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il martellare d’un picchio. E il lettore deve aggiungere di suo: Non è esso l’uccello, che simboleggiava Picus, il padre di Fauno, il figlio di Saturno, il dio del vaticinio? Un’aquila rotea nel cielo piena di pulviscolo luminoso, sul colle Tarpeio. S’intende che è un tratto pittoresco; ma il lettore pensa al Campidoglio, alle legioni, alla gloria di Roma. Non vi pare?

Io vi dico che a me piacerebbe sentirlo, in latino, in versi; vorrei sentire che effetto può fare. Perchè è una gran riprova, il latino, delle nostre capestrerie moderne, che hanno spesso più aggettivi che senso comune, e una sonorità e un barbaglio confusi, che non permettono di intendere le parole e di distinguere le imagini; sì che alle volte lodiamo e ripetiamo ammirati ciò che non abbiamo compreso e non comprendiamo. Mettendo in latino la rumorosa e luccicante poesia, ci avvedremmo subito che abbiamo ammirato un ammasso di contradizioni, di insensataggini, di vacuità: perchè la lingua di Roma non vuole essere adoperata a vuoto. Proviamoci con questo sonetto, cari ragazzi; cioè provatevi e avrete un ricordo del dies natalis dell’Urbe... Che cosa dite? Non sapete?! No: voi credete di non sapere; ma io vi dimostrerò che sapete. La quantità delle terminazioni non le ignorate; certe regole elementari di prosodia, vocale avanti vocale, vocale avanti due o più consonanti, vocale avanti muta e liquida, la sinalèfe, l’ectlipsi: ne avete pieno l’orecchio. Come è fatto l’esametro, almeno di grosso, tutti sanno. E che ci vuol altro? Solamente il sonetto è un po’ stringato, e se lo voleste rendere parola per parola, vi verrebbero troppi accavallamenti, che