Cap. II

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I III

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II.

Il primo viaggio del Volta fu, come notai, nella Svizzera, nell’Alsazia e nella Savoia. Egli lo compiè durante le vacanze autunnali del 1777, avendo ottenuto dal Governo di Vienna, oltre al permesso, un sussidio di cinquanta zecchini, mercè i buoni ufficî del conte Carlo Giuseppe di Firmian, allora ministro plenipotenziario dell’Impero in Lombardia1. A compagni di viaggio ebbe tre distinti amici: il conte Giambattista Giovio, che fece con lui [p. 18 modifica]il primo tratto da Como a Lugano2, e poi tutto il rimanente da Zurigo in avanti, fino al ritorno in patria — ed i signori abate Francesco Venini e conte Francesco Visconti, che lo accompagnarono nel tratto da Lugano a Zurigo3. Il viaggio durò dal 3 settembre fino al 10 novembre, ed il Volta ebbe cura di notare, sovra apposito memoriale, gli avvenimenti principali di ciascun giorno. Scrisse poi, da questa o da quell’altra città, varie lettere ai parenti, e nel ritorno, avendo dovuto fermarsi a Torino in causa del mal tempo, che aveva guastate le vie, scrisse al conte di Firmian una lettera per scusarsi del ritardo e per ragguagliarlo, in modo sommario, del giro compiuto. «Venendo ora al mio viaggio — scriveva egli — troppo direi se dicessi tutto, anche ciò che riguarda solamente oggetti letterari. A V. E. basterà l’intendere, e mi prometto che ne avrà compiacenza, che ho fatto la conoscenza degli uomini di primo ordine in genere [p. 19 modifica]scientifico a Zurigo, Sciaffusa, Basilea, Strasburgo, Berna, Ginevra, e già qualcuno qui in Torino. Ho legato, a mio gran profitto, corrispondenza letteraria con molti. Ho visitato Biblioteche e varî Gabinetti di Storia naturale, massime a Zurigo, dove ve ne ha un gran numero e singolarissimi; dove ho fatto dimora di più giorni; dove sono stato invitato a mostrare le mie nuove sperienze in piena Accademia raunata straordinariamente a mio riguardo. Le stesse sperienze sono pure stato invitato a mostrare, in presenza di più persone per scienza stimabilissime, nelle altre città, ecc., ecc.».

Ma il conte ministro non si accontentò di questi cenni: con suo foglio, in data 23 dicembre dello stesso anno, invitò il professore a stendere «una breve Relazione del viaggio suo, delle scoperte fatte e delle nuove da lui acquistate». Il Volta aderì, ma le molteplici sue occupazioni4 non gli permisero di raccogliere subito in ordinata serie i suoi appunti di viaggio, e solo due anni dopo — e precisamente nelle vacanze del 1779 — potè sciogliere l’impegno, almeno in parte. Difatti scrisse una Relazione, narrando il [p. 20 modifica]primo tratto del viagio, quello cioè da Como a Zurigo, e la spedì al Firmian, che s’affrettò a ringraziarlo ed a lodarlo con lettera 2 novembre, nonchè a chiedergli «il promesso compimento di questa descrizione che fa onore alla conosciuta di Lei capacità nelle scienze fìsiche e naturali». Invero il Volta chiudeva la Relazione promettendo di scriver presto anche la seconda parte5; ma poi, tutto inteso a studi ed a ricerche sempre nuove e crescenti, e morto nel frattempo il suo mecenate (1782), non vi pensò più.

La Relazione spedita al Firmian rimase, e si conserva tuttora, negli Archivî di Stato a Milano: è una copia ben fatta — sedici pagine e mezza di formato grande, calligrafia chiarissima — che porta la firma autografa del Volta e la data 15 ottobre 1779. La minuta invece della Relazione stessa, di tutto pugno dell’autore, trovasi coi cimelî del grande fisico, depositati presso l’Istituto Lombardo ed acquistati nel 1864 dagli eredi Volta per sottoscrizione nazionale di centomila lire6. È stata notata una certa diversità fra i due manoscritti, e ciò è bastato perchè l’astronomo Frisiani sollevasse il dubbio che, invece del Volta, fosse stato relatore del viaggio il Venini. Inutile il dire che tal dubbio non ha ombra di fondamento, come l’avv. Zanino Volta egregiamente dimostrò7; le differenze, del resto, si spiegano — a parer mio — con una supposizione molto semplice: rileggendo la copia fatta dallo scrivano, il Volta vi avrà introdotto tali correzioni, da rendere necessaria una seconda copia e la soppressione della prima.

Un’altra copia della Relazione trovavasi nella ricca biblioteca di Francesco Reina8, e quando nel 1827 suo fratello Antonio [p. 21 modifica]prese moglie, Carlo Zardetti9, che stava ordinando la biblioteca, pubblicò lo scritto voltiano, servendosi di questa copia, in un opuscolo intitolato: Relazione del professore Alessandro Volta di un suo viaggio letterario nella Svizzera, ora per la prima volta pubblicata in occasione delle faustissime nozze Stabilini-Reina (Milano, dalla Società Tipografica dei Classici Italiani, MDCCCXXVII, pagine 57). Così vedeva la luce anche questo importante lavoro del sommo comasco, che non era stato compreso nella raccolta delle opere del Volta, stampate nel 1816 a Firenze a cura di Vincenzo Antinori. Ma fu una luce, dirò così, come di breve pertugio: difatti l’edizione fu tirata di soli settantasei esemplari, di cui settanta in carta velina e sei in carta forte turchina. Ora si capisce che un opuscolo, edito in così ristretto numero di copie — distribuito per giunta a degli invitati, la maggior parte dei quali, come avviene, non avrà saputo che farne, e l’avrà buttato — sia divenuto d’una rarità suprema, al punto da far quasi ritenere la Relazione siccome tuttora inedita10. Anche i biografi del Volta diedero brevissimi particolari intorno a quel viaggio: solo il Monti ed il nipote Volta ne parlarono con una certa ampiezza nelle rispettive biografie11. Quest’ultimo poi, servendosi degli [p. 22 modifica]appunti del Giornale di viaggio, e delle lettere voltiane di quell’epoca — autografi conservati tuttodì dalla famiglia Volta — ricostruì anche la seconda parte del viaggio che altrimenti sarebbe rimasta sconosciuta. In vero, non si avevano su di essa che pochissime notizie, fornite da alcune lettere del Giovio, come si vedrà più avanti. Esaminiamo intanto la Relazione, dalla quale emergerà la figura del Volta alpinista, sin qui affatto sconosciuta, mentre correva il mondo sull’ali della fama, bella e raggiante, la figura del Volta fisico e naturalista.


In questa Relazione il Comasco — che aveva allora trentaquattro anni — lascia veder già l’unghia del leone e sovratutto dimostra, col sacro fuoco della scienza che in lui divampa, un vero e profondo sentimento alpinistico. Prima di accingersi al [p. 23 modifica]viaggio si provvede degli strumenti adatti per compiere le necessarie osservazioni. Egli stesso ci avverte di aver portato con sè: «1°) due barometri portatili perfettissimi, fabbricati da codesto macchinista di Milano Marco Saruggia alla sua maniera, colla scala mobile e con adattati i termometri di correzione secondo il celebre signor De Luc: coi quali barometri ci proponevamo di misurare le altezze a cui saremmo saliti, seguendo il metodo del predetto fisico. 2°) Un eudiometro d’invenzione di codesto professore don Marsilio Landriani12, fatto fabbricare da lui medesimo e da lui medesimo esperimentato e datoci per buono, col quale strumento intendevamo far saggio della salubrità dell’aria delle diverse stazioni. 3°) Un piccolo apparato per far l’aria infiammabile e le esperienze colla pistola ad aria infiammabile di mia invenzione. 4°) Una provvisione di molti capi per le diverse esperienze, cioè di mercurio per i barometri e per altri usi; di acqua forte per fare collo stesso mercurio l’aria nitrosa all’uopo delle prove eudiometriche, e per conoscere le pietre calcari; di calamite per conoscere le pietre ferruginose, d’acciarino per le selciose, quarzose, ecc.».

Come si vede, portando seco tutti questi strumenti e corpi — che pur dice «pochi» — il Volta aveva sopratutto l’intenzione di compiere in montagna, colle misure altimetriche, molte esperienze di fisica, nonchè osservazioni di meteorologia, petrografia e geologia. A proposito poi di quest’ultime, modestamente si esprime così: «Quanto alle osservazioni sulle pietre ed altri minerali, siccome la brevità del tempo non ci avrebbe permesso di approfondirci in simill ricerche, e d’altra parte ben conoscendo io d’essere in questo studio quasi neppure iniziato, non che poco versato, sono stato contento di quelle osservazioni più ovvie e generali relative alla Geografia fisica che ci si presentavano: come di conoscere e saper distinguere le montagne calcari, quelle di schisto, le altre di granito, quelle fatte di breccia o ciottolame fluitato, le arenarie, ecc.; d’apprendere a ben ravvisare e definire il quarzo, gli spati, la mica, ecc.; profittando in queste e nelle ulteriori cognizioni dei lumi ed insegnamenti del sullodato abate Venini, di questa parte della Storia naturale più che mai [p. 24 modifica]studioso». Ma noi vedremo a momenti quante e belle osservazioni geologiche abbia saputo fare quel grande ingegno.

La partenza pel viaggio ebbe luogo a cavallo da Como il giorno 3 settembre13, e, prima di lasciare la patria, il Volta ebbe cura di iniziare in riva al lago le osservazioni barometriche. Le quali proseguì poi, co’ suoi compagni, con la più scrupolosa esattezza, fino al lago di Lucerna, ove la comitiva giunse ai 10 dello stesso mese. Narra il relatore: «Si portavano i barometri con noi a cavallo, e si faceva una stazione ogni tre ore circa, talvolta anche più spesso, per porli in esperienza. Questi barometri che [p. 25 modifica]erano; come già dissi, perfettissimi, non differivano mai di 1/10 di linea un dall’altro, posti nell’istesso luogo. Così, verificata la bontà degli strumenti, procedevamo con quest’ordine, che uno di noi con un barometro rimanesse indietro una stazione, e quivi, alla data ora, facesse l’osservazione, notando esattamente sì l’altezza della colonna barometrica, che i gradi di calore nei termometri posti e al sole e all’ombra (ciò ad oggetto di poter fare, secondo insegna il sig. De Luc, le necessarie correzioni) mentre l’altro di noi nell’ora medesima e con le medesime attenzioni farebbe la sua osservazione col barometro compagno alla stazione avanzata. Per tal maniera si escludeva ogni scrupolo che le variazioni dell’atmosfera potessero aver parte nel portare il mercurio a diversa altezza nei due barometri; e rimaneva quella qualunque fosse differenza notata in tali osservazioni contemporanee, da attribuirsi unicamente alla situazione più alta a cui si trovava uno dei due».

Riporto integralmente il giornale di siffatte osservazioni barometriche, perchè, oltre all’attestare della somma diligenza e minuzia con cui furono prese, ci danno l’itinerario seguìto dalla spedizione nel tratto da Como a Lucerna. Eccolo:


3 settembre 1777.


A Como, alla riva del lago, ore 14:
Bar. pol. 27, lin. 5 — 1° term. gr. 8 ¼, 2° term. gr. 25. Tempo sereno.
A Capo di Lago di Lugano, circa 4 ore dopo:
Bar. p. 27, l. 1 ¼ — 1° term. gr. 13 ¼, 2° term. gr. 22. Vento gagliardo alcune ore dopo.


4 settembre.


A Lugano:
Bar. p. 27, l. 3 ¾. Sereno placido.
Sulla cima del Monte Cenere, circa 3 ore dopo:
Bar. p. 26, l. 4 — 1° term. gr. 6, 2° term. gr. 14 ½.
A Bellinzona circa tre ore dopo:
Bar. p. 27, l. 6 — 1° term. gr. 7, 2° term. gr. 15.


5 settembre.


A Cresciano, ore 14 ½:
Bar. p. 27, l. 6 ¼ — 1° term. gr. 5, 2° term. gr. 7.
A Ossogna, ore 16:
Bar. p. 27, l. 5 — 1° term. gr. 10, 2° term. gr. 14 ½.
A Giornico, ore 19 1/2:
Bar. p. 27, l. 4 — 1° term. gr. 12, 2° term. gr. 17.
A Faido, ore 23 1/2:
Bar. p. 26, l. 2 — 1° term. gr. 7, 2° term. gr. 9.
A Dezio o Dazio grande, ore 1 di sera:

Bar. p. 25, l. 5 — 1° term. gr. 6 ½, 2° term....... [p. 26 modifica]

6 settembre.


A Piotta, ore 15:
Bar. p. 25, l. 2 1/2 — 1° term. gr. 7 1/2, 2° term. gr. 9.16.
Ad Airolo, ore 17:
Bar. p. 24, l. 10 — 1° term. gr. 9, 8 1/2, 2° term. gr. 9, 13 1/2.

7 settembre.


Sul monte di San Gottardo, all’Ospizio dei Cappuccini, ore 17.
Bar. p. 22, l. 1 1/2 — 1° term. 0, 2° term.....

8 settembre.


Sulla cima meridionale dell’Alpe di Fieudo, in altezza orizzontale molto superiore al piano della ghiacciaia di Luzendro, ma molto ancora inferiore alla sommità del monte che sovrasta la stessa ghiacciaia, ore 16:
Bar. p. 20, l. 7 — 1° term. 0, 2° term. gr. 9, 10.
Circa all’ora stessa ad Airolo:
Bar. p. 24, l. 9 3/4 — 1° term. gr. 9.9, 2° term. gr. 9.20.
All’Ospizio de’ Cappuccini, verso sera:
Bar. p. 22, l. 1 3/4 — 1° term. 0, 2° term.....
Ad Orsera allo Spedale, due ore dopo:
Bar. p. 23, l. 10 3/4 — 1° term. gr. 4, 2° term.....

9 settembre.


A Cassinotta:
Bar. p. 24, l. 11 1/4 — 1° term. gr. 6, 2° term. gr. 16.
A Wasen, poche ore dopo:
Bar. p. 25, l. 6 1/2 — 1° term. gr. 6, 2° term. gr. 16.
A Staeg, mezzogiorno:
Bar. p. 26, l. 8 1/2 — 1° term. gr. 10, 2° term. gr. 18.
A Altorf, verso sera:
Bar. p. 26, l. 10 3/4 — 1° term. gr. 8, 2° term......

10 settembre.


A Altorf, verso le ore 12:
Bar. p. 26, l. 11 — 1° term. gr. 6, 2° term......
Alla riva del lago di Lucerna, circa un’ora dopo:
Bar. p. 27.
Il tempo fu, in tutti questi giorni, sereno e tranquillo.


A tale specchio il Volta aggiunge le considerazioni seguenti: «Queste osservazioni barometriche furono da noi fatte con tanta esattezza, ad oggetto, come già dissi, di determinare le diverse altezze a cui salivamo, seguendo le regole spiegate dal sig. De Luc nella sua grande opera: Modifications de l’atmosphère14. Il [p. 27 modifica]calcolo pertanto fatto dal sig. abate Venini, che meco era, ci dà:15.

Dalla cima dell’Alpe di Fieudo all’Ospizio dei capp. di S. Gottardo Tese 313
Da San Gottardo ad Orsera » 371,753
Da Orsera a Cassinotta » 200,779
Da Cassinotta a Wasen » 87,776
Da Wasen a Staeg » 77,533
Da Staeg ad Altorf » 39,708
Da Altorf al Lago di Lucerna » 23,466

Che sommando insieme fanno Tese 1114,691
Il sig. De Luc ha coll’istesso suo metodo calcolata l’altezza al Lago
      di Lucerna sopra il livello del mare Tese 220

Sicchè la più alta cima a cui siamo saliti, cioè quella dell’Alpe del
      Fieudo, è elevata sopra il mare Tese 1334

«A questa istessa cima alcuni mesi prima era salito il celebre signor de Saussure, ed aveva computato assai prossimamente la stessa altezza, come conferendo con esso lui a Ginevra mi comunicò in appresso e come apparirà dall’opera grande sulle Montagne e sulla Teoria della terra, che sta ora stampando16. [p. 28 modifica]Ebbi altresì la soddisfazione, confrontando le osservazioni barometriche fatte al San Gottardo dai Cappuccini per alcuni mesi di seguito nel 1762, e le altre fatte a diverse stagioni nel 1765 dal sig. Jetzler, fisico e matematico di Sciaffusa, registrate quelle e queste negli Atti della Società fisico-economica di Zurigo, di ritrovarle tanto conformi alle nostre, quanto essere lo possono, avuta considerazione alle mutazioni di tempo, ecc.; dimodochè il minimo scrupolo non ci rimane intorno all’esattezza delle nostre osservazioni, circa alle quali possiam dire francamente, riguardando, massime al metodo sopra descritto e da noi religiosamente tenuto, di osservare sempre contemporaneamente, a stazioni diverse, due barometri perfettissimi ed egualissimi, che niuno in esattezza di tali osservazioni ci ha superato».

Dopo questo racconto, freddo e matematico, degli attrezzi adoperati e dei valori barometrici ottenuti, il Volta continua la sua Relazione con alcune splendide pagine di pittura alpinistica, che io colloco senz’altro fra le migliori del genere, degne di rivaleggiare colle più belle descrizioni alpestri, uscite dalla penna del De Saussure, del Lamartine, del Dumas padre, del Töpffer, del Rambert e del Michelet, per non parlare che dei pionieri della letteratura alpinistica. Sono pagine magistrali, dove l’alpinista, il geologo ed il filosofo si uniscono in uno sforzo concorde ed armonico per cogliere nella sua maestà solenne la fisionomia della montagna, quella fisionomia così complessa e così nuova che, la parola non solo, ma financo la tavolozza del pittore più abile difficilmente arrivano a copiare in modo fedele. Oggidì, dopo tanto spreco di bellezze alpine, dopo tante stereotipate pitture di monti, dopo tante leziosaggini e ripetizioni, oggidì la montagna si capisce e si descrive anche dagl’ingegni mediocri, come riesce facile zuffolare o canticchiare una melodia, dopo averla udita e riudita per molte sere di seguito a teatro. Ma, riportandoci ad un secolo fa e più addietro ancora, quando i monti erano considerati [p. 29 modifica]suppergiù come l'interno dell’Africa o le regioni polari al presente, quando non esisteva alcun saggio di letteratura dell’alta montagna — tranne i primi tentativi del Gessner, del Simler, dello Scheuchzer, del Bertrand, del Bordier, del Bourrit, del Cappeller, dell’Haller, del Rousseau e d’altri pochi (le opere del De Saussure e del De Luc erano in corso di stampa17) — quando insomma il campo appariva assolutamente vergine e le impressioni che colpivano l’ardito esploratore delle Alpi erano affatto nuove — come avrebbe potuto darle un pianeta le mille miglia lontano dalla terra — oh! certamente occorreva del genio per scrivere così «ex-novo» originalmente, pagine sul tipo di queste del Volta. E genio davvero, e puro genio italiano, splendeva fecondo nel cervello del fisico di Como!

Sorprendono poi, in modo speciale, chi conosce la storia delle scienze, gli accenni geologici, che a queste pagine danno maggior colorito ed importanza scientifica. All’epoca, in cui scriveva il [p. 30 modifica]Volta, la geologia positiva non s’era affermata; la maggioranza degli studiosi baloccavasi coi vacui sistemi e con le immaginarie teorie della terra; dominava sempre, incontrastabile dogma, l’ipotesi del diluvio noetico, a spiegazione d’ogni fenomeno geologico, ed i seimila anni della Bibbia erano come un dato di matematica rigorosa. Solo alcuni sprazzi di scienza vera, emanati da coscienziosi osservatori, rischiaravano ogni tanto le tenebre della geologia ufficiale: ma erano tentativi isolati, che la filosofia dominante condannava al disprezzo o, più gesuiticamente, combatteva col silenzio. Ebbene: in questo brano del Volta io trovo un’eco anticipata delle idee che in quegli anni l’Hutton stava per propalare coraggiosamente in Iscozia, ed uno squarcio profetico di quel sistema di Carlo Lyell, fondamento della moderna geologia, che solo nel 1830 veniva proclamato. Dirò anzi di più: il Volta, schivando di cadere in quel cataclisticismo, che il Cuvier elevò molti anni dopo a sistema, oltrepassava il Lyell stesso, uscendo dal rigido uniformitarismo del geologo inglese, per poggiare a quel razionale eclettismo della geologia evoluzionistica — rampollata da un’equa fusione della cataclistica colla uniformistica — che ammette colle cause lente anche qualche repentina commozione tra i fattori dei cangiamenti della crosta terrestre. Spiegò l’Hutton la circolazione delle roccie e descrisse il Lyell la denudazione delle terre emerse: nella sua Relazione il Volta tocca di questa e di quella con evidenza descrittiva e precisione tecnica, che davvero non hanno di che invidiare alle trattazioni posteriori.

Leggiamolo dunque, tutto d’un flato, lo squarcio voltiano, che preludia alle future conquiste della geologia ed alle emozioni dell’alpinismo, oggidì tanto desiderate. «In questo gran passaggio delle Alpi — ei scrive — salendo di qua la Val Ticina, altrimenti detta Valle Leventina (in tedesco Liviner Thal) sino a San Gottardo, e discendendo al di là la Valle del Reuss, fino ad Altorf, le altissime rupi scoscese e diroccate, i massi incavati e pendenti che minaccian rovina, i gran pezzi già divelti e portati al basso, onde sorgono ammassi immensi di rottami ammontati, il fracasso e l’inabissamento delle acque nelle cupe voragini della valle dirupata, valle visibilmente scavata dalle stesse acque, che in que’ dirupi si sono aperto il passaggio; gli altri torrenti minori, ma nullameno formidabili, che solcano i fianchi logori de’ monti a destra ed a sinistra della valle principale, a cui vanno a riunire le acque loro; il complesso e l’aspetto di tali cose offre ai sensi sopraffatti, ed alla meditazione profonda che [p. 31 modifica]succede, argomenti parlanti della estrema vetustà di questo nostro globo. Così è: quelle alte cime e le parti superiori della valle hanno un’aria di decrepitezza che ferisce lo sguardo, e che è impossibile di non ravvisare. Gli screpoli, le spaccature, gli scoscendimenti, lo sfacimento, dirò così, universale di quei dossi immani sono solchi impressi dal tempo distruggitore, o, a parlar più giusto, sono le traccie che rimangono dell’azione indeficiente e combinata degli elementi, che, da una serie lunghissima e al nostro pensiero inarrivabile di secoli, operano sopra quelle masse enormi, quanto più elevate, tanto più esposte all’impeto dei venti, delle procelle e dei turbini, alle nevi, alle vicende d’umido e di secco, di ghiaccio e di sgelamenti. Siffatti diroccamenti e rovine in parte saranno effetto di cause violenti che agiscono per intervalli, e, per così dire, a scosse: in parte di altre cause, che, per essere più lente e tranquille, non sono meno possenti, siccome quelle che sono continue. Quando si riflette a queste od a quelle cagioni di degradazione de’ monti altissimi; quando una volta si porta l’occhio in giro a quelle balze ed a quei dossi petrosi, logorati, sfasciati, diroccati, tosto si presenta al pensiero, già atterrito da tale imagine di distruzione universale, un’idea delle rovine ancor più strepitose, che menar devono i torrenti che nelle grosse piene d’alto piombano in un coi gran massi travolti e rotolanti, e si precipitano ne’ gorghi. E già corre l’imaginazione a figurarsi come qua si formino dall’ammucchiamento delle rovine e de’ rottami nuove montagne, là le poc’anzi formate si demoliscano, mentre le antiche, altamente percosse ne’ fianchi e nelle radici, soffrono i più gran crolli.

«Nel mentre che tutta l’anima è assorta da tale meditazione, e compresa da grandi oggetti, l’occhio è anche incantato (a misura che ci avanziamo nella valle salendo) dalle prospettive terribili insieme e maestose de’ dirupi, delle superbe cascate, del fiume medesimo, che allato della strada sovente angusta e rovinosa, e sotto d’essa, alla profondità quando di 300, quando di 500 e più piedi, mugge orribilmente e spumeggia, rompendosi contro il nudo ceppo irsuto e contro i macigni giù al fondo precipitati; finalmente degli accidenti d’ombra e di luce che si riflette dalle creste sassose, si perde nei seni, si rifrange da’ ghiacci, si oscura nelle piante di abeti e tassi, quai vegeti, quai già cadenti ed infradiciati, sparsi qua e là sul dorso medesimo delle rupi scabre ed inaccessibili. Sopratutto l’occhio è colpito e il cuore commosso dal bel contrasto e magnifico di una valle deliziosa ed aperta, ricca di bei pascoli e popolata da pingui mandre, che [p. 32 modifica]succede immediatamente ad una gola buia, stretta e profonda, il cui aspetto sgomenta il passeggero. Tale è la valle tra Orsera e l’Ospedale.

«Venendo da Altorf si sale per molte ore la Valle del Reuss, che sempre più si ristringe, e sempre più le rupi addossate sopra le rupi vi si ergono altiere e minacciose, e il nudo delle loro visceri ne si mostra dagli aperti flanchi; si passa il famoso ponte cognominato del Diavolo (Teufels Brücke) e si arriva a un monte attraversato, che chiude il calle e che toglierebbe il passaggio, se questo non fosse stato con studio e con fatica immensa praticato dentro allo stesso macigno, il quale si vede maravigliosamente sforato da una parte all’altra. Ora sortendo da questo sforo, largo sufficientemente ed alto per passarvi a cavallo, e lungo più di 200 piedi, tutto cieco, a riserva del lume debole che vi dà un piccolo finestrello verso la metà, vi si apre l’anzidetta bellissima valle d’Orsera, piana, larga e tutta pascoli deliziosi. Ho nominato il Ponte del Diavolo, che è di là del San Gottardo poco sotto Orsera e il foro del monte. Non è questo il solo ponte arditamente gettato sopra la valle inabissata e sorretto dal ceppo nudo, il quale faccia strada da un monte all’altro; ma esso è il più notabile e maraviglioso tra i molti di questo genere che si incontrano in quel tremendo cammino, per la prospettiva terribile che offre sì da lontano che da vicino. Qui può dirsi che segga come in suo trono la Deità del terrore. Nude rupi altissime soprastanti, strada e ponte sopra il Reuss, che si sprofonda in un abisso spaventoso, sostenuti come per miracolo; di sopra il fiume medesimo formante una cascata lunga forse 300 piedi, da un’altezza che perpendicolarmente presa è più di 100, cascata che si vede in distanza rovesciarsi sopra il ponte medesimo e lunghesso scorrerne in parte le acque, in parte percuotere di quello il gran fianco arcuato, e quindi spezzate precipitare nel gorgo; tutto ciò unito insieme forma uno spettacolo che invano mi sforzo di descrivere; spettacolo che un essere sensibile e pensante mirar non può, per la prima volta almeno, senza tremare ed agghiacciare.

«Un’altra situazione che a me è parsa non men terribile, è di qua del San Gottardo, sotto il cosidetto Dazio Grande. Ivi le rupi, che son d’attorno serrate ed altissime, quasi non lascian vedere il cielo; sortono alcune dal perpendicolo e inchinate pendono sopra la valle cui minacciano di coprire. Lo spettatore non può alzar l’occhio, né abbassarlo alla valle sfondata, senza sentirsi stringere il cuore: qui non ode, non parla; qui tutta in un pensiero è concentrata la sua esistenza. Ma che vo io parlando [p. 33 modifica] di questa o quella situazione terribile, se ad ogni passo di tali se ne incontrano in quel viaggio; se quasi null’altro si affaccia al passeggiero, per ore ed ore, che dirupi e rovine sovrastanti al capo e precipizî aperti sotto de’ piedi? Sovente sopra la valle profondissima, che gonfia e spumante rumoreggia, altro piano non havvi che quello della strada angusta tagliata nel nudo ceppo, e a luogo a luogo sostenuta da muri fondati a gran profondità sopra punte di scogli; ed in tal sito, dove s’incurva addentro in un col monte la strada, e la valle più s’inabissa, una larga cascata d’acqua dal ciglion della roccia soprastante piomba sulla strada medesima, e di là rotta balza nel profondo. Ho già parlato dei pezzi di sasso orribilmente grossi, talvolta di centinaia di piedi, che sonosi dalle rupi staccati e precipitati al basso, d’altri che stanno sull’orlo delle prominenze e minacciano ogni momento la caduta, e di quelli finalmente che, arrestati nel corso da piante od altro, e l’uno all’altro addossati, non aspettano che un’acqua impetuosa che li trascini, od un semplice urto che li travolga; ma non ho detto che si veggono tuttavia delle case piantate qua e là sotto quelle masse pendenti, e che gli abitanti delle medesime vi vivono (chi ’l crederebbe?) tranquilli e tengonsi non meno sicuri che i principi nei loro palagi. Tanti dei grossi ceppi venuti sino in fondo della valle, ed ivi impiantati, vi si veggono non ancora spogliati in tutto dell’antica veste d’erbe e di piante allignatevi. Così una quantità di abeti e di tassi, cresciuti già un tempo sul ciglio o sul dorso del monte, e strascinati quindi al basso dalle pietre che sonosi spezzate e divelte, giacciono qua e là o solitarii, o sopra le pietre medesime, o intieri o fracassati, dove ancor verdi, dove disseccati o fracidi, in tutte quante le posizioni. Sembrano per lo più all’osservatore quei grossi tronchi e quelle piante altissime nulla più che bastoni o ramoscelli: tanto gli impicciolisce all’occhio la profondità in cui si mirano, e la mole gigantesca delle rupi che loro stan sopra».

Fatta così viva pittura dell’ambiente alpino tra cui corre la strada del San Gottardo18, il Volta viene a parlare in modo [p. 34 modifica] speciale del monte stesso. Anche qui, alla colorita descrizione dei luoghi ed ai particolari topografici, botanici e faunistici, aggiunge molte notizie geologiche di grande interesse, data l’epoca in cui dettava la Relazione. È poi bello vedere il grande osservatore e sperimentatore richiamare al vero metodo di studio e di ricerca que’ traviati suoi contemporanei che, per ispiegare l’origine dei fiumi, si perdevano in un mondo di chiacchiere e di calcoli, di ipotesi e di bizzarrie, senza pensare affatto che l’unico mezzo di venire ad una soluzione giusta del gran problema era semplicemente quello di studiarlo sul terreno, risalendo i fiumi stessi, e non al tavolino fra i libri vecchi e le corbellerie della fisica antisperimentale. Parlando de’ ghiacciai come generatori dei fiumi, il Volta prelude agli studî sui medesimi, che, iniziati sulla fine del secolo scorso, furono ripresi con vero criterio [p. 35 modifica]scientifico verso la metà del secolo presente da parecchi valenti fisici e naturalisti19.

Ecco come dipinge i paraggi dove sorge l’Ospizio dei Cappuccini, attorniato da varî laghetti. «Quivi non più cascate, non più precipizî ed abissi sotto de’ piedi; non v’ha niente di terribile per la vista, fuori che il tetro aspetto desolante de’ sassi nudi, sterilissimi, fessi e marcati da tutte quelle traccie di vetustà e decrepitezza di cui ho già parlato. Non havvi colassù nè pianta, nè virgulto; e tale nudità s’estende per ben tre ore di viaggio, cominciando dopo un gran bosco di pini sopra Airolo, e non terminando che fin verso la valle d’Orsera dall’altra parte, eccetto qualche raro arbusto che cresce, ma non su nel più alto; perocchè ivi la natura vegetabile è ristretta al muschio tenace che vive anche sotto le nevi, e a poche altre erbe che nascono singolarmente sul margine di quei laghetti; e la natura animale alle camozze solinghe abitatrici de’ dirupi, alla passera delle Alpi sempre triste e gemente, e a qualche augello di passaggio, per lo più del genere delle aquile e degli avoltoi. Già i laghetti, per il più dell’anno, rimangono gelati, e non nutriscono alcuna sorta di pesce. Insomma, se al principio della salita si offrono al viaggiatore dei siti di un bell’orrido, ove la natura fa pompa di sua maestà gigantesca, se avanzando verso il centro de’ gran monti [p. 36 modifica]incontra situazioni d’aspetto più terribile ed altre molte, qui sopra il San Gottardo, nudo, deserto, desolato, vede e sente spirare qualche cosa di peggio del terrore: l’imagine della morte».

Indi prosegue: «In tutta la catena delle Alpi il monte San Gottardo è il più elevato. Il passaggio di qui sorpassa tutti gli altri dello Spluga, del Gran San Bernardo, del Sempione, ecc. Gli antichi chiamavano quel passo Summae Alpes. È dunque fuor di dubbio che colassù, ove trovasi l’Ospizio dei Cappuccini, è la strada e l’abitazione più alta d’Europa. Dico strada ed abitazione, non già sito o sommità, per lasciar intendere che ben vi sono delle altre cime più alte che fan corona d’intorno, ma senza strada praticabile e appena accessibile ai cacciatori di camozze. Tutte queste cime e dossi appartengono generalmente al monte S. Gottardo, ch’è tutt’insieme un ammasso di monti; sebbene più comunemente si approprî tal nome in particolare a quel sito ove passa la strada dinanzi all’Ospizio già nominato. Questo sito presenta una pianura, o a dir meglio un deserto sassoso ineguale, lungo, secondo la direzione della strada, forse un miglio, e largo assai più, tutto screpolato ed aspro di rottami, circondato da altri monti, da roccie e vette torreggianti, quali nude, quali coperte più o meno da nevi e ghiacci sempiterni. Di questi monti li più nominati, e le di cui sommità sono forse meno inaccessibili, sono la Forca, il Grimsel, il Monte Uccello, l’Alpe di Fieudo. Su quest’ultimo noi scegliemmo di montare, e riuscimmo a grande stento di assiderci sull’estrema vetta. Nel gran deserto sassoso ho già accennato che vi sono dei laghetti; questi hanno origine dalle sopraeminenti ghiacciaie, una delle quali noi pure visitammo, cioè quella che forma il più grande di tai laghi, detto di Luzendro, il quale mi parve lungo più di un miglio e largo quasi mezzo. Da questo lago in gran parte sorte il fiume Reuss, che va poi a formare il lago di Lucerna; gli altri laghetti più piccoli trovansi d’attorno assai vicini all’Ospizio dei Cappuccini, e quasi sulla strada, e da questi ha origine il nostro Ticino.

«Si sono fatte tante questioni sull’origine de’ fiumi, si sono fabbricate tante ipotesi; ma se invece di disputare e di scrivere, di far sistemi e di combatterli, di calcolare con pochi tratti di penna la quantità de’ vapori e delle pioggie, di creare a loro posta nell’interno de’ monti e ricettacoli e filtri e limbicchi, si fossero per tempo avvisati i filosofi di sortire dai loro gabinetti per seguire il filo de’ fiumi risalendo alle loro prime sorgenti nelle Alpi, veduto avrebbero come tutti i fiumi hanno la loro culla e l’alimento perenne dalle ghiacciaie, le quali per [p. 37 modifica]istemperarsi e stillare che facciano sotto la sferza del sole, o per influsso di pioggie o di venti tepidi, non avviene però mai che si struggano del tutto e manchino. Son desse le ghiacciaie che visibilmente partoriscono il Ticino ed il Reuss. Io ne ho vedute le prime goccie stillanti da un muro di ghiaccio, e i primi fili serpeggianti per il muschio, pei rottami e per le fessure de’ sassi: questi fili uniti in rivoli gli ho seguiti sino ai primi ricettacoli, che sono i laghetti già più volte mentovati del San Gottardo, e di là finalmente ho visto scendere le acque più raccolte e dar principio al vero fiume. L’estensione delle ghiacciaie è vasta dietro le nominate cime dei monti, e quindi hanno origine gli altri fiumi, il Rodano, l'Aar, il Reno. Il primo dietro il monte Forca, il secondo dietro il Grimsel, e l’ultimo nel monte Adula posto più ad oriente nel paese dei Grigioni. Gli altri due gran fiumi d’Europa, il Danubio ed il Po, scendono dalla stessa catena delle Alpi, ma distanti un di qua, un di là del San Gottardo; e la loro origine va a perdersi sicuramente ne’ grandi ammassi di ghiaccio che regnano tutt’al lungo dell’anzidetta catena.

«Da quanto abbiam potuto osservare, tutta l’interiore massa di questi gran monti alpini è di pietra dura vitrificabile, che non ha ordine e stratificazione alcuna regolare; e questa pietra è un bel granito. Perciò è che quei monti alti del mezzo deggiono reputarsi originarî (se di tali pur ve n’hanno di coetanei alla prima formazione della terra; perocché non mancano argomenti di crederli essi pure figli dell’acqua o del fuoco, partoriti in alcuna delle grandi convulsioni che deve aver sofferto ne’ primi remotissimi tempi il nostro globo) o primarî almeno; a differenza delle montagne secondarie di pietra calcare, di arenaria, di breccia e di altre che hanno troppo chiari indizî di una formazione posteriore, fattasi successivamente, o per sedimento delle acque, o pel corso delle medesime, che ha ammassati qua e là materiali, scavato valli d’attorno, ecc. Solamente al piede di codeste Alpi, e nei pezzi di monte quasi esteriori alla gran catena, applicati, dirò così, alle falde de’ più eminenti, si trovano degli strati calcari, argillosi, e, inoltrandosi un po’ più, delle montagne di schisto che ha sparso delle vene di quarzo. Ma come si giunge ad internarsi molto, scorgesi che il vero nucleo di quell’aggregato di monti è tutto quanto granitoso. Un pezzo prima dell’ultima gran salita, che comincia sopra Airolo (qui solamente, a dritta di questa terra, trovasi, a gran meraviglia, una cava di pietra da calce) e, superata quella, per tutto il deserto sassoso colassù a San Gottardo, e quindi pure scendendo fin sotto Orsera un lungo tratto, [p. 38 modifica]altro sasso non si vede e si tocca che granito; granito sono il dorso e i fianchi de’ monti; granito i massi divelti e trasportati nelle valli, e que’ che stanno terribilmente pendenti; rupi smottate di granito e rottami dello stesso su cui ferma lo stanco piede il viandante; greppi e balze di granito, cui sale d’uno in altro lanciandosi la camozza inseguita dal cacciatore, che vi si inerpica a stento.

«Vero è bene, che per asserire che la massa interna delle Alpi, il vero nucleo sia tutta pietra granitosa, non basta aver ciò osservato nel passaggio da noi fatto del Gran San Gottardo. Ma poiché la stessa cosa han trovato dappertutto gli ultimi diligentissimi osservatori che hanno attraversate le Alpi in diversi siti, e singolarmente il sig. De Saussure che ne ha percorsa varie volte tutta la gran catena, non si ha più luogo a dubitarne. Una assai bella dissertazione letta gli 11 novembre 1775 in una pubblica adunanza dal signor D’Arcet, Sullo stato attuale delle montagne de’ Pirenei e sulle cagioni del loro degradamento20, che trovasi inserita anche nella Scelta d’Opuscoli di Milano, volume 35, vi rappresenta questa catena di monti avente pur essa l’interior massa e le nude ossa di pietra granitosa, e i gran fianchi e le alte cime così irte, sfasciate, diroccate, e con tutte quelle altre vestigia di vetustà e di decrepitezza, che nelle Alpi riscontrato abbiamo. Insomma, tale e tanta è la conformità dei monti Pirenei co’ nostri Alpini, che al leggere di quelli la descrizione, subito dopo il mio viaggio fatto in questi, ne rimasi non men sorpreso che soddisfatto. Da tutto questo siamo condotti a stabilire, quasi con sicurezza, l’interna massa delle montagne primarie della terra essere di granito. Se le Cordigliere, quei gran monti dell’America Meridionale assai più elevati delle Alpi, e incontrastabilmente i più alti della terra, si trovano essi pure avere il nucleo di simil pietra, la proposizione sarà sicura ed universale».

Il lettore che ha qualche nozione di orografia e di geologia avrà notato, nel passo che precede, alcune notizie le quali non corrispondono più oggidì alla verità. Le affermazioni, infatti, che [p. 39 modifica]il San Gottardo è il monte più elevato delle Alpi e che le Cordigliere sono le montagne più alte della terra sono del tutto erronee. Ma a scusa del Volta, o, per dir meglio, di tutti i suoi contemporanei — ricordiamoci che si tratta del 1779 — bisogna sapere che nella seconda metà del secolo scorso si immaginava che le cime del Gottardo fossero le più alte della Svizzera e dell’Europa. Nel 1705, secondo le misure del Mariotte e del Cassini, si assegnava all’Ospizio l’altezza media di 6443 piedi parigini e nel 1728 lo Scheuchzer dava al Gottardo un’altezza di 5630 piedi sul mare; ma poi venne nel 1755 il colonnello Michely che ne valutò l’altezza pari a metri 5.500; ed il De la Borde nel 1783 lo spacciava, senz’altro, come la montagna la più alta d’Europa21. Sembrava in certo qual modo necessario che le [p. 40 modifica]montagne, dalle quali scaturisce tanta copia d’acqua, avessero un’altezza proporzionata alla loro importanza idrografica22; insomma si faceva di esse come il «comignolo dell’Europa» [p. 41 modifica]analogo a quel «tetto del mondo » che sorge nel centro del continente asiatico. Per di più il Gottardo, a cagione del suo valico, era il punto maggiormente frequentato, e quindi più conosciuto delle Alpi, mentre tutto il resto della catena giaceva affatto inesplorato, ad eccezione delle visite, per la scienza inutili, dei cacciatori di camosci e di marmotte, e di tutta quella gente che saliva i monti o sovr’essi rifugiavasi per iscopi tutt’altro che alpinistici. Il Volta, appoggiandosi sui dati che allora si avevano, sbagliò inoltre ritenendo l’Ospizio del San Gottardo come l’abitazione ed il passaggio più alto d’Europa, poichè misure più esatte prese in seguito assegnarono una altezza maggiore al Gran San Bernardo, che a sua volta fu sorpassato dal valico dello Stelvio, aperto intorno al 1825. Quanto poi al ritenere le Cordigliere come le più alte montagne della terra, la cosa è del pari spiegabile, se si pensa che la catena dell’Imalaia era ancora, per così dire, nel regno dei miti, mentre i picchi dell’equatore americano erano stati misurati e descritti dagli scienziati francesi Godin, Bouguer e La Condamine, inviati laggiù nel 1735, coll’incarico dell’Accademia di fare osservazioni di vario genere e sopratutto quelle che reputavansi le più atte a determinare la figura della terra23.

Anche in fatto di geologia si potrebbero, alla luce delle conquiste moderne, fare alcuni appunti alle notizie fornite dal Volta; ma, come ho già detto, se ci riportiamo ai tempi in cui la relazione, che abbiamo sott’occhio, veniva stesa, invece di critiche dovremmo tributare non poche lodi al sagace osservatore. Il quale, [p. 42 modifica] senza il sussidio di precedenti lavori, e pur dichiarandosi profano alle discipline geologiche, aveva saputo comprendere abbastanza bene la composizione petrografica e la struttura tectonica del gruppo del Gottardo, e condensare l’una e l’altra in poche righe, che paiono un sunto degli studi fatti sul Gottardo stesso sessanta anni dopo e delle idee che prevalsero fra i geologi fino a pochi lustri or sono. Certamente, dopo i progressi immensi operati dalla geologia alpina e dopo le minuziose ricerche compiute in occasione del traforo, la costituzione geologica del gruppo di cui si parla è ben più svariata e complessa di quanto appaia dallo schizzo voltiano, nè l’asserzione generica intorno al granito come nucleo centrale dei monti più alti concorda coi rilievi geologici, che si son fatti dippoi; tuttavia insisto a dire che quello schizzo rappresenta già un progresso notevole sulle conoscenze geologiche dell’epoca, ed attesta una volta di più del grande spirito d’osservazione e dello incommensurabile ingegno dell’uomo cui dedichiamo queste righe 24.


Continuando nell’esame della Relazione, troviamo in seguito accennate le esperienze, che il Volta fece sul San Gottardo circa la salubrità dell’aria, usando all’uopo l’eudiometro del Landriani. Secondo le idee chimiche allora in voga ritenevasi che la salubrità dell’aria dipendesse dalla minore quantità dell’ipotetico flogisto in essa contenuto: ma le ricerche del Volta, siccome fondate sovra una rigorosa esperimentazione, cominciarono a scuotere questo principio, che aveva radice più nei ragionamenti astratti che nello studio della realtà. Invero sentiamo il Volta asserire che dei risultamenti ottenuti al riguardo non potevasi fare gran [p. 43 modifica]conto. Ed aggiunge: «Quello però che potemmo raccogliere dai diversi tentativi è che l’aria a quelle grandi altezze non è gran fatto men carica di flogisto che nelle stazioni inferiori, come aspettato ci saremmo; anzi, ci parve, più d’una volta, che lo fosse alquanto di più».

E dopo aver citate altre prove posteriormente fatte, come quella del confronto fra l’aria montanina e saluberrima di Bormio e la palustre, perniciosa di Colico, confronto eseguito da lui stesso nel 1778, così conclude: «L’esperienza non ha dunque confermato quello che troppo precipitosamente si era voluto avanzare; cioè che l’aria ne’ contorni paludosi sia più abbondante di flogisto, o in qualsivoglia modo più vicina a rimanerne saturata che altrove; e molto meno che la salubrità o insalubrità di diverse arie, sia in ragione che esse sono più o meno distanti da questo termine di saturazione. Vi hanno senza dubbio indipendentemente dal flogisto altri elementi che influiscono sulla bontà dell’aria e sulla salute dei viventi che la respirano; e il decantato istrumento, cui si è dato troppo generosamente il nome di eudiometro, sarà sempre inabile da sè solo ad iscoprirci le arie che sono veramente infette e morbose: esso varrà soltanto ad iscoprirci quelle che sono mofetiche, o che partecipano più o meno della natura delle mofette».

A proposito di «arie mofetiche» il Volta fece lassù altre esperienze e precisamente quelle di esaminare l’aria pescata dal fondo dei laghetti del San Gottardo. E riferisce: «Quest’aria, che raccolsi in buona dose, trovai essere della solita aria infiammabile che ho scoperto stanziare generalmente in fondo a tutti i fossi ed acque morte. Comecchè però lo stesso sia il principio e la produzione di quest’aria infiammabile, pur colassù è sembrato più mirabile il ritrovarne, attesa la strana altezza, la natura del monte e del recipiente medesimo in cui raccolte trovansi quelle acque, che sono ceppi di sasso vivo scavati, con sul fondo qualche piccolo sedimento di terra o loto leggiero, formatovi dalla macerazione di alcune erbe; e sopratutto atteso il quasi perpetuo rigidissimo freddo che tien que’ laghi stretti in durissimo ghiaccio più di due terzi dell’anno».

La discesa dal monte fino alla città di Lucerna viene così narrata: «La discesa del San Gottardo, dalla parte di là fino a Staeg, dove comincia la Valle del Reuss ad esser piana, e più avanti ad allargarsi in bei prati fino ad Altorf, anzi fino a Fruelen, capo del lago di Lucerna, distante da Altorf più di un grosso miglio; la discesa, dissi, del San Gottardo fino a Staeg è più corta [p. 44 modifica] e rapida che la discesa della parte di qua dal San Gottardo a Bellinzona: quella si fa in sette ad otto ore di cammino, per quest’altra ve ne vogliono circa dodici. Noi ci imbarcammo a quel capo di lago, e siamo giunti in sette ore circa di viaggio a Lucerna, situata all’altro capo. Sopra Altorf e sopra il lago, per lungo tratto, veggonsi torreggiare montagne altissime e nude rupi spaventose. Il sasso che, costeggiando il lago a destra, abbiamo esaminato, è una specie di schisto calcare durissimo; in alto si veggono degli strati apparentemente dello stesso che hanno disposizioni singolari e bizzarre. Si va dritto sul lago fino a Brunen, sopra cui si presentano in bellissima vista le dolci colline, i pascoli ridenti (che sono reputati i migliori ed i più ubertosi di tutta la Svizzera), i graziosi paesetti e i molti sparsi casini del cantone di Schweitz. Quivi a Brunen, il lago, piegando a sinistra, va per una tirata lunghissima fino a Lucerna; esso si allarga però, passato il mezzo, in due gran seni, de’ quali l’uno a sinistra più entrante mette al Cantone di Underwalden, l’altro a dritta a Küssnacht confinante col Cantone di Zug e vicinissimo al lago dell’istesso nome. Egli è per tale comunicazione che il lago di Lucerna è stato chiamato e si chiama pur anche adesso Der Vier-Waldstätten-See (il lago dei quattro Cantoni foresti). Oltre i mentovati due gran seni, l’istesso lago si dirama in altri luoghi, talchè si può dire che sia il più distorto e ramificato dei laghi che conosciamo. Alcune ore prima di Lucerna l’orrido dei monti si fa lontano, e succedono vaghe colline piantate d’alberi fruttiferi e decorate da qualche casino; fin là il lago è spopolato non meno di barche che di case e paesi».


A questo punto il relatore imprende a descrivere la città di Lucerna; e dopo alcuni cenni su di essa25 viene a parlare, [p. 45 modifica] con grande entusiasmo e con abbondanza di particolari e di considerazioni, di un’opera curiosissima ed importante, che, in difetto di biblioteche, gabinetti e musei, potè ammirarvi. Val proprio la pena di riportare per intero quanto scrive il Volta intorno a quest’opera, sia per l’interesse che la notizia può destare e sia perchè trattasi di un altro benemerito precursore dell’alpinismo. Così incomincia: «.....se Lucerna non può mettersi a fronte di molte altre città della Svizzera in materia di Gabinetti e collezioni di Storia naturale, essa si innalza sopra tutte per quell’opera grande, ammirabile, unica nel suo genere, che vale assai più d’ogni più bel Gabinetto e vasta collezione, non solo agli occhi del curioso viaggiatore, ma a quelli pur anche del naturalista, del geometra, e del geografo filosofo; opera, il cui solo progetto svela in chi potè concepirlo una forza di spirito superiore, un genio vasto e luminoso; e la felice sua esecuzione un coraggio veramente filosofico, accompagnato da un singolar corredo di cognizioni, di sagacità, di finezza in ritrovare i mezzi, vincer le difficoltà, e tutto condurre perfettamente all’inteso scopo. Conceda il Cielo all’indefesso autore vita e forza onde condurre a termine quest’opera prodigiosa, monumento di eterna gloria a lui, alla patria, alla nazione, monumento il più grande e proficuo per la Geografia fisica che esista e che mai siasi potuto immaginare».

E prosegue narrando al conte di Firmian: «V. E. ha compreso che io ho in vista la gran pianta ossia modello in rilievo di tutto il paese degli Svizzeri, che sta ora costruendo il sig. Luigi Pfiffer, commendatore dell’ordine di San Luigi, luogotenente generale delle armate di S. M. Cristianissima, e senatore della Città e repubblica di Lucerna. Un’opera di questa natura è facile immaginarsi con quanto interesse e piacere deve essere mirata e contemplata dal viaggiatore attento e curioso, il quale si vede posti sott’occhi ad un tratto, ed espressi con tutta la giustezza e precisione, e monti e valli e pianure e fiumi e laghi, quei medesimi [p. 46 modifica] che egli ha percorsi, o che si dispone a percorrere. Quivi tutto egli trova disegnato esattamente: un bosco, un rivo, un sentiero, una siepe, un casolare non vi manca; e il tutto vi vede rappresentato coi nativi colori. Ma il filosofo naturalista vi trova un pascolo ancor maggiore. Conciossiachè egli è qui in istato di contemplare a suo talento, senza fatica e senza pericolo, l’estensione, la qualità, i caratteri di una parte della terra sì interessante alla Storia naturale. Avendo dinanzi agli occhi il complesso di tutti i monti, le catene che essi formano, la distanza, l’altezza, la posizione e figura di ciascuno; scoprendo tutta la estensione delle ghiacciaie, la caduta ed il corso delle acque, le grandi valli primarie e le altre derivate secondarie, gli allagamenti; offrendoglisi ritratti ad uno ad uno i dirupi e le balze, e sino gli antri e le punte più bizzarre delle roccie, ecco, dice, stabilito pei secoli avvenire un punto di paragone da cui misurare il successivo cangiamento e la degradazione che produr vi sapranno le rivoluzioni dei tempi. Intanto si interna nella meditazione delle già sofferte vicissitudini del globo, chiama a rivista le sue idee, le rettifica, facendone l’applicazione agli oggetti; conferma o corregge il risultamento delle sue osservazioni; cimenta novellamente questa e quella ipotesi; comprende infine essere le valli opera delle acque che si sono scavati quei passaggi: perocchè il dire che colà sian corse fin da principio dove trovarono il passo già aperto e le valli già formate, è supposizione gratuita che punto non appaga; quando all’incontro le osservazioni sull’andamento delle stesse valli, nella corrispondenza degli angoli entranti e salienti, e tant’altre che troppo lungo sarebbe il qui addurre, depongono tutte in favore della prima opinione. E certamente l’aspetto generale di quell’ammasso di monti, divisi dalle principali valli in lunghe catene, tre massime osservabili, tirate quasi per dritto dal principio alla fine di detto ammasso montuoso, e per tutto quel tratto continue, se non in quanto vengono intersecate da altre valli e torrenti minori, aventi, quella di mezzo la massima altezza, e minore a proporzione le laterali, e declinanti tutte gradatamente verso le due estremità; un tal aspetto, dissi, ne conduce naturalmente a pensare che tutt’insieme quella massa non fosse da principio che un sol monte, una elevazione di una parte della terra in forma di gobba, ossia un gran dorso convesso; che poi, bersagliato dall’ingiurie del tempo e degli elementi, dalle pioggie, dai venti, dai geli, intaccato e sordamente minato (per nulla dire dei terremoti e dei vulcani che concorrer poterono colle loro tremende scosse, e fors’anche furono i primi [p. 47 modifica] a lacerarlo ed infrangerlo) cominciasse a dare scoppî e ad aprire fessure e condotti alle acque, le quali, seguendo indi col rapido corso a tagliare e sprofondare quei primi letti, e con irruzioni improvvise a scavarne de’ nuovi, giunsero col lungo andare dei secoli a formare tutte quelle grandi valli che veggiamo di presente.

«Tale è il sentimento dell’istesso sig. Pfiffer, al quale ognuno di buon grado consente, qualor facciasi a considerare con attenzione il tutto e le parti di quel gran paese montuoso nel suo modello in rilievo. Dopo tutto ciò nessuno meraviglierassi che frequenti siano i viaggiatori, i quali, dalla Germania, dalla Francia e dall’Inghilterra si recano a Lucerna, e alla casa del sig. Pfiffer, ad oggetto d’essere spettatori e ammiratori della sua grand’opera, e che uno de’ più abili disegnatori di Francia sia pur venuto, due anni sono, espressamente a levarne il disegno, che inciso in rame uscirà, e forse a quest’ora è già uscito, colle stampe, e servirà a renderla più famosa. Ho accennato che la grand’opera non è ancora terminata. Essa era però, quando la vidi, già avanzata a segno che comprendeva ben 140 leghe quadrate, abbracciando l’intero lago, la città e quasi tutto il cantone di Lucerna, con parte dei cantoni aggiunti, cioè di Zug, di Schweitz, Engelberg, Underwalden alto e basso e Uri, fino alla sommità del San Gottardo.

«Per aver un’idea del materiale dell’opera, bisogna figurarsi un gran tavolo, come sarebbe un tavolo da trucco, ma assai più grande, che occupa quasi interamente una sala di mediocre grandezza; cosicchè, per aver luogo di estendersi, il sig. Pfiffer fa ora fabbricare un casino con un salone adattato. Sopra tal tavolo, che serve di base, sorgono disegnate in rilievo le montagne, i terreni, i boschi, le case, ecc, ecc. La materia principale ond’è composto è una mistura di cera cotta con segatura di legno duro. Le case sono di ferro conficcate a martello come chiodi. I boschi sono di lana coperta di cera mescolata con vischio; e tutto questo di una tale consistenza che non si può rompere senza strumenti. Le punte delle roccie sono di pietra, tagliate e scolpite nei luoghi medesimi. Ogni cosa poi ha ricevuto il proprio colore; le praterie e terre coltivate sono dipinte al naturale; le acque ed i laghi hanno una tinta cerulea; le cascate sono inargentate. Finalmente un grande ombrello, che si può calare e inchinare a volontà sopra questo gran modello, serve a spargervi l’ombra in modo che ne rappresenti, al naturale, l’oscurità della sera in que’ luoghi alpestri. L’opera tutta è divisa in varî pezzi, [p. 48 modifica] che sono saldati assieme con cera, cosicchè si possono trasportare agevolmente, tagliandone con un coltello riscaldato le saldature. Il non mai abbastanza lodato autore di quest’opera senza esempio, ha impiegato sopra tutto ogni studio e diligenza a dare a ciascuna parte le giuste proporzioni; nel che ha portato l’esattezza fino allo scrupolo. Egli ha più d’una volta prese le misure delle altezze dei monti dai diversi lati, tanto coi metodi geometrici usitati, ed altri da esso lui immaginati, quanto col barometro, (relativamente al quale egli trova qualche cosa a ridire al metodo del signor De Luc). La scala di proporzione di cui si è servito il signor Pfiffer nel suo modello contiene per ogni linea del piede del Re 14 tese26.

«Chi può dire le fatiche e le spese che ha costato a questo uomo unico il misurare, per così dire, passo passo un paese qual’è l’Elvezia, pieno di dirupi e di precipizî, e gli ostacoli ed i pericoli che ha dovuto superare? Egli stesso ci raccontava come ha dovuto prima farsi portare a spalla da uomini, poscia addestrarsi alla vita de’ cacciatori di camozze, cui giunse quinci a superare [p. 49 modifica] ed a lasciarseli addietro, salendo egli solo sopra le balze più scoscese; come oltre ai ferri uncinati, di cui sogliono quei cacciatori ed altri che vanno in cerca di cristalli di rocca, armare le scarpe, dovette imaginare nuovi ordigni, e far uso di catene e di corde, dove a salire i più irti greppi, dove a calare ne’ più profondi precipizî. Ci narrava varî incontri pericolosissimi che ebbe, e per cui dovette ora rimpiattarsi ne’ nascondigli, ora coprirsi sotto le spoglie di cacciatore, ora sottrarsi colla fuga alla persecuzione di rozzi montanari, che, gelosi eccessivamente di loro indipendenza e sospettosi d’ogni cosa, lo avrebbero di sicuro maltrattato, se non anche cercato a morte, qualora ravvisato l’avessero per forastiero; e dall’apparecchio degli stromenti, dalle operazioni di prender misure, siccome da altre sue curiose ricerche, imaginati si fossero di vedere in lui un esploratore che cerca di riconoscere i posti, per poi dare in mano ad un padrone il loro paese, da essi creduto libero e sicuro in quanto solo si mantiene inaccessibile o almeno non conosciuto27.

«Finalmente, tra gli stenti e le difficoltà ch’altri crederebbe insuperabili, da esso però superate, quella ci descrisse, che a lui ed a noi parve la maggiore di tutte, ed è il procurarsi il sostentamento per settimane intiere ch’ebbe a passare percorrendo i più alti dirupi e le nude vette scoscese, lontanissimo come da ogni abitazione così da qualunque soccorso de’ viventi. Già il portar seco molta provvisione di pane o d’altri cibi non era possibile, dovendo fare assai a salire arrampicando con mani e piedi l’uomo solo sciolto da ogni impaccio. Ma quando pure ne avesse potuto portare in sufficiente quantità, come poi supplire alla mancanza dell’acqua per bere, non che per immollare il pane dopo pochi giorni indurito? In molti siti, è vero, avrebbe potuto dissetarsi colla neve o col ghiaccio, di cui nelle più grandi altezze de’ monti qualche dorso si trova sempre coperto e qualche valle ripiena. Ma vi hanno pure lunghi tratti aridi e nudi, dove manca perfino un sì miserabile ristoro; e tali sono ordinariamente gli ultimi greppi. Or come passarvi le intiere giornate, parte a [p. 50 modifica] visitarli da ogni lato, come gli occorreva di fare, parte a prendere le misure, parte a scolpir le pietre sul luogo, come ho già detto ch’egli soleva adoperare, per rappresentare appunto di tali irte creste gli aspetti e le figure esattamente? Eppure il grand’uomo non fu vinto da così gravi ostacoli. L’indefesso suo coraggio, la sua costanza filosofica gli suggerirono il meraviglioso ed unico spediente di condurre a sè dinanzi delle capre, le sole bestie abili ad arrampicarsi, dove egli inerpicando saliva, e ad accattare aggrappandosi alle rupi coperte di muschio qualche cibo, per fornirne col loro latte al condottiero tanto da vivere. In questa guisa, diceva il sig. Pfiffer essergli riuscito di passarsela in cima ai monti, con trascorrere di balza in balza, li dieci e i quindici giorni senza scendere mai, vivendo del semplice latte di capra.»

Davvero ammirevole è questo Pfiffer, e l’ipotiposi che ne fa il Volta è degna della nobiltà e della perseveranza dell’opera di quell’uomo. Al quale va certamente dedicata una bella pagina nella storia dell’alpinismo, nonchè della plastica topografica, e le lodi a lui rivolte in tanta copia dal Volta meriterebbero d’essere riprodotte nella pagina stessa, poichè non sempre gli uomini laboriosi e benemeriti hanno la fortuna di ricevere l’entusiastico applauso di scienziati così grandi come il fisico di Como. I racconti delle avventure del Pfiffer fecero molta impressione sull’anima veramente alpinistica del Volta, ond’è che, come prosegue lui stesso a narrare, «presi d’alta meraviglia, trasportati corremmo ad abbracciare l’uomo incomparabile, che ci raccontava di sè tai cose, come se nulla fossero; intanto che, additandoci con una verga sopra il suo gran modello in rilievo questo e quel monte, questa e quella valle, e facendo a tutti il nome, iva dottamente ragionando ed istruendoci a dovizia delle rispettive loro posizioni, altezze, qualità; delle scoperte da lui fatte in questo e in quel luogo; di fenomeni singolari osservati e di cento altre belle cose.»

In modo speciale il Pfiffer parlò al Volta del celebre monte Pilato, che sorge presso Lucerna e che, visitato oggigiorno dai turisti e dai curiosi di tutto il mondo — che trovano facile e comoda l’ascensione in ferrovia — si meritò, prima ancora dell’epoca in cui il Volta visitava la Svizzera, due scritti speciali che vanno considerati tra i più pregevoli incunabuli della letteratura alpinistica.

Il primo devesi alla penna dell’insigne naturalista Corrado Gessner, che nel 1555 salì il Pilato e narrò poi la sua [p. 51 modifica] ascensione nell’opuscolo: Descriptio Montis Fracti28; il secondo è di Maurizio Antonio Cappeller: fu stampato a Basilea nel 1767, con figure in rame, e col titolo: Pilati montis historia. È questa una vera e propria monografia, dove si illustra largamente la montagna sotto l’aspetto storico, etimologico, topografico, nonchè meteorologico, idrografico, botanico, faunistico e mineralogico. Il Volta non ricorda questi due importanti scritti nella citata sua Relazione, ma accenna in loro vece ad una operetta del Pfiffer intitolata: Promenade au Mont Pilat29. Ed a proposito di questo monte fornisce i ragguagli seguenti: Esso è «famoso per tante storie e favole che ne sono state scritte, e singolarmente per un lago dello stesso nome che trovasi sul monte, intorno al quale ebbero corso un tempo e tuttavia correvano le più sciocche e superstiziose tradizioni (come, per esempio, che nefanda cosa fosse e perigliosa il farsi dappresso a toccar quelle acque, tenute in certo modo sacre alle podestà infernali; che gettandovi una piccola pietra tutte dal fondo orribilmente si commovessero, e si sollevasse anche nell’aria furiosa tempesta, e simili cose) quando piacque al sig. Pfiffer di forare per di sotto il recipiente di quell’acque, che gli si presentava come un catino sporgente: onde in poco vuotandosi con lo scolo di quelle sparì l’infame lago e seco dileguarono gli incanti. Non molto lontano dal detto lago e sul monte medesimo avvi una fontana d’acqua salsa. Ma quello che fa più stupire è una gran quantità di conchiglie pietrificate, che si trovano all’altezza di 800 e più tese sovra il lago di Lucerna: vi si veggono dei massi non d’altro fatti che di pietrificazioni marine conglutinate....».

Eccitato dalle narrazioni del Pfiffer, il Volta fu preso da gran desiderio di salire in vetta al Pilato, ma, per la strettezza del [p. 52 modifica] tempo, non poté compiere quest’altra impresa, di carattere puramente alpinistico. Restandogli ancora lunga parte di viaggio da compiere e dovendo esaurire l’itinerario prefisso nel corso di due mesi, dovette a malincuore staccarsi da Lucerna e portarsi in fretta a Zurigo. E coll’arrivo a questa «città meravigliosa, pulita quanto un gioiello», come la chiamò il Cellini, ha termine la Relazione.


Della seconda parte del viaggio, come ho detto da principio, il Volta non lasciò particolareggiata relazione, tranne gli appunti contenuti nel suo Giornale di viaggio, e le poche notizie riferite in alcune lettere famigliari30; appunti e notizie che diedero modo al nipote Zanino di compiere in succinto la descrizione del viaggio, quasi un secolo dopo che il nonno aveva scritta la Relazione. Qualche altro fuggevole cenno sulla seconda parte si può ricavare da alcuni frammenti epistolari di Giambattista Giovio, che mandò durante il viaggio alcune informazioni al suo amico marchese Giorgio Porro, e queste vennero poi riferite in parte dalla figlia del Giovio nella biografia da lei scritta del padre31. Ad ogni modo, quanto è stato reso di pubblica ragione intorno [p. 53 modifica] alla porzione di viaggio che si svolse da Zurigo in avanti, fino a Torino, ci basta per comprendere come anche nella seconda parte il Volta abbia ben meritato dell’alpinismo. Solo è un peccato che il grand’uomo non abbia trovato il tempo per completare la sua narrazione, giacchè avremmo oggi potuto registrare altri ed importanti squarci di letteratura alpinistica.

A Zurigo il Volta si fermò cinque giorni, dedicandoli a visitare minutamente i gabinetti scientifici ed a contrarre conoscenza coi varî scienziati, che facevano allora di Zurigo un centro dottissimo. Il 20 settembre partì alla volta di Sciaffusa e visitò la celebre cascata del Reno, a proposito della quale scrive il Giovio (luogo citato): «Diluvio di acque sprofondantisi, alzantisi. Il terrore dell’ammirazione vi dà quattr’occhi ed orecchie altrettante: tacciono intanto tutti gli altri pensieri». Da Sciaffusa, con le relative tappe postali, i nostri viaggiatori passarono per Gautingen, Walshout, Hausenbourg, Rumpt e Rheinfelden, e giunsero a Basilea la mattina del 25. Dopo una sosta di due giorni, impiegata come al solito ad esaminare musei e conoscere persone distinte, si spinsero, passando per Brissac, a Strasburgo e fecero ritorno a Basilea, seguendo la via di Colmar, al 3 ottobre. Lasciata Basilea il 5, «percorsero la valle della Birs, fiancheggiata prima da colline calcari, poi da eccelse montagne, che presentano curiosi punti di vista in causa della svariata configurazione de’ loro fianchi dirupati e fessi capricciosamente. Codeste roccie calcari, solcate fin nelle viscere dalle acque, abbandonano alle medesime quella quantità di pietrificazioni, che poco fuori di Basilea si accumula nel letto del fiume. L’ampia e comoda strada, la quale vuolsi opera romana, passando per Lauffen e Münsterthal, segue costretta fra imponenti giogaie... Quindi sale, attraversa un masso per un traforo, riscende soda e larga sempre; perde di vista con tale vicenda la Birs, e arriva a un villaggio poco lungi da Bienna e dal lago. Di là un’altra valle più amena, dove s’incontra fra la calce qualche granito, conduce a Soletta. Il giorno 6 visitarono quella piccola, ma bellina città dagli ombrosi bastioni, bagnata dall’Haar, ricca di fontane e di contorni deliziosi a poggi adorni di villette e giardini. Di natura calcare, i terreni montuosi verso Basilea serbano pure molte pietrificazioni; dall’altro lato vi è il piano colle basse colline, ove riappare sovra un fondo di sabbia e ciottoli l’arenaria non rossa come in Alsazia, ma bianco-grigia. Per la costruzione vien preferito il calcare duro. Le sei leghe di cammino che dividono Soletta da Berna si percorrono ascendendo prima tra folti boschi di peccie, tassi [p. 54 modifica] ed anche di faggi, poi attraverso bei campi e prati adacquatori: infine la strada costantemente buona ed a ghiaia trova il paese alquanto accidentato.»

Come si rileva dal frammento riportato, il Nostro, ogni qualvolta trovavasi al cospetto di montagne, ne rilevava la fisionomia e s’interessava subito di conoscerne la natura geologica. Le quali attenzioni dinotano sempre in lui, colla voluttà scientifica, la tendenza alpinistica; e difatti, appena lasciata Berna, ove conobbe l’Haller, — anche questi uno dei precursori dell’alpinismo — volle portarsi a visitare i ghiacciai di Grindelwald, accompagnato dal senatore Querini e dal dott. Festari32. Attraversato il lago di Thun e, tra Unterseen e Interlaken, il fiume che lo unisce [p. 55 modifica] all’altro lago di Brienz, furono la mattina del 10 a vedere lo «Staubbach», la rinomatissima, la cascata per eccellenza, celebrata in questo secolo da un’infinità di scrittori, di poeti e di pittori, citata dappertutto come una delle meraviglie del mondo. E nel pomeriggio giunsero al cospetto dei rinomati ghiacciai, a proposito dei quali il Volta scrisse sul suo taccuino di viaggio: «Un’ora prima di arrivare alle ghiacciaie si cominciano a vedere. Sono due grandi valli riempite di massi enormi di ghiaccio ammonticchiati. Da lungi non sembrano gran cosa; ma discesi alle falde, che spettacolo sorprendente e terribile! Spaccature nel ghiaccio, che son caverne, anzi abissi: rumore d’un fiume di acqua torbida che ne vien fuori, scorrendo sotto archi e ponti della istessa massa soda di ghiaccio: monti, creste, torri, cocuzzoli di ghiaccio, qua bianco, là verdognolo (che tale è il colore che prende ove il sole dà nelle fenditure). Maraviglia il contrasto dei siti, del caldo e del freddo, che si trovano in picciolissima estension di paese. Bei pascoli circonvicini: poi, immediatamente [p. 56 modifica] prima del ghiacciaio, un boschetto di pochi passi in cui raccogliemmo fragole e alcuni fiorellini, e dove si sentiva vero caldo. Credo che il passaggio di cento passi avrebbe fatto segnare al termometro più di dieci gradi di differenza. Noi vedemmo e toccammo e ci sedemmo sopra la ghiacciaia inferiore, che sembra la più considerabile; quella della valle superiore, la vedemmo non affatto al piede sulla sera».

Questi pochi appunti valgono da sè soli le innumeri descrizioni che si son fatte dippoi dei ghiacciai di Grindelwald, visitati annualmente dai curiosi di tutto il mondo. Certi abbozzi rapidamente tracciati valgono più del quadro studiatamente eseguito. Questo abbozzo del Volta a me fa ricordare gli appunti che, sul medesimo soggetto, affidava il Byron al suo taccuino di viaggio: «Arrivati a Grindelwald; saliti fino alla più alta ghiacciaia — Crepuscolo. — Chiarore distinto e perfetto. — Ghiacciaia simile ad una tempesta gelata. — Luce di stelle ammirabile. — Tutto questo giorno è stato così bello, come quello in cui il paradiso fu creato. — Attraversati boschi intieri di pini appassiti. — Tronchi senza foglie e senza vita: effetti di un solo inverno!».

Byron e Volta! quanti pensieri suscita l’accoppiamento di questi due nomi immortali, di queste due glorie quasi contemporanee, entrambe care e sacre alla famiglia degli alpinisti! Ma non usciamo dall’argomento.


Tornato a Berna, il Volta passò quindi a Neuchâtel, e costeggiando il lago fu il giorno 16 a Yverdun, ove fece la conoscenza di Elia Bertrand, geologo e naturalista insigne, altro fra i precursori dell’ alpinismo, i cui nobili e molteplici intenti adombrò nel suo curioso e dotto scritto: Essai sur les usages des montagnes, pubblicato a Zurigo nel 1754 e ristampato ad Avignone nel 1766. Due giorni dappresso «per una incomoda strada montana e fiancheggiata da selve» e dopo una sosta a Goumoen, recossi a Losanna e di là a Ginevra. Ivi conobbe personalmente Orazio Benedetto De Saussure e si trattenne in lunghe conversazioni con lui. Fra il Volta ed il De Saussure regnò la più viva corrispondenza scientifica e la più sincera amicizia, e davvero erano due uomini degni l’uno dell’altro. Entrambi scienziati positivi, sperimentatori ed osservatori, discendenti in linea diretta dalla famiglia dei Galilei, dei Redi, dei Baconi; entrambi infiammati dall’ardore della ricerca scientifica e di conseguenza innamorati dei viaggî; entrambi poeti ed alpinisti, non potevano a meno di comprendersi, di amarsi e di stimarsi reciprocamente. [p. - modifica] [p. 57 modifica]

Che bella, simpatica figura quel De Saussure! Ben disse il D’Archiac: per la perseveranza e la molteplicità delle sue ricerche geologiche, mineralogiche, fisiche e botaniche, e per la esattezza e precisione di queste, come per la dirittura e la modestia del suo carattere, che si riflette così bene ne’ suoi scritti, il Saussure è una figura a parte nella storia delle scienze naturali, è una individualità che si distingue nobilmente da tutte quelle che l’attorniano verso la fine del XVIII secolo. Naturale quindi che al Volta, il quale era giusto estimatore di uomini allo stesso modo ch’era profondo scrutatore di fenomeni, quella figura simpatizzasse altamente, e tornasse più di ogni altra cara ed interessante. Invero al De Saussure egli diresse pubblicamente varie sue dissertazioni33; con lui si consigliò sovente per questa o quella ricerca; fu più volte a trovarlo, facendo lunghe fermate a Ginevra, che predilesse ad ogni altra città; ed a’ suoi scritti ed alle sue imprese tributò ogni volta calorosi applausi, fino a sciogliere in sua lode un cantico, come vedremo più avanti34. Coincidenza fatale; ai primi dell’anno istesso in cui il Volta rendevasi immortale con l’invenzione della pila, il De Saussure cessava di vivere, non ancora sessantenne, ma con la fama già assicurata da opere egregie!

Così l’amicizia fra chi fu detto l’Omero delle Alpi e chi fu chiamato in re electrica princeps, naturae interpres et aemulus, fra colui che primo aperse le pagine grandiose della geologia alpina leggendo i geroglifici stampati dai secoli sulle roccie e colui che con un semplice apparecchio creò nuove forze, come disse il De la Rive, suscitando un calore ed una luce paragonabili al calore ed alla luce del sole, una potenza chimica superiore a quella dei vulcani, un magnetismo uguale a quello della terra e tutta una sequela di fenomeni fisiologici fino a suoi dì considerati esclusivi alle manifestazioni della vita — quell’amicizia è uno degli episodi più belli della storia delle scienze e degli scienziati. E l’incontro a Ginevra di chi scendeva da una esplorazione sul gruppo del Gottardo con chi già da venti [p. 58 modifica] anni percorreva le Alpi in ogni direzione e s’apprestava a domarne il culmine sovrano, quell’incontro rappresenta per me uno dei momenti più memorabili nella storia dell’alpinismo.

A Ginevra il Volta conobbe un altro geologo ed alpinista: Giovanni Andrea De Luc, tipo ben diverso dal De Saussure, geologo del vecchio stampo, amante più delle elucubrazioni filosofiche che delle osservazioni rigorose, pieno di idee preconcette, critico parzialissimo al servizio dei dogmi religiosi. Questi difetti sono evidenti ne’ suoi ultimi scritti: però all’epoca di cui si parla egli godeva buona riputazione scientifica, ed il Volta stesso lo teneva in considerazione, per la sua opera sulle Modificazioni dell’atmosfera. Anche dal lato alpinistico non si possono negare al De Luc benemerenze grandissime: nelle sue opere brillano qua e là splendide pagine, dove la montagna è considerata ne’ suoi pregi estetici e morali, con novità di vedute e venustà di trattazione. Le sue Lettere sulle montagne, non che alla scienza della terra, appartengono alla letteratura dei monti, e se non hanno gran fatto contribuito ai progressi della geologia alpina, hanno certamente favorito il cammino dell’idea alpinistica, e divulgata quella nobile passione dell’alto, che già l’autore dell’Emilio e della Nuova Eloisa aveva additata come balsamo della vita. Tanto poi il De Saussure quanto il De Luc possedevano abbondanti collezioni di pietre e di fossili, ed il Volta attentamente le esaminò, segnando sul suo taccuino gli oggetti che più lo colpirono. E dopo queste indicazioni mineralogiche troviamo nello stesso giornale un cenno della visita da lui fatta al Voltaire l’ultima sera che restò a Ginevra35.

Il 14 ottobre partì per la Savoia, e toccando Remilly ed Aix-les-Bains, giunse il giorno dopo a Chambéry, donde proseguì per Montmélian, Mal-Taverne, Aiguebelle36, Esperres, Chambre, [p. 59 modifica] St-Jean de Maurienne, Modane e Moncenisio, incontrando lungo questo tragitto «terribili salite, valli profonde, monti scoscesi, cascate pittoresche e borghi di poverissimo aspetto». Il giorno 28 compiè il valico del Moncenisio, e mentre i compagni approfittarono delle portantine, egli volle servirsi delle proprie gambe per poter fermarsi a suo talento ad esaminare roccie e fenomeni lunghesso la via. Il suo taccuino segna infatti parecchie osservazioni geologiche, frammezzate da altre di diversa natura: indica il laghetto delle trote nell’altipiano superiore, varie cascate bellissime ed il torrente Cenis, una nebbia fastidiosa che in qualche tratto del viaggio tolse la vista dei dintorni, la vivacità e la parlantina dei portatori, ecc. Riguardo alla costituzione petrografica, nota che nella parte bassa della montagna affiorano roccie scistose, tra cui una bella ardesia color di piombo, mentre i massi qua e là dispersi e franati dalle creste fan supporre nella parte alta la prevalenza delle roccie granitiche, le quali ricompaiono anche al basso dopo Susa. Opina quindi: «che il nocciolo di quel grande ammasso di monti sia granito e che lo schisto lo copra solamente fino a certa altezza, come nel San Gottardo, e non lo copra più dalla parte del Piemonte, ove il corso delle acque ha solcato più profondamente il monte». Coincidenza curiosa! Nel suo viaggio in Isvizzera37 il Volta studiò il Gottardo ed il Cenisio e ne comprese in sintesi larga la costituzione geologica: un secolo dopo quei due gruppi montuosi venivano traforati e poterono i geologi studiarne analiticamente, [p. 60 modifica] passo per passo, l’interna struttura. Avrà avuto il grande fisico, dall’alto dei due valichi, un lampo profetico di quel che ne sarebbe avvenuto cent’anni dopo?

Note

  1. Delle pratiche eseguite dal Volta per ottenere di far questo viaggio ci informa minutamente il nipote Zanino nel suo libro intorno alla giovinezza del grande fisico. (Avv. Zanino Volta: Alessandro Volta, studio; parte prima, Biografia; libro primo, Della Giovinezza (Milano, tip. Civelli, 1873), unica parte finora pubblicata.
    Fin dall’autunno 1775 — scrive il biografo — aveva risoluto il Volta di fare un viaggio scientifico, ne tratta anzi a quell’epoca (in lettera 18 settembre a Donna Teresa Ciceri) come di cosa imminente; ma il concorso e la nomina alla cattedra di Fisica in Como sconcertava il disegno. Un anno dopo vi ripensò e volle interessarne il conte Firmian, avvertendolo con lettera 30 marzo 1777 d’aver “già mossa qualche pietra per vedere di ciò ottenere„, ossia d’intraprendere un giro di pochi mesi in Toscana o nella Svizzera, appena finite le scuole. Le pietre a smuovere le avea cercate avvedutamente colà dove si puote ciò che si vuole; ce lo dicono le risposte che gli pervennero da Vienna da parte del conte Luigi Batthiani (15 maggio 1777) e del barone Giuseppe Sperges (28 luglio). Questi, a cui s’affidavano alte incombenze circa la pubblica istruzione, estimatore e corrispondente del giovane comasco fin dalle prime di lui produzioni scientifiche, gli concedeva tutto il suo appoggio presso la Corte. Egli, che lo aveva fatto conoscere alle Accademie tedesche di scienze, al principe Carlo di Lorena, e chi sa a quanti altri personaggi elevati, lo favorì anche nel disegno del viaggio, approvando che visitasse la Svizzera, dove i dotti abbondano — gli scrive — mentre scarseggiano a Vienna, città delle frivolezze. Quivi si era pur fatto raccomandare al ministro Kaunitz dal governatore Firmian, cui ricordava i sussidi forniti l’anno precedente per lo stesso scopo a Moscati e Landriani (aprile?). Ripicchia il tasto in altra del 10 successivo giugno al conte medesimo, nella quale, dopo aver discorso di molt’altre cose di rilievo relativamente alle fatte scoperte ed alle lusinghiere testimonianze di onore ottenute d’ogni parte, gli domanda, in vista di tutto ciò, l’interposizione dei buoni suoi uffici a Vienna perchè possa aver luogo il desiderato viaggio letterario. E d’immediato riscontro il Governatore: “Fa V. S. Ill.ma cogli studi suoi, e colla novità dei tentativi nella fisica sperimentale, onore a sè ed alla scuola affidatale; il che procura lode presso il pubblico e gradimento presso il Governo„. Questa era un’implicita promessa; infatti gli riscriveva alla metà di luglio: “Applaudite da S. A. il signor Principe di Kaunitz le produzioni letterarie di V. S. Ill.ma, contemplato il vantaggio scientifico che Ella potrebbe ritrarre da qualche viaggio che a tal fine facesse, Le sono stati assegnati cinquanta zecchini, che dal Tesoriere del Fondo per la Pubblica Istruzione, dottor Carlo de Chiusola, a cui Ella s’indirizzerà, Le saranno pagati„. — Il prof. Volta, lietissimo, risponde una settimana appresso: “La lettera di V. E. del 15 corrente mi ha ripieno di gioia e contento... Essendomi il tempo limitato per l’incombenza delle scuole, ho disposto di far ne’ due mesi di settembre e ottobre un giro nel paese degli Svizzeri e di giungere fino a Ginevra. Scorrendo tai paesi, trattenendomi dove più cose incontrinsi osservabili, avrò il campo ancora di far conoscenza e di legar commercio letterario con molti grandi e scienziati uomini e di stringermi vieppiù con quelli che già da qualche tempo m’onorano della loro corrispondenza. Ho poi già trovato un compagno, delle cose naturali assai intelligente e studioso, e forse un terzo ne si aggiungerà; onde spero ritrarre da questo piccolo viaggio non picciol frutto e così corrispondere alle mire del Governo e della Corte„. — Come si vede, quegli abborriti di austriaci appoggiavano un po’ più gli studiosi di quanto facciano ora certi ministeri di nostra conoscenza!
  2. A questo proposito riporto un’osservazione del già citato Zanino Volta: “Il Monti non accompagna Giovio al Volta che a Zurigo; abbaglio perfettamente scusabile perchè dipende da una espressione del Volta stesso, il quale scriveva in seguito al Firmian: “Un’altra parte del viaggio, la più lunga, cioè da Zurigo innanzi...... l’ebbi a fare in compagnia del conte Giovanni Battista Giovio„. (Vedi sua Relazione). Il fatto è che due amici, partiti insieme, si divisero a Lugano, per riunirsi in seguito, come attestano una lettera, che Alessandro dirigeva da Airolo al fratello Luigi il 6 settembre, e il giornale di viaggio, che ebbi la fortuna di rintracciare, nel quale trovo per le prime queste parole precise: 3 settembre 1777, con il conte Giovio partenza da Como. Tali manoscritti, che si conservano in famiglia, non furono veduti nè dal Monti, nè da altri biografi„.
  3. Nelle prime pagine della Relazione il Volta accenna a’ suoi compagni di viaggio. Del Venini dice che è “ex Somasco, stato già uno dei maestri del duca di Parma, uomo nelle matematiche molto versato, di fisica, di chimica e singolarmente di storia naturale studiosissimo e intendentissimo„. Del Visconti: “Cavaliere che ha dei lumi, amante anch’esso delle scienze naturali, voglioso estremamente di sapere, e che ha fatto diversi viaggi non senza profitto„. E del Giovio: “Signore anch’egli molto colto e molto dedito allo studio, non tanto però delle scienze naturali, quanto delle belle lettere e della grave metafisica, di cui ha dato colle stampe qualche saggio„.
    Il lettore che desiderasse notizie sul Venini e sul Giovio può consultare con profitto le storie di Como di Cesare Cantù e di Maurizio Monti. — I biografi del Volta furono citati dal prof. Pietro Riccardi nella sua nota: Sulle Opere di Alessandro Volta (Atti della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Modena, tomo XVII, 1877).
  4. Nella sua Relazione il Volta accenna a tali impedimenti col seguente esordio: “Sono due anni che, per genio non meno che per insinuazione di V. E., intrapresi un viaggio letterario nella Svizzera, nel quale impiegai tutto il tempo della vacanza. Nel ritorno, giunto a Torino, dove le acque dirotte mi trattennero vari giorni, scrissi una lettera a V. E., ragguagliandola brevemente di tutto il giro da me fatto, delle cose principali vedute, e singolarmente degli uomini celebri ch’io aveva avuto occasione di conoscere in tal viaggio. Ella poi facendomi sapere che desiderava di tutto una relazione più distinta, io promisi di dargliela tosto che l’occupazione della scuola addossatami, l’applicazione a certe mie nuove esperienze e l’impegno di terminare alcune memorie già promesse (quelle che furono in seguito pubblicate negli Opuscoli scelti, e nel Giornale di Rozier) mi lasciassero il tempo di stendere tal relazione diffusa. Questo tempo mi mancò in tutto quell’anno 1778, fino all’autunno inoltrato; nel corrente, avendo avuto l’onore di ossequiare in persona e più d’una volta V. E. a Monsolaro, le portai a bocca le mie umili scuse. Quest’anno 1779 non pubblicai nulla colle stampe; ma molto preparai del materiale per una seconda parte delle mie Lettere sull’aria infiammabile, che spero di dar alla luce nell’anno prossimo. Inoltre non ebbi poco a travagliare, attesa la mia traslazione a Pavia, a formare nuovi scritti per le lezioni; a riconoscere tutte le macchine esistenti in quel Gabinetto di Fisica; a mettere in ordine le nuove venute, mesi sono, da Londra, ove io le aveva commesse al sig. Magellan; a farne costruire diverse delle mie; e finalmente a formare nota distinta di quelle tuttavia mancanti, indagando, con lettere, ecc., i mezzi di procurarne l’acquisto. Una tal nota specificata è quella che, non ha molto, rassegnai a V. E. Lascio da parte la corrispondenza letteraria in cui sono entrato con accademici e persone di merito di tutti i paesi, e che è ormai tanto estesa, che mi diviene a carico. Tutto questo io espongo a V. E. per iscusarmi, ed ottener grazia e perdono della troppo lunga dilazione che ho messo ad adempire all’obbligo contratto di scrivere la relazione del mio viaggio e di presentarla alla medesima E. V. Se le occupazioni non fossero state in parte di obbligo del mio impiego, e in parte di tal genere che a Lei piace sicuramente ch’io mi vi abbandoni, non ardirei neppure chiedere tale scusa e perdono, come non ardirei di farlo, se, giacchè nelle correnti vacanze un poco d’ozio mi si dona, differissi più oltre a soddisfare alla aspettazion sua e al mio impegno„.
  5. Ecco come chiudeva la Relazione: “... A Zurigo... è dove ho cominciato a vedere de’ Gabinetti e delle Collezioni superbe, dove ho conosciuto molti letterati insigni, e molto ho imparato dal conversare con essi. Ma quel che ho scritto è già abbastanza lungo per una lettera. Mi permetta V. E. di riservare il resto per un’altra, nella quale, parlandole singolarmente delle collezioni di Storia naturale che ho visitate e degli uomini dotti che ho avuto la sorte di conoscere, e seguendo ad esporre le poche mie osservazioni sulla natura dei monti e del terreno, per cui ebbi a passare, terminerò la Relazione già da tanto tempo promessa del mio viaggio letterario„.
    Che il Volta non scrivesse la seconda parte del viaggio opinano anche i meglio informati, come lo Zardetti e Volta Zanino. Il Monti nella sua Biografia di A. Volta (Como, 1867) dice: “Ignoriamo se il Volta abbia scritto solamente questa parte della Relazione, oppure se il restante di questa sia smarrito o perduto„.
  6. A formare tale somma, cui parteciparono parecchi corpi morali e privati, contribuirono: per L. 26,000 lo Stato, per L. 20,000 la provincia di Como e per 10,000 quella di Milano, per L. 5,000 il Comune di Milano e L. 4,000 quello di Como, per lire 4,000 l’Istituto Lombardo (iniziatore della sottoscrizione), per L. 3,000 il re, ecc.
  7. Zanino Volta, opera citata, pag. 174, in nota.
  8. Francesco Reina, nato a Malgrate presso Lecco nel 1772, fu letterato e giureconsulto insigne, nonchè uomo politico di idee liberali, che scontò, prigioniero dell’Austria prima alle Bocche di Cattaro e poi a Sirmio. Appena morto il Parini, cui fu stretto da viva amicizia, ne unì e pubblicò le opere in sei volumi, facendole precedere da una bella biografia del poeta. La sua biblioteca, per la quale sacrificò 300,000 franchi, era davvero preziosa e la visitavano tutti i dotti. Morì il 12 novembre 1826 a Canneto sul Mantovano. — Il Reina fu uno dei dodici rappresentanti politici della Montagna, di cui era capoluogo Lecco.
  9. Carlo Zardetti era allora aggiunto e fu poscia direttore del Gabinetto Numismatico di Milano. Lasciò vari scritti di archeologia e numismatica, per es.: Sopra due antichi monumenti egiziani (Milano, 1835); Sopra due monete del Museo Mainoni di Milano (nella “Biblioteca Italiana„, vol. XXVIII); Monumenti cristiani (Milano, 1843), ecc.
  10. Fortunatamente io posseggo una copia della Relazione delle sei in carta turchina. Neanche alla famiglia Volta fu dato possederla: il figlio Luigi, nelle note all’Elogio dell’Arago, scriveva: “L’editore sig. C. Zardetti non credette opportuno di metterla in commercio, nè di mandare alcuno dei pochi esemplari, che videro la luce, alla famiglia del Volta, che con grato animo avrebbe ricevuto un sì caro dono„. Zanino Volta, nella biografia citata, osserva che la Relazione stampata dallo Zardetti contiene inesattezze e difetti, come quella che fu tratta da una copia e non dall’originale; ma avendola io confrontata col manoscritto esistente presso l’Archivio di Stato in Milano, ho riscontrato leggerissime ed insignificanti differenze.
  11. Maurizio Monti ha nella sua Storia di Como (Como, Pietro Ostinelli, 1830-32) una bella biografia di A. Volta, e laddove ne ricorda i viaggi dà in nota un sunto della Relazione, dicendo di far ciò appunto “perchè l’opuscolo dello Zardetti fu di sole 76 copie e non venne posto in commercio„.
    Zanino Volta, nella prelodata Giovinezza di A. Volta, riassume largamente il viaggio in Isvizzera, completando le notizie contenute nella Relazione con quelle che trovò segnate sul Giornale di viaggio. Lo stesso autore, nell’“Archivio storico lombardo„ (anno I, fasc. II) rispondendo ad una domanda del prof. Michele Stefano De Rossi se fra gli autografi voltiani esistessero descrizioni rimaste inedite di fenomeni meteorici e di fisica terrestre, accennò al viaggio del 1777, riproducendo integralmente le osservazioni barometriche e termometriche.
    Anche Francesco Arago, nel suo splendido elogio di A. Volta, letto all’Accademia delle Scienze di Parigi il 26 luglio 1831 (Parigi 1834; Annales de Chimie et de Physique) parla del viaggio in Isvizzera, ricordando i grandi personaggi conosciuti dal Volta in quell’occasione. A questo riguardo esclama: “C’était un grand siècle, Messieurs, que celui où un voyageur, dans la même journée, sans perdre le Jura de vue, pouvait rendre hommage à Saussure, à Haller, à Jean-Jacques, à Voltaire.„ E ricorda benissimo anche la Relazione con quest’altre parole: “Volta avait écrit lui-même une relation détaillée de sa course en Suisse, mais elle était restée dans les archives lombardes. On doit sa publication récente à un usage qui, suivant toute apparence, ne sera pas adopté de si tôt dans certain pays où, sans être lapidé, un écrivain a pu appeler le mariage la plus sérieuse des choses bouffonnes. En Italie, où cet acte de notre vie est sans doute envisagé avec plus de gravité, chacun, dans sa sphère, cherche à le signaler par quelque hommage à ses concitoyens. Ce sont les noces de M. Antoine Reina, de Milan, qui, en 1827, ont fait sortir l’opuscule de Volta des cartons officiels de l’autorité, véritables catacombes où, dans tous les pays, une multitude de trésors vont s’ensevelir sans retour.„
    Parlando infine degli scopi scientifici dei viaggi del Volta, l’Arago coglie l’occasione per dire che gli italiani hanno poca voglia di viaggiare: “Le proverbial far niente des italiens est strictement vrai quant aux exercices du corps. Il voyagent peu, et dans des familles très-opulentes, on trouve tel Romain que les majestueuses éruptions du Vésuve n’ont jamais arraché aux frais ombrages de sa villa; des Florentins instruits auxquels Saint-Pierre et le Colisée ne sont connus que par des gravures; des Milanais qui toute leur vie croiront sur parole qu’à quelques lieues de distance, il existe une immense ville et des centaines de magnifiques palais bâtis au milieu des flots.„ (Œuvres de François Arago. Notices biographiques. Tome premier, pag. 230-32. Paris, 1854).
    L’elogio dell’Arago fu tradotto in italiano da G. B. Menini e pubblicato sul giornale milanese L’indicatore lombardo (tomo II, serie IV, Milano, 1835). Quindi fu raccolto in volumetto (Como, Ostinelli, 1835) con parecchie note segnate (L. V.). Esse sono di Luigi Volta, figlio del sommo fisico. Il Montanari (op. cit., pag. 205) avverte che una traduzione italiana dell’elogio dell’Arago fu fatta dal conte Giuseppe Mamiani Della Rovere, distinto fisico e matematico, ma restò inedita.
    Nella Biblioteca italiana, ossia Giornale di letteratura, scienze ed arti (Milano, tomo XLVII, anno duodecimo, luglio, agosto e settembre 1827, pag. 451) si legge una breve recensione dell’opuscolo edito dallo Zardetti. Tra l’altro vi si dice: “Tutto quello che appartiene ad A. Volta debb’essere sì avidamente cercato dagli amatori delle fisiche discipline, che noi avremmo mancato all’ufficio nostro se avessimo taciuto di questo grazioso volumetto..... Agli amatori di questi studi lasciamo il giudicarne l’importanza ed il pregio; noi facciamo plauso al sig. C. Zardetti, che, festeggiando le nozze del suo amico sig. Antonio Reina, ha rallegrato tutta insieme l’Italia, regalandole un nuovo frutto di quell’ingegno immortale del Volta„.
  12. Landriani Marsilio, conte, maresciallo di Corte del duca Alberto di Sachsen-Teschen in Vienna. Visse alternativamente a Vienna ed in Italia; fu socio corrispondente dell’Accademia di Parigi. Scrisse per l’appunto Ricerche fisiche intorno alla salubrità dell’aria (Milano, 1775). Il suo eudiometro consisteva in una campana di vetro graduata posta sull’acqua e nella quale, secondo la proposta di Priestley, si mescolava aria atmosferica con un volume eguale di protossido d’azoto, ed un quarto della diminuzione di volume era calcolato come ossigeno.
  13. Zanino Volta (op. cit.), servendosi del giornale manoscritto, così narra l’inizio del viaggio: “Il giorno 3 di settembre alle ore 20 1/2 partiva da Como col conte Gio. Battista Giovio, letterato egregio, dirigendosi a Capolago. Là si misero in barca, ma un vento furiosissimo li costrinse a volgere alla riva per ritornare a piedi in detto borgo, dove passarono la notte. Il dì susseguente, malgrado il lago fosse tuttavia agitato, l’attraversarono in due ore e un quarto, sbarcando quindi a Lugano; dove unitisi all’abate Francesco Venini, naturalista di vaglia, matematico e poeta, e al conte Francesco Visconti, amante anch’egli di scienze naturali, s’avviarono a ore 19 alla volta di Bellinzona per arrivarvi all’una di notte. La mattina del 5, a cavallo, si portarono a Giornico in 6 ore; la stessa sera a Dezio. La sera appresso giungevano ad Airolo, sotto al San Gottardo e assunsero la guida che aveva giù scortato il celebre Saussure„.
    Questa guida chiamavasi Giovanni Lombardo, conosceva assai bene, e ne faceva raccolta e spaccio, i minerali, specialmente i quarzi, per la qual cosa veniva soprannominato il Cristalladaro o cristalliere, antichissima professione ricordata financo da Plinio (XXXVII, 10). Del Lombardo parla anche il Gualandris nelle sue Lettere odeporiche, pag. 43 (Venezia 1780).
    Il De Saussure poi aveva una particolare affezione per questa guida eccellente, la quale — allo stesso modo che si onorano i primi alpinisti — deve essere ricordata con riconoscenza come una delle prime guide delle Alpi, accanto ai Balmat e compagni. L’autore dei Voyages dans les Alpes la conobbe ad Airolo nel 1775 e se ne servi largamente: ritornando in quel paese solo otto anni dopo, ne apprese con vivo dispiacere la morte. Non posso esimermi dal riportare la bella pagina ove narra il decesso del Lombardo. “.... En retournant à Ayrolo, en 1783, j’eus le chagrin d’apprendre sa mort. Il avoit terminé sa carrière d’une manière assez extraordinaire. Comme il ne possédoit point de prairies, il alloit, avec ses enfants, ramasser du foin dans ces prairies élevées qui n’ont point de maitre, et dont on abandonne la récolte aux pauvres gens, qui hasardent leur vie pour aller la recueillir. Un jour, après avoir arrangé les fardeaux que devoient porter ses enfants, il leur dit de partir les premiers sans l’attendre, parce que la nuit alloit venir, et qu’il vouloit qu’ils pussent passer de jour le mauvais pas qu’ils avoient à franchir. Ils arrivèrent à leur chaumière, persuadés qu’il ne tarderoit pas à les suivres; mais il ne vint point. Ses enfants inquiets, craignant qu’il ne fut tombé dans un précipice, se mirent en marche avant jour, pour aller le chercher; ils le retrouvèrent dans la même prairie où ils l’avoient laissé, dans l’attitude d’un homme qui sommeille, étendu sur le dos, les mains jointes sur la poitrine; il dormoit effectivement, mais de ce sommeil dont on ne se réveille jamais. Une vie laborieuse et sage terminée par une mort si douce et dans une attitude qui sembloit indiquer, qu’en expirant de foiblesse, il avoit adressé au Ciel ses derniers regards et ses dernières pensées, avoit imprimé dans son village une sorte de respect pour sa mémoire. J’allai témoigner mes regrets à sa pauvre famille, et sa veuve me remit une petite collection de crystaux et de pierres les plus remarquables, qu’il mettoit à part, à mesure qu’il les trouvoit, et qu’il me réservoit pour le temps où je reviendrois à Ayrolo„. (Voyages, etc., tomo VII, pag. 17; ediz. in-8° 1796).
  14. La prima edizione di quest’opera in 4 volumi è del 1772; la seconda del 1784.
  15. Traducendo le tese in metri si hanno le cifre seguenti:
    Metri
    Dall’Alpe di Fieudo all’Ospizio 611,366
    Da San Gottardo ad Orsera 724,560
    Da Orsera a Cassinotta 391,326
    Da Cassinotta a Wasen 171,079
    Metri
    Da Wasen a Staeg 151,115
    Da Staeg ad Altorf 77,392
    Da Altorf al lago di Lucerna 45,736
    Da Lucerna al mare 428,788


    Ne risultano le seguenti altezze sul livello del mare, le quali differiscono alquanto dai numeri segnati nelle moderne guide


    Alpe di Fieudo metri 2601
    San Gottardo, Ospizio

    1990
    Orsera

    1265
    Cassinotta

    874
    Wasen metri 703
    Staeg

    552
    Altorf

    475
    Lago Lucerna

    429

  16. Difatti il primo volume dei Voyages dans les Alpes del De Saussure uscì per le stampe nel dicembre del 1779. Ma la descrizione che il De Saussure fece del gruppo del San Gottardo non appare che nel settimo tomo, stampato solo nel 1796. Il celebre naturalista ginevrino salì varie cime del San Gottardo, e su quella di Fieudo o Fieüt, prossima alla Fibbia (m. 2742), fra questa cima e l’Ospizio, ascese il 25 luglio 1775. Ecco come ne parla: "Je ne crois pas qu’aucun étranger, autre que des chasseurs de chamoins ou des chercheurs de crystal, ait avant moi gravi cette sommité. Les capucins du Saint Gothard cherchèrent à m’en dissuader. Mon brave guide Lombardo affirmoit que cela étoit possible, mais il en représentoit les difficultés et les dangers avec toute l’emphase de sa langue maternelle; lorsque je le priois de me montrer le chemin, non dans l’espérance de trouver une route battue, mais pour savoir de quel côté l'on attaqueroit la montagne, il me repondit: Ah, signore, in questi luoghi orridi e deserti strada non v’è. Je n’y trouvai ni péril ni vraies difficultés; mais seulement de la fatigue, encore n’est-elle pas bien grande, puisqu’on y va aisément en trois petites heures, aussi ai-je été étonné qu’un Suisse, un amateur de montagnes tel que M. Schinz, qui y monta deux ans aprés moi, et qui même paroit n’avoir pas atteint sa cime, représente cette course comme si périlleuse et si pénible. (Beiträge zur naheren Kenntniss des Schweizerlandes. 1° Heft § 4'.„ — Indi tratta della natura delle roccie della montagna, che sono graniti decomposti; della sua sommità che "est composé d’un entassement de ces rochers désunis„ tra cui un blocco immenso che costituisce la vetta; del panorama che di lassù si scorge, ecc. In nota osserva che la misura altimetrica da lui presa (tese 1378 sul livello del mare) differisce un poco da quelle trovate dal Volta e dal Pini, ma soggiunge che tali differenze “ne sont d’aucune importance„ (Tomo VII, cap. XV, pag. 47 e seguenti).
    Il geologo milanese ermenegildo pini, che fu al Gottardo nel 1781 e nel 1783, calcolò l’altezza della cima di Fieudo in tese 1431 1/6. Nella sua Memoria mineralogica sulla montagna e contorni di San Gottardo (vedi più avanti, nota a pag. 42) dice le ragioni in appoggio a questa cifra: però, riconoscendo assai plausibile anche la determinazione del De Saussure, propone di fare la media fra le due, e stabilisce quindi l’altezza della cima di Fieudo in tese 1405 circa.
    Valori differenti diedero altri autori: il Weiss calcolò 9560 piedi ed il Muller 9470 piedi.
  17. Gli scritti alpinistici cui si allude sono i seguenti: Josia Simler: Vallesiae descriptio, et De Alpibus commentarius (Tiguri, 1574; altra edizione col titolo Vallesiae et Alpium descriptio, Lugduni Batavorum, 1633). — Scheuchzer J. J.: Itinera per Helvetiae Alpinas regiones facta annis 1702-1711 (Lugduni Batavorum, 1723; prima però di questa edizione aveva pubblicato: Itinera alpina trio, (Londra, 1708). — Bertrand E.: Essai sur les usages des montagnes (Zurigo, 1754; fu ristampato nell’opera dello stesso autore: Recueil dedivers traités sur l’histoire naturelle de la terre et des fossiles, Avignone, 1766). — Bordier Luigi: Voyage pittoresque aux glacières de Savoye fait en 1772 (Ginevra, L. A. Caille, 1773; il libro però non porta il nome dell’autore, sibbene la segnatura Par Mr. B.. — Bourrit Marco Teodoro: Description des glacières, glaciers et amas de glace du duché de Savoye (Ginevra, 1773; fu tradotto in inglese). Lo stesso autore pubblicò poi: Description des aspects du Mont Blanc du coté de la Val d’Aoste (Losanna, 1776) e nel 1781 stampò a Ginevra la Description des Alpes Pennines et Retiennes in due volumi, tradotti in tedesco l’anno seguente. Quest’ultima opera fu aumentata di un volume nel 1784, e nel 1785 fu ristampata con tale aggiunta, sotto il titolo: Nouvelle description générale et particulière des glacières, vallées de giace et glaciers qui forment la grande chaîne des Alpes de Suisse, d’Italie et de Savoye. Il Bourrit pubblicò inoltre: Itinéraire de Chamonix, Lausanne et Genève (1797) e due opuscoli, l’uno, tradotto in tedesco, per far conoscere la celebre guida Giacomo Balmat, l’altro, in forma di lettera diretta a milady Craven; infine: Description des cols ou passages des Alpes (Ginevra, 1803, 2 parti. — Cappeller Maurizio Antonio: Pilati montis historia in pago Lucernensi Helvetiae siti (Basilea, 1767, con figure). — Haller Alberto: a prefazione all’opera Historia stirpium Helvetiae, pubblicata nel 1768, pose una breve Descrizione delle Alpi; lo stesso autore cantò le bellezze delle Alpi nel poema: Die Alpen, del quale havvi una bella edizione, con la traduzione francese a fianco, e con l’aggiunta della Descrizione delle Alpi, pure in tedesco e francese, stampata a Berna nel 1795. — Il Rousseau, che fu detto il Cristoforo Colombo della poesia alpestre, parlò delle Alpi e delle loro bellezze nei romanzi: La nouvelle Héloïse (1759) e Émile (1762), nonché nelle Confessions (1782). — Del De Saussure è nota l’opera classica: Voyages dans les Alpes, il cui primo volume fu stampato, come già dissi, nel dicembre 1779. (Vi sono due edizioni: l’una in-4, di quattro volumi, l’altra in-8 di otto). - Nello stesso anno usci l’opera del De Luc: Lettres phisiques et morales sur l’histoire de la terre et de l’homme, la quale era stata preceduta nel 1778 dal saggio: Lettres physiques et morales sur les montagnes, ecc. (2 edizioni nello stesso anno, l’una stampata a La Haye, l’altra con l’indicazione: En Suisse). — Pel Gessner vedi a pag. 51.
  18. Il passo del San Gottardo, se venne descritto da molti turisti, tra cui, anche lo Scheuchzer, è stato pure cantato da parecchi poeti. Bella sovra tutte è la Canzone dell’Alpe dello Schiller, ove quell’alta regione è magistralmente descritta, dalla vallata della Reuss alle due punte di Fibbia e di Prosa. Anche nel Guglielmo Tell è descritta la strada del San Gottardo: il protagonista la insegna a Giovanni il Parricida, fornendogli i particolari del cammino fino alla terra italiana. Ma se lo Schiller parlò del Gottardo, togliendone gli elementi descrittivi alle opere sulla Svizzera od alla conversazione con coloro che vi furono, Wolfango Goethe ne trattò con conoscenza di causa, avendo attentamente e con particolare affetto visitato quei luoghi in occasione de’ suoi tre viaggi nella Svizzera, compiuti rispettivamente nel 1775, nel 1779 e nel 1797. I ricordi e le lettere del Goethe, che a questi viaggi si riferiscono, sono pagine bellissime, ed emerge da esse che tra i paesaggi alpini quello del San Gottardo lasciò più forti impressioni sull’animo del poeta, che certo pensava alle solitudini di quel valico nell’atto quarto della seconda parte del Faust, dove la scena rappresenta l’alta montagna. La prima volta che il Goethe salì al Gottardo (giugno 1775) ebbe una giornata incantevole e potè godere a tutt’agio di quei superbi panorami. E di ritorno scrisse entusiasta: “Sì, io sono salito alla Furca, al San Gottardo! Quelle scene della natura, sublimi, incomparabili, saranno sempre presenti al mio pensiero„. Interessanti particolari su questa prima gita si leggono nella sua opera: Dichtung und Wahrheit (poesia e verità). Della seconda visita troviamo notizia nelle sue Lettere dalla Svizzera, parte II, e precisamente nelle due ultime, in data 13 novembre 1779, scritte dall’Ospizio dei Cappuccini, l’una al mattino e l’altra nel pomeriggio. Diceva in esse di provare singolari impressioni in quegli alti luoghi e di immergersi con piacere nei pensieri suscitati dalle meraviglie del sito. Della terza volta, infine, lasciò qualche appunto nel suo Giornale di viaggio, dove segnò la natura e la disposizione delle roccie, la qualità della vegetazione, e vari altri dati sul Gottardo. Su queste escursioni alpinistiche del Goethe oltrecchè ne’ suoi scritti, che furon tradotti in francese dal Porchat (Oeuvres de Goethe, vol. IX, Paris, Hachette, 1862), si trovano notizie negli studi speciali dell’Egger (Goethe in den Alpen) e del Rambert Les Alpes vues par Goethe).
       Un poemetto, intitolato il Passaggio del San Gottardo, fu scritto nel 1793 dalla duchessa Giorgina di Devonshire, che narrò la traversata da essa compiuta in quell’anno venendo dall’Italia; fu tradotto dall’inglese in francese da Giacomo Delille (Dityrambe sur l’immortalité de l’âme, suivi du passage du St. Gothard. Paris, 1802). Il componimento è belino, ma tra le note che lo corredano v’ha la seguente, un po’ strana: “Il contrasto fra la Svizzera ed il Milanese ci colpì grandemente: quest’ultimo era infestato da una banda di ladri che ci cagionò qualche allarme, e ci obbligò a metterci in guardia. Ma non appena toccammo le montagne svizzere, potemmo proseguire il nostro viaggio senza la minima inquietudine e nella più perfetta sicurtà.„
       Una minuta descrizione della strada del Gottardo, accompagnata da bellissime incisioni, trovasi nello splendido libro dell’Osenbrüggen sulle Alpi ed i ghiacciai della Svizzera, edito in tedesco ed in francese (Basilea, editore Krüsi). Pregevole è pure la descrizione tascabile della linea del Gottardo, dove si parla del valico e del tunnel fatta in tedesco dall’Hardmeyer e tradotta in francese ed aumentata dal celebre alpinista e letterato Eugenio Rambert. Ancora del Gottardo parla piacevolmente il Kohl ne’ suoi Alpenreisen (Dresda, 1849). Una carta topografica del Gruppo del Gottardo al 50.000 fu pubblicata nel 1872 dal Club Alpino Svizzero, che aveva scelto quella regione come campo ufficiale di escursioni.
  19. Prima del 1779 ben poca roba era stata pubblicata sui ghiacciai delle Alpi. Qualche cenno fuggevole ne avevan fatto gli scrittori che parlarono in genere della topografia elvetica (Rebman, Stumpf, Merian, Egidio Tschudi, Wagner, Cysat, Simler, Pfendler, Plantin, Sprecher, Enrico Tschudi, Guler, ecc.) e lo Scheuchzer diede un riassunto di queste vecchie notizie assieme ad altri particolari (Beschreibung der Naturgeschichten des Schweizerlandes ed Itinera Alpina). Giovanni de Muralt stampò nel 1669 (Phil. Trans. n. 49) una breve lettera diretta all’Hooke: Concerding the icy and crystallin mountains of Helvetia, called the Gletscher. Nelle stesse Philosoph. Transact., n. 100, trovasi inserita una breve descrizione dei ghiacciai di Berna. — Giovanni Hottinger fu il primo a trattare di proposito l’argomento; egli pubblicò nel 1703 una: Montium glacialium helveticorum descriptio (Acad. Nat. Cur. Dec. III.). Nei Mercures helvétiques (maggio e giugno 1743) apparve una relazione di due viaggi fatti ai ghiacciai di Faucigny in Savoia, e tale relazione fu riprodotta nell’opera del Gruner. Il prof. Altman pubblicò a Zurigo nel 1751 un saggio descrittivo, istorico e fisico, dei ghiacciai della Svizzera (Versuch einer historischen und physischen Beschreibung der helvetischen Eisbergen), parlando in modo speciale del Grindelwald ed aggiungendovi la descrizione fatta dal Cappeller del ghiacciaio dell’Aar. Nel 1753 il dottor Langhan trattò del ghiacciaio del monte Rötfli nella sua opera: Beschreibung verschiedener Merhwurdigkeiten des Siementhals.
       Ma il trattato migliore e più completo fu quello di Sismondo Gruner pubblicato in tre volumi a Berna nel 1760: Beschreibung der Eisgebirge des Schweizerlandes. Una traduzione sommaria di questo trattato fu fatta in francese dal De Keralio col titolo: Histoire naturelle des glacières de Suisse (Paris, 1770, un vol. in-4). De’ ghiacciai della Savoia parlarono, come s’è visto nella nota a pag. 29, il Bordier ed il Bourrit nelle rispettive operette edite nel 1773, e de’ ghiacciai alpini trattarono ancora, ma brevemente, il De Luc nelle Recherches sur les modifications de l’atmosphère (1772, 2 vol.) e l’Haller: Vorrede zu den Wagner’schen Prospetten (1777).
  20. Ecco il titolo dell’edizione originale, che io posseggo: Discours en forme de dissertation sur l’état actuel des montagnes des Pyrenées, et sur les causes de leur dégradation, prononcé par M. D’Arcet, Docteur-Régent de la Faculté de Médecine de Paris, Lecteur et Professeur Royal, pour son Installation et l’Inauguration de la Chaire de Chimie au Collège de France le 11 décembre 1775. On y a joint des Expériences et des Observations sur les variations du Baromètre, sur le Termomètre, et autres morceaux de Physique, d’Histoire naturelle et de Chimie, avec une note de M. Le Monnier sur l’Aiguille aimantée. (A Paris, chez P. G. Cavellier, 1776.)
  21. Beniamino De la Borde nella sua opera: Lettres écrites de la Suisse (Paris, 1783, 3 vol. in 8.) scriveva: “Il me semble que un grand nombre penche pour ne pas admettre le Saint-Gothard pour la plus haute montagne de l’Europe. Ils prétendent même qu’il y en a de deux fois plus élevées. M. Coxe ajoute qu’il a de bonne raisons pour la croire; mais moi, qui suis sûr d’en avoir de meilleure pour ne pas croire à ses calculs, ni à ceux de MM. les Physiciens, je demeure persuadé, et je leur en fais excuse, que le Mont Saint-Gothard est la montagne la plus élevée de l’Europe„. Ed a prova del suo asserto il De la Borde soggiungeva: “C’est que vous voyez descendre du plateau du Saint Gothard des fleuves qui se répandent au nord, au midi, à l’orient et à l’occident! S’il y avoit quelque chose de plus élevé, l’eau ne prendroit pas son cours de ce côté... Je n’ai pas besoin de calculs pour prover cette assertion, il ne faut que du bon sens.„ Una vivace confutazione di queste false idee del De la Borde fu fatta da Francesco Robert nel suo Voyage dans les XIII Cantons Suisses, les Grisons, le Vallais et autres pays et états alliés ou sujets des Suisses (Paris, 1789, 2 vol. tomo 1º, pagg. 310 e segg.), dove, sulla scorta del De Saussure, dimostrò da qual parte fosse la verità.
       L’accenno fatto dal De la Borde all’opinione del Coxe circa il Gottardo si riferisce alle lettere che questo inglese, che percorse la Svizzera negli anni 1776 e 1785 pubblicò intorno al suo viaggio ed alla regione visitata. (Scketches of the natural civil and politicai state of Switzerland, by William Coxe, 1779, ripubblicate a Londra nel 1790 e nel 1801, col titolo: Travels in Switzerland. 2 vol. in-4). Il libro del Coxe fu tradotto in francese, con molte aggiunte ed osservazioni proprie, da Luigi Francesco Ramond, lo stesso che in seguito perlustrò ed illustrò i Pirenei (Lettres de M. Whilliam Coxe a M. W. Melmoth sur l’état pólitique, civil et naturel de la Suisse: Paris, 1782, 2 vol.; — Observations faites dans les les Pyrénées pour servir de suite à des observations sur les Alpes, etc. Paris, Berlin, 1789, 2 parti). Nelle lettere XI e XII il Coxe descrive il passaggio del San Gottardo ed il traduttore vi aggiunse una descrizione di suo: entrambi dimostransi pieni di ammirazione per questo valico, e la loro pittura si avvicina in vari punti a quella del Volta. A proposito della controversa elevazione, così scrive il Coxe dall’alto del passo: “Je suis en cet instant à sept mille pieds au dessus du niveau de la mer, hauteur qui n’est certainement pas médiocre; cependant, si je voulois ajouter foi à ceux qui prétendent que le sommet de cette montagne est la plus haute de l’Europe, il faudroit que je m’élevasse encore deux fois autant: mais, comme j’ai de bonnes raisons pour imaginer que cette opinion est le résultat d’un faux calcul, je ne veux point me flatter d’être plus élevé au-dessus du reste des hommes, que je ne le suis réellement. Micheli, qui a mesuré le principales montagnes de la Suisse, mais dont les opérations ont été fort inexactement faites, prétend que le Saint-Gothard est la plus haute montagne des Alpes, et lui donne 17,600 pieds de hauteur perpendiculaire, à compter du niveau de la mer; estimation d’autant plus exagérée, que non seulement le Saint-Gothard n’est pas le plus haut sommet des Alpes, mais que dans tout l’ancien continent, il n’en existe probablement pas un qui atteigne cette élévation. Suivant M. de Pfyffer, la partie la plus élevée de cette montagne est à 9075 pieds au dessus du niveau de la Méditerranée, et cette hauteur considérablement moindre que celle de l’Etna et du Pie de Ténériffe, est, à plus forte raison, bien au-dessous de celle de plusieurs sommets de la grande chaine des Alpes qui sépare l’Italie de la Suisse„.
       Idee più precise intorno all’elevazione del Gottardo ebbe il Goethe, che in una sua lettera, in data 13 novembre 1779, faceva così rilevare l’importanza del gruppo montuoso di cui si parla: “Per la verità il Gottardo non è la più alta montagna della Svizzera, e nella Savoia il Monte Bianco è molto più elevato: tuttavia il Gottardo è sempre il re delle montagne, perchè le più grandi catene vengono ad aggrupparsi ed appoggiarsi ad esso„. — Il matematico Jetzler, di Sciaffusa — rimasto vittima delle montagne d’Appenzell nel 1791 — avendo salita la punta della Sella nel gruppo del Gottardo, ebbe modo di persuadersi che altre vette più alte esistevano in Isvizzera e concorse anche lui a sfatare la fallace credenza. Ma chi le diede il colpo definitivo fu il De Saussure, che essendosi recato per la prima volta al S. Gottardo nel luglio del 1775, restò meravigliato di non poter trovare fra la più alta di quelle vette l’elevazione enorme a quel gruppo assegnata e disse d’aver in conseguenza diminuito il suo rispetto per esso. Così esprimevasi: “...je reconnus très-clairement que cette cime, quoique élevée, n’approche pas de la hauteur de celles du Mont-Blanc et du Finsteraar. J’en fu étonné, car, d’après la reputation du St. Gottard, et d’après les mesures de M. Micheli, je me seroit attendu à y trouver quelques cimes de premier ordre„. Egli spiegò la leggenda così: “Si donc le St. Gothard peut être considéré come la partie la plus élevée des Alpes, s’il en sort des fleuves, qui partant delà comme d’un centre, versent leurs eaux dans les directions les plus opposées, et si cette considération lui a fait donner, par les anciens, le nom d’Alpes summae ou de sommet des Alpes, c’est plutôt par la grande hauteur de son plateau, ou de la base générale de ses cimes, que par la hauteur absolue d’aucune d’entr’elles„. (Voyages etc, tom. VII, ediz. in-8, pag. 22-23).
       In altro punto (tom. IV, ediz. in-8, pag. 158-161) il De Saussure spiegò per quali motivi il Michely, benché buon matematico ed eccellente osservatore, sia caduto negli errori deplorati, avendo egli preso tutte le sue misure dalla terrazza della fortezza d’Arbourg, donde scopriva gran parte delle Alpi, calcolando le distanze orizzontali sulla antica carta dello Scheuchzer. Aggiunse però che il Michely riconobbe i suoi spropositi, specialmente per ispirazione del generale Pfyffer.
  22. Così nei tempi antichi si considerava il Monviso (Mons Vesulus) come la più alta cima d’Europa, perchè da’ suoi fianchi, coperti da dense foreste di pini e popolati da cignali scendeva il Po (Eridanus), che si considerava come il re dei fiumi. Canta Virgilio (Eneide X):

      Ac velut ille canum morsu de montibus altis
    Actum aper, multos Vesulus quem pinifer annos
    Defendit....

    Solino dice: (II, 35) Vesulus superantissimus inter juga alpinuni. La stessa idea prevalse ancora parecchi secoli. Scrive il Vigenaire (Sur les Commentaires de Cesar, 1576): “Le Mont Vis, la plus haute pointe de montagne qui soit guère en toute la terre, anciennement appelé Mont Vesules, au pied duquel sourd le fleuve du Pau„. — Altre montagne delle Alpi furono, secondo gli autori, considerate sovrane„. Flavio Biondo nella sua Italia illustrata — da lui scritta nel 1451 e pubblicata la prima volta a Roma nel 1474 — disse che il più alto monte d’Italia era il Monboso, ossia il Monte Rosa. — Persino nel secolo XVII troviamo uno scrittore di vaglia — il cardinale Bentivoglio — che reputa, come la più alta guglia delle Alpi, nientemeno che il Moncenisio! Ne dà questa pomposa descrizione: “Fra sì vaste moli di sassi immensi, una in particolare sopra ogni altra s’estolle, in maniera che, fatta un perpetuo verno, porta di continuo i ghiacci e le nevi in cielo con incredibile altezza. Chiamasi il Monsenese, nome di orror famoso all’orecchie d’ogni nazione. Direbbesi che da tutte le altre montagne delle Alpi fosse resa ubbidienza, e come tributo a questa, e che tutte riconoscessero il Monsenese come Re loro, e questo come la principale reggia dell’alpino suo regno„. — Per molto tempo il Rocciamelone fu considerato’come la più alta vetta della Savoia, ed uno scrittore inglese, citato dal Tuckett (Alpine Journal, n. 48), così ne parlava nel 1608, narrando di un suo viaggio da Lione a Torino pel Moncenisio: “Notai fra Lasnebourg e Noualaise una montagna eccessivamente alta, molto più elevata di quante avevo visto dapprima, chiamata Roch Melow. Si pretende sia la più alta montagna di tutte le Alpi, salvo una di quelle che separano l’Italia dalla Germania. Mi fu detto che misura quattordici miglia d’altezza; essa è coperta da un vero microcosmo di nubi„. Altro esempio di fallaci criteri altimetrici è ricordato dall’Humboldt laddove narra la meraviglia de’ suoi amici di Caracas quando seppero da lui, che l’aveva salita e misurata, l’altezza precisa del Monte Silla, da quelli ritenuta altissima. Essi — scrive il grande naturalista viaggiatore — “si interessavano al racconto delle nostre fatiche, ma non erano contenti d’una misura che non dà alla Silla nemmanco l’altezza delle più alte vette dei Pirenei. Come biasimare questo amor proprio nazionale, che si rivolge ai monumenti della natura, dove i monumenti dell’arte sono nulli?

  23. Vedi il Journal du voyage fait par ordre du Boi à l’Equateur, pubblicato dal La Condamine a Parigi nel 1751. Prima del Journal La Condamine aveva letto all’Accademia (28 aprile 1745) una Relazione sommaria del viaggio, la quale fu poi stampata a parte (Rélation abrégée d’un voyage fait dans l’intérieur de l’Amérique méridionale, ecc. Paris, Pissot, 1745; altra ediz. di Maestricht, Dotouret Roux, 1778).
  24. Ho già accennato, nelle note precedenti, alle ascensioni ed alle ricerche che il De Saussure fece durante gli anni 1775 e 1783 nel gruppo del San Gottardo, e delle quali è fornita larga notizia nel tomo VII de’ suoi Voyages dans les Alpes, il quale tomo fu stampato nel 1796. Un confronto fra la relazione sommaria del Volta ed il resoconto analitico del De Saussure dimostra la precisione e l’importanza delle nozioni dal primo fornite.
    Nello stesso anno 1775 traversò il San Gottardo il naturalista veneziano Angelo Gualandris che, per ordine del suo Governo, imprese un lungo viaggio a scopo di studio, da lui stesso descritto poi nelle Lettere odeporiche, stampate a Venezia nel 1789. Di queste lettere, alcune trattano della Svizzera, ed il passaggio del Gottardo è minutamente descritto con molte particolarità geognostiche (pag. 41 e seguenti).
    Nel 1781 fu al San Gottardo, come già accennai, il geologo Ermenegildo Pini, che pubblicò le osservazioni fattevi nella raccolta degli Opuscoli scelti di Milano, tom. IV; ma, non avendo avuto la stagione troppo favorevole, vi ritornò nel luglio del 1783. In quest’altra occasione perlustrò più attentamente quel gruppo montuoso e consegnò poi i risultati ottenuti in un volumetto di 128 pagine: Memoria mineralogica sulla montagna e contorni di San Gottardo (Milano, Marelli, 1783). In appresso stampò un Supplemento a queste osservazioni nel tomo VII degli Opuscoli scelti, 1784. Di altri minerali del San Gottardo parlò in successive memorie.
  25. Ecco cosa dice il Volta di Lucerna: "La città di Lucerna è benissimo situata; ha un bel circondario di colline e di pianura: un alto monte vicino da una parte, che è il famoso monte Pilato, e la prospettiva da lungi de’ monti altissimi dall’altra parte; s’apre la città con due braccia a ricevere il lago, il quale nel di lei seno restringendosi si converte in fiume e finisce di attraversarla. Questo fiume, che sortendo si chiama ancora Reuss, come prima di entrare a formare il lago, è molto largo, non però navigabile; esso è anche assai rapido, dentro e sotto Lucerna: avvi un gran ponte di legno che l’attraversa in un bel sito della città, largo 30 piedi e da 200 lungo, su cui passano carri e carrozze. Un altro ponte di legno, ma per i pedoni solamente, si trova più in basso: questo non è più largo di 10 piedi, ma è lungo da 400, tutto coperto ed istoriato da diverse pitture, cattive anzi che no. Un terzo ponte più considerabile è nella parte superiore della città, largo similmente 10 piedi e lungo ben 1000, egualmente coperto ed istoriato di pitture un po’ migliori. A questo, basato sopra piloni piantati nell’acqua lunghesso il lago, ne succede, dopo poco tratto di terra, un altro quasi in egual drittura, simile in tutto, salvo che è più lungo ancora, contando da 1400 piedi, che unisce il corpo più grosso della città con una specie di sobborgo. Questi ultimi due ponti formano uno dei più bei passeggi che ideare mai si possono. Lucerna in così bella e vantaggiosa situazione collocata, pur come gli altri Cantoni cattolici ha poca popolazione e meno commercio.
       "Non vi è neppure gran letteratura in questa città, almeno per quel che risguarda le scienze naturali. Non ho saputo che vi siano matematici, medici, naturalisti di grido, scelte biblioteche, ricche collezioni di Storia naturale, come ebbi in appresso occasione di vederne quasi in ognuna delle altre città che visitai, ma singolarmente a Zurigo. Intesi solamente a parlare di un Gabinetto lasciato dal celebre Lang, autore della Historia lapidum figuratorum, il quale gabinetto era venuto nelle mani di un medico di Lucerna, di cui non ritenni il nome, e che non so se esista ancora. Ma se Lucerna non può mettersi a fronte, ecc. ecc.„.
  26. Del rilievo del generale Pfiffer parlarono con ammirazione anche il De Saussure, che disse di provare, contemplandolo, lo stesso piacere che gli procurarono i panorami del Monte Bianco e del Crammont (Voyages, vol. VII, ediz. in-8, pag. 192) ed il Coxe, che narrò alcuni dei particolari ricordati dal Volta (Lettres etc., traduzione Ramond, vol. I, pagina 149).
       Lo Zardetti, in apposita nota, fornisce quest’altre notizie: "Il sig. Pfiffer morì in Lucerna nell’anno 1802 ed il suo modello in rilievo trovasi ancora nella medesima casa dell’autore. Là vedesi pure il ritratto in piedi di questo venerabile vecchio, rappresentato nel suo costume di montanaro, ed in atteggiamento di rampicarsi sui dirupi. Conservansi altresì con tutta sollecitudine gli utensili, ecc., che servirongli nelle diverse sue escursioni. La parte di questo modello che il sig. Pfiffer potè terminare abbraccia i Cantoni di Underwalden, Schweitz ed Uri, nonchè una porzione di quelli di Lucerna, Zug e Berna, trovandosi il Lago di Lucerna nel centro. La di lui lunghezza è di 22 piedi parigini e mezzo, e la larghezza di 12 ed è composto di 136 pezzi. Venne inciso questo modello e pubblicato nell’opera: Tableaux topographiques, pittoresques etc. de la Suisse del sig. De la Tour Chatillon di Zurlauben. Il sig. Mechel nel 1783 ne fece una incisione molto più grande, sotto la direzione del sig. Pfiffer medesimo, il quale prestò la più scrupolosa attenzione nell’assistere l’artista. Lo stesso sig. Pfiffer finalmente nel 1795 fece incidere il suo gran modello dal sig. Clausner di Zug, in forma di carta geografica, e coll’indicazione dell’altezza di tutte le montagne„.
       L’incisione contenuta nell’opera del De La Tour Chatillon fu eseguita nel 1777 dal Dunker: quella del Mechel fu pubblicata in Basilea nel 1786 col titolo: Vue perspective de la partie la plus élevée du centre de la Suisse, d’après le modèle en relief de M. Pfyffer. Anche il Clausner riprodusse quel modello nella: Carte en perspective du Nord au Midi, d’après le pian en relief, etc.
       Lodovico Pfiffer nacque a Lucerna nel 1716.
       Altre carte in rilievo ai tempi del De Saussure aveva fatto eseguire il signor Exchaquet e di esse parla il Saussure stesso (Voyages, vol. VII, ediz. in-8, pag. 19). Tali plastiche si riferivano al Gruppo del Monte Bianco ed a quello del San Gottardo. Erano costruite sulla scala di una linea per ogni trenta tese, e le roccie, i ghiacciai, le nevi, i boschi, le praterie, i villaggi, tutti i particolari insomma, vi erano egregiamente rappresentati.
  27. Una spiacevole avventura, del genere di queste, toccò a Lazzaro Spallanzani quando nel 1772, perlustrando le montagne del Lario, si addentrò in Val Cavargna. Quegli alpigiani, fortemente insospettitisi della presenza dello scienziato, che portava seco vari strumenti da essi interpretati per chissà quali macchine infernali, lo attorniarono armati di pistole e di archibugi, minacciandolo di morte. Ma lo lasciarono libero ed incolume non appena egli spiegò loro lo scopo pacifico delle sue gite. Così narrano il Giovio, nelle Lettere lariane, lett. VIII (Como, 1803 e 1827) ed il Monti nella Storia di Como (vol. II, parte I, pag. 616), Quest’ultimo aggiunge che i Cavargnoni assalirono lo Spallanzani, non per tema che questi minasse alla loro indipendenza, ma perchè credettero fosse un gabelliere lassù salito per aumentare il prezzo del sale.
  28. Corrado Gessner, che fu uno dei più grandi uomini della Rinascenza, ebbe vivissimo il sentimento alpinistico, e va per questo riguardo collocato assieme a Leonardo da Vinci e Josia Simler. Prima di quest’operetta sul monte Pilato, egli aveva già stampato una lettera sulla bellezza delle montagne, come prefazione al suo libretto sul latte e sulle latterie (De lacte libellus philologus pariter ac medicus, cum epistola ad Jacobum Avienum Glaronensem de montium admiratione, Zurigo, 1541). In questa lettera egli si domanda: "Perchè tante vette si drizzano così alte? E risponde che sono i depositi inesauribili in seno ai quali si formano le sorgenti, i ruscelli ed i fiumi, donde traggono i paesi circostanti le rispettive provvigioni d’acqua; che ai loro piedi troviamo i bei laghi della Svizzera, e laghi s’incontrano frequenti persino sulle parti più elevate delle Alpi; che altri infiniti tesori si nascondono nelle loro viscere; che le loro fonti minerali diventano dispensiere di salute e di vita per coloro che non temono le difficoltà dell’accesso, ecc.„. E seguita su questo tono, decantando con prosa poetica la natura alpestre, e mettendo in rilievo i piaceri che derivano da un’escursione alla pura aria dei monti. Sono pagine bellissime!
  29. Quest’operetta fu pubblicata nel 1756 nel Journal Etranger e riprodotta nel 1759 nel Journal Helvétique
  30. In una lettera a don Angelo Belloni, in data di Como 18 novembre 1777 (Lettere inedite, Pesaro 1835), il Volta dà un cenno sommario del suo viaggio. Eccolo: "Son dunque entrato nella Svizzera per il gran S. Gottardo, alla cima del quale ho passato più di un giorno intero: immaginate l’altezza a cui montai coll’abate Venini, dal barometro che trovammo a poll. 20.7 in giornata di tempo sereno costante. Le sperienze barometriche, cominciate al lago di Como, le abbiamo seguite di tre in tre ore fino a quello di Lucerna: ve ne farò poi vedere la nota. La prima città che vedemmo è dunque stata Lucerna; di là son venuto a Einsidlen, e quindi a Zurigo. Oh che stupende collezioni di storia naturale presso il professore Gessner, M.r Shultess, M.r Lavater, M.r Häscher, ed altri! Da Zurigo andai a Sciaffusa per vedere la gran cataratta del Reno, e il gran ponte: anche colà gabinetti. Da Sciaffusa, passando le quattro città silvestri, a Basilea; indi nell’Alsazia a Colmar, Brissac e Strasburgo. Ritornato a Basilea m’internai ancora nella Svizzera, venendo a Soletta e a Berna, ove feci dimora di otto giorni, de’ quali però tre ne impiegai per andare a vedere le grandi ghiacciaie del Gründelwald. Da Berna a Ginevra non presi la strada dritta: ma volli vedere Neuchâtel, Yverdun, Losanna. Oh! i bei laghi! A Ginevra soggiornai quattro giorni in cinque, donde per ritornare a casa presi la strada della Savoia, e del Moncenisio a Torino„.
  31. In: Alcune prose del conte Giambattista Giovio nella Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne, vol. 151 (Milano, Giovanni Silvestri, 1824). La biografia ha questo titolo: Cenni sulla vita e sull’indole di Giambattista Giovio scritti da persona a lui famigliare. Il Monti (Storia di Como, vol. II, parte II, pag. 765) dice che "furone scritte, come è fama, dalla sua figlia primogenita„. In una delle sue lettere dettate durante il viaggio il Giovio esclamava: "Sono contento del viaggio e degli Svizzeri„. In un’altra diceva: "Il mio Volta sta in continue occupazioni. Che assiduità di studii! Quando non ha musei o uomini dotti si dà alle esperienze; tocca, esamina medita, nota. Ben mi spiace che nella carrozza, sul tavolino, in ogni luogo, devo sempre avermi innanzi il suo moccichino, dove con una spensieratezza la più singolare viene a forbirsi mani, naso e istrumenti„
  32. Nello stesso anno in cui il Volta compieva il suo giro nella Svizzera, viaggiava da quelle parti il senatore veneziano Angelo Querini in compagnia del naturalista valdagnese Gerolamo Festari. Essi valicarono l’Alpi passando pel Moncenisio e rimpatriarono per il Brennero. Il Festari scrisse la relazione di tal viaggio: ma essa rimase inedita fino al 1835, epoca in cui Emanuele Cicogna ne fece una pubblicazione — anche essa per nozze — in 150 esemplari (Giornale del viaggio nella Svizzera fatto da Angelo Querini senatore veneziano nel 1777, descritto dal dottore Girolamo Festari di Valdagno, Venezia, tip. Picotti 1835, in fol.). Assai importante è questa relazione ed è fatta sul tipo di quella del Volta, cioè con osservazioni d’ogni genere e prevalentemente geologiche.
       Nella descrizione della gita alla cascata dello Staubbach ed ai ghiacciai di Grindelwald il Festari ricorda d’aver avuto a compagni "il celebre sig. Volta ed il signor conte Giovio di Como.„ Ne cito i periodi più salienti: ".....La mattina appresso di buonissima ora ci recammo alla famosa cascata di acque per nome Staubbach, che risponde in nostro linguaggio a ruscello di polvere. La lunga siccità l’avea di molto scemata, ma non fu per noi niente men dilettevole e sorprendente il vedere un’acqua che cade da una rupe di mila e cento piedi di perpendicolo, come si ha dalle esatte misure prese da chi la fece disegnare, li cui rami si vendono in Berna. Essa è rossa e sminuzzata in goccioline emule a’ vapori, che sfumano in aria a guisa di polvere sottilissima, e li raggi solari penetrandola vi formano bellissima iride. Alla metà incirca dell’altezza, sporta un po’ infuori la rupe, e quivi l’acqua cadendo raddoppia il getto in più minuta spruzzaglia, e si dilata in vieppiù ampia bianca nube di pioggia. L’avvicinarvisi fece sì, che ricevemmo mille benedizioni, gratissime aspergini assai più acconcie a stagione, quando il suolo non imbianca da rappresa gelata brina, come lo era in quel giorno. La base di quello scoglio, e delle montagne contigue e stese a quella parte, è una argilla cenerognola rassodata in grosso strato.....
       "Veduta ch’abbiamo quella cascata, ch’è forse la più bella in tutte le montagne svizzere, ritornammo per la medesima via, per recarci alle ghiacciaie. La giornata serena, sgombra affatto di nubi, cosa rara nell’avanzata stagione ne’ paesi alpini, permise di poter seguire l’ordine degli strati di quelle montagne.... (e qui riferisce le fatte osservazioni geognostiche). Ma eccoci ormai alle ghiacciaie. Due sono e poco distanti l’una dall’altra. Questi massi di diaccio, rinchiusi fra altissimi valloni, per lo più difesi da’ raggi del sole, si stendono fra tortuosi andirivieni delle Alpi a parecchie miglia, sicchè presentano una superficie quasi di uno stretto di mare, eternamente gelato. Ci approssimammo ad una, presso il letto del fiume (che parte da essa) le cui acque con romore veggonsi precipitose uscire fuori delle cavità ascose fra il ghiaccio. Sulla dritta del fiume, ove una parte delle sue acque esce, s’incontra il ghiaccio in una vôlta di linee circolari concentriche, e vi forma una maestosa caverna rientrante, li cui archi sono uno dall’altro separati e divisi superiormente. Si uniscono poscia ne’ fianchi fino a terra, ove finiscono, e con mirabile architettura del caso sostengono il non lieve peso che vi soprasta. Il ghiaccio che pende verso il fiume sul sinistro lato, descrive un semicerchio verso la ghiacciaia, e di là si rialza in piccioli conici monticelli più o meno puntati nelle sommità loro. Tutta quella sostanza gelata è trinciata a varie differenti linee che si taglian l’una l’altra, per cui risultano de’ vani irregolari che penetrano, e vi serpeggiano per entro. Quindi quando il sole illumina questa parte offre essa un verde colorito che finisce in azzurrognolo, che, pel contrasto del bianco nella crosta superiore, presenta un oggetto assai grazioso e dilettevole nella varietà ordinata di tinte che insieme accoppia.
       "Un fenomeno offre l’aria rinchiusa nel ghiaccio che merita avere luogo in questo particolare. Le bolle aeree riacquistando la naturale loro elasticità sprigionansi con istrepito, portano un risonante rimbombo a parecchie miglia, che si diffonde oltre la lunga valle di Grindelwald. Noi fummo testimoni di udito di alcuni di questi scoppii che emulano le più strepitose cannonate, e fanno echeggianti le vicine valli e perfino li rimoti monti.
       "Ma quello che più ci sorprese fu la varietà del clima di questa valle. L’acqua che sciolta dal ghiaccio forma l’accennato torrente, si rapprende di nuovo a pochi passi dall’origine sulle sponde dello stesso torrente; mentre dalla stessa riva a pochi palmi (tanto è picciola la distanza) cambia sì il freddo del clima, che fresche odorose fragole veggonsi spuntare da terra in un vicinissimo boschetto di alni, che da noi colte trovammo le più saporite al palato. Ben mi ricordo ancora quando sedemmo sopra grosso alto masso di ghiaccio in riva al fiume, da cui il maestoso orrido spettacolo di un mare gelato contemplavamo, e dall’altra parte l’amenità di colte verdi colline opponendosi in quel contrasto, que’ piaceri coglievamo che da opposte sensazioni a un tempo stesso sogliono derivare. Dolci colline di facile pendìo alzansi alla sinistra, ora di colti verdi prati, ed ora di fruttifero terreno seminate dove cresce il serpillo, e l’odorosa menta; ed altre simili piante proprie de’ caldi paesi ricreano l’occhio, e l’odorato, e somministrano all’industriosa pecchia mezzi acconci all’ottimo mele, che emula, se non supera, il più squisito e ricercato delle calde orientali contrade.
       "Dopo avere passate due felici giornate, e dopo averci procurata un’idea per noi nuova delle sì rinomate ghiacciaie, scendemmo di bel nuovo la valle di Grindelwald ripassammo il lago di Thun, e ritornammo a Berna. Qui il sig. Alessandro Volta, avendoci più volte parlato dell’aria infiammabile, volle altresì metterci al fatto con alcuni esperimenti, facendoci vedere l’infiammabilità della stessa, messa in moto dalla semplice scintilla elettrica tratta dal suo elettroforo perpetuo.....„
  33. Nell’agosto del 1778 il Volta indirizzò al De Saussure la sua memoria: Sopra la capacità dei conduttori elettrici e sulla commozione che anche un semplice conduttore è atto a dare eguale a quella della boccia di Leida, inserita negli Opuscoli scelti. Ed il De Saussure dal suo canto, ricorda spesso il Volta ne’ suoi scritti: a pag. 423 del VII volume dei Voyages (ediz. in-8) lo chiama: “Le célèbre Chevalier Volta„.
  34. Negli autografi voltiani che conservansi presso l’Archivio di Stato di Milano trovai una lettera in data del 26 agosto 1779, diretta al conte Firmian, nella quale il Volta scrive: “.....A proposito del sig. De Saussure, egli mi fa sperare di venir a Como verso la fine di settembre; io allora mi farò ogni premura di condurlo da V. E. mentre so ch’Ella desidera di conoscerlo, ed egli di conoscere la medesima di persona ed ossequiarla„
  35. Il Volta andò col Giovio a trovare il gran filosofo. Questi si fece attendere: frattanto si fermarono a conversare con sua nipote Madama Denis, la quale, per scusare lo zio, disse fra l’altro: Mon oncle fait ses pâques. Finalmente il Voltaire, pomposamente annunciato e preceduto da due cavalieri di San Luigi, comparve. Era d’umor gaio e si trattenne quasi due ore coi visitatori a discorrere di svariati argomenti, e specialmente di lettere italiane e d’arti. Di quel colloquio il Volta serbò vivissima impressione e ne parlava fin negli anni più tardi. A proposito di un volumetto di poesie del Giovio, disse a questi il Voltaire: Vous avez fait, Monsieur, comme le roi de Sardaigne, dont vous allez voir les états: il a commencé par n’être que Duc de Savoie, alludendo con ciò ad un sonetto devoto con cui cominciava il libro.
  36. Da questo paese savoiardo il Volta portò in Lombardia vari tuberi di eccellenti patate, che poi fece coltivare a Camnago e a Lazzate, eccitando i compaesani a fare altrettanto. Non è esatto quanto affermarono alcuni biografi, e cioè che il Volta avesse pel primo introdotto le patate in Lombardia; egli non fece che diffonderne la coltura come ottimo alimento per le classi povere L’abate Carlo Amoretti — il noto autore del Viaggio ai tre laghi, pubblicato in 6 edizioni (1794, 1801, 1806, 1814, 1824, 1826) — scrisse nel 1801 una interessante monografia: Della coltivazione delle patate e del loro uso (in-8, fig.). Molti altri libri furono dettati su questo argomento nel secolo scorso e li ricorda il Targioni Tozzetti nelle Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana (II ediz., vol. VI, pag. 127).
  37. Ho già avuto occasione di ricordare quegli scienziati che furono al Gottardo poco prima o poco dopo il Volta ed il viaggio del veneziano Querini (nota a pag. 54). Cade qui acconcio accennare ad altri viaggi nella Svizzera effettuati da italiani in quel turno di tempo.
       Con particolare missione pontificia viaggiò per la Svizzera ed altre regioni dell’Europa Centrale il cardinale Giuseppe Garampi, ed il diario di tal viaggio, compiuto dal 1761 al 1763, è stato pubblicato solo dieci anni or sono per cura del dott. Gregorio Palmieri, uno dei custodi dell’Archivio Vaticano (Viaggio in Germania, Baviera, Svizzera, Olanda e Francia; diario del cardinale Giuseppe Garampi; edizione condotta sul Codice inedito esistente nell’Archivio Vaticano. Roma, tip. Vaticana, 1889). Pieno di interessanti notizie intorno ai costumi ed alle cose dei paesi visitati è questo libro: il Garampi uscì d’Italia per la via dell’Adige da Verona ad Innspruch, e ritornò per mare da Trieste a Venezia; delle principali città svizzere parla a lungo.
       Un viaggio nella Svizzera fu pure compiuto nel 1778 dal matematico ed astronomo Paolo Frisi, che si recò a Ginevra valicando il Sempione e ritornando in patria per il Gran San Bernardo; in tale occasione prese alcune misure di altezze. (Vedi i suoi Opuscoli filosofici, Milano, Galeazzi, 1781, pag. 107 e seg.)
       Speciale menzione merita il viaggio compiuto nel 1779 nella Svizzera da Lazzaro Spallanzani, il cui diario venne stampato nel 1842 in fondo al volume ottavo dell’opera: Lettere di vari illustri italiani del secolo XVIII e XIX a’ loro amici e de’ massimi scienziati e letterati nazionali e stranieri al celebre abate Lazzaro Spallanzani e molte sue risposte ai medesimi ora per la prima volta pubblicate (Reggio, coi tipi Torregiani e Compagni, volumi dieci). Il manoscritto si conserva tuttodì, assieme a tanti altri (193 tomi), nella Biblioteca Comunale di Reggio, ed è strano che nell’elenco delle opere dello Spallanzani, compilato in occasione dell’inaugurazione del monumento a Scandiano (Modena a Lazzaro Spallanzani, Modena, tip. A. Namias, 1882) esso venga riferito ancora fra le opere inedite!
       Questa relazione del naturalista modenese non consta che di pochi appunti, talvolta in lingua francese, presi currenti calamo, senza ordine alcuno e con frequenti ripetizioni: di alpinistico v’ha quasi nulla. Egli cita le varie città visitate e dà di ciascuna qualche particolare, a somiglianza delle guide, insistendo però nelle parti naturalistiche, descrizioni di musei, ecc. Il titolo è: Viaggio alla Svizzera, e porta la data 13 luglio 1779. Incomincia da Pavia e descrive volta a volta le città di Tortona, Asti Torino e Susa. Del Moncenisio così parla: “Ascendendo il Monte Cenisio si trova a destra ed a sinistra della montagna una quantità di fontane rigogliose, che escono dalle pietre cavernose, e vengono a formare un torrente considerevole. Avuto riguardo alle nevi che sono in alcune sommità, ed anche a qualche glacier, non si può dire assolutamente, che tai fonti nascono precisamente dalle nevi squagliate, non potendo queste nell’annualmente squagliarsi essere bastanti. Questo però può spiegarsi per via degli idrofilaci sotterranei prodotti della neve. Ascendendo fino alla cima evvi un auberge chiamato la grande-croix, e qui evvi un piccolissimo laghetto; ma il lago enormemente più grande dove si pesca molta trotta è più avanti, ed è chiarissimo ed azzurrissimo. Non è per altro sulla sommità, ma anzi in una bellissima e spaziosissima valle, circondata da montagne aventi in cima della neve. Sul fondo, dalla parte opposta, cioè dove finisce il Monte Cenisio, si vede verso mattino un monte altissimo, dove la neve si estende dalla cima fino ad una considerevole discesa, e lo stesso è d’un altro monte verso ponente. Qui veramente sono dei veri glaciers d’una estensione ciascheduno di 3 in 4 miglia„.
       Continuando a trattare del Moncenisio accenna a due pietre osservate nel tragitto da Torino al valico, una roccia micacea ed un gesso bianchissimo, delle quali si riserba di fare un esame minuto. Dice: “Sulla cima del Moncenisio ed in quella lunga valle ci sono molte e molte case, e la gente quivi nata ed educata non può avere più bel colore di salute: locchè sicuramente si deve ascrivere all’aria, ai cibi, all’acqua, ecc.; difatti io stesso colà giunto mi sentivo tutto alleggerito, tutto in miglior salute„. Discorre quindi di Chambéry, di Ginevra — accennando alle collezioni del De Saussure e del De Luc, che visitò attentamente — di Berna, di Soleure, di Basilea — ricordandone la biblioteca pubblica di Zurigo — intrattenendosi sui gabinetti del Gessner, del Lavater e dello Shultess — e di Lucerna. A proposito di questa città dice poche parole intorno al lavoro in rilievo del generale Pfiffer — scrive Fifer — chiamandolo la “macchina„ e notando che “è qualche cosa di singolare„. Continua con un breve articoletto di osservazioni generali sulla Svizzera, e passa in rassegna i paesi di Morat, Payene, Moudon, Vevey, Villeneuve e Martignì, adoperando per alcuni di questi la lingua francese. Narra d’aver visitato da presso il ghiacciaio della Valsoret, ma si limita a scrivere: “Ce glacier m’est si imprimé dans la fantasie que je ne trouve pas nécessaire de le décrire„. E dopo aver enumerate alcune pietre che si incontrano sulla via di questi monti, viene al Convento di San Bernardo, ma senza descriverne il valico e solo riferendo alcune notizie tolte al Bourrit, nè fa parola del restante del viaggio: dice solo d’essere disceso a St-Remy, e poi parla d’Aosta, d’Ivrea e di Vercelli colle solite osservazioni generiche sui singoli paesi. E così finisce la relazione del viaggio, cui fa seguito un breve cenno, in data 19 marzo 1780, di una corsa a Genova.