Alpinisti ciabattoni/Al Santuario

Al Santuario

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Sor Gaudenzio in viaggio La grana di Re Mimulfo
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Al Santuario.


Sul lago si rispecchiava la scialba chiarità del cielo albeggiante.

L’isoletta di San Giulio sorgeva sbiadita, frolla, macerata dalle brume notturne; le montagne avevano chiazze di verdone cupo, e le insenature impiastricciate di nuvolaglie biancastre.

Gaudenzio balzò dal letto, infilò le mutande, e fece una gita a piedi nudi verso la finestra per vedere se era bel tempo; ritornò sul letto per mettersi le calzette, ed incominciò a vestirsi.

Avevano stabilito di visitare il Sacro monte nella mattina, e recarsi poi a pranzo a Pella o ad Omegna.

Martina scese lesta dall’altra parte verso la strettoja. [p. 26 modifica]

Dopo di essersi lavato, Gaudenzio spalancò la finestra.

Il sole già schiaffava di roseo fulgido i culmini delle montagne, e scendendo giù pei greppi, pennellava di vita e di rilievi le boscaglie ed i paeselli appiattati nel verde.

Il lago spazzato, lustro, dilagava nell’azzurro, lanciando tremuli lucori, e l’isoletta di San Giulio, simile a mazzo di camelie in coppa d’argento, come dice un vecchio codice, si ravvivava al bacio tiepido del sole.

I Gibella dalla finestra pigliavano l’aria fresca, ma non vedevano il ridente panorama che sfavillava svolgendosi in una gamma trionfale di colori.

Discutevano sul conto che farebbe l’oste. Terminarono di vestirsi; madama rifece il sacco e lo chiuse a chiave.

Scesero nella piazzetta. Martina non poteva camminare; quella maledetta scarpa ricominciava a molestarla.

Entrarono nel caffè, e comandarono caffè-latte, cioccolata e paste. Avevano appetito.

Martina intanto si liberò un poco della sua scarpetta.

La bottega prospettava sul lago: framezzo agli [p. 27 modifica] ippocastani della piazzetta si vedeva l’isola, e più in fondo, sul pelo lucente dell’acqua, biancheggiavano soleggiate le cave di Alzo, e la ridente riviera di Pella.

Ma i Gibella voltavano le spalle al panorama e guardavano i quadri della parete.

Con dodici soldi si rifocillarono, e uscirono soddisfatti per vedere il battello che allora allora approdava.

Sul ponte di sbarco v’era un crocchio di persone che parevano di alto bordo. Dame e signorine incappucciate entro a cappelloni di pizzo bianco con la visiera lunga un palmo ripiegata sulle orecchie.

Una signora con abbondanze matronali, sfoggiava al sole l’opulenza massiccia delle sue forme; sotto il giubbetto svolazzante di trine, ponzava un seno monumentale, e dietro sul guardinfante eretto, altero, spiegava una cascata di drappeggi e di nastri.

Le altre signore, e le damigelle affusolate, stremenzite sotto le costrutture del busto, parevano la covata di quella gran chioccio troneggiante sulla spiaggia.

Sor Gaudenzio fece molte considerazioni recondite sul volume carnoso di quella bella damona, e [p. 28 modifica] pensò che pur troppo, certe cose della terra si guardano da lontano come la luna.

Martina serrata fino alle orecchie nel suo robone di seta, infagottata nella sua spolverina fatta in famiglia, guardò di schiancio quel petto esuberante, e le braccia nude fino al gomito, e borbottò con lepidezza bottegaja:

La par l’insegna del martes grassi!

E si voltò sdegnosamente per andarsene.

A pochi passi distante, ritto, fiero, imponente, videro l’elegante signorino che ebbero compagno in diligenza e sul battello. Col suo surtout sopra il braccio, inguantato, abbottonato e strangolato nel suo aristocratico solino, stava squadrando le signore con rigida compostezza.

Solo, sempre solo.

Il battello scodellò alcuni passeggieri e filò via altero come galletto, sbuffando il pennacchio fumido nell’aria fulgida di sole.

Quella benedetta scarpa ricominciava a tanagliare il piede della Martina, e prima di cimentarsi nella salita del monte, i Gibella entrarono da un calzolajo per un consulto.

Fu l’affare di un minuto; la pelle del soppiede si era raggricciata; bastava stirarla di quando in quando. [p. 29 modifica]

Si fecero insegnare la via del Santuario, e s’incamminarono su per l’erta lastricata con certi ciottoli così aspri che si contavano sotto le suole.

Dopo il primo tratto, Gaudenzio, che era innanzi, si fermò per tirare il fiato, e cominciò a levarsi il cappello e strofinarsi la boccia sudata.

Dinci, che strada de cravon! — e guardò l’altro tratto che svoltava ancora più ripida incassata fra le muraglie.

E avanti tutti e due, con le ginocchia sulla bocca, spingendo talvolta lo sguardo in su per misurare il resto.

Via facendo, si barattarono qualche barzelletta, ma dopo un po’ tacquero e cominciarono a sbuffare uno dopo l’altro.

Giunsero sulla prima spianata, alla cappella dell’Ossario. Di là già si spiegava il panorama del lago e delle montagne. Si fermarono per respirare un poco, guardandosi intorno, senza neanche por occhio sul paesaggio che si svolgeva abbasso.

Andarono invece a guardare i teschi e gli stinchi dell’Ossario. Gaudenzio, soffermando l’attenzione sopra un cranio che portava un berrettino nero, sclamò:

Quela lì l’era la crapa d’un pret. [p. 30 modifica]

E ricominciarono la salita.

La strada era battuta da contadini, uomini, donnicciole e ragazzi, attruppati in un mucchio. Venivano in pellegrinaggio avendo fatto Dio sa quanto cammino a piedi, per visitare il Santuario.

Si inerpicavano su, sfiaccolati, disfatti, divagati, con passo armentale, strascinando gli zoccoli e gli scarponi sull’acciottolato.

Le donne avevano la cesta sotto il braccio con le provvigioni, e andavano su barellando, a spintoni come una truppa di oche disperse. Cinguettavano e ridevano le giovani: le più attempate badavano alla strada e biascicavano Ave Marie. Gli uomini più innanzi, scamiciati, con la giacca sul braccio, scoperto il petto abbronzato dal sole.

Sor Gaudenzio ne interrogò uno.

Erano gente della pianura, e già tornavano da Varallo: si erano messi in marcia di là a mezzanotte, passando la Colma e scendendo giù a Pella. Dopo la visita del Santuario e un po’ di riposo, si sarebbero rimessi in viaggio marciando tutta la notte per arrivare l’indomani al loro paese. — Erano tutti di una sola combricola.

Quelle due chiacchiere portarono via un pezzo di strada. I Gibella e lo strupo dei contadini [p. 31 modifica] arrivarono sulla spianata principale che ha il terrazzo prospiciente sul lago.

Il sole già alto arrazzava nel vasto aere le sue batterie fulgenti. Il lago affondato, simile a lastra di nichelio, marezzato di increspature argentee, rimpiccioliva come guazzetto sotto l’ampia e lucidana imponenza del cielo. Le barchette disperse nell’azzurro, parevano scarabei galleggianti sul guazzo lucente: l’isoletta di San Giulio con le sue casine, con i suoi giardini, si adagiava raccolta sull’onde come zattera fiorita in aspettativa del vento per voleggiare lontano.

Ma la signora Martina stanca, sudata, si era buttata sopra uno dei sedili del belvedere, voltando le spalle al panorama, ed al sole molesto.

Gaudenzio strofinava come un cavallo, e guardava lo strupo dei villani che si avviavano alle cappelle per non perder tempo.

Li fiutò da lontano un custode cicerone. Una specie di prete, ibrido fra scagnozzo e sagrestano; impaludato in una cappa sbrendolata di lustrina che gli scendeva fin quasi alle caviglie, lasciandogli allo scoperto un tratto di calzoni e le scarpacce fruste insafardate. Occhi balogi e scerpellini, naso famiolesco, la faccia grinza, chiazzata di macule e sporca di barba disfatta da un mese. [p. 32 modifica]

Quel corbaccio appena scorse il branco di contadini, balenò uno sguardo di famelica letizia, e mosse loro incontro con un sorriso da rigattiere:

— Volete visitare le cappelle?

Uno degli uomini si fece avanti, pattuì la mancia di cinquanta centesimi per la spiegazione, e lo scagnozzo corse alla ricerca delle chiavi, ciondolando quel suo testone che pareva un maglio.

E tutti dietro, compresi i coniugi Gibella, i quali, non sapendo come ammazzare il tempo, seguirono la comitiva alla lontana, all’ombra dei faggi, per godere gratis il divertimento.

Ma fecero i conti senza quel barbacane di custode avvezzo a cotali imboscate; col suo occhio a sghimbescio e con l’intuito acuito della fame, vedeva da tutte le parti, e volgendosi ai Gibella, li arraffò da lontano gridando:

— Che venghino pure innanzi anca loro! vuol dire che dopo, se aggiustaremo.

I coniugi stettero alquanto perplessi, ma non seppero districarsi, ed ubbidirono all’invito come ad un comando. Quello straccio di toga da beccamorti aveva qualche cosa di imponente.

Si imbrancarono dunque con la truppa, cercando però di tenersi un po’ sul riserbato, ed [p. 33 modifica] incominciarono la Via Crucis seguendo a malincuore il cicerone, che con quella sua boccaccia di pellicano vociava la spiegazione dei quadri plastici al gregge rusticano.

Cappella I. Nascita ed infanzia di San Francesco.


Tutti i musi dei paesani si piantavano contro il graticcio, e lo scagnozzo urlava con voce fessa:

»Un Angelo vestito da pellegrino avvisa la madre di Francesco di portarsi nella stalla, per partorire il figlio. Ecco la stalla, la madre ed il bambino. Le statue sono del Prestinari e del Bussola; il quadro della Natività, è del Procaccino

Le femmine dello strupo facevano commenti sotto voce, e prima di lasciare la cappella, borbottavano in coro un’Ave Maria.

Il cicerone era già sul limitare della cappella seconda, e latrava con enfasi da cantambanco:

»Vocazione del Santo — dove si vedono il Crocifisso e gli Angeli, e San Francesco che dona le vesti ad un soldato; l’incontro del lebbroso, e la comparsa di nostro Signore Gesù Cristo.»

E le donne, giù la solita epistrofe dell’Ave Maria, e via dietro allo spiegatore, il quale, con tre [p. 34 modifica] salti da becco, era già sulla gradinata della terza cappella, gridando:

»La rinunzia — in dove si vede Francesco mezzo ignudo che rinunzia al padre ogni suo avere di famiglia! Le statue sono del Prestinari. La figura rappresentante il vescovo di Assisi è il ritratto del venerando vescovo Bescapè fondatore della cappella.»

I contadini cercavano con gli occhi alle sbarre questo vescovo; ma il pretaccio abbajava già sull’uscio della quarta cappella:

Regola di San Francesco — e tutti si precipitarono colà scalpitando, urtandosi, e pigiandosi in un mucchio solo.

I Gibella, sempre dietro con andare fiacco, arrivavano sempre in ritardo per la spiegazione, e si contentavano di mettere dopo gli altri il muso all’inferriata, guardando le statue con una voglia di basire cento miglia lontano.

Ma a cavarsela era il guaio! Lo scagnozzo li teneva d’occhio, e spesso li impegnava rivolgendo loro direttamente alcuni schiarimenti. Sor Gaudenzio ne aveva una piena tremenda; ma bisognava rassegnarsi e andar dietro a quello zoccolone.

I contadini stracchi, sbalorditi dalla cantilena [p. 35 modifica] nasale del predicatore, davano segni di averne abbastanza; ma le vecchie erano intransigenti, e ad ogni stazione, giù un brano di rosario, e gli uomini, tanto per tenersi vivi, approfittavano dell’occasione che li ammucchiava, e pizzicavano le giovani sul sodo.

Alcune volte gli strani abbigliamenti delle statue, quei gobbi, quei nani, quei gozzuti buttati là per decorazione, destavano un momentaneo gazzurro di buon umore, ma le vecchie inginocchiate soffocavano l’allegria colle loro inesorabili giaculatorie.

Sono più di venti le cappelle, seminate sull’erta nell’ombra misteriosa dei faggi, dei pini e degli aceri, e per venti stazioni lo scagnozzo si strascinò dietro quella geldra di ciane e di bighelloni stracchi, ammazzati da quella tediosa Via Crucis.

Martina si era una volta fermata contro un tronco d’albero per levarsi lo stivaletto e distendere il sottopiede che ricominciava a molestarla; ma lo scagnozzo sospettando che i due volessero svignarsela, si piantò lì presso il paretajo di mortella, ed aspettò che madama terminasse l’operazione per riprendere il bandolo della sua cantafera.

Gaudenzio aveva addosso una crepaggine che [p. 36 modifica] gli fece perdere finanche la cognizione del tempo, e vagava come smarrito negli anfratti di quella boscaglia.

Quei fantocci di legno, duri, barocchi, impolverati, con gli occhi morti, lucenti di vernice; quei cavalloni impennati, quei gobbi, quei gozzuti, quei santi Padri dalle teste pelate; quei simulacri di dame pagane protuberanti, ampie, scollacciate, con le poppe colossali, turgide, sbardellate; quell’arruffio di forme, di colori, di fazzoni strane, strambe, strampalate, gli davano fastidiosi capogiri, ed uggie e nausee così profonde, da fargli intravedere come un miraggio di paradiso la sua fondacheria di Sanazzaro, ed il comodo seggiolone, confidente de’ suoi sonnolini del pomeriggio.

Qua e colà in quel dedalo ombroso, si incontravano alla spicciolata gruppi di nuovi visitatori, e solitarii che sbadigliavano attraverso alle inferriate delle cappelle.

Nel viale principale si rincorrevano giocando i bambini dei villeggianti che avevano stanza all’Hôtel Belvedere sorgente lì presso. Le mammine lavoravano di ago o di maglia sulle panchine, pigliando il fresco ed aspettando l’appetito, per non rimetterci sulla pensione. [p. 37 modifica]

Alcune vecchie venerande in montura di matinée, passeggiavano gravemente sul tappeto muschioso. Una più delle altre arrembata e stracca, pareva una vecchia matrona tagliata via da un quadro antico; camminava con uno strascico regale, riassumendo nella sua decorata decadenza tutta la nobiltà di una stirpe cavalleresca nudrita di blasoni e di pergamene ingiallite.

I bambini coi loro garriti mettevano una nota festosa nel mutismo cupo ombroso di quel romitorio, olente di rancidume claustrale, e di olio santo.

Gaudenzio sbadigliava fino a lussarsi le ganascie, dietro a quel cornacchione che non finiva mai la sua tiritera.

I contadini del gregge, tanto e tanto prendevano interesse a quella lanterna magica di rappresentazioni, e le donnicciole nella fatuità del loro cervello stremato, anemico per famina ereditaria, si commovevano al cospetto di quel povero santo macilento, tribolato, e provavano raccapricci di terrore mirando le bocche spalancate e polverose di quegli scherani nerboruti, con le braccia da macellajo sempre in atto di squartare i poveri Cristiani.

Ma Gaudenzio non aveva il sangue impoverito [p. 38 modifica] dagli stenti. Il suo cervello nutrito di succhi abbondanti, non aveva le allucinazioni e le vertigini credenzone dei miserelli che sperano di sfamarsi col pane del cielo.

Agguerrito contro le superstizioni dell’inedia, refrattario alla poesia dei martirii, ignorante financo dei più comuni episodii della palingenesi Cristiana, egli non sapeva più nè credere nè pensare che agli interessi del suo botteguccio.

Senza tanto investigare, e per via di progressiva ignoranza, Sor Gaudenzio era diventato volteriano senza manco accorgersene.

Dispersi nei meandri del Santuario, i Gibella si lasciavano andare a casaccio sulle gambe non sapendo che fare, nè dove mettersi, nè come decidersi.

Il giorno innanzi, proprio a quell’ora, erano ancora a Sanazzaro, nel loro botteguccio, con un visibilio addosso pensando al momento di imbarcarsi per quel viaggietto di piacere premeditato, vagheggiato da gran tempo come una festa solenne.

Tutti cantavano le meraviglie del lago di Orta, delle cappelle del Sacro Monte, delle preziosità dell’isola di san Giulio. [p. 39 modifica]

Eccoli dunque: erano ben lì su quel paradiso sospirato da lontano: proprio nel bel mezzo di quei boschetti tanto decantati! Oh com’è che si annojavano scelleratamente, così da parergli cento anni che erano lontani dalla loro casetta?

Pensare che avevano stabilito di spassarsela in vacanza per una intiera settimana!

Madonna Santa! una settimana così!

A quel pensiero Martina si sentì il bisogno di dar aria al piede; sedette sopra una panchina e si levò la scarpa.

Gaudenzio imprigionato nel suo solino molesto, rammentava la sua bottega con un rimpianto di esule, ed asciugandosi la testa sudata muginava fra sè:

— Già, tutto il mondo è paese. Dove c’è la voga corrono i merlotti. Che cosa c’è qui di particolare? delle piante come tutte le altre, uno stagno che in sostanza non è altro che acqua, sole, caldo come dappertutto! È così come del Duomo di Milano, tutto il mondo grida che è una meraviglia, e una volta che si è là... che cosa? una chiesa frusta come tutte le altre!

E adess, cosa se fa? — chiese Martina.

Sor Gaudenzio fu come atterrito a quella [p. 40 modifica] richiesta; guardò l’orologio, erano le dieci. Egli sarebbe andato a dormire tanto volontieri.

La giornata era afosa, guardando giù dal Belvedere, si vedeva l’ampio bacino del lago sfumante in una chiarità diffusa di sole che stancava gli occhi. Orta si rannicchiava con le sue casine sulla ripa sferzata da una vampa tropicale.

Un altro cicerone ricominciava la spiegazione delle cappelle per altre cinque o sei persone arrivate di fresco per pigliarsi quelle bastonate.

I Gibella si tennero alla larga, pavidi di essere adunghiati, e si portarono verso il Belvedere.

Passando vicino al Caffè Ristorante del Sacro Monte, come dice l’insegna, Sor Gaudenzio ebbe un’idea.

— Martina... ehm de fa colazion?

Detto fatto. Entrarono nella sala fresca ombrosa, e sedettero in un canto con buone disposizioni di spirito e di appetito.

Una donna di aspetto bonario li avvicinò.

— Se poderisa mangiare qualche cosa?

— Sicuro; due fettine di salame, una costolettina, ova al burro.

— Bene! — esclamò Gaudenzio accomodandosi contento sul sedile. — Dunque che la porta un po’ de salame, e ovi al fogliotto per due. [p. 41 modifica]

La donna se ne andò, e Gaudenzio, quasi rappattumato con sè stesso e col Santuario, disse alla moglie:

Me pias el post... gha un po’ d’aria de famiglia.

Sul tavolo vicino eravi un fascio di giornali, e per ingannare l’aspettativa, Gaudenzio brancicò sui fogli; diede alla moglie il Fischietto, e scelse per sè una Gazzetta Domenicale.

Intanto la caffettiera stendeva il tovagliolo.

Gaudenzio inforcò gli occhiali con la calma riposata di chi s’apparecchia a passare cinque minuti di svago, e sicuro del fatto suo, incominciò la lettura.

Il primo articolo era intitolato: Heiniana. Non faceva per lui, e tirò via al secondo, intestato: Iohannide di Crisippus, e scivolò più sotto sul terzo intitolato: Gumploviez, o la nuova Sociologia.

Che diamine! pensò il droghiere, che sia un giornale inglese? e portò l’occhio sull’ultimo foglio dove era scritto a lettere grosse: Levia Gravia, e qui il buon Gaudenzio scoppiò in una ilarità fragorosa, Levia Gravia!! Ah perdinci... era la prima volta che rideva proprio di cuore! e borbottava:

Levia Gravia... Ah che baloss! — e giù una [p. 42 modifica] nuova sghignazzata che gli andava in tanto buon sangue.

Sghisciò via sulla Levia, e fermò l’occhio sopra una poesia che per la rotondità dei caratteri tipografici, e per lo spazioso interlinea, gli prometteva una comoda lettura.

Nedia! Oh, vediamo un po’ questa roba; — e con la sicurezza di uno che sa dove si mette, incominciò:

»Ondeggia il mar di chiome gradanti via cupe, ingiallite
»A’ piè della collina, gradanti a ’l mare.
»Azzurro ’l mar traguarda confuso co ’l ciel di topazzo
»in una linea dolce — soavemente —
»e traguardan le fila dei pioppi la striscia d’argento
»del Liri, da cui emergon le Vallisnerie
»assopite cullantesi...

Non ci pigliava un’acca sor Gaudenzio, ma tirò via saltando qualche verso.

Aspettava le ova, dunque, avanti.

».............................................incendiando
»la messe flavo ’l sole giulivo da l’alto, ne ’l cielo,
»Canta; e i ramarri sghisciano in mezzo a ’l grano.

E qui Gaudenzio fece una considerazione. Lasciamo andare il flavo, chissà che roba sia; ma [p. 43 modifica] quel sole che canta gli parve una sciocchezza; e giacchè sghisciavano i ramarri, sghisciò via anche lui fino agli ultimi versi.

»..........................................Oh glorie gialle
»di Sol!... oh idilii rustici, trittanti sonori per li ampi
»Campi viventi a ’l sole... Oh lombi audaci
»de la stornellatrice, e ’l petto frenato ne ’l busto
»che sotto ai baci miei gagliardi oscillava...
»Oh le pazze risate de ’l sol lascivo
»Su la fronte rosata stillante sudor de la forte
»Stornellatrice da me fermata a ’l suolo,
»Su l’erba resupina! — Tornate, tornate, tornate,
»O lascivi ricordi: estenuàtemi!
»...........................................................

Qui Sor Gaudenzio sprofondò in un bujo di sepoltura, e non ebbe nemmeno un’ombra di sentore della sottile sciatteria emanante da quei versi dell’ultima moda.

Se il droghiere avesse potuto intendere il lascivo lenocinio dei versi, egli nel suo grossolano buon senso di commerciante e di padre di famiglia, avrebbe forse risposto a quel poeta in gaudeamus:

»Senti, figliolo, se vuoi estenuàrti, piglia una zappa, una mazza, e sgranchisciti la schiena; ci guadagnerai se non altro nella salute. Si vede che [p. 44 modifica] tu non hai bisogno nè del pane, nè del companatico; ma se con questi lumi di luna, se in mezzo a tanta miseria di affamati che riempiono il mondo, tu non pensi che ad estenuarti con le glorie gialle del sole Flavo, e coi lombi audaci della stornellatrice resupina, vai a farti turco! chè queste cose un buon cristiano le può vaneggiare in un momento di malsana vertigine, ma non avrà mai tanto stomaco da buttarle in carta, e farle correre per il mondo. — Delle robe che fanno nausea ce ne sono abbastanza in prosa senza bisogno di sporcare la poesia con queste trosce da lumacone!»

La caffettiera diede in tavola il salame ed una caraffa di vinello che rallegrava con la sua rubea trasparenza.

Poi vennero le uova sfriggolanti nel tegamino, con un profumo soave di cipolla soffritta, profumo ben noto, che richiamava alla signora Martina le placide consolazioni domestiche, e la gioconda armonia della sua famigliola.

Poveretta, le pareva di esser lontana di un secolo dalla sua vecchia casa di Sanazzaro, da quella sua ampia cucina, dove con tutta la comoda libertà delle sue pantofole, senza busto, senza cappello, accudiva alle sue faccenduole. [p. 45 modifica]

— Giurabacco! — sclamò Gaudenzio con la bocca piena — questa l’è roba de cristian!

Anche Martina era di questo parere, e mangiava proprio di gusto.

In quel momento entrò in bottega una persona di loro conoscenza.

Era il professore che avevano avuto compagno nel vagone.

Sor Gaudenzio lo fissò con occhio soddisfatto, e lo riverì con un inchino.

Il professore ricambiò il saluto, ordinò un caffè e latte, e sedette al tavolo vicino ai Gibella, appiccando subito discorso.

— E così, si divertono?

— Eh la... siamo un po’ dispaisati.

— Capisco, capisco... un po’ dispersi. Del resto, questa piccola riviera è un incanto.

Gaudenzio ordinò il caffè, ed il professore dopo di aver abboccato un pane inzuppato, continuò:

— I signori sono alloggiati a Orta?

— All’Albergo del Persico — rispose Gaudenzio, — ma non se sta miga bene. Domani andiamo via.

— Io — disse il professore — ho stanza nella locanda del Merlo Bianco. Buone camere, cucina casalinga, e prezzi proprio di famiglia. [p. 46 modifica]

— Ma è un peccato che vadano via proprio domani che c’è festa, musica e illuminazione della piazzetta.

Gaudenzio non sapeva di niente, e guardando Martina come per avere il suo consiglio, rispose:

Andà o restare per noi l’è l’istesso. L’è quel albergo che ne da fastidi!

— È presto rimediato — esclamo il professore, — vengano al Merlo Bianco! garantisco che si troveranno soddisfatti... e se credono, ci faremo un po’ di buona compagnia.

— L’è un affare serio, — obbiettò Gaudenzio, — come se fa? Gabbiamo la roba all’albergo.

— Oh per quel lì, — interruppe Martina — per quel lì, cunt i noster danè, se va dova ne par e ne pias!

Decisamente anche madama trovava di suo genio la faccia da galantuomo del professore, e lì per lì, la faccenda fu intesa, e sor Gaudenzio ebbe un lampo di consolazione quando il professore concluse dicendo:

— Così stasera faremo insieme un boccone di cena, e quattro chiacchiere da buoni amici.

Pagarono lo scotto; madama ricalzò lo stivaletto, e tutti e tre s’incamminarono alla discesa. [p. 47 modifica] Suonava mezzodì. Quando si dice... ecco due ore filate via senza noja!

Il sole pigliava in una zaffata rovente tutta la montagnola; una brezzolina increspava il lago avvallato, vibrante una lucentezza fumea di specchio appannato. Qua e là stagnavano chiazze glauche, vitree, come di acqua ferma refrattaria al brisciamento di risacca che marezzava tutto il lago. Le barche rimpicciolite nella lontananza luminosa, rigavano l’onda con una troscia lucente.

Durante i sobbalzoni della discesa, il professore declinò le sue generalità ai suoi nuovi conoscenti.

Si chiamava Fernando Amadeo, professore di lettere e di storia.

Gaudenzio butto giù anch’egli nome e cognome, patria e condizione, e così meglio stabiliti i rapporti di amicizia, con quattro chiacchiere si trovarono in fondo della discesa, senza quasi accorgersene.

Sostarono all’ombra degli ippocastani della solita piazzetta, il professore sedette su una delle panche scrivendo alcuni suoi appunti sopra un grosso taccuino, ed i Gibella intanto disputavano sul modo più decente di ritirare il loro bagaglio dall’Albergo del Persico.

Te vet là — diceva Martina — se paga el conto, e se porta via la roba. [p. 48 modifica]

E se ciaman dove vo? — obbiettò Gaudenzio.

Oh bela! cosa han da savè lor?... Vò dove me fa piasè!

Gaudenzio parve persuaso, e s’incamminò verso l’albergo; ma per dire il vero, avrebbe volentieri pagato due lire a mandare un altro.

Tornò di lì a pochi minuti col suo saccone, e subito Martina lo interrogò sulla spesa.

— Otto lire la cena, e quattro la camera.

Vott lira?! — sclamò madama — Vott lira per un oss de can, e na minestra de ris e musch?... ch’el vada a...!

Il professore interruppe:

— Dobbiamo andare al Merlo Bianco?

Attraversarono il ghiareto della piazzetta biancheggiante di un sole che dava le vertigini. Sotto i portici videro il solito elegante seduto al caffè, sempre inguantato, e sempre solo.

Sor Gaudenzio era lì per salutarlo, ma colui lo squadrò dall’alto al basso con cipiglio di superiorità che non ammetteva confidenze.

Il professore svoltò in un vicolo, e gli altri dietro, e dopo poca strada, entrarono nella trattoria del Merlo passando per la cucina buia e nera di fuliggine. [p. 49 modifica]

I Gibella presentati all’ostessa dal professore, vennero subito accompagnati al primo piano, ed introdotti in una camera.

Le finestre davano nel cortile, con veduta di un fienile in faccia, e Martina trovò che tutto andava bene, che il letto era magnifico, e che quanto alla vista, ormai ella aveva più caro a guardare sul fienile che sul lago.

Il professore si accomiatò ricevendo saluti e ringraziamenti, e lasciando l’intesa, che si sarebbero trovati verso sera sulla piazzetta per pranzare poi tutti insieme.

L’è un gran galantom sto professor! — sclamò Gaudenzio chiudendosi a chiave nella stanza.

— Che ora l’è? — chiese Martina.

Egli guardò l’orologio; era l’una dopo mezzodì. Chiusero le imposte, si svestirono a mezzo, levarono le scarpe, i solini, e tutti gli effetti che davano molestia, e si buttarono sul letto, perchè si sentivano stracchi a morte.

Dieci minuti dopo, Gaudenzio ronfiava con la pancia levata e la bocca aperta.