Chi vuol fiabe, chi vuole?/Comare Formica
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COMPARE FORMICA
Di quel po’ che guadagnava, un terzo lo spendeva per vivere, e il resto lo metteva da parte. Campava quasi con niente. Una fetta di pane, un pezzetto di cacio o una cipolla per companatico, e una bella bevuta di acqua era il suo desinare; e la cena nessuna differenza: una fetta di pane, un pezzetto di cacio o una cipolla per companatico, e una bella bevuta di acqua; null’altro.
Per ciò le vicine l’avevano soprannominata comare Formica.
Non ostante la povertà e la fatica, comare Formica era sempre di buon umore.
— Che ve ne fate dei quattrini, comare Formica?
— Quando saranno parecchi, me ne farò una frittata.
— O che si mangiano i quattrini?
— Allora... li metterò sotto la chioccia per farli covare.
— O che sono uova i quattrini?
— Allora... li seminerò in un vaso e aspetterò che vengano su.
— O che sono fiori i quattrini?
— Provate e vedrete! Intanto lasciatemi filare. E filando cantava:
Fuso mio, gira e trotta,
La camicia della Reginotta;
Fuso mio, trotta e gira,
Le lenzuola della Regina;
Gira e trotta, fuso mio,
Corda ai piedi a chi dico io!
Le vicine, sempre curiose, tornavano a domandarle:
— Che ve ne fate dei quattrini, comare Formica?
— Quando ne avrò parecchi li darò... a chi non li vuole.
— Come a chi non li vuole?
— Allora... saranno di chi saprà pigliarseli.
— E se vengono i ladri?
— Allora... dirò ai ladri: datemi i vostri e prendetevi i miei.
— Ma i ladri, se rubano, vuol dire che non ne hanno.
— Allora... Provate e vedrete. Intanto lasciatemi cucire.
E cucendo cantava:
— Gugliata, gugliatina,
Camicie della Regina;
Gugliatina, gugliata
Lenzuola dell’amata;
Gugliata lunga e corta
Guanciali per la sposa.
Le vicine, sempre più curiose, tornavano a domandarle:
— Che ve ne fate dei quattrini, comare Formica?
— Quando ne avrò parecchi mi farò fabbricare un palazzo.
— Un palazzo per voi sola?
— Allora... prenderò marito se posso trovarlo.
— Siete già quasi vecchina!
— Allora .... Aspettate e vedrete. Intanto lasciatemi tessere. —
E facendo andare e venire la spola tra l’ordito del telaio, comare Formica cantava:
Vola, spolina mia, vola, spolina!
Non ti arrestare mal, spolina cara;
Trama di seta e argento la mattina,
Trama di seta e d’oro verso sera.
Vola, spolina mia... vola, spolina,
Velo di sposa e veste di Regina.
Lavorava da mattina a sera, filando, cucendo, tessendo secondo le richieste della gente, e la sua voce squillava per la via così limpida e dolce, che era una delizia stare ad ascoltarla. Le vicine però ridevano delle canzoni che accompagnavano il lavoro di comare Formica e le dicevano:
— Come mai, comare, quel filato così grosso per le camicie della Reginotta e per le lenzuola della Regina? Ahi ah!...
— La canzone dice così; non l’ho inventata io.
— Come mai, comare, cotesta tela così rozza, velo di sposa e veste di Regina? Ah! Ah! ...
— Come mai, comare, quei punti così lunghi, gugliata, gugliatina? Ah! Ah! ...
— La canzone dice così: non l’ho inventata io... Ma ride meglio chi ride ultima, vicine mie. Ah! Ah! Ah! ... —
Le vicine si struggevano di sapere chi fosse costei: ma quando le domandavano:
— Di che paese siete? — rispondeva:
— Oh bella, del mio paese!
— E dov’è questo paese?
— Si va per monti, per valli e per piani, si passa fiumi, si passa il mare, e quando si arriva... quello è il paese. —
Visto che non ne cavavano nessun costrutto, domandavano:
— Come vi chiamate, comare?
— Come volete chiamarmi. Tutti i nomi mi stanno bene, anche il nome di comare Formica.
— E non avete padre, madre, parenti?
— Mio padre è re, mia madre regina,
Ed io sono una povera vecchina!
— Dunque siete Reginotta? Ah! Ah! Ah!...
— Ride meglio chi ride l’ultima, vicine mie! —
Le vicine, più curiose di prima, pensarono di metterla alla prova; e, canzonando, le dissero:
— Comare Formica, quando metterete i vostri soldi sotto la chioccia, per piacere, metteteci anche questi: sono sette.
— Va bene; date qua. —
E andavano spesso da lei per sapere se la chioccia covava.
— Cova, non dubitate; tra giorni verranno fuori.
Si attendevano una beffa dall’allegra vecchina; invece, al termine giusto della covata, eccoti tanti pulcini quanti erano i soldi ricevuti... Poteva essere uno scherzo anche questo; ma, dopo qualche settimana, quei pulcini avevano una cresta particolare, della forma e del colore di un soldino; I ladri non fiatavano e si lasciavano svaligiare. (Pag. 126) cosa da sbalordire. Sette galletti dei più grassi, che già cominciavano a far chicchirichi!
Una mattina però tutti a una volta, stirarono le ali, allungarono il collo, chicchirichì! E caddero morti!
— Che disgrazia, comare! I nostri galletti sono morti! E i vostri?
— È venuta la volpe e li ha mangiati!
Le vicine volevano almeno riavere i sette soldi: e rammentandosi che un giorno aveva detto: — Darò i miei quattrini a chi non li vuole — si presentarono a comare Formica:
— Ah, comare! Voi volevate restituirci i sette soldi dei galletti: ma non li vogliamo!
E aggravarono la voce su le ultime parole:
— Io? Nemmen per sogno. Non do quattrini a chi non li vuole.
— Eppure un giorno voi diceste...
— Le parole le porta via il vento.
— Avete ragione, comare Formica.! — dissero le vicine a denti stretti.
E una di esse pensò una gran birbonata. Aveva sentito dire da suo marito che la grotta in cima al monte serviva di ricovero a una banda di ladri.
— Ascolta, marito mio: potremmo arricchire senza fatica. Vai a trovare il capo dei ladri e digli: "Vi insegno io un posto dove potreste fare molto bottino. Faremo a parti uguali. Volete?". — E indicherai la casa di comare Formica.
— Tu sei pazza, moglie mia!
— E tu sei sciocco, marito mio! —
La cattiva donna tanto fece e tanto disse, che indusse il pover’uomo ad andare dal capo dei ladri.
— Va bene, ma se c’inganni, guai a te! Ti legheremo a quell’albero: quando saremo di ritorno con la preda, ti scioglieremo e avrai la tua parte. Ma chi c’indicherà il posto?
— Ve lo indicherà mia moglie: si chiama Boccabella. —
Giusto la notte dopo, i ladri dovevano fare un furto nel palazzo di un riccone là vicino; passando avrebbero visitato anche la casetta di comare Formica.
Verso mezzogiorno, la donna vide arrivare un omo vestito da contadino.
— Siete voi la Boccabella? Mi manda vostro marito. —
La furba capi, lo fece entrare in casa, e gli diè tutte le indicazioni opportune.
— Se m’ingannate, guai a voi! —
Quella mattina comare Formica, avendo fatto il ranno al filato, parte ne stendeva sul tetto ad asciugare, parte sul davanzale della finestrella e su gli scalini della porta.
Passata mezzanotte, ecco i ladri carichi di ogni ben di Dio, danari, argenterie, ori, gioielli, rubati nel palazzo del riccone.
Chi dalla finestra, chi dal tetto, chi dalla porta fanno per entrare nella casa di comare Formica. E a un tratto sentono che qualcosa si avvolge attorno alle loro gambe e alle loro braccia, e glieli lega così stretti che una fune non avrebbe potuto far meglio. Più tentano e ritentano di distrigarsi e più il filato si attorce attorno ad essi, quasi fosse cosa viva.
La Boccabella, che stava alle vedette, e pel buio non poteva capire perchè i ladri stessero inerti, si era accostata zitta zitta.
— Ah infame! Ah traditori, tu e tuo marito! —
Si sentì la voce di comare Formica:
— Grazie, signori ladri! Non occorreva; vi siete disturbati a portarmi tante cose preziose. Grazie, signori ladri.
E, uscendo fuori, prendeva le bisacce ripiene che i ladri avevano deposte in un canto e le portava in casa; poi tornava fuori, frugava nelle loro tasche e ne cavava monete d’oro, pietre preziose, gioie, e li portava in casa, ripetendo:
— Grazie, signori ladri! —
I ladri non fiatavano, si lasciavano svaligiare, atterriti di quelle ritorte che li tenevano immobili, spaventati del peggio che poteva accadere. Già si vedevano in mano della giustizia.
— Avete visto, comare Boccabella? Da ora in poi potranno chiamarvi Boccamara.
— Abbiate pietà di noi poveri ladri, comare Formica! —
Erano più morti che vivi. Già spuntava l’alba. Comare Formica n’ebbe compassione.
— A patto che non facciate male al marito di costei! Il poveretto non ci ha colpa.
— Non gli faremo alcun male. —
Sentendosi sciogliere braccia e gambe, i ladri si rizzarono, e via di corsa, senza voltarsi addietro: pareva che avessero le ali ai piedi. E alla Boccabella, dal gran dispiacere, rimaneva la bocca così amara, come se avesse masticato tòssico.
D’accordo con le altre sei comari, ella tentò un’altra bricconata.
Si presentò da quel riccone che era stato derubato:
— Volete trovare ogni cosa? Io so chi è stata la ladra; ma voglio una buona mancia.
— E una buona mancia avrete. Chi è stata la ladra?
— Comare Formica.
— Quella povera donnicciola? Non è possibile.
— Mandate subito, i birri: troveranno ogni cosa.
Vanno i birri: cerca, fruga, rimesta, e non trovano niente.
— Se ve l’ha detto la Boccabella, vuol dire che gli oggetti rubati sono in casa sua.
Vanno i birri, e senza bisogno di frugare, trovano le bisacce dei ladri riposte in un canto, e nella cassa e nelle cassette tanti altri oggetti di oro e di pietre preziose.
E la Boccabella presa ed ammanettata fu condotta in carcere: e la sua bocca diveniva ancora più amara, quasi avesse masticato tòssico.
Dopo di questo, comare Formica fu lasciata in pace. Le vicine, specie quelle dei galletti, avevano paura di lei.
— Dev’essere una strega!
Lei invece filava, cuciva, tesseva, cantando sempre allegramente:
Fuso mio, gira e trotta...
o pure:
Gugliata, gugliatina...
o pure:
Vola, spolina mia, vola, sposina!..
e la sua voce squillava per la via, così limpida e dolce, che era una delizia stare ad ascoltarla.
Le altre vicine, che erano curiose, sì, ma non avevano preso parte alle birbonate contro di lei, le domandarono:
— E il palazzo, quando ve lo farete fabbricare, comare Formica?
— Una di queste mattine, comari.
— E il marito, lo avete già trovato il marito?
— Verrà una di queste mattine, comari.
Palazzo finito
Attende il marito.
— Sempre allegra, comare Formica. Ah! Ah!...
— Ride meglio chi ride l’ultima.
Ma quale non fu lo stupore di quelle buone comari, quando una mattina videro che la casetta di comare Formica era stata trasformata, durante la notte, in un meraviglioso palazzo assai più grande e più bello del palazzo reale!
E comare Formica, con la rocca al fianco e il fuso in mano, filava davanti il grande portone quasi non fosse accaduto niente di nuovo.
— Fuso mio, gira e trotta! —
— Chi vi ha fabbricato questo palazzone, comare Formica?
— Venne il vento e portò i sassi.
— E poi?
— Venne il vento e portò rena e calce.
— E poi?
— Venne il vento e portò l’acqua.
— E poi?
— Sassi, rena, calce ed acqua... e il palazzo si è rizzato.
— Sempre allegra, comare Formica! —
Il giorno dopo, comare Formica cuciva, seduta davanti al portone, quasi non fosse accaduto niente di nuovo.
— Gugliata, gugliatina...
— Siete così ricca, e vi affannate a cucire?
— Chi non lavora non mangia.
— Lasciatelo dire a noi, comare Formica!
— L’apparenza inganna, comari mie.
— E il marito?
— È in viaggio; arriverà una di queste mattine.
— Come? Ce lo dite piangendo?
— Solo il mestolo sa i guai della pentola!
— Ah! povera comare Formica! —
Era stata sempre di buon umore, vivendo con un po’ di pane, un po’ di cacio o una cipolla per companatico, e una bella bevuta d’acqua, ed ora che aveva quel palazzone e attendeva il marito, ora piangeva? Era proprio vero che solo il mestolo sa i guai della pentola!
Il giorno dopo, comare Formica, dentro il portone, tesseva, quasi non fosse accaduto niente di nuovo.
— Vola, spolina mia, vola, spolina... —
— Siete ricca e vi spezzate le braccia tessendo?
— Questa è l’ultima tela, comari mie.
— Perchè mai, comare Formica?
— Perchè viene il fuoco e mi brucia rócca, fuso e pennecchio.
— E poi?
— Viene il fuoco e mi brucia lenzuola e guanciali da cucire.
— E poi?
— Viene il fuoco e mi brucia velo di sposa e veste di Regina.
— Non piangete, comare Formica!
— La mia mala sorte vuole così.
— Se avete bisogno di noi, comandateci, comare Formica! Povere siamo ma di buon cuore. —
Durante la nottata, le vicine sentirono soffi violenti e urli di vento attorno al palazzo di comare Formica. Ahuiii! Ahuiii!, quasi il vento gli girasse da ogni lato e tentasse di buttarlo giù o di portarlo via. Non osavano di affacciarsi per vedere quel che succedeva. E se si fossero affacciate avrebbero visto il palazzo tutto illuminato, tutte le finestre spalancate e due ombre correre per le stanze, una inseguendo l’altra, come spinte da una furia di vento che urlava: — Ahuiii! Ahuiii! —
Non era il vento, ma l’Orco che voleva afferrare comare Formica e non riusciva a raggiungerla.
Intanto verso l’alba il rumore cessava.
L’Orco scappava via — Ahuiii! Ahuiii! — per paura del sole, e il palazzo tornava allo scuro, con le finestre tutte chiuse.
— Avete sentito, comare Formica, che ventaccio stanotte?
— Non ho sentito niente, comari mie.
— Come? Sembrava che volesse sradicare il vostro palazzo!
— Non mi sono accorta di niente. Ho il sonno duro.
— Perchè piangete, comare Formica?
— La mia mala sorte vuole così.
— Non filate oggi, comare Formica?
— Il fuoco mi ha bruciato rócca, fuso e pennecchio.
— Non cucite oggi, comare Formica?
— Il fuoco mi ha bruciato lenzuola e guanciali da cucire.
— Non tessete oggi, comare Formica?
— Il fuoco mi ha bruciato telaio, spola, ordito, velo di sposa e veste di Regina.
E, la notte dopo, l’Orco tornava precisamente a mezzanotte. Ahuiii! Ahuiii!
— Vuoi essere l’Orchessa, sì o no?
— No! No! No!
— Invece di pane, con cacio o cipolla per companatico, mangeresti carni tenere di bambini e di bambine; invece di acqua, berresti sangue fresco di giovani e di zittelle. Vuoi essere l’Orchessa, sì o no?
— No! No! No!
— Prendo te e ne fo un boccone! —
E le vicine, se si fossero affacciate, avrebbero visto il palazzo tutto illuminato, tutte le finestre spalancate, e due ombre correre per le stanze una inseguendo l’altra, come spinte da furia di vento. Verso l’alba il rumore cessava.
— Avete sentito, comare Formica, che urli stanotte?
— Non ho sentito niente; ho il sonno duro.
— Perchè piangete, comare Formica?
— La mia mala sorte vuole così!
— Buon tempo e cattivo tempo non durano gran tempo.
— Forse dite bene, comari!
— Parliamo di cose allegre: e il marito, comare Formica?
— Prima devo ringiovanire,
— Sempre allegra, nonostante i guai!
— Aspettate e vedrete.
Insomma, con quella comare Formica non ci si capiva nulla; metteva a covare i soldi e i pulcini nascevano; menava vita da poveretta e si faceva fabbricare un palazzo più grande e più bello di quello del Re; venivano i ladri per rubarle i quattrini messi da parte, e invece lei legava e spogliava i ladri; piangeva la sua mala sorte e subito dopo le scappava di bocca una facezia. Chi era? Perchè aveva detto:
— Mio padre è Re, mia madre Regina,
Ed io sono una povera vecchina?
Ed ora perchè aveva detto: — Prima devo ringiovanire? — Le volevano bene: era buona, non dava noia a nessuno; ma avrebbero pagato chi sa che cosa per penetrare il mistero che la circondava.
E la notte dopo, di nuovo, precisamente a mezzanotte, — Ahuiii! Ahuiii! — l’Orco arrivava come un uragano.
— Vuoi esser l’Orchessa, sì o no? .
— No!... Sì!... No!...
Dal terrore la poverina non sapeva quel che si dicesse.
— Sì o no?
— Sì, sì! Ma devi darmi tempo un mese e un giorno.
— Un mese, un giorno e un’ora!
— E devi promettermi che per tutto questo tempo non mangerai carni tenere di bambini e di bambine, nè berrai sangue fresco di giovani e di zittelle; non mangerai carne di sorta alcuna.
— Te lo prometto.
— Porterai qui i bambini e le bambine, i giovani e le zittelle, e... e faremo un gran banchetto il di delle nozze.
— Ah! bella! Ah bella! —
L’Orco, enorme, brutto, peloso, faceva così strani movimenti di tutto il corpo per significar tutta la sua gioia, che comare Formica non potè trattenersi dai ridere.
Ma già si avvicinava l’alba, ed egli si affrettava ad andar via per paura, del sole... Ahuiii! Ahuiii!
— Avete sentito, Comare Formica, che urli questa notte?
— Non ho sentito niente; ho il sonno duro. Molti ragazzi si erano radunati attorno a lei... (Pag. 14)
— E il marito, comare Formica?
— Prima devo ringiovanire.
— Sempre allegra, nonostante i guai!
Insomma con quella comare Formica non ci si capiva nulla. Le volevano bene; era buona, non dava noia a nessuno: ma avrebbero pagato chi sa che cosa per penetrare il mistero che la circondava. Invecchiava — il tempo passava anche per lei — e lei parlava di ringiovanire!
E la notte dopo, — Ahuiii! Ahuiii! — ecco l’Orco con tre bambini e tre bambine, un giovane e una zittella.
— Ingrassali bene con latte e riso; da qui a un mese saranno un boccone da Re.
— Mi son dimenticata il meglio: per regalo di nozze devi portarmi una conocchia di argento e un fuso di oro; più un agoraio di oro e un ago di argento; più un telaio di argento e una spola di oro.
— Vado e torno subito. —
E in men che non si dica — Ahuiii! Ahuüi! — le riportava i regali di nozze richiesti.
Nella giornata le vicine si stupirono vedendo comare Formica che filava davanti al portone del palazzo, come una volta.
— Oh la bella rócca! Oh il bel fuso!
— Cosine da niente, comari mie!
Più tardi:
— Oh il bell’agoraio! Oh la bella spola!
— Cosine da niente, comari mie!
— Ci avete gente in casa? Ridono, fanno il chiasso...
— Chi vuole un bel bambino o una bella bambina, glieli regalo.
— Bocche che mangiano non ne prende nessuno. Sempre allegra, comare Formica!
Come? regalava anche dei bambini? Ora se ne capiva meno di prima! Avrebbero pagato chi sa che cosa per penetrare il mistero che la circondava.
La mattina dopo, comare Formica filava davanti al portone e cantava:
— Fuso mio, gira e trotta...
Molti ragazzi si erano radunati attorno a lei, con la bocca aperta di ammirazione per la bella rócca di argento e il bel fuso d’oro.
— Comare Formica, perchè non ci raccontate una fiaba?
— Se state cheti, ve la racconterò.
— Come l’olio, comare Formica.
Dunque... C’era una volta una Reginotta, vanitosa, superbiosa, disubbidiente, gelosa, cattiva che era la disperazione della nonna. Non voleva far niente.
— Non voglio sciuparmi le mani!
— Se non ti emenderai verrà l’Orco e t’inghiottirà in un boccone.
— Ben venga l’Orco; quando sarò cresciuta me lo prenderò per marito!
La nonna era una maga, di quelle però che fanno opere buone; e per virtù di filtri e d’incanti la trasformò in maniera che l’Orco non potesse riconoscerla. L’Orco aveva appreso le parole di quella sventata, ed era contentissimo di sposare una bella Reginotta, e la cercava per mare e per terra.
— È finita?
— Per oggi è finita. —
La mattina dopo, comare Formica cuciva davanti al portone:
— Gugliata, gugliatina... —
e i ragazzi si erano di nuovo radunati attorno a lei, con la bocca aperta di ammirazione pel bel ditale d’oro e per il bell’ago di argento.
— E la fiaba lasciata in asso, comare Formica?
— La riprenderò, se state cheti.
— Come l’olio, comare Formica.
— Dunque... Dove eravamo rimasti? Ah! Che l’Orco contentissimo di sposare una bella reginotta, la cercava per mare e per terra e non riesciva a trovarla. La nonna voleva, sì, gastigare la cattiva nepotina e ridurla buona, e a questo fine ne aveva fatta una vecchina, l’aveva mandata in un paese lontano, dove nessuno la conosceva, lusingandosi che l’Orco non l’avrebbe trovata. E siccome pel termine del giusto castigo mancavano pochi mesi, così la nonna gli aveva preparato un magnifico regalo...
— Quale regalo, comare Formica?
— Ve lo dirò un’altra volta. —
La mattina dopo, comare Formica era dentro il portone col bel telaio di argento e la bella spola d’oro e tesseva:
— Vola, spolina mia, vola, spolina! —
e i ragazzi, figuriamoci se si erano di nuovo radunati attorno a lei con la bocca aperta di ammirazione pel bel telaio di argento e per la bella spola di oro.
— E la fine della fiaba, comare Formica?
— La mia fiaba non ha fine. Dunque... Dove eravamo rimasti? Ah! Al magnifico regalo della nonna. Ma appunto fu quello che fece scoprire la reginotta all’Orco... E dovrà forse sposarlo....
— No! No! Non glielo fate sposare, comare Formica!
— Le fiabe sono come sono, e non si possono mutare. —
I bambini si misero a strillare, e piangendo:
— No! no! Non glielo fate sposare, comare Formica! —
I bambini strillavano e piangevano e le loro mamme ridevano.
— Fàteli contenti, comare Formica!
— Le fiabe sono come sono e non si possono mutare. Intanto, se mi volete bene, dovete ogni notte far guardia al mio palazzo... E quando sentirete avvicinare... il ventaccio — Ahuiii! Ahuiii! — prendetevi per le mani, da una cantonata all’altra senza lasciarvi un istante... E allora i bambini saranno contenti: non farò più sposare l’Orco con la Reginotta,
Comare Formica diventava più misteriosa di giorno in giorno; di giorno in giorno se ne capiva men di prima. Le vicine avrebbero pagato chi sa che cosa per sapere chi veramente fosse. Una, la più vecchia, disse:
— Volete scommettere che la Reginotta vanitosa, superbiosa, disubbidiente, gelosa, disperazione della nonna, era lei?
— Ma che! Ma che! Una vecchina che per tanti anni ha lavorato da mattina a sera, ha mangiato pane e cacio o pane e cipolla, e ha bevuto soltanto acqua pura! Non può essere! Non può essere!
— Stiamo a vedere!
E da parecchie notti, poverine, facevano la guardia al palazzo di comare Formica, prese per mano da mezzanotte all’alba. E ogni notte udivano da lontano il... ventaccio, come aveva detto comare Formica che soffiava: — Ahuiii! Ahuiii! — e non osava di avvicinarsi.
Nessuno capiva quell’: Ahuiii! Ahuiii! Soltanto comare Formica, invece di quel grido, sentiva:
— Rendimi almeno i bambini e le bambine! È un mese che non mangio carne cristiana, e non ne posso più! Rendimi almeno il giovane e la zittella, è un mese che non bevo sangue cristiano e non ne posso più. Ahuiii! Ahuiii! —
Erano passati un mese e un giorno: restava un’ora.
E appunto prima che finisse quell’ora le vicine videro compirsi un portento. Mentre parlava con loro e rideva e le faceva ridere col buon umore di una volta, tutt’a un tratto, comare Formica cominciò a raccorciarsi, a raccorciarsi, a coprirsi di grinze, quasi la pelle dovesse staccarsi dal corpo, e uscirne fuori qualche altra persona. Le stavano attorno atterrite, senza aver animo di soccorrerla, incapaci di gridare, quando, ecco, le vesti e la pelle di comare Formica si squarciarono e ne usciva una bellissima giovanetta, bionda, con occhi celesti, sorridente, che sembrava essersi destata allora allora da lunghissimo sonno. E aveva nell’aspetto e nei modi tanta dolcezza, tanta bontà, tanta modestia, da allontanare ogni sospetto che la reginotta vanitosa, superbiosa, disubbidiente, cattiva, gelosa, disperazione della nonna, fosse stata proprio lei, come aveva detto quella vecchia, e che il gastigo l’avesse cambiata.
— Era o non era dunque? —
La fiaba non lo chiarisce e si arresta qui.
Se poi volete saperne di più, mettetevi la via tra le gambe, andate nel paese dove comare Formica si fece fabbricare il bel palazzo di cui forse rimane qualche vestigio, se pure il vento, che allora apportò sassi, rena e calcina e acqua, non l’ha, dopo tanto tempo, spazzato via. Ma forse fareste inutilmente questo viaggio... E poi, bambini miei, non è bene essere eccessivamente curiosi.
Larga la via, stretta la foglia
E siam rimasti tutti con la voglia.