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Pensieri scolastici

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Il latino nelle scuole La poesia lirica in Roma
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PENSIERI SCOLASTICI1

I.


Il gravissimo dei mali che affliggono la scuola classica, è lo scoramento che al maestro deriva dalla diffidenza degli scolari, dei loro parenti, di tutti. Non si crede più, non che alla necessità, alla utilità dello studio del latino e del greco. Il lavoro di demolizione è cominciato: tolta una pietra, un’altra cadrà, una terza crollerà. Così si sfascerà la casa tra un nuvolo di quella polvere che chiamano erudita. O cieco Omero, dunque rinnegheranno anche una volta la tua sacra voce, la parola del canto, nella loro insania? e dove andrai? ti troverai di qui innanzi solo con gli eruditi? Oh! nelle loro case non brilla, quando fuori nevica, la bella fiammata che abbellisce la casa, come i bimbi l’uomo, le torri la città, i cavalli le pianure, le navi il mare!

E tolto il greco, rimarrà il latino? e il latino non si porterà via con sè l’italiano antico? Perchè la guerra è contro le lingue morte, contro gli studi liberali in nome del presente e pratico, del reale e [p. 52 modifica]utile. Ora, secondo certi, criteri, può chiamarsi morta, come la lingua d’Omero al tempo di Pericle e quella di Andronico al tempo di Orazio, così la lingua di Dante al tempo del Manzoni, del Carducci, del D’Annunzio. E si escluderà ogni poesia che non sia l’impoesia dei retori e pedanti impuristi; perchè la lingua della poesia è sempre una lingua morta. Curioso a dirsi: una lingua morta che si usa a dare maggior vita al pensiero! Dove dunque si giungerebbe, quando si cominciasse?

E si vuol cominciare. Sembra a quasi tutti di vivere in una tal quale pienezza di tempi, ora nel secolo dei raggi X; in un istante solenne dei millenni umani, in cui si debba avverare ciò che non si è veduto mai e nè pensato; e in cui i dati dell’esperienza e della storia non valgano più nulla in faccia all’eccezione della nostra età. Con quali argomenti il giovane professore difenderà la ragione della sua arte e del suo culto, per non dover confessare agli altri e a sè stesso d’essere artefice di una ciurmeria disutile e sacerdote d’un altare bugiardo? Si appagherà col dire: «Per ora va e così andrà per un pezzo; poi, sarà quel che sarà»?

II.

Rileggo questa poesia d’Oriente, tradotta alla meglio, che mi pare faccia al caso.2 [p. 53 modifica]

Il poeta e l’astrologo

Diceva Omar poeta, occhio che avanza,
illuminando, tra le nebbie cupe:
«Misero te, per quanto in una rupe
scopra la bianca vergine che danza;

e te, per quanto da fornaci ardenti
tragga vivo l’eroe sopra, il cavallo
che sbuffa! Lenti sono gli anni e lenti
rodono il marmo, limano il metallo.

Tra mille, tra duemila anni, tra poco,
il fosco eroe, la vergine serena,
chi cercherà nella brillante arena,
chi troverà nei grappoli di fuoco?

Miseri voi!... ma l’opera mia forte,
fatta d’anima pura e di parole,
vola col tempo, vola con la morte,
vive la vita immobile del sole!»

«Dunque morrà» qui disse Ben-zilahi,
il viatore delle vie celesti:
«però che il sole, cui la commettesti,
morrà pur esso, come tu morrai.

Quando? tu conta i battiti al tuo cuore.
Secoli sono i palpiti del sole;
ma sono, istanti e secoli, a chi muore,
o poeta, una cosa e due parole».

Disse; il poeta meditò, nè piacque
al suo cuore il fugace inno più mai:
colse fugaci rose da’ rosai,
al bosco udì fugaci trilli; e tacque.

Moriva; e disse, mentre un usignolo
cantava ancora ne’ verzieri suoi:
«Giova ciò solo che non muore, e solo
per noi non muore ciò che muor con noi!»

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III.

Ma questo è quasi un mito o un apologo, e non vuol dire tutto ciò che dice; sì molto meno. Il fatto è che l’idealista della scuola non lavorerà sereno ed efficace, se non avrà fede nella utilità e necessità di ciò che insegna. E questa fede non l’acquisterà o conserverà con le solite ragioni così facilmente ribattute.

C’è chi dice: il genio della nostra lingua si conosce meglio dal confronto con un’altra che a lei sia più affine, massime poi se le sia madre. Ma c’è chi risponde: ammettiamo che il detto genio non si arrivi a conoscerlo così bene dal confronto con la lingua, per esempio, francese o tedesca; ma col francese o col tedesco l’alunno fa un altro acquisto per la sua vita, che compensa la minore (non si dice la nessuna) conoscenza del genio della sua lingua: tanto più che questa conoscenza è sì utile a tutti, ma necessaria a pochi, cioè agli scrittori; anzi ai soli scrittori che.... la credono necessaria: pochini davvero. C’è chi dice: lo studio grammaticale d’una lingua morta è una ginnastica intellettuale come nessun’altra. E c’è chi risponde: e come non, di una lingua viva? Anzi queste, come più svolte, presentano all’osservatore fenomeni più complessi; e la ginnastica sarebbe quindi più energica; senza parlare delle altre utilità, come sopra. C’è chi dice: lo studio del greco e specialmente del latino ha un grande valore educativo e nobilita la nostra, anima rendendole familiari tanti esempi di costanza e di fortezza: agere et pati fortia. [p. 55 modifica]

Oh! qui poi si abbonda nelle risposte. Prima di tutto: questi esempi possono essere resi familiari, anzi più familiari, dalle traduzioni. In secondo luogo: c’è più da apprendere di male che di bene, da quelle letterature, dalle quali, specialmente dalla Romana, può invece prendersi un abito battagliero, un lievito di rissa e di prepotenza, un appetito eroico di gloria, che non fa per noi. Gli eroi sono eroi alle spese di quelli che eroi non possono o vogliono essere: meglio essere uomini tutti, in santa pace. Ma ammettiamo che se ne apprenda solo il bene; quella elevatezza morale, quella fortezza serena che è necessaria a tutti in tutto. Ora l’umanità, con tutta la mala voce che le danno, è così feconda di bene che ne produce a ogni tratto esempi nuovi e perciò migliori. Ricordate l’ultima aurora dei trecento di Leonida? «A quelli degli Elleni che erano alle Termopile primo Megistia il vate, dopo avere osservate le vittime, annunziò la morte che era per venir loro con l’aurora». Oh! leggete la lettera di Toselli, della vigilia: «Vedo i fuochi.... sono molti molti.... troppi!» Sentite Cedicio al Console: «Tu intanto, mentre i nemici saranno occupati ad ammazzar noi, avrai tempo di cavar l’esercito da questa stretta». E ricordate Galliano che si offre a tenere il forte per dar tempo ai battaglioni di arrivare. «Ego» dice il tribuno dei militi, «hanc tibi et rei publicae animam do....» O buono e forte Galliano, tu l’hai data sì la tua vita: non avesti, come l’antico uffiziale di pari grado, fortunam ex virtute! [p. 56 modifica]

IV.

Invero a me non paiono ragioni buone quelle di codesti difensori nostri. Specialmente l’ultima appaga poco. Se c’è negli antichi scrittori il bene, c’è anche il male; se li assumiamo per il bene, dobbiamo gettarli per il male: dire quello che Socrate in Platone:

«Daremo dunque di spugna, dico io, a tutte sifatte novelle, cominciando da questi versi:

Meglio vorrei servire per opera in casa d’un altro,
D’un pover’uomo che assai sottili facesse le spese,
Ch’essere il re di quanti mai morti la terra consuma;

e gli altri:

E che la casa ai mortali ed agli immortali apparisse
Orrida, piena di muffa, cui schifano ancora gli dei etc.

Queste e sì fatte baie tutte, con buona pace di Omero e degli altri poeti, rigetteremo, non come non siano poetiche e piacevoli a udire ai più, ma quanto più poetiche, tanto meno sono da udire da ragazzi e uomini, che devono essere liberi e temere più la servitù che la morte».

No no: cambiamo argomenti! Ci vuol altro: bisogna essere persuasi che i nostri studi hanno radice in un sentimento umano così primitivo e pertinace, e rispondono a una tale necessità intima del nostro essere, che per andar di tempo e per mutare di forme la società non potrà mai escludere dall’educazione de’ suoi novelli «migliori» le lingue morte e le letterature antiche. Lingue morte! letterature an[p. 57 modifica]tiche! Dov’è la lingua che non possa dirsi morta o morente? Ogni, non solo scrivente, ma parlante, tende a usare le parole del fondo comune in un modo suo proprio: una metafora è, per la sua parte, già la trasformazione d’una lingua. Comincia per uno e per pochi, poi per molti, infine per tutti, il trapasso ideologico per il quale una parola muore per Un senso e nasce per un altro. Non parlo de’ cambiamenti fonetici: noi non li avvertiamo, ma succedono con andare progressivo e continuo. Dove è il presente d’una lingua? Πάντα ῥεῖ. Come si potrebbe fissare l’espressione del pensiero, specialmente nei bisogni intellettuali, per la durata almeno di una generazione, se pur nell’andare avanti non ci volgessimo tratto tratto indietro? Letterature antiche! Antiche e pur sempre moderne e recenti; sempre una letteratura, anzi, sempre quella. Noi seguiamo il serpeggiare di novelline, di canti, di pensieri, d’imagini attraverso molti popoli e luoghi e tempi, finchè le smarriamo nella lucentezza uniforme del crepuscolo umano. Qual letteratura è antica, se il pensiero antico vive, con modi appena mutati, nella nuova; o, a dir meglio, qual letteratura non è antica, se quella che si dice nuova, agita a mano a mano ancora l’antica vita? Arrestare a un tratto il fiume tranquillo dei secoli, scindere il passato dall’avvenire, dire «secol si rinnova» a che porterebbe se fosse possibile? Si avrebbero presto lingue morte e letterature antiche cui le anime più umane vorrebbero conoscere e a cui vorrebbero iniziare i loro figli prediletti. E non si fermerebbero lì: attraverserebbero quella lingua e quella letteratura passata, a cercare quelle che passarono quando [p. 58 modifica]esse nascevano.... Oh! non invidiamo in tanto ai nostri figli eletti, che provano un’impazienza, una curiosità, una gioia — così strana per gli arroganti rinnegatori del passato — al primo ingresso nel Ginnasio (nè è sempre colpa loro se la gioia si muta talora in noia, se la curiosità cessa per manco d’alimento, se l’impazienza d’apprendere cede alla rassegnazione di non comprendere); non invidiamo a quei cari capi la più naturale via di esercitare le loro facoltà intellettive.

V.

Secol si rinnova. Sia. Torna giustizia. Ben venuta! Come imaginare questo rinnovamento e questo ritorno? Non vi è tempo in cui non sia stato desiderato. Ammettiamo che non mai così intensamente come ora. Quale sarebbe questo rinnovamento che secondo alcuni, dovrebbe abolire, barbarie nuova, il passato, e a ogni modo, se come l’antica, solo per qualche tempo oscuro o medio? Virgilio ci dà la formula della felicità ideale dell’uomo nella società:

                                                       neque ille
          Aut doluit miserans inopem aut invidit habenti.

Noi saremo felici quando non avremo più occasione di lagrime e di strazio, di invidia e d’odio nel guardare i nostri vicini dell’atomo opaco. Si sogni questo placido avvenire! Anche sognare è un bene, perchè colui che fa il sogno cercherà di realizzarlo per la sua parte e nella sua facoltà. Ebbene? Questo avvenire di pace potrà, anzi dovrà distruggere l’educazione classica della gioventù? lo studio delle lin[p. 59 modifica]gue morte e delle letterature antiche? Più in fiore sarebbero invece gli studi liberali, dove la mediocrità sociale si fondasse, come è necessità, sul disinteresse; e più e meglio che ora, fiorirebbero le arti, poichè l’uniformità e semplicità privata avrebbe bisogno del bello e dello splendido nel possesso comune. Oh! i Ginnasi dell’avvenire! essi avrebbero a sorgere nel luogo più bello e memorabile, essere l’opera del più grande e bello amore di artista, contenere i quadri e le statue che ora ingombrano le gallerie di poche grandi città. Andrebbe ad essi il visitatore, avvolontato di vedere il bel quadro e la bella statua custoditi con cura devota nel tempio sacro alla giovinezza: vedrebbe «un fanciullo sotto i sacri olivi correre coronato di bianchi steli con un savio eguale, odorando di smilace e di serenità e di gemme di pioppo, nella stagione di primavera, quando il platano bisbiglia con l’olmo». Anche questo quadretto del buon tempo futuro è d’un classico, che vuol dare un tratto del buon tempo.... passato. Oh! noi possiamo essere certi che quei fanciulli, se dopo la corsa sotto gli olivi riposassero su qualche stela e parlassero di noi ingiusti, di noi cattivi, essi piangerebbero forse sulle nostre sventure, ma parlerebbero con riverenza di noi e con ammirazione delle cose nostre, perchè ciò che fu e quelli che furono par sempre bello e paiono sempre buoni a quelli che sono,

Note

  1. Dalla «Rassegna Scolastica», anno II, fase. VI, 16 decembre 1896.
  2. La poesia non è tradotta nè imitata, ma originale. Rifatta poi e ridotta a terzine, l’autore la comprese ne’ suoi Primi poemetti col titolo «L’immortalità».