eterna e beata; ma uno demonio si contrapose e m’impacciò, dicendo a san Francesco: Non ne lo portare, non mi far torto; elli deve essere de’ miei: imperò che diede lo frodolente consiglio, dal quale in qua io li sono stato sempre d’intorno: imperò che quella assoluzione non valse, che non si può assolvere chi non si pente, nè pentere può stare insieme col volere peccare: imperò che le contradizione 13 non possono insieme essere vere; e detto [p. 698 modifica]questo, mi prese dicendomi: Tu non credevi ch’io sapessi loica? E così mi menò a Minos giudice dell’inferno; e quelli mi condannò ch’io fussi menato allo detto cerchio nella bolgia del fuoco; per la qual cosa andando, come tu vedi, mi lamento dannato in questo luogo. E, detto questo, dice l’autore che la fiamma si partì dolendosi, nella quale era tormentata l’anima del conte Guido; e dice l’autore che poi continuò lo suo cammino, e ch’egli e Virgilio passarono oltre in su la nona bolgia, al mezzo del ponte che la coperchia, nel quale erano puniti coloro che sono commettitori di discordie, e seminatori di scandali. E qui finisce il canto: ora è da vedere la sentenzia testuale con l’esposizione.

C. XXVII — v. 67-84. In questi sei ternari l’autor nostro finge che il conte Guido da Monte Feltro, lo quale à finto che sia nella fiamma detta di sopra, dica la condizione della vita sua che fu piena di peccati, e la sua conversione, dicendo così: Io; cioè conte Guido, fui uom d’arme; cioè che usai le battaglie 14 e le guerre nel tempo della mia giovanezza, e poi fu’ cordelliero 15; cioè nella mia vecchiezza fu’ frate minore che portai cinta la corda, come il detto ordine richiede. Credendomi sì cinto; cioè del cordone di santo Francesco, fare ammenda; de’ peccati miei: E certo il creder mio veniva intero; cioè ch’io l’avrei fatta, Se non fosse il gran Prete, cioè papa Bonifazio, a cui mal prenda; cioè a cui colga male; e bestemmialo, perchè finge che fosse cagione della sua dannazione, Che mi rimise nelle prime colpe; cioè mi fece ritornare ne’ primi peccati; E come e quare; cioè in che modo e per qual cagione, voglio che m’intenda; cioè voglio che sappi il modo e la cagione. Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe; cioè mentre ch’io fui nel corpo: l’anima è forma del corpo vivo, e lo corpo è materia; del quale corpo l’ossa e le polpe sono materia, Che la madre mi diè; questo dice, perchè l’uomo benché si generi del seme virile quanto all’ossa et a’ nervi et alle cose d’entro 16, e le cose d’entro di quel della madre; niente di meno si può dire che la madre le dia, in quanto in lei crescono e nutricansi; e poi così cresciute e nutrite, si producono di fuori nel parto, sì che ben si può dire per questo rispetto che la madre dia l’ossa e le polpe, l’opere mie Non furon leonine; cioè l’operazioni mie negli atti bellicosi e guerreschi non furono di gagliardia: imperò che lo leone è animale ardito e gagliardo, però si dicono opere di leone l’opere dell’uomo ardito e gagliardo; ma di volpe; cioè furono fraudulenti: imperò che la volpe è fraudulente animale: si può dire opere volpine l’opere de’ fraudulenti; e per questo manifesta lo peccato suo, [p. 699 modifica]che fu fraudulento consigliatore et operatore. Li accorgimenti e le coperte vie; cioè fraudulenzie, Io seppi tutte; ecco che qui 17 specifica lo suo peccato, e sì menai lor arte; cioè delli accorgimenti e delle vie coperte per sì fatto modo usai l’arte, Che al fine della terra; cioè in fino all’occidente, il suono uscie; cioè la fama del mio malizioso et astuto sapere. Quando mi vidi; cioè io conte Guido: ecco la sua conversione, giunto in quella parte Di mia etade; cioè nella vecchiezza, ove ciascun dovrebbe Calar le vele e raccoglier le sarte; nella vecchiezza ognuno si dovrebbe spiccare dalle cose del mondo; e fa qui l’autore similitudine dal viver dell’uomo al navicare del marinaio per mare, dicendo che, come lo marinaio quando giugne nel porto cala le vele e raccogliele, e le sarte tutte; così dovrebbe fare l’uomo vecchio, che è giunto al porto della vita umana: calar le vele non è altro, se non porre giù la speranza di più vivere e l’appetito; e raccoglier le sarte è raccoglier tutti li amori che ci tengono congiunti al mondo, e spiccarli da questi beni mondani fallaci, Ciò, che prima mi piacque; cioè nella vita passata; cioè le cose di peccato che m’erano piaciute, allor m’increbbe; cioè quando mi vidi vecchio, E pentuto e confesso mi rendei; cioè a Dio. Et è qui da notare che l’autore tocca tre cose necessarie alla conversione; cioè prima, la contrizione che fa riconoscere lo peccato e dispiacere 18; e questo tocca quando dice: allor m’increbbe. Appresso, la penitenzia che fa non volere averlo fatto, e dolersene e proporsi di non farlo più con intenzione di satisfare quello che à a satisfare; e questo tocca quando dice: E pentuto. Appresso, la confessione che fa l’uomo, manifestando lo suo peccato, umiliarsi e vergognarsi del peccato; e questo tocca quando dice: e confesso. E queste tre condizioni sono necessarie nel peccatore, inanzi che possa sopravvenire l’assoluzione del prete la quale è la forma della penitenzia: imperò che la forma mai non s’aggiugne alla materia, se la materia non è disposta; onde è da notare che nel paciamento 19 della penitenzia lo peccatore è materia, e l’assoluzione del prete è la forma. Et acciò che questa forma s’aggiunga al peccatore, convien che si disponga con le tre condizioni dette di sopra, altrimenti non si aggiugnerebbe l’assoluzione; e sono pur tre queste condizioni: imperò che come in tre modi s’offende alcuna volta Idio sì, che l’uno delli tre modi produce l’altro; cioè pensando male, parlando male, e operando male; così in tre modi convien che si satisfaccia; cioè nella contrizione che ristora lo mal pensieri; con la confessione che ristora lo mal parlare; e con la penitenzia che ristora lo male adoperare: et alcuna volta pur con l’uno de’ detti modi tre, nel quale sempre concorrono tre cose; cioè deliberazione, [p. 700 modifica]delettazione, e perseveranza; e però si richiede a disporre tal materia contrizione che ristora, col conoscimento del peccato, la mala deliberazione; pentimento che ristora col dolore la mala delettazione; e confessione che col rompimento ristora la mala perseveranzia. Et è da notare che la confessione si fa in due modi; cioé col cuore e con la bocca; et alcuna volta basta quella del cuore, quando non può essere quella della bocca, siccome quando l’uomo à perduta la favella; e niente varrebbe quella della bocca, se quella del cuore non vi fosse. Ancora è da notare che il pentere è in due modi; cioè in atto et abito: in abito convien che sempre duri; ma in atto non è di necessità che sempre duri, siccome veggiamo quando l’uomo dorme non è in atto lo pentere: appresso, quando è satisfatto lo peccato, non è mestieri che più si satisfaccia; e però la penitenzia è intrinseca et estrinseca; la intrinseca, che è nel cuore, è in abito e sempre dee durare; la estrinseca è in atto e non dura sempre. Ahi! miser lasso, e giovato sarebbe; dolendosi e riconoscendo la sua miseria, che non è degno, o ver non fu, di star fermo ne l’abito della penitenzia; e dice: Ahi; questa è intergezione che significa dolore, miser lasso; dico me, che non degnai di stare in tale stato, e giovato sarebbe; cioè se io vi fosse stato. Seguita la cagione che il trasse di sì fatto stato.

C. XXVII — v. 85-105. In questi sette ternari l’autor nostro dimostra la cagione, che finge che facesse cadere nel peccato il conte Guido, per lo qual finge che sia dannato a quella pena che detta è di sopra, continuando la narrazione del sopraddetto conte, dicendo così: Ma il Principe de’ nuovi Farisei; cioè papa Bonifazio, lo quale è principe de’ preti che sono divisi, e deono essere, dalle cose del mondo; e dice nuovi a differenzia di quelli della legge di Moisè della sinagoga de’ Giudei, Avendo guerra presso a Laterano; cioè co’ Colonnesi che stavano presso a san Giovanni Laterano in Roma; e la cagione di questa guerra fu questa. Papa Bonifazio, romano per nazione, della casa de’ Savelli venne al papato, essendo uomo di non grande condizione, con l’aiuto de’ Colonnesi, de’ quali era amico essendo procuratore in corte di Roma, come fu detto di sopra nel terzo canto; et essendo papa, venne in disdegno con li Colonnesi et in inimicizia per sozza cagione: imperò, che avendo lo detto papa uno suo nipote, lo quale amava oltre misura, intanto che il di’ che non lo vedea, non stava contento; et essendo questo suo nipote giovane, innamorossi della donna di Sciarra della Colonna, la quale era formosissima e bella, e non portando saviamente la sua passione, per dolore e malinconia si pose a giacere in sul letto, non volendo mangiare, né bere per disperazione. Onde non vedendolo lo santo Padre, domandò di lui, et inteso ch’era in su lo letto, andò a [p. 701 modifica]lui, e fattovi venire molti medici, non conoscendo in lui altra passione che di cuore, con belli modi tanto lo domandarono, ch’ebbono da lui la cagione del suo dolore; onde confortandolo, promisono che darebbono opera ch’elli avrebbe la detta donna. Et allora fu ordinato un grande convito nel palagio del detto papa; et invitatevi tutte le grandi donne di Roma, e poste a tavola, la donna di Sciarra fu posta innanzi all’uscio della camera del nipote del papa, nella quale elli era rinchiuso; onde, quando ciascuno era intento al convito, questa donna fu presa e portata per lo detto uscio che avea di retro 20 nella camera, e rinchiusa col detto giovane, che pochissimi o quasi nulli, se n’avvidono; ma essa castissima più che Lucrezia, non consentie mai ad alcuno alto disonesto, lasciandosi stracciare i panni e il volto e scapigliare, con grida si spacciò dalla camera, e tornossi a casa con grandissimo dolore. E manifestato al marito l’oltraggio ch’avea ricevuto, fu commosso elli e li altri della casa ad inimicizia contra il detto papa; et usciti li Colonnesi fuori di Roma, rebellarono alquante fortezze, tra le quali era Penestrino, e guerreggiarono col papa sopraddetto; e però dice l’autore: Avendo guerra presso a Laterano, E non con Saracin, nè con Giudei; quasi dica che co’ Saracini e co’ Giudei dovea guerreggiare il detto papa, e non co’ Colonnesi ch’erano Cristiani; e però aggiugne: Chè ciascun suo nimico; del detto papa, era Cristiano; questo dice: imperò ch’erano Colonnesi romani i suoi nimici Cristiani, e non Giudei, nè Saracini; ma buoni Cristiani e non disubidienti alla santa Chiesa, E nessuno era stato a vincer Acri: Acri è una città in Asia, presso a Gerusalem la quale fu acquistata da’ Cristiani et abitata da loro, poi si perdè per lo mal governo che ne faceano quelli del Tempio; e quelli Saracini che l’acquistarono, l’acquistarono con la forza de’ Cristiani ch’erano al loro soldo; la quale cosa pessima è espressamente vietata dalla Chiesa; cioè che Cristiani non dieno aiuto all’infedeli contra a’ Cristiani, nè stieno al loro soldo. E dice che niuno de’ Colonnesi era stato a vincer Acri per li Saracini contra Cristiani, sì che il papa non avea cagione di tenerli per suoi nimici, come avrebbe chi ciò avesse fatto; e chiamasi ora quella citta Acrone, Nè mercatante in terra di Soldano; cioè nè alcuno de’ Colonnesi era ito in Alessandria o in Egitto alle terre del Soldano a portare mercatanzia; la qual cosa è proibita dalla Chiesa, e sanza special licenzia del papa non vi si può navicare per li Cristiani; quasi dica: Se ciò avessono fatto i Colonnesi, avrebbe avuto il papa qualche cagione di tenerli per inimici; onde questo dice a confusione del detto papa, Nè sommo officio, nè ordini sacri Guardò in [p. 702 modifica]; cioè il detto papa che dovea avere respetto, che a lui non si convenia volere disfare li Colonnesi, e sì per l’uficio ch’avea ch’era papa, e per li ordini sacri ch’avea ch’era sacerdote; e chi à ordini sacri non dee dare opera a spargere lo sangue umano, nè in me quel capestro; cioè in me conte Guido non guardò lo detto papa lo cordone ch’io avea di san Francesco, lo quale è fatto di fune come capestro, a significare che chi lo porta dè avere legato lo corpo e la volontà alla povertà, castità et obedienzia; cioè non guardò ancora a me ch’era religioso dell’ordine di san Francesco che il dovea guardare, che a me non si convenia dare consiglio a sì fatte cose, Che solea far li suoi cinti più macri; questo dice in riprensione de’ frati minori; cioè del detto ordine, che soleano essere anticamente più macri per l’atto della penitenzia, che non erano al tempo di Dante e al tempo di conte Guido, lo quale à indotto a parlare. Ma come Costantin; qui pone una similitudine, dicendo che, come Costantino imperadore lo quale fu lebbroso, et avendo la notte avuto visione che san Salvestro lo quale era papa, lo potea guarire, come li mostrò san Piero e san Paolo che li apparvono, per ch’elli non avea consentito l’uccisione de’ parvoli, come li diceano li suoi medici, dicendoli che se si bagnasse nel sangue puro de’ fanciulli ch’elli guarrebbe della lebbra; ond’elli volendo innanzi sempre stare lebbroso ch’essere sì spietato, che tanti fanciulli morissono per lui guarire, fece cercare per san Salvestro, lo quale era appiattato in una grotta di uno monte che si chiamava Siratti, per paura dell’imperadore che perseguitava i Cristiani; lo quale venuto a lui lo guarì, battezzandolo e facendolo cristiano, come dice la leggenda sua; così chiese lo papa me, dice il conte Guido, onde dice: Ma come Costantin; imperadore, chiese Silvestro; cioè fece cercare san Salvestro, Dentro Siratti; cioè dentro dalle caverne di quel monte, ancora così chiamato, a guarir della lebbre; ch’elli avea; Così mi chiese questi; cioè papa Bonifazio fece cercare me conte Guido, dentro alli monti della Vernia, ov’io era a far penitenzia, per maestro; cioè come medico, A guarir della sua superba febbre; cioè dal dolore che veniva da superbia ch’elli portava, per ch’elli non potea mettere ad effetto, nè sapea la mala volontà che avea: Domandommi consiglio; il detto papa; et io; cioè conte Guido, tacetti, Perchè le sue parole parver ebbre; cioè piene di malvagità; e questa fu la cagione per ch’io tacetti, parendomi che le sue parole venissono da animo pieno d’ira e di superbia, come l’ebbriaco di vino. E poi ridisse; lo detto papa a me Guido conte, perch’io non li dava risposta: Tuo cor non sospetti; cioè non dubiti: Fin or; cioè infino ad ora, ti assolvo; cioè da ogni peccato, e tu m’insegna fare, Sì come Penestrino in terra getti; cioè com’io [p. 703 modifica]disfaccia Penestrino, la quale era una città, o castello, de’ Colonnesi la quale era fortissima, sì che per niuno modo la poteva avere, e quivi stavano i Colonnesi e guerreggiavano Roma 21, per la nimicità ch’aveono col papa. Lo Ciel poss’io serrare e disserrare; cioè io sono papa, e posso dare e togliere lo Cielo a cui io voglio; e questo non si dee intendere se non da ordinata potenzia: imperò che chi non avesse quel che si richiede al sacramento della penitenzia, come detto è di sopra, non potrebbe essere assoluto dal papa, Come tu sai; questo dice, perchè ogni fedel cristiano dee sapere che il papa può ogni cosa, non errante la chiave; però son due le chiavi; queste due chiavi significano le due potenzie ch’à il papa, l’una è la sentenzia 22 del discernere; e l’altra è la potenzia del giudicare; cioè del serrare e dell’aprire, secondo la sentenzia di Cristo che disse a san Piero: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam .......... Et tibi dabo claves regni coelorum. Et quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis; et quodcumque solveris super terram, erit solutum et in coelis. — Che il mio antecessor non ebbe care; questo dice per papa Celestino che rifiutò il papato, come fu detto di sopra, nel terzo canto.

C. XXVII — v. 106-112. In questi due ternari finge l’autore che il conte, continuando suo parlare, manifesta lo frodolente consiglio che diede a papa Bonifazio, per lo quale elli finge che sia dannato, dicendo: Allor; cioè quando il detto papa ebbe detto quel che è detto di sopra, mi pinser li argomenti gravi; cioè m’indussero li argomenti gravi ch’avea fatti il papa, perch’io dessi lo consiglio; questi argomenti stavano in questo, cioè: Se io conte Guido taccio, mosterrò ch’io tengo che non mi possa assolvere e che non abbi l’autorità ch’elli à;e così avrei mostrato di credere contra la determinazione di santa Chiesa, e così avrebbe potuto procedere contro a me d’eresia; e questo finge Dante che inducesse il conte Guido, e però seguita: Onde il tacer mi fu avviso il peggio; cioè mi parve peggio a tacere, che a dire, E dissi: Padre, da che tu mi lavi Di quel peccato, ov’io mo cader deggio; cioè, poiché tu m’assolvi del peccato, nel quale caggio dandoti lo consiglio, ecco ch’io ti do il consiglio, Lunga promessa con l’attener corto Ti farà triunfar sull’alto seggio; cioè promettere assai et attenere poco ti farà avere vittoria de’ tuoi nimici: triunfare è avere vittoria, sull’alto seggio; cioè in su l’alta sedia del papato, nella quale degnità tu se’; e così fece papa Bonifazio: imperò che fece trattare della pace coi Colonnesi e promise loro ciò ch’essi vollono, e rimise messer Iacopo e messer [p. 704 modifica]Piero della Colonna nel cardinalato, li quali prima avea privati della detta degnità del cardinalato e tolto loro il cappello; et ogni altra cosa che domandarono i Colonnesi fece loro, infino a tanto ch’elli ebbe tutte le loro fortezze; e poiché l’ebbe tutte, elli fece disfare Penestrino e perseguitolli da capo, et ebbe allora con questo modo la sua intenzione.

C. XXVII— v. 112-129. In questi sei ternari l’autor nostro compie la narrazione del conte Guido, e pone il modo della sua dannazione quando fu morto, poi che di sopra à posta la cagione, dicendo così e continuando il suo parlare il detto conte: Francesco; cioè san Francesco, la cui religione avea presa, venne, poi com’io fu’ morto; cioè io conte Guido, Per me; cioè conte Guido, ma un de’ neri Cherubini; cioè un demonio che fu dell’ordine delli angeli cherubini, Li disse; cioè a santo Francesco: Non portar; cioè lo conte, non mi far torto; cioè non fare ingiuria a me. Venir sen dee là giù; cioè nell’inferno, tra’ miei meschini; cioè tra’ miei miseri dannati, Perchè diede il consiglio frodolente; qui assegna la cagione della sua dannazione; cioè il consiglio detto di sopra a papa Bonifazio lo quale fu pieno di fraude e d’inganno, Dal quale in qua stato li sono ai crini; cioè io l’ò tenuto per li capelli: Chè assolver non si può chi non si pente; qui dimostra per ragione demostrativa che l’assoluzione del papa detta di sopra non valse: imperò che la forma della penitenzia; cioè l’assoluzione, fu inanzi in atto che la materia; cioè ch’el peccato con la sua disposizione; cioè col pentimento, la qual cosa è impossibile; e questa è ragione demostrativa; e se volessimo dire: E’ v’era già lo peccato: imperò che v’era il pensiere, puossi dire che il pensiere solo non è peccato, se non v’è la deliberazione e il consentimento della volontà; e se queste due cose v’erano, non vi poteva essere lo pentere che contradice alla volontà: imperò che pentere è volere non avere voluto; e volere e non volere sono contradittorie, e le contradittorie non possono essere insieme vere; e però seguita: Nè pentere e volere insieme puossi, Per la contradizion che nol consente; come detto è di sopra, e questa è ragion probabile che la insegna la dialetica dicente che le contradittorie non possono essere insieme vere, nè false. O me dolente! com’io mi riscossi; cioè io conte Guido dal dimonio, Quando mi prese, dicendomi: Forse Tu non credevi ch’io loico fossi; cioè ch’io sapessi le ragioni logicali? A Minos mi portò; cioè al giudice dell’inferno, del quale fu detto di sopra nel quinto canto, e quelli; cioè Minosse, attorse Otto volte la coda al dosso duro; questo dice, per servare la fizione detta di sopra nel detto canto v ove dice: Dico, che quando l’anima mal nata ec. Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giù sia messa; e per questo significa ch’elli fu [p. 705 modifica]condannato da Minos d’essere ne l’ottavo cerchio; E poi che per gran rabbia la si morse; questo dice, per significare che tal giudice non condanna per ira, o ver contra, per zelo che non è peccato; ma con ira, Disse: Questi è de’ rei del foco furo; qui dichiara Minos in quale bolgia dell’ottavo cerchio dee esser messo, lo quale fu diviso in x bolgie, secondo che x generazioni de’ peccati quivi si puniscono; e dichiara che dee essere nell’ottava bolgia ove sono puniti li frodolenti consiglieri, e dice: del foco furo, perchè di sopra capitolo xxvi disse: Et ogni fiamma un peccator invola; quasi dicesse: Elli è degno dell’ottava bolgia, ove l’anime sono appiattate nelle fiamme, e conchiude: Perch’io là, dove vedi, son perduto; cioè in questa bolgia, E sì vestito; cioè da questa fiamma, andando; dice, perchè continuamente vanno, mi rancuro; cioè mi doglio.

C. XXVII — v. 130-136. In questi due ternari e uno verso l’autore conchiude lo suo canto, e dà preparazione a l’altro che seguita, continuando lo suo processo, dicendo così: Quand’elli; cioè il conte Guido, ebbe il suo dir così compiuto; come fu detto di sopra, La fiamma dolorando si partio; cioè quella fiamma, in che finge che fosse il conte Guido, Torcendo e dibattendo il corno acuto; questo dice, per confermare quel, che detto fu di sopra, della fiamma. Noi passammo oltre, et io e il Duca mio; ora pone lo suo processo con Virgilio, Su per lo scoglio; che cuopre e fa ponte alla detta bolgia, insino in su l’altro arco; cioè della nona bolgia; e però dice: Che cuopre il fosso; cioè la bolgia nona, in che si paga il fio: cioè lo salario e la mercè, A quei, che scommettendo acquistan carco; cioè a’ seminatori delli scandali e delle discordie, de’ quali si dirà nel seguente canto; e dice: acquistan carco; cioè carico: imperò che si caricano di mettere malivolenzia et odio tra coloro, tra’ quali dee essere amore e concordia. E qui finisce il xxvii canto: seguita il xxviii canto.

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Note

  1. C. M. ma massimamente nessuna guerra
  2. C. M. Maghinardo da Sosinana;
  3. C. M. Falari
  4. C. M. dentro lo mal fattore; e
  5. C. M. et è interposita
  6. C. M. alla Marca, lungo la marina— . Ed il nostro Cod. à pure — con la marina, altr. allato la marina tra Ancona
  7. C. M. nelle menti
  8. C. M. campo bianco,
  9. C. M. perchè la signoreggia,
  10. C. M. presso alle prime de l’ala
  11. C. M. nel campo giallo:
  12. C. M. di grande riezza, und’elli
  13. C. M. le contradittorie non possano
  14. C. M. usai in battallie e in guerre
  15. C. M. cordelero;
  16. C. M. d’entro, et a le cose di fuori di quel della madre;
  17. C. M. che più specifica
  18. C. M. e dolersene;
  19. C. M. nel sagramento
  20. C. M. avea dentro nella camera
  21. C. M. Roma, per la ingiuria del papa.
  22. C. M. l’una è la scienzia del discernere;


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