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il volta alpinista 31

succede, argomenti parlanti della estrema vetustà di questo nostro globo. Cosi è: quelle alte cime e le parti superiori della valle hanno un’aria di decrepitezza che ferisce lo sguardo, e che è impossibile di non ravvisare. Gli screpoli, le spaccature, gli scoscendimenti, lo sfacimento, dirò così, universale di quei dossi immani sono solchi impressi dal tempo distruggitore, o, a parlar più giusto, sono le traccie che rimangono dell’azione indeficiente e combinata degli elementi, che, da una serie lunghissima e al nostro pensiero inarrivabile di secoli, operano sopra quelle masse enormi, quanto più elevate, tanto più esposte all’impeto dei venti, delle procelle e dei turbini, alle nevi, alle vicende d’umido e di secco, di ghiaccio e di sgelamenti. Siffatti diroccamenti e rovine in parte saranno effetto di cause violenti che agiscono per intervalli, e, per così dire, a scosse: in parte di altre cause, che, per essere più lente e tranquille, non sono meno possenti, siccome quelle che sono continue. Quando si riflette a queste od a quelle cagioni di degradazione de’ monti altissimi; quando una volta si porta l’occhio in giro a quelle balze ed a quei dossi petrosi, logorati, sfasciati, diroccati, tosto si presenta al pensiero, già atterrito da tale imagine di distruzione universale, un’idea delle rovine ancor più strepitose, che menar devono i torrenti che nelle grosse piene d’alto piombano in un coi gran massi travolti e rotolanti, e si precipitano ne’ gorghi. E già corre l’imaginazione a figurarsi come qua si formino dall’ammucchiamento delle rovine e de’ rottami nuove montagne, là le poc’anzi formate si demoliscano, mentre le antiche, altamente percosse ne’ fianchi e nelle radici, soffrono i più gran crolli.

«Nel mentre che tutta l’anima è assorta da tale meditazione, e compresa da grandi oggetti, l’occhio è anche incantato (a misura che ci avanziamo nella valle salendo) dalle prospettive terribili insieme e maestose de’ dirupi, delle superbe cascate, del fiume medesimo, che allato della strada sovente angusta e rovinosa, e sotto d’essa, alla profondità quando di 300, quando di 500 e più piedi, mugge orribilmente e spumeggia, rompendosi contro il nudo ceppo irsuto e contro i macigni giù al fondo precipitati; finalmente degli accidenti d’ombra e di luce che si riflette dalle creste sassose, si perde nei seni, si rifrange da’ ghiacci, si oscura nelle piante di abeti e tassi, quai vegeti, quai già cadenti ed infradiciati, sparsi qua e là sul dorso medesimo delle rupi scabre ed inaccessibili. Sopratutto l’occhio è colpito e il cuore commosso dal bel contrasto e magnifico di una valle deliziosa ed aperta, ricca di bei pascoli e popolata da pingui mandre, che