Viaggio di un povero letterato/VIII
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Capìtolo viii.
LE DUE MILIONÀRIE.
La vìsita a quell’amore defunto era stata assai melancònica, come contemplare se stesso defunto.
Mi ero anche sopracaricato di letteratura, ed anche ciò era melanconico. Avevo fatto l’uomo superiore con quella pòvera Mimì: avevo detto male delle poetesse; ma riconoscevo di aver torto. Divine poetesse, api d’oro! Qualcuna di voi va corrusca e fiammante nel sole, qualche altra batte l’ala ferita. Ma almeno si sa quello che voi domandate, in fine: il paradiso!
Divine poetesse, api d’oro! come le api d’oro voi avete libato questo disgraziato uomo; e l’uno valeva l’altro! Perchè Giove padre non creò per vostra satisfazione, o api d’oro, tutto un paradiso fiorito di inesaurìbili eroi? Ma l’uomo! L’uomo è incontentàbile e senza pace. E quel suo atteggiamento di nume in terra è intolleràbile.
Io mi trovavo immerso in queste idee quando, gràzie a Dio, mi sorse un’idea cretina. Essa mi venne suggerita da un enorme fragoroso carrozzone automòbile, che rotolava sui sassi della vècchia via Galliera e portava scritto: Bologna, Monghidoro, San Pietro a Sieve.
Monghidoro? Ma Monghidoro è il nome moderno di un antico nome, superbo e plebeo: Scaricalàsino! E v’è chi nomina Scaricalàsino come fosse un paese fantàstico! E un paese rupestre, a poche mìglia da Bologna. E l’idea esilarante e cretina era appunto nel ravvicinamento della dottorale Bologna, dove nei tempi antichi venìvano di Spagna e di Lamagna a caricarsi di dottrina; e poi Scaricalàsino, dove le schiere degli àsini scaricàvano le some loro, e facevano beatamente: «Ih! oh!». Oh, giòia di scaricarsi dalla soma della dottrina! Inoltre quel giorno era caldìssimo, e allora pensai anche che, dopo Scaricalàsino, veniva l’alpestre passo della Futa; e il Mugello; e le ginestre; e i grandi vèrtici dei monti. E questa era un’idea rinfrescante. L’automòbile risale la valle bellìssima della Savena; làscia giù la bassa landa, corre su verso la freschezza dell’Appennino.... È deciso. Andiamo a Scaricalàsino. Respireremo l’ària fresca, berremo le àcque purissime di Scaricalàsino. Ma bisognerà attèndere l’alba del dimani. L’automòbile làscia Bologna al primo mattino. Tanto mèglio! Bello è viaggiare al mattino.
★
Il desiderio di vìvere un’ora a Scaricalàsino era così grande che alle tre del mattino mi trovavo già desto per il letto. Perciò levàtomi e tolto meco un mantelletto ed un forte bastone, mi recai ad attèndere l’ora della partenza in quel caffè che mai non chiude le porte. L’alba non era ancora apparsa; ed il cielo sembrava di cènere: eppure il giorno doveva èsser sereno!
Da via Indipendenza, intanto, col lento moto delle scope, avanzava in un polverone una schiera di spazzini. Il loro gesto era silenzioso e solenne. « Voi siete sacerdotali ministri, voi che togliete la sozzura notturna.» E quasi mi venne vòglia di salutarli quei dispregiati spazzini.
Ma la sozzura degli uòmini e della notte era ben palese nell’elegante caffè che mai non chiude le porte. Su la lastra di marmo di un tàvolo, sotto l’ùnica làmpada accesa, una mano non inesperta aveva tracciato alcuni disegni mostruosi. Tristi uòmini, tristi donne che vivete nella notte! Le tènebre della notte sono demonìache, ed i corpi ne sono polluti. Perchè al discèndere delle tènebre non recitiamo più compieta? Non supplichiamo ancora ne polluàntur còrpora?
Come si vede, io era pieno di purità: dunque, honny soit qui mal y pense!
Io ero solo in quel caffè: l’ùltimo nottàmbulo se ne era andato: io ero il primo avventore mattutino. Con l’aiuto di una pìccola cartina geogràfica, risalivo il corso della Savena; pregustavo il viàggio, sorbendo un ben sciagurato caffè. «Ecco — dicevo in pura letìzia di spìrito — l’incantèsimo dell’aurora fra poco distesa per il cielo; ecco le pure àcque giù dai monti; ecco si àprono i fiori; ecco càntano le ròndini! Tutto puro.» Dunque, honny soit qui mal y pense!
Perchè, d’improvviso, un’automòbile rombò, sostò davanti al caffè; partì sùbito con un miagolio rabbioso; ed io avevo appena levati gli occhi, che due donne sbattèrono la portina a vetri, irrùppero nel mezzo della sala. Parèvano le padrone del caffè, della notte, dell’universo. Ondeggiàvano enormi stravaganti pennacchi. Una di esse comandò imperiosamente, battendo con le nocche inanellate sul marmo: — Botega! cafè e late! — e poi alla compagna disse: — Sentèmose qua. E mi sentii profondare poi sollevare sul sofà. Ella si era seduta presso di me. Un acuto profumo mi investì.
Costei era veramente una figura notèvole: due occhi chiari, freddi, imperiosi in un volto olivigno, dalle linee forti: bel rictus meretrìcio. Una larga tònaca nera di seta, trascinata con grande sprezzo, lasciava intravedere gli ondeggiamenti di un grande corpo. Un senso di angòscia mi sorprese.
L’altra era più giovane, più èsile: una figurina esòtica; ma sbattuta, sciupata, sgualcita. Si liberò come dolorosamente delle grandi piume: apparve un volto triangolare come d’una serpe: volto senza fronte, tutto avvolto in treccine bionde; due immoti occhi di turchese, dilatati, paralleli; un tàglio carmino di bocca; un mento plasmato come da un bizzarro artèfice. Costei sbadigliò liberamente, risbadigliò, rialzando i gòmiti e inturgidèndosi tutta. Allora parve accòrgersi che nel caffè non era sola, lei e la compagna. Parve con un sorriso stancamente dirmi: «Pardon!». E quasi a mèglio spiegare, rivolta alla compagna, disse: — Go sono!
Sorbirono un po’ di caffè e latte; poi la bruna sbattè sul marmo una borsa a màglie d’oro: trasse dalla borsetta un astùccio d’oro; dall’astùccio una sigaretta che rotolò fra le palme; cimò il tabacco con certe ùnghie acute, rosse.
Chi èrano queste due donne notturne? Sozzura notturna certamente. Ma quale? Quella che la questura scopa; o quella che è idealizzata dagli scrittori? innominàbili èrano? ovvero di quelle che sono nominate con onore?
La mia ignoranza è grande. «Ma quali voi vi siate, ah, le turpi fèmmine! ah, i vili scrittori che idealìzzano codeste fèmmine, commèntano davanti alla onorata nostra povertà quanti diamanti elle possèggono; e quanto denaro dissìpano; e fanno i nomi degli stùpidi proci che aspìrano alle loro nozze! E le vanno ad intervistare codeste fèmmine, e più insulsàggini elle dìcono, più sono giudicate originali; e ci pàrlano dei ritmi, dei sìmboli che hanno sin nei piedi; e ci presentano le loro lìnee invereconde nei disegni e pitture, e ci raccòntano nei romanzi le avventure della loro vita! Obbròbrio!»
(La biondina, con la testa abbandonata sul bràccio e come dormiente, aveva pure un non so che di soave: la bruna, eretta con que’ chiari occhi metàllici, aveva alcunchè di crudele.)
Ma quale maligna forza mi costringe a guardarle? Esse non si accòrgono nemmeno di me: io pur le guardo: io le intervisto. Sì, le intervisto anch’io, e domando: «Quale abisso separa me da voi? Bellìssime creature, io vorrei che voi mi diceste, che voi mi dichiaraste che cosa sono per voi i titani dell’umanità: i grandi scopritori, i grandi polìtici, i grandi guerrieri, i grandi scienziati, i grandi poeti».
Mi sento rispòndere: «Cristòforo Colombo ci ha permesso le tournées in Amèrica; Stephenson ci ha permesso di viaggiare in sleeping-car; Pasteur ci ha inventato molte cose igièniche; Edison ci ha inventato le lampadine elèttriche: i pittori hanno disegnato i figurini delle nostre toilettes; i guerrieri fanno la guerra anche per noi; le teste dei legislatori spesso hanno servito da cuscinetto alle nostre scarpine. I poeti sono i nostri reclamisti».
La biondina, dormiente, esponeva graziose scarpette d’oro, tutte brillantate.
«Miseràbili carni vendute! — proseguiva io — viltà del mondo senza nome! dissipatrici dell’enorme lavoro dell’uomo!»
«Sempliciotto — rispondèvano loro. — Ci hai mai pensato? Pènsaci. E d’inverno e d’estate, e negli autunni squàllidi, e nelle albe di cènere, e attraverso tutti i terremoti, tutte le devastazioni, chi fiorisce eterna, e rìdente? Chi? Noi. Noi non siamo mai arruffate, mai inzaccherate, mai scalcagnate. Erette, lineate le cìglia, fìsse le labbra, impennacchiate, indiamantate.... Batta pure la neve! noi siamo il sole dell’uomo. Il nostro splendore attraversa l’ora grìgia del mondo. Ci siamo profumate per vìncere le putrèdini. Ridiamo per deviare le vostre tristezze. Sempliciotto, ci vuoi misurare le spese? Ci vuoi fare i regolamenti? Va a scuola!»
Io ero a questo punto della mia intervista, quando mi sentii balzare sul sofà. Era la bruna che era balzata venèndomi da presso: ed io ero balzato per contraccolpo. Ella — mentre io meditavo su la sozzura notturna — aveva frugato nella sua borsetta d’oro.
— Un’allumette per piacere, — disse presentandomi la sigaretta penzoloni dalle labbra.
Offrii la fiamma, la quale insieme con l’àcqua non si può rifiutare all’uomo e neanche alla donna. Colei accese, aspirò, scosse la compagna, le offrì una sigaretta: ma essa ripetè:
— Go sono!
La bruna allora mi fissò in volto: disse a bruciapelo:
— Noi siamo milionàrie. Certo, milionàrie! Siamo state in automòbile questa notte; e adesso andiamo a letto. Ci alzeremo quando ci piacerà.
Aveva un metallo di voce roca, bruciata dall’arsura delle sigarette.
— Io, signora — dissi rispondendo dopo essermi un po’ riavuto, — non sono ancora milionàrio; ma meriterei di èsserlo. Non vado a letto perchè mi sono levato da poco: andrò anch’io in automòbile, perchè devo recarmi appunto a Scaricalàsino.
La signora non conosceva questo paese. Aveva viaggiato mezza Europa; conosceva tutti gli Eden, le Folies, i Trianons, i Moulin-Rouge d’Europa e d’Amèrica; ma non conosceva Scaricalàsino.
Per tal modo appresi che la signora era artista: ma assai più artista di lei era la biondina, anzi «cèlebre artista».
Mi feci attento. Artiste! Le signore allora appartenèvano all’almanacco di Gotha dell’alta sozzura.
— Artista di canto, la signora bionda? — domandai.
— La signorina la xe artista de balo, e che artista! — Come? io non l’avevo riconosciuta? — Ghe xe i ritrati per tuti i cantoni! Lu nol conosse Lydia Dolores?
Confessai la mia ignoranza.
Stupì. Domandò: — Ela no la ga mai visto Lydia Dolores balar la danza egìzia? el tango autèntico? la matchiche? la danza serpentina? la danza russa, tutta nuda?
— Tutta nuda?
— No ghe xe gnente de mal.
— Non dico di no. È che io, signora, ho l’abitùdine di alzarmi nell’ora in cui si comìnciano a ballare queste danze; — e perciò non potevo imbàttermi con la signorina Lydia Dolores.
Quegli occhi grigi e freddi mi scrutàrono un poco dubitosamente; poi disse: — El ga perso un gran spetàcolo. Lu nol xe miga per caso un cèrego, un prete?
— Tutt’al più un chièrico vagante.
— Del resto per mi un cèrego el xe un omo come un altro. Se nol ze un cèrego, alora el xe qualcossa de stravagante. Be’, se lu el vede balar Lydia Dolores, dopo el se ne ricorda per un toco. La par fata co le suste; la se remena, la se inverìgola, la se storze come una bissa! Eh, se la gavesse giudìzio, quela là, la podaria mètarse da parte un grumo de soldi, in verità de Dio! Ma no la ga giudìzio....
— Non ha giudizio?
— Gnente! Una vera artista! Ela la se strùssia, la xe sentimental, la se consuma. Indove che la va, la se inamora come una gata soriana, no la ga condota; la tôl i òmeni sul sèrio....
— Non si devono prèndere sul sèrio gli uòmini, questo capolavoro della creazione?
— Gli uòmini sul sèrio? — Ed i suoi occhi freddi mi fissarono.
— Ecco, signora, se non pròprio sul sèrio, con un certo rispetto, almeno voi, tenendo conto che vivete della loro generosità.
— Se ghe dà la vita a sti porcei. Ah, sì ben, generosi! — disse ironicamente. — I òrdina una botiglia de sciampagna. Piper! Veuve Cliquot! — disse imitando la voce dell’uomo che ordina, — ma per farse vèdar che i xe scic, che i xe boni de spèndar un marengo — riprese con un lampeggiamento di sprezzo; — per ecitarne! Nineta — disse scotendo Lydia Dolores, — dìghelo ti a sto signor quante volte, de scondon, mi buto via soto la tòla el sciampagna. E a ti te digo: No star a bèvar, ti xe mata anche senza sciampagna.
La cèlebre Lydia Dolores sollevò appena la testolina dalla sua dormivèglia; confermò di sì: disse — Andemo a leto!
— Quando me parerà a mi — disse la bruna. E rivolta a me, disse: — El me creda, no i dà gnente per gnente!
Allora io mi ricordai di avere udito e letto che molte signore, appartenenti all’alta sozzura, possèggono ville, tìtoli di rèndita, fanno anche uno, due, tre matrimoni cospìcui. E per confermare il mio asserto, feci qualche nome famoso di cui ricordavo. Ella mi ascoltò con benevolenza ed ammise in parte quello che io dicevo: — Ma casi rari. Eco: Lydia Dolores! La ga avuo i la fortuna de nàsser co la lìrica nei pié; la podaria arivar a un alto grado, ma ghe manca la condota, no la ga mètodo. Za, in arte ghe ze çento che tenta e una che riesse....
— Verità sacrosanta! — dissi — Brava, signora!
(La mia calda lode la lasciò indifferente).
— Scusi — domandai — e lei che mi pare che àbbia mètodo, condotta, e anche giudìzio...?
Punto primo: lei era artista, ma non cèlebre; cioè non possedeva, come la signorina Lydia Dolores, quella che si potrebbe chiamare «la messa in valore».
— E punto secondo? — domandai.
— Mio caro — disse in italiano fissàndomi bene in volto con quelle sue fredde pupille —, io dò soltanto la..., — e mi investì con quella parola oscena, che nell’intenzione di lei voleva significare «io non sono oscena, io sono soltanto fisiològica». Mi sentii le vampe alla fàccia a quella parola, e un non so che di àrido nella gola. Colei rimase impassìbile.
— Un’allumette.
Accese un’altra sigaretta.
La cosa oscena per lei era l’uomo. — Ma che el creda, — disse — l’omo, se no se ghe dà el clorofòrmio, se no lo se brutaliza, no se ghe cava fora gnente. Bisogna adatarse a tutti i sporchessi de l’omo. Ella non si adattava, e perciò era pòvera.
La biondina dormiva oramai. Io la guardavo di sfuggita di tanto in tanto. Una purità angèlica pareva affiorare su la dormiente. La bruna si trovava in istato di euforia verbale, e continuava:
— Lu nol me credarà. Ma co tuto quelo che go visto, co tuto el mondo che go viagià, go conservà ancora i gusti de quando che giero una puta d’onor a Venèzia! El me creda che mi piutosto de i patè, de i flan, e tuti i pastroci de le cene de i restaurants, go più caro un bel piatin de figà a la venessiana, fato da per mi, co la so bela sèvola frita pulito.
Queste dichiarazioni di gusti sèmplici e naturali, unitamente alle sue disposizione fisiològiche e non oltre, disponèvano in favore della moralità della signora. Ma age quod agis prima di tutto, come dice la antica sapienza. La signora poteva concorrere ad un pìccolo diploma di onestà; ma certo non era nata per appartenere all’almanacco di Gotha dell’alta sozzura; e a suoi tempi il magnìfico Bandello non la avrebbe giudicata meritèvole della laurea di cortigiana onorata.
In secondo luogo non nasconderò che quel piattino di fègato con la cipolla soffritta mi aveva disgustato. Ne sentivo quasi il puzzo. Ella continuò noiosamente a parlarmi delle sue segrete aspirazioni che èrano quelle di ritornare in grembo alla vera onestà.
Allora io le dissi:
— Ma non mi pare, signora, che anche nello stesso stato presente, lei sia fuori della circoscrizione dell’onestà. Scusate, signora, avete rotto la fede? No, perchè non l’avete mai data! Avete qualche suicìdio su la coscienza? Nemmeno. Avrete dato scàndalo e certo questo vostro vestire è perturbante; ma voi potete ben dire: «è professionale»; ma anche altre donne, ritenute oneste dal mondo, commèttono scàndalo, purtroppo! Avrete acuito qualche desidèrio, ma la colpa fu del padre Giove che volle mèttere questi incendi nel sàngue dell’uomo. L’avete acceso, ma l’avete anche spento con onesta fisiologia, senza lasciar memòrie dannose. Ma ben più riprovèvoli sono quelle donne le quali accèndono le fiamme e non le spèngono, o le spèngono male. Per me voi siete una donna onesta, anche se la società vi giudica diversamente.
Le mie parole non la commòssero. Speravo che, dopo avere udito le mie liberali opinioni, esclamasse: «Lei è un vero uomo!». No, disse soltanto: “Mi digo che lu el xe un cèrego, de quei che fa le prèdiche„.
Il suo ideale era di lasciare la professione, comperare nella sua Venèzia, nel sestiere di Cannarègio, una casetta, su cui già aveva posto l’òcchio, mètterla bene, in òrdine, con belle càmere, disimpegnate....
— E poi?
— E poi affittare ad artiste come noi — disse. — Sapete che rende moltìssimo affittare? Lo sappiamo noi cosa costa! Noi paghiamo tutto il dòppio! Allora sì potrò fare la donna onesta! Oh, ma xe tardi.
Il quadrante dell’orològio segnava le cinque.
— Ninetta, desmìssiete!
— Peccato svegliarla, pòvera creatura.
— Adesso la svèglio io — disse la bruna — . Volete vedere? volete vedere? — E senza attèndere una mia risposta, battè a palma a palma e gridò gioiosamente: — Nineta, xe qua Rafaelo d’Urbin!...
A questo richiamo la biondina balzò di colpo; le pupille le balenàrono lànguide, ardenti, indagatrici:
— Dove xelo, dove xelo?
— El xe a leto che el dorme. Macaca! E la biondina ricadde giù con la testa.
— Galo visto? Cossa vorlo mai — riprese saviamente la bruna — che anca ela, povareta, la possa farse una fortuna? La se magnerà quel fià che la guadagna co le so onorate fadighe. Che la lassa passar i trenta, e pò, adio Nineta!
Domandai chi era Rafaelo d’Urbin.
— El xe un pitor futurista, che el fa el romàntico, el d’Artagnan. Ma mi digo che el xe un pitor truffaldin e mirabolàn. El xe de Màntova e tanto basta.
★
E la bruna e la bionda uscìrono dal caffè.
Le prime vampate del sole nascente corrèvano ròsee sotto i pòrtici.
Le due milionàrie, strascicando le loro vesti di seta, movèvano verso il loro nascondìglio diurno.
Le pìccole operàie si soffermàvano a guardarle con pupille attònite. E mi avviai verso la stazione dell’automòbile per Scaricalàsino.