Viaggio di un povero letterato/VII
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Capìtolo vii.
CHE COSA VOLEVA MIMI.
Mimì abitava ancora il vècchio appartamento della sua vècchia madre, in una casa diroccata, che dovette èssere un antico monastero. Ma salendo le scale, un lezzo di stantio mi si avventava alle nari. «In verità — pensai — questo nauseabondo fortore era, forse, preesistente. Ma chi se ne accorgeva allora? Era tutto paciulì.»
Riconobbi ancora l’antica porta, l’antico cordone del campanello.
Mimì venne ad aprire in fresco àbito da mattina, visetto incipriato, riccioletti attorno alla fronte: gioiosamente. Mi introdusse in una stanzetta, che guarda sui tetti: era ancora l’ùmile stanzetta con il pìccolo lettùccio da ragazza.
Ma le memòrie del teatro e della vita sua errante; cose bizzarre, ritratti, fiori, libri, avèvano finito per coprire le pareti e i mòbili. Il cristallo della toilette era ingombro di tutte quelle delicate suppellèttili che sèguono la donna come gli zeri alla destra di una cifra.
— Che cosa guardate, che cosa guardate? Piuttosto dìtemi, come mi trovate?
— Come vi trovo? Ve l’ho detto ier sera: bene.
— Ah, non è più la Mimì di una volta.
— Sinceramente, siete un prodìgio di conservazione.
Sorrise un po’: — Sapeste (e mi chiamò per nome), che paura ho di morire! Pensate; dover morire....
— Mah! È una cosa che càpita.
— Non lo dite per carità.
— E allora non diciàmolo. Ma, se io mal non ricordo, voi, Mimì, una volta, avete tentato il suicìdio.
— Una volta...!
Lei era piccina e ci stava a suo àgio nella stanzetta. Io? Non so perchè, soffocavo. Guardavo i ritratti.
— Chi è quello lì? — domandai.
— Il pòvero, grande Garavàglia!
— E quello?
— Il pòvero Alfredo Cappelli, il grande tràgico! ed un nòbile cuore sapete!
— Sarà.
— Come «sarà»? È!
— In fondo sono istrioni, — dissi io.
— Oh, — fece Mimì scandalizzata — la più nòbile delle arti.
— Come volete voi: allora diciamo: «la più nòbile delle arti».
Del resto può darsi che tutti e due avèssimo ragione: io guardavo gli istrioni della vita e ne avevo l’ànima amara; lei guardava gli istrioni del palcoscènico, che dopo lo spettàcolo si làvano e vanno piacevolmente a cena, e ne aveva l’ànima dolce.
— E quello là, coi baffi spioventi in giù? Oh, ma quello non è un istrione. Quello, se non mi sbàglio, è Quìrico Filopanti, poveretto.
— Come «poveretto»? — esclamò Mimì sdegnata. — Un eroe, un santo!
Ora ben ricordavo: la gran passione di Mimì, giovanetta, per gli uòmini in qualsìasi modo straordinari....
— Ma quello è il ritratto di Giòsue Carducci! Avete conosciuto anche il Carducci? — domandai stupefatto.
— Voi non ricordate più nulla — esclamò Mimì con profondo stupore dei suoi occhi tondi.
«In verità, Mimì, avete ragione: le pareti mèglio affrescate sbiadìscono, quando la gràndine troppo le batte.» Ma non dissi nulla ed ella seguitò:
— Non ricordate? C’eravate anche voi, quella sera, da Sabatino, quando gli fui presentata. Tutti voi avevate una gran paura che io commettessi qualche gaffe madornale. Ma io me la cavai benìssimo. Non ricordate che bel complimento gli feci?
— Quale?
— Gli dissi: «Professore, lei ha le mani da duchessa!» e lui fece come un ruggito di compiacimento. Sapete? Tutte le volte che sono andata, poi, nei serragli — è una mia passione — a vedere i leoni, con quella testa sconfortata che hanno, mi è venuto sempre in mente il Carducci.
Tacemmo un po’.
— Ma quello lì, quello lì — dissi indicando un ritratto sbiadito dal tempo, — è lo Spad....
— Eròico! — fece Mimì con compunzione.
Mi vi fissai a lungo. Era un profilo di giòvane imberbe, dalla lìnea indefinibilmente aristòcratica, con un non so che di spiritato nelle pupille. Dalla fronte, per le finìssime chiome, pareva vaporare il misterioso ardore della sua giovinezza.
Nel tempo che Bologna fioriva di bizzarrie e gentilezza, Spad.... ebbe per qualche anno gran nome. Lo rividi vivo col pensiero: pàllido, supremamente elegante e sprezzante, signorile e plebeo. Si uccise a trentanni. Lo Spad.... era stato il mio formidàbile rivale, non perchè egli amasse Mimì, o conoscesse me, mìsero studente; ma perchè lei era pazza per lui.
— Eròico? — risposi. — Uno squilibrato, un ubriaco di assènzio e di paradossi, che scambiò il pòrtico del Pavaglìone e l’àngolo delle Spaderie col vasto mondo. Se avesse pensato seriamente che quei due colpi di doppietta contro la sua testa costituivano l’ùltima sua réclame, non lo avrebbe fatto.
— Voi non capite niente — disse Mimì. — La sua era un’altra morale; e voi siete rimasto piccolo borghese.
— Pìccolo borghese? Credete di offèndermi? Ma no! È una delle poche cose buone che rimàngano all’Itàlia. Certo quando penso che voi vi siete prodigata agli eroi; mi dispiace di èssere stato pìccolo borghese. Lo Spad..., del resto, non vi amava....
— Questo lo dite voi — scattò Mimì. — A suo modo, sono stata amata da lui. Certo col senso della bellezza che egli aveva, preferiva le donne tizianesche, i grandi corpi statuari. E me lo confessava con la sua divina brutalità.
— E voi eravate sotto misura....
— Impertinente! — disse Mimì facendo anche più tondi i suoi occhioni e scoprendo i suoi denti così deliziosamente che mi parve di rivìvere per un àttimo della mia giovinezza.
— Ah, cara Mimì, — esclamai — se io avessi supposto in voi questo nòbile e così raro culto pei morti, vi avrei offerto anch’io, come costui, il mio cadàvere imbalsamato. Era, allora, una cosa discreta: magro, biondo.... Converrete almeno, che io, invece, vi ho amata moltìssimo.
— Voi? Voi non sapete amare; voi non avete veduto in me che un poco di fèmmina, condita bene, che vi stuzzicava l’appetito.
— E non ne parliamo più — dissi. Io mi ero alfine seduto. Ella si stava in piedi davanti a me e le sue mani èrano ancora le sue belle mani, i suoi occhi èrano ancora i suoi begli occhi tondi, i suoi denti èrano ancora quei pìccoli aguzzi denti che ella scopriva in modo delizioso.
Però il condimento non c’era più! Il feroce tempo, o Mimì, ti aveva ravvolto i polpastrelli della sua invisìbile mano attorno al collo. È lì, vedi, Mimì, dove il tempo prende le donne e stringe il dolce stelo della loro bellezza. Esso, sì, strozza, e non si scherza allora più, come tu con me quella sera d’inverno sotto il palazzo Bentivòglio, Mimì. «Ah, io non ho veduto in voi che un poco di fèmmina condita bene! — dissi fra me. — Io ho veduto l’inferno, il purgatòrio: e il paradiso me lo avete fatto sospirare. Del resto può darsi che voi abbiate ragione. Mercè vostra, o pìccola Mimì, il mondo era allora per me tutta una appetitosa vivanda ed io non domandavo a Dio che una gran bocca per farne un ùnico boccone, voi compresa, Mimì. Ma oggi soffro di nàusee.»
— Cara signora — dissi, — cambiamo argomento. Voi avete detto ieri sera che avevate bisogno di me.
Esitò alquanto. Disse:
— Io volevo lèggervi alcune mie cose; o le leggete voi, se vi pare; ma lèggere con amore, ve ne sùpplico — e pronunciò il mio nome di battèsimo melodrammaticamente.
— Figuràtevi! Lèggere è il mio mestiere. Saranno, suppongo, memòrie della vostra vita. Non è vero?
— No! Sono poesie!
— Poesie? Ma questo è un volume completo di poesie! — esclamai sfogliando il manoscritto che Mimì mi aveva messo innanzi delicatamente.
Come rimase male, pòvera Mimì, alla mia esclamazione dolorosa.
— Ma non siete anche voi poeta? — domandò.
— Una volta, Mimì! Ma da quando mi sono accorto che i nostri servizi pùblici vanno male perchè vi sono troppi poeti, ho smesso di èssere poeta. Ma che peccato, Mimì, che voi non foste poetessa nel tempo che anch’io cantavo come un merlo! Voi, invece, come avete fatto a diventare poetessa?
Pòvera Mimì, lei credeva quella mattina di ricèvere da me le più sentite congratulazioni letteràrie, ed io dissi quelle parole con la voce accorata come avessi detto: «come avete fatto ad ammalarvi?».
Mimì disse con santa semplicità: — Vi sono adesso tante donne che scrìvono, tante poetesse! poetessa A***, poetessa B***, poetessa C***....
Era arrivata alla G***, all’N***, alla V***.
— Ci posso stare anche io.
«Capisco — dissi fra me — , è un caso di infezione»: ma volevo dirvi questo: che avrei preferito lèggere le memòrie della vostra vita. Per esèmpio, la stòria di quando mi avete fatto ballare sopra un quattrino, passare dal bagno russo alla dòccia fredda. Sapete che sarebbe riuscita una stòria interessantìssima?
— Come siete cattivo! Sapevate bene che in quegli anni ho avuto il tifo, che mi sono caduti i capelli....
— Ah, si chiama «tifo» quel servire un pòvero ragazzo ora cotto arrosto, ora in salsa rifredda? Si chiama tifo?
[In fondo, sì! Mimì aveva ragione, si chiama «tifo», che alla lettera vuol dire «instupidimento». Che colpa aveva Mimì se un ragazzo di vent’anni, tenuto alla catena in collègio per sette anni, dove aveva mangiato tutte le romanticherîe possìbili, un bel giorno va a bàttere il naso contro la sottanella di una sartina, la quale, indubbiamente, odorava forte di paciulì? E chi le può fare rimpròvero se per qualche tempo lei si è divertita nel vedere gli strani effetti che su di me produceva il suo inestinguìbile odore di paciulì? A Milano, in fatti, per significare «innamorarsi sul sèrio», dicono: «fare il tifo».
Quel mio compagno di Asiago, il tremendo teutònico, che durante i sette anni di catena in collègio pareva non pensasse ad altro che alla filologia comparata ed alla Santa Vehme, appena fu lìbero, andò anche lui a sbàttere, ma con tanta violenza, contro una sottanella profumata che gli venne come un furore: e allora giù liquori per rinfrescarsi! E in pochi anni, fra sottanelle e liquori, la sua fibra di cimbro fu spezzata come un fuscello. Egli fece kara-kiri in altro modo.]
— Veniamo a noi, signora. Quale è l’argomento delle vostre poesie? È fàcile supporre: l’amore.
Mimì fece cenno di no, l’amore non era il tema prevalente delle sue poesie.
— Questa è una cosa grave — dissi io.
— Non esìstono forse altre cose che l’amore? — disse Mimì.
— Quali?
— Ma la bontà, la pietà per gli infelici, l’eroismo — disse Mimì con entusiasmo — , la fratellanza umana, il progresso umano, e poi le bellezze del creato. Non esìstono forse tutte queste cose?
— Se voi ci credete, esìstono.
— Voi non ci credete, forse? — domandò Mimì.
— Sì, ma così e così. Questo vi volevo dire, Mimì, che oggi il mondo è un così fragoroso macchinàrio che non si sentono più le voci delle tombe. Della qual cosa è prova il fatto che molti poeti si sono messi a celebrare il frastuono dei motori e dei macchinari.
— Che cosa dite?
— Niente, Mimì. I riccioletti del mattino si scòssero a queste mie parole attorno al visetto glabro e incipriato di Mimì; i suoi occhi tondi e superficiali si fècero più tondi.
Mimì veniva da una lunga tournée nell’America del sud, e perciò ignorava i più recenti prodotti della poesia nazionale.
— Niente, Mimì; ma per cantare le bellezze e anche le bruttezze del creato, occòrrono volti terrìbili e facce barbute. Voi donne siete invece capellute sì bene, ma senza barba e con quei visetti graziosi....
— Ma la poetessa G***, la poetessa Y***, la poetessa N*** sono celebri, eppure non hanno barba, non hanno volti spaventèvoli: cantano nei loro versi le bellezze del creato, i fiori, le stelle, la luna, Iddio, il cielo, il mare....
— Questo che voi dite, è vero, Mimì; ma vi prego di osservare come tutte le volte che una poetessa canta i fiori, le stelle, la luna, ecc., ecc., sotto i fiori, le stelle, ecc., se ci si guarda bene, si vede un uomo, cioè l’amore per un uomo o per più uòmini. Ciò senza dùbbio è cosa interessante, ma un po’ monòtona. Molto più interessante, invece, è quando la donna si denuda sinceramente, apre quasi le sue carni e pare che dica: «Guarda, o uomo, come amore òpera dentro le nostre vìscere». Questa è la vostra maggiore originalità; o almeno qui l’uomo non vi può fare concorrenza.
— Mi denudo anch’io — disse Mimì.
— Bene, allora sentiamo.... (benché quest’operazione — pensai — sarebbe riuscita più interessante venti anni fa).
Cominciai a lèggere.
Qui Mimì mi interruppe.
— Ma non fate mica quella fàccia scura, sapete! Non pigliate mica quell’ària da professore! Voi dovete giudicare soltanto dal sentimento....
— Impossìbile, signora!
— Ma perchè «impossìbile»? — chiese Mimì con doloroso stupore.
— Perchè il sentimento è bensì una parte della poesia, ma non è la poesia.
— Voi siete un uomo oramai congelato — sentenziò Mimì.
— Sia pure! Ma io vi dico: conoscete voi la dinamite, quella cosa spaventosa che fa saltare monti, case, ponti, uòmini? Ebbene, essa non è altro che la combinazione di due elementi innòcui quando sono separati: la glicerina (eccola lì! su la vostra toilette) e un poco d’acido nìtrico.... La glicerina è il sentimento: l’àcido nìtrico è l’arte....
Mimì mi guardava con molta pietà.
— Vedo che voi non sapete di chimica — dissi. — Allora un altro paragone fàcile: voi volete fare due uova col burro. Evidentemente occorre il burro e le due uova; ma se rompiamo le uova e poi sopra vi buttiamo il burro, sono due pèssime uova col burro; se poi volete fare quello che i francesi chiamano una omelette soufflée, l’affare si presenta bene altrimenti complicato....
— Dio, come siete diventato volgare! — esclamò Mimì. — Ma in quale orrìbile ambiente siete vissuto?
Ella coprì delle sue belle manine i suoi manoscritti, con il pàvido affetto con cui una mamma sottrae il suo piccino da un contatto profano.
— Bene, bene! Per voi farò un’eccezione: leggerò solo col sentimento.
Èrano strofette e rime di altri tempi; e ne vaporava un profumo di stantio come da un salotto di trent’anni fa. Mimì non sapeva fare le uova col burro alla maniera nostrana, e ignorava la omelette soufflée alla francese.
Il momento era delicato: con tutte le mie buone intenzioni, la mia voce cadeva.
Mimì mi indicava le più belle poesie, ma io non riuscivo a dar vibrazioni alla voce. Allora dissi: — Mimì, mi congràtulo: avete conservata la vostra verginità morale.
— Leggete questa: Le belle mani.
— Sono le vostre, Mimì?
— Sì.
— Voi del resto avete avuto sempre belle mani, anche quando non usàvano le manicure per tagliar le pipite. «Le belle mani!» Ecco un tìtolo squisitamente femminile. Un uomo sarebbe grottesco a intitolare così una sua poesia; mentre una donna può dire benìssimo, le belle mani, i bei fianchi, il bel ventre, e altre cose del gènere. Vedete la differenza tra il poeta e la poetessa? Mi piace: leggiamo.
La poesia cominciava:
Che belle mani avete;
Mi dite spesse volte.
— Chi dice così? È l’amante, vero, che dice così?
— Certo.
— Quale amante?
— Ma l’amante ideale. Andiamo, seguitate a lèggere.
Dunque seguitai a lèggere quei versìculi. Essi costituivano tutta una litania delle opere benèfiche e caritatèvoli delle sue mani. La poesia concludeva così:
Le mani, o mio gentile,
Che mi lodate tanto,
Belle non sono soltanto,
Son buone mani ancora.
Gli occhi di Mimì — mentre io leggevo, si velàrono sul sèrio di un sottil strato di làgrime. — Ma sapete che sono molto buona, io? — esclamò. — La mia pòvera mamma, la mia vecchierella la ho mantenuta sempre io! Ho guadagnato anche abbastanza: ma da parte, vi giuro, che non ho un soldo. «Mimì qua, Mimì là», e poi sapeste quante misèrie segrete....
Veniva da piàngere anche a me: ma per altra ragione. Pòvera Mimì! Lei credeva ancora nella missione evangèlica delle mani.
Mimì aveva conservato anche la sua verginità intellettuale. Ella ignorava anche che oggi sono di moda le lodi alla belluinità.
— Bellìssima poesia — dissi — , ma forse oggi sarebbe di più effetto la stòria delle mani feroci, perverse. Quando, per esèmpio, mi facevate ballare come un burattino.... — E dicendo queste parole, rimasi anch’io sorpreso dall’insistenza con cui ritornavo su l’antico argomento.
— Ma sapete — disse Mimì quasi con doloroso stupore — che voi dovete èssere ben ammalato?
— Può darsi, mia cara: anzi vi dirò che viàggio per cura — e mi alzai. — Avete una sigaretta?
Guardai l’orològio: quasi mezzodì
— Venite fuori — dissi — a far colazione con me?
— No, no! E poi la mia mamma è ammalata.
Mi profersi di andarla a salutare.
— Inùtile. È completamente sorda.
Mimì socchiuse un ùscio: disse:
— Guardàtela là!
I miei occhi guardàrono di sfuggita in un’altra càmera: vidi una testa immòbile, scarna, in un enorme letto ex-matrimoniale, col capo ravvolto in un fazzoletto bianco, lungo come una mìtria.
— Se è sorda, non sente. Mettètevi il cappello, e andiamo a far colazione.
— No.
— Perchè?
— Prima perchè siete lùgubre, ed io non voglio sentire discorsi lùgubri.
— E poi?
— Come siete curioso. E poi perchè aspetto qualcuno.
— Chi? Un vostro amante forse?
— Cosa vi interessa di sapere chi aspetto?
Io ero stupito lì in mezzo alla cameretta.
— Ma il giorno in cui non potrò più amare — disse allora Mimì — , Mimi sarà morta.
— Addio! — dissi, ed ella mi guidava verso la porta.
Così ci lasciammo, e la porta si chiuse. Mi fermai un po’ lì fuori. Guardai a lungo, lì di fuori, il cordone verde, unto del campanello. Forse era ancor quello di tanti anni fa. Sopra v’era scritto in relazione alla sordità della vecchia: «suonate forte».
Quel vècchio cordone di campanello! Quante volte lo scossi! Squillava sùbito, ed al pìccolo squillo rispondeva un tuffo nel mio cuore. Veniva ad aprire la vècchia, che allora non era sorda. A i ho bell’e capè! Anca vo a zercà dlà Mimì. Mo se an so gnanca me duv l’è, sta vagabonda! Ande bein là, el mi cinein!
E l’ùscio si rinserrava.
★
Rimasi lì per quella sùdicia via, che un tempo a me pareva la più bella via di Bologna. «L’amore? Probabilmente come una funzione digestiva: una mensa con belli allettamenti. E da giòvani si crede chi sa a che cosa!»
Mi scosse un colpo di cannone.
Era il cannone del mezzodì. E allora fu un correr di pòpolo che smette il lavoro e un gridare gioioso: «L’è Filopanti, Filopanti!».
— Perchè? Perchè dite Filopanti?
Ma il pòpolo aveva fretta per andare a mangiare.
Ho poi saputo che il pòpolo di Bologna chiama col nome di Filopanti il colpo di cannone del mezzodì.