Antico sempre nuovo/Il latino nelle scuole

Il latino nelle scuole

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Relazioni sull'insegnamento del latino nella scuola media Pensieri scolastici
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IL LATINO NELLE SCUOLE1


Io non so di pedagogia. Nessuna cosa so molto, poche so un poco, molte non troppo: la pedagogia, punto. O come parlare e scrivere di pedagogia, se non si sa? Ecco: pare che sommi capitani abbiano vinte grandi battaglie senza sapere l’arte della guerra: può darsi che alcuno abbia fatto e faccia belle lezioni, senza sapere l’arte della scuola. Sta bene; ma io non voglio mica provare con gli scrittarelli che pubblicherò in questa Rivista che lezioni belle ho fatte e farò. No: voglio mostrare che si può insegnare qualche cosa, senza aver l’aria d’insegnare; e che questa cosa può essere creduta noiosa, e non annoiare. Il fine d’una buona pedagogia dicono non sia altro che questo. Ora altri veda se senza pedagogia si può in parte raggiungere il suo fine. Perchè io scrivo qualche esercizio, qualche frammento di lezione, fatti veramente con alunni e avanti alunni di Liceo, e li scrivo nella forma presso a poco nella quale li feci e dissi o avrei voluto farli e dirli. Sono intorno alla lingua e letteratura latina, due di quelle poche cose che so un poco. E poi si [p. 24 modifica]agitano molte e grandi questioni intorno ad esse, e spero di qualcuna mostrare come si possa risolvere. Gli esercizi e frammenti non penso ora a disporre con un certo ordine. Li disporrò poi, se parrà che meritino. [p. 25 modifica]

I.


Un esercizio di prosodia e metrica.

Figliuoli: è il 21 aprile, oggi. Come si dice in latino? Ante diem XI Kalendas Maias. Voi sapete perchè e come; e non sto a ripeterlo. Nella Tabula Fastorum questo giorno è segnato G. Par. NP Quella prima lettera che è la settima dell1 alfabeto, indica il settimo giorno della... stavo per dire, Settimana, del Calendario Romano. Ma l’anno Romano, oltre la divisione in mesi, aveva una divisione in nundinae che erano di 8 giorni e non di 7, indicati con A B C D E F G H. O meglio nundinae erano i primi giorni di questo ciclo, i giorni segnati A. Nundinae erano i giorni di mercato, nei quali i pastori schiavi venivano in città a vendere qualche agnello per i sacrifizi e qualche forma di cacio, per farsi il peculium, pagarlo ai loro padroni ed essere liberi. Ricordate Titiro? Ma egli i suoi sesterzi li sciupava poi tutti. Erano i giorni in cui venivano alla città i campagnuoli col loro somarello a vendere olio d’oliva e pomi cascherecci o altro, il di più del loro raccolto, per comprare o una pietra da macinare il grano, o la pece per impeciare le botti e dare forte sapore al mosto. Ricordate? [p. 26 modifica]

     Saepe oleo tardi costas agitator aselli
     Vilibus aut onerat pomis, lapidemque revertens
     Incusum aut atrae massam picis urbe reportat.

Così Virgilio in Georg. I 273. Virgilio dice che il contadino può far ciò nei giorni di festa. Ora le nundinae erano di quei giorni che si chiamavano nefasti, nei quali era vietato al Pretore di dire le tre solenni parole: do, dico, addico. Erano nefasti, perchè non solo si teneva il mercato, ma si adunava la plebe coi suoi tribuni, e si aveva rispetto a interrompere gli uni e l’altro ne’ loro concilii. Col tempo però intervenne la lex Hortensia, che fece sì che potessero anche essere dies fasti, perchè i contadini che venivano in città e avevano, oltre qualche corbello di mele da vendere, anche qualche lite da comporre, potessero trovare chi rendesse loro ragione. Ma basti delle nundinae... a proposito la parola è una riduzione da novemdinae, ossia non proprio da novem, ma da una forma neun... lasciamola lì: la glottologia la imparerete all’Università. C’è insomma in nundinae il numero «nove». Credetemi sulla parola. O come «nove», se il ciclo era d’«otto»? Ebbene contate: A B C D E F G H; più le nuove nundinae, A. Non sono nove? perchè, alla Romana, si conta anche il giorno a cui si arriva. Cose vecchie. Le sa anche il filius Albini: non è vero? Andiamo avanti. Che segno è quel NP, quell’N innestato con un P? Notiamo che il P in altra Tabula Fastorum è F, e questa lettera pare che stia bene. Ecco: F indicava dies fastus, N dies nefastus, NP o NF non si sa bene: certo valeva giorno di festa, onde la spiegazione migliore sembra nefastus, perchè il pretore non rendeva ragione, festus o [p. 27 modifica]feriatus però, perchè non era giorno malauguroso, ma lieto e festivo. E tale era il 21 d’Aprile, a quei tempi. Poichè par. significa appunto parilia, la festa di Pales, dea dei pastori.

In questo giorno il popolo romano si purificava, andando al Tempio di Vesta, a prendere il suffimen preparato dalle Vestali, di sangue di cavallo, di cenere di vitellino non ancor nato, e di baccelli vuoti e secchi. E i pastori al primo crepuscolo purificavano il gregge, spruzzandolo d’acqua, spazzando con una frasca il suolo, adornando di festoni gli ovili, bruciando solfo che dava alle narici delle pecore, le quali belavano. Nel focolare scoppiettavano erbe montanine e lauro e incenso, e si offriva a Pales una focaccia di miglio; e oltre le vivande consuete, un secchio di latte appena munto e si pregava la dea... Quelle preghiere, così piene di poesia pastorale e campestre, voi le sapete: le leggeste, sono tre anni, in Ovidio, con quel vecchio professore che vi pareva così pedante ed era così bravo. La preghiera si doveva recitare quattro volte, bagnando le mani di acqua sorgiva, e poi si doveva bere in una ciotola, camella, in memoria dell’antica semplicità, latte e sapa, e saltare attraverso mucchi di stoppia accesa, come sono i «marzi» tra noi. Abbiamo anche noi feste altrettanto soavi e placide, tutte fiori, tutte fronze, tutte incenso, con la piccola mensa imbandita di vivande che si mangiano solo quel giorno, feste che hanno nella notte un seguito di suoni, canti e balli, con fuochi accesi via via per la campagna; feste di santi particolarmente benefici, feste della Vergine, così belle a vedere da fanciulli, così dolci a ricordare da grandi. Ora sapete con qual [p. 28 modifica]altro nome si chiamava la dea de’ pastori, che inspirava ai Romani così semplici e miti usanze festive? Si chiamava la Dea Roma.

Ripensate le ferree legioni di Roma, i cui campi di battaglia si trovano in tutto il mondo antico, i cui castra son città sparse per le più fiorenti nazioni del giorno d’oggi, legioni che diffusero la lingua latina in tutto occidente e la lasciarono, eterno monumento di gloria e di civiltà, anche sulle rive del Danubio; ripensate le grandi battaglie di Roma (migliaia d’uomini che si accoltellano con urla selvaggie mescolate spesso al barrire degli elefanti); Canne, in cui morirono quarantasettemila e settecento Romani; Campi Raudii, in cui caddero centoquarantamila Cimbri; rappresentatevi al pensiero le sue strade, i suoi acquedotti, i suoi fori, i Suoi templi, i suoi anfiteatri; il Colosseo sonante di ruggiti e miagolii di leoni, pantere, tigri; il Colosseo con centinaia di gladiatori che si uccidevano con arte tra migliaia e migliaia d’occhi cupidi e di pollici rovesciati; ricordate quei consoli, quei dittatori, quegli imperatori; considerate insomma tutta quella storia che, quercia eterna, mette ancora rampolli vigorosi, poichè la terza Italia è rampollo di Roma; e poi ricordate quelle camellae di latte, quei liba di miglio, quei fuochi di strame... Ecco: io non so qual poeta possa mai rendere adeguatamente un tale contrasto. I cittadini Romani, dopo le grandi guerre esterne e civili, in presenza di tanti trofei, archi, edifici, in questo giorno XI Kal. Maias pensavano a quando il Palatino era una macchia e nel Foro mugghiavano gli armenti e belavano i greggi. Pensavano a Romolo, che segnava con l’aratro il [p. 29 modifica] limite della nuova Urbe, che doveva poi allargarsi e contenere l’Orbe. Questo leggendario Romolo poteva allora imaginare l’avvenire della sua Roma Quadrata?

Ricordo un sonetto non bello, come sentirete, che con pochi tratti mi pare che raffiguri bene quel primo giorno di Roma, come ci apparisce nella fantasia. Una sera tranquilla d’Aprile: il solco è finito: intorno una gran pace... ma ecco il sonetto che potete trascrivere in memoria di questo giorno:

L’aratro è fermo: il toro, d’arar sazio,
     leva il fumido muso ad una branca
     d’olmo; la vacca mugge a lungo, stanca,
     e n’echeggia il frondifero Palazio.
Una mano sull’asta, una sull’anca
     del toro, l’arator guarda lo spazio:
     sotto lui, verde acquitrinoso il Lazio;
     là, sul monte, una lunga breccia bianca.
È Alba. Passa l’Albula tranquilla,
     sì che ognun ode un picchio che percuote
     nell’Argileto l’acero sonoro.
Sopra il Tarpeio un bosco al sole brilla,
     come un incendio. Scende a larghe ruote
     l’aquila nera in un polverio d’oro.


Non è un bel sonetto, ripeto; ma quello che ad alcuni potrebbe in esso spiacere, a me confesso che piace: la parsimonia e la semplicità. Il poeta, chi che egli sia, non è un gran poeta; tuttavia non s’impanca a dir tutto, a dichiarar tutto, a spiegar tutto, come un cicerone che parlasse in versi; ma lascia Che il lettore pensi e trovi da sè, dopo avergli messo innanzi quanto basta a capire. Per esprimere il silenzio che domina dopo il fatto che egli imagina paresse più grave dei soliti e simili, dice che s’udiva [p. 30 modifica]il martellare d’un picchio. E il lettore deve aggiungere di suo: Non è esso l’uccello, che simboleggiava Picus, il padre di Fauno, il figlio di Saturno, il dio del vaticinio? Un’aquila rotea nel cielo piena di pulviscolo luminoso, sul colle Tarpeio. S’intende che è un tratto pittoresco; ma il lettore pensa al Campidoglio, alle legioni, alla gloria di Roma. Non vi pare?

Io vi dico che a me piacerebbe sentirlo, in latino, in versi; vorrei sentire che effetto può fare. Perchè è una gran riprova, il latino, delle nostre capestrerie moderne, che hanno spesso più aggettivi che senso comune, e una sonorità e un barbaglio confusi, che non permettono di intendere le parole e di distinguere le imagini; sì che alle volte lodiamo e ripetiamo ammirati ciò che non abbiamo compreso e non comprendiamo. Mettendo in latino la rumorosa e luccicante poesia, ci avvedremmo subito che abbiamo ammirato un ammasso di contradizioni, di insensataggini, di vacuità: perchè la lingua di Roma non vuole essere adoperata a vuoto. Proviamoci con questo sonetto, cari ragazzi; cioè provatevi e avrete un ricordo del dies natalis dell’Urbe... Che cosa dite? Non sapete?! No: voi credete di non sapere; ma io vi dimostrerò che sapete. La quantità delle terminazioni non le ignorate; certe regole elementari di prosodia, vocale avanti vocale, vocale avanti due o più consonanti, vocale avanti muta e liquida, la sinalèfe, l’ectlipsi: ne avete pieno l’orecchio. Come è fatto l’esametro, almeno di grosso, tutti sanno. E che ci vuol altro? Solamente il sonetto è un po’ stringato, e se lo voleste rendere parola per parola, vi verrebbero troppi accavallamenti, che [p. 31 modifica]stanno bene sì, ma di quando in quando. Poi il sostantivo ne’ poeti latini voi vedete che è quasi sempre accompagnato da un aggettivo, e questo è separato da quello mediante qualche parola, sì che l’idea è come disseminata nel verso e il verso non si capisce a parte a parte, ma nel suo tutto, dopo finito di leggere. Io vi consiglierei a proporvi di rendere ogni verso con un verso... Ridete? vi pare un esercizio indegno di voi, di giovani de’ nostri tempi, de’ nostri licei, fatto solo per i seminari? In verità vi dico che questo esercizio che molti valentuomini disprezzano, era ed è utilissimo per imparare il latino. Se non altro, per eseguirlo, bisogna avere nella memoria tanti luoghi di poeti. Se non altro, insegna, quando si faccia spesso, la pronunzia del latino. Direste di sapere l’inglese, se, per esempio new lo pronunziaste nev o neu? Ora quest’esercizio, oltre a insegnarvi dove è l’accento delle singole parole, vi impratichisce sul suono delle vocali accentate, specialmente o ed e; vi dice, p. es., che Roma si pronunzia «Róma» come in italiano, illorum, con l’o stretto come nell’italiano «lóro» e bonus, con l’o largo come «bòno o buono» e così cena con l’e stretta e bene con l’e larga. Come al contrario il suono che hanno dette vocali accentate nell’italiano, anzi toscano, anzi fiorentino, vi può dire quasi sempre se sono brevi o lunghe in latino; e le eccezioni vi presentano sempre dei problemi, curiosi a porre, facili a risolvere, con rivelazioni inattese e profonde della vita del pensiero e delle leggi della lingua. Ma no: voi non avete sorriso per questo: il vostro era il sorriso di chi vorrebbe [p. 32 modifica]contentare altrui e non può. Via: stimatevi un poco più, e cominciamo:

L’aratro è fermo: constitit aratrum, o se volete presentare l’azione proprio nel momento che avviene, consistit aratrum. Voi ci sentite già la cadenza dell’esametro. Ma è poi giusta? quali delle sillabe di quelle due parole vi lasciano incerti? forse stit di consistit? No: le terminazioni in t sono sempre brevi. Sempre? presso tutti? Nei più antichi, si guarda alla quantità originaria della vocale avanti il t (ciò nelle coniugazioni); e cosi avete esset spondeo in Ennio. Ne’ poeti del buon secolo si trova spesso il ricordo di tale uso. L’a iniziale di aratrum?

chi sa la quantità dell’a di aro? chi ricorda qualche verso, dal quale si veda tale quantità?

Nudus ara, sere nudus: hiemps ignava colono.

Che vuol dire: «ara e semina quando non è ancor tempo d’indossare sulla tunica, il cento, mantello o schiavina ricucita da vecchi scàmpoli e pezze».

L’a di aratrum è dunque breve; e la cadenza dell’esametro è perfetta. Ma si comincia dalla fine? ecco: in vero, bisogna prima assicurarsi della fine, in cui, come sapete, l’accento grammaticale coincide quasi sempre con l’accento ritmico. Nel nostro proposito poi, vi ho detto che dovete rispondere all’italiano, verso per verso. Ora proviamoci a tradurre il resto del primo e il secondo verso: il bove d’arar sazio, Leva il fumido muso ad una branca D’olmo: taurus defessus arando ad ulmi frondem tollit fumantem rictum. Potete togliere arando che si sottintende facilmente, potete dire ad ulmum meglio che ad ulmi frondem. E resterebbe: taurus defessus [p. 33 modifica]ad ulmum tollit fumantem rictum. Vedete subito di avere 15 sillabe. L’esametro può essere al minimo di 12 sillabe, se ha tutte lunghe, come il verso d’Ennio

Olli respondit rex Albai Longai,

e al massimo di 17, come un altro d’Ennio:

Labitur uncta carina: volat super impetus undas.

Da questa duttilità si ricavano molti effetti dai poeti latini, come dai nostri con la mancanza o abbondanza delle elisioni. Confrontate i versi di Dante:

E caddi come corpo morto cade
Come per acqua cupa cosa grave
e questo del Foscolo:
Rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.

Ma ritorniamo al nostro tema: di 15 sillabe possiamo foggiare comodamente un verso, e tutto al più, se tra esso abbondano le lunghe, tenere una parola per accavallarla al verso seguente. Vi dico subito quale mi piacerebbe fosse: taurus; perchè è la più significativa, e così sospeso e in fine alla proposizione, mi pare che dimostri la sua importanza. Ora esaminate le parole che avanzano. Di quali sillabe ignorate la quantità? delle terminazioni nominali la sapete. Di quali dunque?... La prima di defessus, la prima di fumantem. Male! Voi sapete che de preposizione, come e e come i pronomi monosillabi me te se, è lunga: dunque anche in [p. 34 modifica]defessus composto di de e fessus, sarà lunga. L’u di fumantem? Ditemi il nome, onde deriva il verbo: fumus. In italiano? «fumo». Quando u tonico in una sillaba aperta, resta u nella parola italiana è, per lo più, lungo. Di eccezione, e apparente, ve n’è una, ch’io sappia: «pomice» da pumex. C’è poi «lo dolce lome» di Dante. Ma voi sapete che pensarne. Dunque u di fumantem è lungo. Via! fate il verso: Defessus rictum fumantem tollit ad ulmum. Il verso torna; non mi finisce però. Le due parole defessus e fumantem si possono scambiare a piacere. Sostituite alla prima delle parole molossiche (— — — ) una coriambica (— ⏑⏑— ) o alla seconda una ionica a minori (⏑⏑— — ) e vedrete che lo scambio non può più farsi. Possiamo dunque dire, lasciando l’idea di stanchezza, e prendendo l’idea del colore del toro, che aveva a essere bianco, tum niveus invece di defessus, come a fumantem potremmo sostituire niveus tum, e così avremmo: Tum niveus rictum fumantem tollit ad ulmum; oppure: Fumantem rictum niveus tum tollit ad ulmum. Ma neanche così mi finiscono: l’aggettivo è da preferirsi lontano dal suo sostantivo, specialmente quando è un semplice ornamento, e non ha valore concessivo o temporale o condizionale o causale... Facile è tra fumantem e rictum nel secondo tentativo porre niveus e dire: Fumantem niveus rictum tum tollit ad ulmum. Tum tum: brutto. Non piace nemmeno a me: però non è da giudicare sempre dal nostro il gusto dei latini. Ricordate vertice celso di Virgilio? cece, o piuttosto keke. E diecine d’esempi potrei portare. Ma noi togliamo il tumtum, anzi cancelleremo il tum avver[p. 35 modifica]bio, che sembra una zeppa per turare un buco o una fessura nel verso. Diciamo attollit per tollit e avremo una sillaba di più... ahi! allora rictum perde l’ultima. Come si fa? Mettiamo il plurale fumantes (o meglio fumantis da fumanteis) niveus rictus attollit ad ulmum; plurale che si trova spesso, come in Ovidio rictus serpentis apertos, rictus lupi fulmineos, e via dicendo. Così avremo rimediato a un’altra cosa che mi dava noia. Temevo che qualcuno avesse a ritradurre: «alza il muso a un olmo fumante». È vero che di queste anfibolie se ne trovano molte nei classici, perchè i classici non ci badavano quando elle erano così facili a sciogliersi, come quelli che intendevano di scrivere per la gente «di buon senso» e non per quelle «di senso comune»: ma tant’è: ho piacere d’averla tolta.

Ma noi abbiamo fatto il secondo verso, e il primo è ancora da finire o, meglio, da cominciare. Vedete: i latini non solevano cominciare nascondendo il soggetto a bella posta, come noi moderni facciamo per stuzzicare la curiosità del lettore che si domanda per un pezzo: O che dice egli? di chi parla? come andrà a finire? Quindi io avanti a consistit aratrum porrei qualcosa che spiegasse perchè l’aratro s’era fermato. S’era fermato: perchè? non perchè fossero morti i bovi o per altro accidente, ma perchè l’opera, il solco, era finito. E il solco come era? quadrato, ossia erano quattro solchi che finivano con unirsi. Potremmo dire: coeunt quattuor sulci, o coeunt sulci senz’altro, o meglio in quadrum coeunt sulci. Vedete: in quadrum coeunt sulci è proprio il principio del verso di cui consistit aratrum è la fine: [p. 36 modifica]

In quadrum coeunt sulci: consistit aratrum:
Fumantis niveus rictus attollit ad ulmum:
Taurus.

Voi dite... Adagio, cari ragazzi: voi dite che so a mente la traduzione latina del sonetto. Potrebbe essere: ma potrebbe anche non essere. Non mi sarebbe difficile farlo anche così all’improvviso. Davvero? Oh! sì, e v’insegno subito il segreto semplicissimo.

Voi ricordate, un poco, i nomi dei piedi, o di complessi di piedi, nomi che vi facevano tanto ridere, quando quel povero vecchio di professore che dicevate pedante e che era tanto buono, voleva farveli imparare a mente? Oh! non aveva torto; chè è meglio intendersi con una parola sola per quanto stramba, che con molte. Vi ricordate il bacchio, il palimbacchio o rodio, l’alato pirrichio, il pesante molosso? No. Pazienza: ricorriamo ad altro. Le parole latine che vi si presentano alla mente, quando traducete le italiane, per farne un esametro (parliamo ora dell’esametro soltanto), sono di una o due o tre o quattro o cinque o più ancora sillabe. Ebbene: le parole monosillabe siano esse brevi o lunghe possono entrare nel metro dattilico; se sono brevi (salva l’elisione, come per le lunghe) ricordatevi di provvedere loro, continuando a tradurre, una parola che abbia una breve iniziale. Le parole disillabe possono entrare tutte nel metro detto, costituiscano esse uno spondeo, un giambo, un trocheo, un pirrichio (queste denominazioni le avete presenti): ma ricordatevi nel seguito della versione, di fornire un trocheo al giambo, un giambo al trocheo, una lunga al pirrichio. Le parole trisillabe... [p. 37 modifica]oh! queste non possono tutte essere adoperate: scartate inesorabilmente le parole che hanno una lunga al principio e alla fine e la breve in mezzo. È vero che una parola simile può perdere l’ultima lunga, se è in vocale, elidendola avanti vocale breve; ma è cosa rara. Quest’ultima regola valga per le parole di più di tre sillabe: una parola che abbia una breve tra due lunghe non fa per voi. E le parole di tre brevi? anche queste sono da gettar via, se non si può elidere o allungar l’ultima. E così delle parole di più di tre sillabe, evitate quelle che hanno tre o più brevi di fila. Ecco tutto.

Ma continuate la traduzione: la vacca mugge a lungo, stanca: vacca o iuvenca o bucula mugit oppure longos edit, dat, tollit mugitus, lassa. In questo verso è già Taurus, trocheo che ha bisogno o d’una parola che sia una breve o cominci con breve e abbia la vocale in principio; o d’una parola che abbia in principio una consonante, per allungar la sua finale. Nessuna tra le nostre parole comincia in vocale breve: in vocale comincia edit, ma l’e è lunga, è la prep. e. Ricorriamo al secondo modo. Taurus: vacca... trovate un giambo tra le rimanenti parole. Mugit?? Ah! figlio d’Albino: mugit «mugge»: l’u è lungo. Insomma non c’è. Poniamo Taurus: lassa iuvenca (iu è sillaba breve, perchè è breve, ad es., in iuvenis «giovane»). E la cesura? la cesura in arsi? I versi come

Labitur uncta carina: volat super impetus undas,

sono rari e non si fanno che per significare l’abbrivo e lo sdrucciolo, come il magnifico Virgiliano: [p. 38 modifica]

Fertur equis auriga, neque audit currus habenas.

E qui non è il caso davvero. E poi dove è la parola giambica come volat, o la monosillabica breve come neque (il que si elide)? Via via: non ci sono parole che bastino. Vediamo: il poeta italiano ha tralasciato un’idea, lasciandola indovinare al lettore; e questa idea sarebbe meglio esprimerla in latino: il toro è la vacca sono «sotto il medesimo giogo», come augurio di fecondità al popolo e di incremento alla città! Esprimiamola dunque in latino: sotto il medesimo giogo: sub eodem iugo. Sono parole che possono entrare in un esametro? Sub è monosillabo breve: vuole una parola cominciante in vocale breve: eodem. E iugo? iugo è un giambo: iugum «giogo». Dunque iu è breve e iugo è giambo. Ebbene, vi ha un trocheo tra le altre parole? Sì: lassa. E la fine del verso? Guardate tra le altre parole se v’è un dattilo o uno spondeo. Queste altre parole sono mugit, che è trocheo e può andare benissimo in fondo al verso, e vacca o iuvenca o bucula. Quest’ultima? bu è lunga o breve? lunga, per contrazione, chè come in nundinae è novem, così in bucula è bovi. Dunque foggiate il verso: Taurus; lassa; ponete il giambo: iugo; ponete le due brevi: sub e - continuate - odem bucula mugit. Ecco il verso:

Taurus; lassa iugo sub eodem bucula mugit.

Avanti. E n’echeggia il frondifero Palazio: et ei resonat (Cicerone ha: gloria virtuti resonat tamquam imago) frondiferum o frondosum o nemorosum Palatium. C’è tra queste parole qualcuna che [p. 39 modifica]non convenga all’esametro? Palatium, che ha i tra due lunghe, se a Palatium facciamo seguire consonante: elidere um sarebbe duro. O allora? non è essa la voce più importante del verso? I latini, come i greci, circoscrivevano spesso: ricordate le formule omeriche, «la forza di Ercole», «la possa di Oceano». In Ennio, nel padre del «verso lungo» latino, è pietas animi per pius, caeli templa per caelum, luminis oras per lumen. Dite anche voi Palati (con un i solo) saxa invece di Palatium. Avremo dunque et ei resonant frondiferi o frondosi o nemorosi saxa Palati. Prima di tutto, et ei è bene sostituirlo con cui, e meglio di cui, sarebbe mugienti. Ma mugienti ha una breve tra due lunghe, dunque via. Però sarebbe elegante riprendere quel mugit' finale d’un verso con parola iniziale d’un altro che venisse dalla medesima fonte. Forse mugitu? Sì: sono tre lunghe, un molosso: uno spondeo, più una lunga. A questa bisogna provvedere o una lunga o due brevi. Frondosi? No: a molosso iniziale non deve seguire altro molosso, perchè farebbero fra tutti e due, tre spondei interi e non si avrebbe cesura. Un’altra: nemorosi? parola ionica a minori: non può seguire al molosso iniziale perchè farebbe con esso tre piedi interi e non ci sarebbe cesura. O un anapesto o uno spondeo, insomma: resonant? Sì: Mugitu resonant. Qui sta bene la parola ionica, nemorosi e poi il resto:

Mugitu resonant nemorosi saxa Palati.

Ora affrettiamoci. Il resto del sonetto rendiamolo, presso a poco, così: Hasta innititur altera (cancellate quest’ultima parola, che ha breve tra due lunghe) [p. 40 modifica]manu (giambo senza trocheo), altera (e non va) palpat terga (trocheo) bovis (giambo se lo fate seguire da lunga) arator et prospectat o prospicit.... lo spazio! Mettete invece il concreto, ciò che Romolo veramente vede, ossia Latium. Verde acquitrinoso: due aggettivi aggiogati: non vanno: fate un’endiadi di sostantivi: Latium et paludes. Penseremo poi agli aggettivi. Avanti: et procul inde longam albam.... No no qui bisogna dir la cosa più pianamente, senza pretendere di fare una sorpresa al lettore, con «È Alba». Diciamo: et procul inde moenia Albae Longae. Albula circum fluit tam lenis, o meglio tam leni cursu o cantu, ut omnes audiant (scartate la parola che ha breve tra due lunghe), ut nemus Argileti referat adstantibus o adstanti, intendendo del solo pensoso aratore, sonitum pici tundentis, la corteccia dell’acero, cioè librum acernum. Collucet Tarpeio vertice silva quernea, qua flammatur sole decedente o, con circoscrizione, decedentis lumine solis. Poi: aquila (tre brevi: circoscriviamo), aquilae forma (ricordate in Virgilio magnorum formas ululare luporum?) descendit nigra, o descendens nigrescit per aurum pulverulentum: oh! qui siamo fuori del latino. Contentiamoci di per auras o tutto al più per liquidum aurum. Un antico capirebbe però che noi intendiamo dire «nel trasparente oro del tramonto»? Dubito. Or via lavorate. A mano a mano vi suggerirò qualche parola, che determini meglio il verso italiano un poco indeterminato, e nel tempo stesso soddisfaccia al gusto latino e compisca l’esametro....

Oh! finalmente: ecco il sonetto cambiato in quattordici versi «lunghi», versi dei nostri padri [p. 41 modifica]da’ grandi capaci polmoni e dalla grande voce sonante:

In quadrum coeunt sulci, consistit aratrum:
Fumantis niveus rictus attollit ad ulmum
Taurus; lassa iugo sub eodem bucula mugit:
Mugitu resonant nemorosi saxa Palati.
Pastorum medius palpat sudantis arator
Terga bovis, puraque ferox innititur hasta,
Dum latium prospectat agrum vitreasque paludes
Et procul inde Albae declivia moenia Longae.
Proxima tam leni circum fluit Albula cantu,
Ut sonitum pici libros tundentis acernos
Adstanti referat sacri nemus Argileti.
Quernea collucet Tarpeio vertice silva,
Qua decedentis flammatur lumine solis,
Atque aquilae liquidum nigrescit forma per aurum.

Andate e portate questo ricordo del Natale di Roma. [p. 42 modifica]

II.


Da una lezione di storia letteraria.2

....Le favole di Fedro le avete portate? tutti? Non tutti; anzi pochi: chi ha smarrito, chi ha bruciato il libretto, chi l’ha, ahimè, venduto! Oh! se io fossi ministro (perchè a poter fare qualcosa di buono in Italia, bisogna essere per lo meno ministri; e qualche volta non basta), se fossi ministro, vorrei imporre che gli alunni, prima di dare certi esami, fornissero la prova di possedere la loro piccola biblioteca: biblioteca composta almeno almeno di tutti i libri di testo comprati e studiati sino a quel giorno. Perchè gettare, sperperare, distruggere codesti cari ricordi d’un tempo migliore? Sì: migliore; perchè, sapete, la felicità noi l’abbiamo sempre alle spalle e la cerchiamo sempre di faccia. Un segno, uno sgorbio, una parola, una figurina nel margine d’un libro sgualcito ha spesso la virtù di far rivivere in noi pensieri e sentimenti che sarebbe gran danno fossero in noi veramente morti. Ma, a parte questo: per parlare solo del latino, rileggere ora che siete grandi, i libri letti da piccoli nelle prime [p. 43 modifica]classi, vi darebbe la fede di non avere, come in fondo in fondo voi credete, sciupato il tempo che avete messo negli studi classici; chè non solo ora leggereste e comprendereste quegli autori agevolmente, ciò che non vi riusciva allora; ma ne gustereste la precisione, la eleganza, la forza, ciò che non vi passava nemmeno per la mente. E poi scoprireste da voi le leggi della sintassi e dello stile; e poi avreste vivi e intelligibili gli esempi dei giudizi, che leggete nella storia letteraria; e poi.... tante altre cose. Ma insomma il libretto della seconda ginnasiale non lo ha più quasi nessuno, e io devo fare alla meglio, perchè tutti possiate seguirmi in questa leggiera trattazione delle favole in Fedro, liberto d’Augusto. Vi reciterò a quando a quando la traduzione metrica (in endecasillabi sdruccioli che corrispondono, per chi sappia leggerli, ai senari) che ne feci molti anni sono per ozio. — Sentite il prologo del libro primo:

Quella ch’Esopo ritrovò materia
     greggia, ho rilavorata in versi giambici.
     Ha due pregi il libretto: un, che fa ridere,
     poi, che ti dà consigli utili al vivere.
     Che se qualche saccente mi dà biasimo,
     ch’oltre le bestie, parlino anche gli alberi,
     sappia che in fin si scherza e che son favole.

Dove sono le favole, in cui parlano anche gli alberi? Non vi sono, nè nel primo, nè negli altri quattro libri. L’opera di Fedro dunque non ci è giunta intera. Vedete infatti: il primo libro contiene 31 favola, il quarto 24, il terzo 19; mentre il quinto ne ha 10 e il secondo 8 sole. Poi nel quarto e nel quinto libro sono lacune evidenti. Ora ripensate a ciò che [p. 44 modifica]Fedro stesso dice nel Prologo del libro terzo (v. 33-50):

Due parole a chiarirti a che la favola
     fu ritrovata. Fu lo schiavo, il povero
     schiavo impotente: non osando esprimere
     il suo pensiero, lo velò con simili
     frasche, e così fu d’ogni noia libero.
     Io, quanto a me, di quella sua viottola,
     feci una strada, fantasie mettendovi.
     di mio cervello ahimè! per mia disgrazia,
     Che se l’accusa, i testimoni, il giudice
     al sol Seiano non si riducevano,
     io dicea: Ben mi sta, nè volea mettere
     pannicelli alla piaga che mi brucia.
     Oh! se ciò ch’è per tutti, un se l’appropria,
     stolto, per un sospetto ch’ha nell’anima,
     diremo i lupi avanti il gridar fuggono.
     E pure anche quel tale io voglio m’abbia
     per iscusato, chè non m’è nell’animo
     di bollar questo e quello, ma degli uomini
     vita e costumi in genere descrivere.

Dove sono le favole che Fedro inventò in calamitatem suam e che dovevano pungere Seiano?

Esistono alcune raccolte di favole in prosa, conosciute sotto il nome di Romulus, dal nome pseudonimo del raccoglitore e riduttore. Poichè quelle favole sono per gran parte riduzioni in prosa dei versi di Fedro. Ma in prosa molte sono ancora che non si trovano in versi, le quali si può arguire che fossero pure di Fedro e a noi non pervenissero nella loro veste originaria. Tra queste ultime si legge la seguente, dove appunto parlano alberi. La tradussi dalla verseggiatura, di cui rivestirono dette favole il Gude e il Burman:

          Chi soccorre i nemici, alfin ci scapita.
     Un tal che aveva la bipenne, agli alberi

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     disse: Di legno or ci vorrebbe il manico,
     e saldo. L’oleastro, essi rispondono,
     è il fatto tuo. Prese egli il dono e, il manico
     adattando alla scure, eccolo all’opera.
     Or mentre sceglie gli alberi da fendere,
     la Quercia, è fama, così disse al Frassino:
     Noi s’ha, fratello, quello che si merita!

Bene: questa favola, in cui parlano alberi, può anche essere di quelle che Fedro compose — per sua disgrazia. — Su che punto, infatti, il liberto d’Augusto avrebbe assalito Seiano? Sul punto, pare verosimile, per il quale Seiano era più fieramente biasimato dall’universale: sull’odio alla casa di Òer manico e sull’ambizioso tentativo di succedere a Tiberio. Leggete a questo proposito il libro quarto degli Annali di Tacito . Ne apprenderete come Seiano prima amasse o fingesse d’amare Livilla, moglie di Druso figlio di Tiberio, poi la liberasse dal marito con un lento veleno, per aprirsi la via alle nozze con lei e al principato. Nell’appendice Burmanniana si legge questa favola:

Una lumaca s’invaghì d’un lucido
     specchio, che avea trovato, ed, attaccatasi
     a lui, si pose adagio a scombavarselo.
     Nulla fare credea di più amorevole
     a quella luce, che di macchie offenderla.
     Come una scimmia poi lo vide sudicio,
     Oh!, disse: tale disonor si merita
     chi si concesse a tale vituperio.
Per le donne che a stolti si congiungono,
     a sciagurati, è scritta questa favola.

Di tali donne non era appunto Livilla? Livilla che ben poteva paragonarsi a una lucida spera, poichè formae initio aetatis indecorae, mox pulcritudine praecellebat. Ma torniamo a noi. [p. 46 modifica]

Seiano, sbarazzatosi di Druso, si volse contro i figli e la vedova di Germanico. Ora la favola degli alberi potrebbe ben riferirsi a ciò che narra Tacito nel cap. 60 del libro detto: qui (Seianus) fratrem quoque Neronis (il maggior figlio di Germanico) Drusum traxit in partes, spe obiecta principis loci, si priorem aetate et iam labefac tum demovisset. L’allusione politica non potè essere causa che l’unica favola, in cui parlavano alberi, fosse stralciata dalle rimanenti? E questa congettura non ne può suggerire altre molte su questo Phaedrus Augusti libertus, che scampò dalle mani di Seiano, dalle quali non scampò nè Druso, il figlio di Tiberio, nè Nerone e Druso, i figli di Germanico, nè Agrippina, la vedova? Si confrontino i due versi di Fedro nel Prologo del libro terzo,

          Quod si accusator alius Seiano foret,
          si testis alius, iudex alius denique,

con questo luogo di Tacito (l. c. 59) adsimulabatque (Seianus) iudicis partes adversus Germanici stirpem, subditis qui accusatorum nomina sustinerent.... Col buon favolista, nato nella Pieria, Seiano adoperare le stesse arti che col giovine Nerone? e in vano? Non pare verosimile. Verosimile sì pare che il Prologo alluda al fatto proprio raccontato poi da Tacito. O come? ecco: gli scrittori clandestini di satire abbondavano a quei tempi. Per non dire altro, quando Tiberio accusò con sua lettera al Senato Agrippina e Nerone (la vedova e il figlio di Germanico, intendiamoci!), ferebantur etiam sub nominibus consularium fictae in Seianum sententiae; exercentibus plerisque per occultum, atque eo [p. 47 modifica]procacius, libidinem ingeniorum (Ann. V 4). Può essere che sui fatti di corte andassero attorno favole, scritte con una stessa cifra forse da molti, tutte intese a consigliare e a difendere la progenie del vendicatore di Varo, tutte sotto un nome solo, nome d’accatto, ma ingegnosamente trovato, φαιδρός, stato schiavo come Esopo, che aveva conosciuto Augusto e amava quelli che quel grande aveva amati. E forse altri, col nome del liberto d’Augusto e col suo fare, scrissero favole innocenti, punto politiche; e quelle si salvarono coi prologhi, mentre le politiche andarono perdute in parte, e in parte, mutata veste, rimasero. Così si darebbe una ragionevole spiegazione della frase di Marziale: improbi iocos Phaedri. Il Fedro che noi leggiamo, improbus? per due o tre licenziosità? No no: il cortigiano di Bilbili alludeva forse a ben altro: alle favole in cui si mordeva Seiano e forse Tiberio.

Ma io vi do un cattivo esempio congetturando così per aria. Ve ne domando scusa, ma nel tempo stesso v’invito ad accogliere per un momento la mia congettura e a cercare prima nell’Appendice Burmanniana, poi nei cinque libri di Fedro, le favole che possono combinare in qualche modo coi racconti di Tacito e Suetonio. Vi troverete la favola dell’aquila e del gheppio, che si sposano: favola che può alludere alle disegnate nozze di Seiano e Livilla. Vi troverete quella dello sparviero e dell’usignolo:

S’era ficcato lo sparvier nel nidio
     dell’usignolo, a lui facendo insidia.
     Trovò soli i piccini. Esso al pericolo
     vola e lo prega: Lascia stare i piccoli!

[p. 48 modifica]Questa madre insidiata non è forse Agrippina? questo sparviero non è il forse il cupo Tiberio? Confrontate il Cap. 53 di Tacito (Ann. IV), dove si narra d’un segretissimo colloquio di Tiberio con la vedova di Germanico. E ad Agrippina sembra alludere la tenera favoletta della capra e del capretto:

Una Capra che aveva un suo lattonzolo
     e ne faceva diligente guardia,
     un giorno ch’ella se ne usciva a pascere,
     Bada, gli disse, scioccherello, all’uscio,
     che tu non apra, perchè intorno bazzica
     certa gentaglia, e non si sa... Poi vassene.
     Appena ell’era uscita, ecco presentasi
     il Lupo, e finge nella voce d’essere
     la mamma, e fa: Capretto, aprimi l’uscio.
     Sente il Capretto, ma pur mette l’occhio
     a un fessura. È mamma nel discorrerè...
     ma tu non sei già mamma: tu vuoi bevere
     il nostro sangue, e con codeste smorfie
     la nostra carne vuoi mangiarti. O vattene!

Possono essere sferzate al cavalier di Vulsinii la favola della cornacchia e della pecora, e quella del camello e della pulce. Può essere un ammonimento ai figli di Germanico la favola della savia rondinella:

Eran gli uccelli in un sol luogo a pascere.
     Un uomo seminava il lino. Vedono
     gli uccelli e poco o punto se ne curano.
     Ma quando lo riseppe anche la Rondine,
     convocò gli altri e disse in questi termini:
     Grande, grande sovrasta a noi pericolo,
     quando quel seme sbullettasse. Ridono
     gli uccelli. Ed ecco i semi che sbullettano.
     Meschini a noi! ripiglia allor la Rondine:
     su, tutti lesti, tutti insiem si sbarbichi
     la mala pianta, che non se ne facciano

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     reti, ed al laccio non ci prendan gli uomini!
     E quelli pure, sciagurati, a ridere
     del prudente consiglio della Rondine;
     sì ch’ella, savia, si recò dagli uomini
     in sicurezza e chiese di sospendere
     alla grondaia delle case il nidio.
     E gli altri sciocchi, che se la ridevano,
     ne’ lacci fatti di quel lin perirono.

E via dicendo: potrete trovare altre favole, svecchiate forse, o fatte di nuovo che possono riferirsi a Druso e a Nerone, come quella del pipistrello e quella del topo e del ranocchio. E nei cinque libri di Fedro? La seconda del libro terzo, la Pantera e i Pastori, comincia a splendere di luce sinistra se noi imaginiamo che sia quasi il vaticinio di ciò che avrebbe fatto il più piccolo dei figli di Germanico, Caligola. Ma ingegnatevi da voi.

In questo terzo libro che si conclude col ricordo della celebre massima,

Palam mutire plebeio piaculum est.

è la celebre favola del Cane e il Lupo, che ha per motto: Quam dulcis sit libertas! Il Lupo torna alle selve a sopportare la neve e la pioggia, piuttosto che soffrire, ben riparato e nutrito, il collare della schiavitù! Non c’è favola più viva e vera di questa. Voi ricordate, forse, come trattò questa favola il Lafontaine; e ricordate anche l’illustrazione, applicata ai casi umani, che ne fece il Dorè. Si tratta, mi pare, d’un ciamberlano paffuto, con la catena del suo grado al collo, che parla con non so più qual uomo di boschi....

Ne volete un’illustrazione migliore? [p. 50 modifica]

«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Sulla sua riva si presentò Arminio con gli altri capi, e domandato se Cesare fosse venuto, poi che gli fu risposto che vi era, pregò gli fosse dato di parlare con suo fratello. Era questi nell’esercito Romano ed era sopranominato il Biondo, insigne per la sua lealtà e per aver perduto di ferita un occhio, pochi anni prima, sotto Tiberio. Gli fu concesso: s’avanzò il Biondo ed è salutato da Arminio; il quale, mandate addietro le sue guardie, domanda che si ritraggano i saettatori disposti sulla nostra riva; e poichè quelli si ritirarono, chiede al fratello, donde quella brutta piaga alla faccia. Dice l’altro il luogo e la battaglia. «E qual premio ne hai avuto?» Il Biondo ricorda l’aumento del soldo, la collana e la corona e altri doni militari, mentre Arminio si beffa di tal buon mercato fatto della schiavitù».

Non è vero che non si può desiderare commento migliore all’antica favola? È il capitolo nono del libro secondo degli Annali. Ma leggete anche il seguente. Il Cane (Flavus) che ha anch’esso il suo collare (torquem), loda il suo padrone; il Lupo (Arminius) ricorda la libertà. Vengono agli insulti, e nemmeno il fiume li avrebbe impediti dall’azzuffarsi, se non fosse accorso Stertinio a trattenere il Biondo che domandava le sue armi e il suo cavallo. E dall’altra ripa si vedeva Arminio minaccioso, che provocava a battaglia. Il dramma umano ha altra conclusione....

Note

  1. Dalla «Rassegna Scolastica», anno I, 15 ottobre 1895.
  2. Dalla «Rassegna Scolastica», anno I, 15 novembre 1895.