Una passione/VI
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VI.
corrispondenza.
1° aprile. Dovrei mettermi in ginocchio a vergare queste righe, le prime che le rivolgo, o fata gentile (non so come chiamarla diversamente), per spiegare le ragioni di un silenzio che le sarà parso inqualificabile. Pensi solamente questo: sono stato otto giorni in delirio.
Quando mi giunse la sua lettera credevo di entrare in convalescenza, mi tenevo sicuro di risponderle subito per ringraziarla dell’interesse pietoso; le scrissi anche, sono sicuro che le scrissi, ma non trovai più la lettera. Sopraggiunse poi la febbre che mi tolse i sentimenti e mi tenne per parecchio tempo in pericolo di vita. Queste cose gliele dico per mia giustificazione, non per accrescere la sua pietà, quantunque da essa io abbia avuto le più pure gioie, forse, della mia giovinezza. Quel fiore che mi giungeva tutti i giorni chiuso in una busta identica a quella della prima lettera, muto, eppure eloquente, in quale giardino ideale era stato colto? Oh! ella non saprà mai il bene che mi ha fatto venendo tutti i giorni a visitarmi così silenziosa, invisibile e discreta! Mi domando se vale la pena di guarire quando riacquistando la salute dovessi perdere la dolcezza della sua compassione.
Ma guarito non sono ancora, la prego di rammentarlo. Ho voluto solo dedicare a lei la mia prima ora serena.
Ippolito Brembo.
10 aprile. Signorina, le scrivo confuso, tremente, pieno di dubbi. Ella è stata così buona con me che non lo potrò dimenticare mai. Ma forse l’ho offesa? La mia lettera fu dunque così disgraziata da togliermi d’un tratto una protezione che m’era parsa il più bel dono della vita rinascente? Il suo silenzio me lo fa temere. Se così fosse la scongiuro a perdonarmi. Subirò quel qualsiasi castigo che ella vorrà infliggermi, ma mi perdoni e me lo dica.
Ippolito Brembo.
12 aprile. No, signore, ella non mi ha offesa menomamente; non capisco neppure in qual modo possa averlo pensato. Deve essere molto giovane.
Io ho seguito ansiosamente le notizie che i giornali recavano della sua ricaduta; poi vedendo tante violette in giro insieme a qualche altro fiore primaverile giudicai che dovessero farle piacere e per questo gliele mandavo, ma senza aver di mira nessuna riconoscenza.
Sono felice che ella si trovi in via di guarigione e non voglio nemmeno credere ai commenti della Gazzetta nuova il cui direttore, mio amico, è una bravissima persona, ma che non è sempre bene informato.
Lilia.
14 aprile. Ha ella mai provato, signora, la tristezza di certi mattini, quando non le nuvole in cielo, non le persecuzioni degli uomini, non le materialità di dolori terreni, ma una intima inesplicabile veggenza ci fa presagire una giornata infelice? La conosce, lei, la tristezza che non ha nome, grigio fantasma sorto all’improvviso per l’urto di una parola, di un sogno, meno ancora o più ancora, per ciò che l’anima sente di fatalmente sospeso fra noi e l’ora? E non è nemmeno ciò che vorrei dire; se vi fossero parole per esprimerlo potrebbe questo strazio uscire dal mio petto: ma le parole non esistono o io non le conosco.
Devo ringraziarla per la sua lettera quantunque fosse una lettera cattiva, ben diversa dalla prima, ben diversa da quei teneri messaggi fioriti che tanti soavi sogni addussero al mio capezzale. Sono giovine, è vero. Ella sembra chiedermelo in modo ironico, ed io le rispondo col cuore gonfio di lagrime. Sì, se essere giovine vuol dire credere, sperare, amare il fantasma ideale, inseguire la visione alata, darsi tutto e prodigarsi tutto, io sono giovine.
La ringrazio ancora dei fiori che ella mi mandò durante la mia ultima malattia, ma non oso offrirle più una riconoscenza della quale non saprebbe che fare.
Può dire, se crede, al suo direttore della Gazzetta nuova che le conseguenze dell’incendio mi tennero bensì a letto due mesi, ma che non sono rimasto nè storpio, nè cieco, nè cretino, come egli ebbe la bontà di scrivere.
I miei rispetti, signora.
Ippolito Brembo.
16 aprile. Signore, ella ha tanto spirito e tanta fierezza quanto ha di cuore. Tocca a me questa volta chiederle scusa. Lo faccio, come vede, senza por tempo in mezzo perchè mi dorrebbe di restare nella sua memoria sotto un aspetto che se è stato per un momento il mio, non è però tutta me. A tanta distanza e senza conoscerci mi sarebbe difficile darle una spiegazione della mia sciocca lettera, ma nutro fiducia ch’ella vorrà assolvermi in ispirito senza esigere una confessione che mi diminuirebbe troppo.
Ella mi ha parlato della tristezza di certi mattini. Io le dirò: conosce l’ora misteriosa che non ha punto fisso nella giornata, che è sempre calda anche nella stagione del gelo, l’ora profetica, l’ora dolce, l’ora santa in cui ci è dato di vedere a nudo una bella anima? Si svolga poi l’avvenire come Dio vorrà. Basta quell’ora per rischiarare molte tenebre.
Gradisca la mia primiera ammirazione moltiplicata per mille.
Lilia.
P.S. Voglia dirmi se ora sta proprio bene.
22 aprile. Chi disse essere il poscritto la parte più importante di una lettera aveva forse ragione. Non so se avrei risposto alla sua gentilissima del giorno sedici, poichè con essa si poteva credere «l’incidente esaurito», come dicono i giornali; ma quel piccolo poscritto mi fa ardito a pensare che ella si interessi ancora alla mia umile persona e m’impone il dovere di soddisfarla.
Sto proprio bene, salvo qualche cicatrice sulle mani, sulla spalla e sopra una guancia, ma temporanee. Anche i capelli, che avevo rasati fino alla radice, spuntano più densi di prima se fosse possibile. Le forze sono tornate e con esse la volontà di lavorare; spero fra pochi giorni di riprendere le lezioni al Conservatorio. Ho dunque finito di essere un personaggio interessante. Ripiombo nella mia oscurità.
In seguito a tale dichiarazione ella ha tutto il diritto di ritirarmi una benevolenza fondata sopra un momento di entusiasmo che io non ho purtroppo la facoltà di prolungare. Ella è senza dubbio una creatura privilegiata, una signorina buona, gentile, forse bella ed io non sono e non sarò mai altro che un povero organista.
Le presento i miei rispetti.
Ippolito Brembo.
25 aprile. Signore: Incomincio a scoprire in lei un difetto molto grosso: l’orgoglio. Fatalmente è proprio il difetto che amo.
Ah! lei non voleva più scrivermi? E perchè? Perchè non mi crede degna di comprenderla? Perchè mi suppone una creatura privilegiata, buona, gentile, forse bella e — questo non lo dice, ma si legge tra le righe — un po’ vana? Potrei risponderle con le parole di Margherita:
Io non son damigella
Nè bella..
Buona poi, buona veramente, nel significato alto della parola, ho cercato qualche volta di esserlo; ma o l’ideale troppo lontano o le forze troppo deboli o gli istinti contrari o le reminiscenze fatali mi hanno reso il compito molto duro. Nessun privilegio è in me, nè di nascita, nè di fortuna, nè di affetti. Sono sola.
In verità non so quale forza mi spinga a scriverle, io che non scrivo quasi mai; ma dal primo momento che intesi il suo nome mi parve di riudirlo. Avevo forse sognato una giovinezza pura, un coraggio temerario, un eroismo impulsivo che si desse per darsi, senza secondi fini. Ella dice di rientrare ora nell’oscurità, ma quando si ha un’anima come la sua ripiegandosi su sè stessi si entra nella luce. L’ho conosciuta l’anima sua alla sua terza lettera, la rammenta?... ma qualche cosa è avvenuto in seguito per cui non mi fu più dato di ritrovare la stessa armonia. Ella non mi crede, è così! Vero?
E se è così, sono io che le parlo col cuore gonfio di lagrime, disperata della mia impotenza a esprimere uno dei più nobili sentimenti che mi abbiano mai infiammata. Tuttavia le serbo riconoscenza per avermi fatto provare, in mezzo a tanti palpiti vili che mi circondano, un palpito generoso. Mi dica che crede!
Lilia.
2 maggio. Quante rose intorno a me! Il mio buon zio, reduce dalla scuola con la messe primaverile che gli tributarono i suoi scolaretti, ne adornò il tavolino della mia camera. I fiori mi fanno pensare a lei.
Sì, credo. Credo alla sua sincerità, anche alla sua bontà discussa, anche alla sua bellezza negata. Credo perchè questo è un bisogno di tutto il mio essere. Sono un fanciullo impulsivo e selvaggio, crebbi senza madre, ho ventidue anni. La fede e l’amore si confondono nella mia mente, talchè non so neppur io quello che voglio; ma so che ogni cosa bella mi attira; e non solo il bello visibile, ma più ancora, oh! sopratutto, la bellezza che non si può fermare in una linea determinata, quella che non si vede ma che si sente sparsa nel mondo per mille sottilissimi fili ai quali l’immaginazione sospende, pensili nidi, le sue chimere. Amo anche la verità, purchè mi si conceda di chiamare verità il profilo che la nuvola disegna passando e che si trasforma mentre lo guardo. Procuri lei di mettere insieme tutte queste idee perchè sarei dolentissimo se non potesse comprendermi; spiegarmi meglio non so.
Intanto che mi curvavo a guardare le rose un petalo cadde su questo foglio e ve lo lascio. Rispettiamo il destino. Di queste rose campagnuole nate nei rozzi orti e venute a morire sul tavolino di un povero studente, esso solo, il piccolo petalo, muta sorte. Lo segue per un istante il mio pensiero pieno di visioni, ma io non so dove anderà a posare... Tale dubbio mi lascia trepido ed incerto.
Ippolito Brembo.
P.S. D’ora in avanti mi scriva ferma in posta a Bergamo.
6 maggio. Signore, dice che i fiori le hanno fatto pensare a me: grazie del complimento. Per un selvaggio non c’è male: dimostra per lo meno una grande attitudine a incivilirsi.
Io sono oggi molto contenta. Anzi, se devo dire tutta la verità lo fui dal giorno 3, quando la posta mi recò la sua lettera. Ecco che le contraccambio il madrigale.
La rassicuro poi subito sulla sorte del petalo caduto così provvidenzialmente nel foglio: io ve l’ho lasciato perchè mi parve che vi stesse bene, ma li ho poi rinchiusi entrambi — foglio e petalo — in una cartella dove ho già riunite le altre sue lettere e dove c’è molto posto...
Davvero le sue lettere mi procurano una gioia fresca e graziosa come queste giornate di primavera che sembrano ridare al mondo una purezza antica. Mi parli di lei. È possibile che con tanto ingegno e tanta energia giovanile voglia ridursi a vegetare in una cantoria? So che ella ha molta disposizione per la musica. Perchè non viene a Milano? Il nostro Conservatorio è celebre; ella ne uscirebbe con un diploma in seguito al quale tutte le porte si apriranno da sè. Se vuole posso appianarle la strada perchè conosco il direttore ed anche qualche maestro. Infine mi metto tutta a sua disposizione.
Mi permetto di mandarle un volume che forse non conosce. Sono le lettere intime di Berlioz. La prego di non credermi una soverchia ammiratrice di Berlioz scrittore; penso anche che si potrebbe tralasciare di leggerle; ma le lettere sono precedute da una prefazione di Gounod e Gounod mi piace sempre. Vedrà qualche punto segnato, là dove parla delle eccezioni.
Va forse a stabilirsi a Bergamo che si fa mandare le lettere colà? È singolare: questa città non la conosco affatto. È bella?
E suo zio, quel buon zio che le adorna il tavolino di rose, chi è? Mi troverà immensamente curiosa, ma pensi che la curiosità non è quel sentimento volgare che si va dicendo. Essa è il principio di tutte le grandi cose, dei grandi affetti come delle grandi scoperte. In fondo all’arte, alla poesia, alla scienza non c’è forse una curiosità? una curiosità tormentosa, febbrile, che fa star male, che strappa lagrime di sangue, che fa comporre la canzone di Ofelia e l’ultimo atto del Rigoletto? L’amore stesso non è forse la più terribile delle curiosità?
Ma divago e mi dilungo troppo. Addio, mio incognito amico.
Lilia.
Pasqua di risurrezione. Tutta la casa è in festa! Mia zia Rosalba, per aver digiunato la settimana santa si trovava coi nervi in rivoluzione e faceva scontare agli altri il suo atto di virtù ma si è chetata oggi ed ha messo il suo abito di seta color Bismarck, che la ringiovanisce di trent’anni, almeno nella data dell’abito suddetto e per le memorie che vi si collegano. Mio zio Romolo, fedele ad una vecchia abitudine di famiglia, ha voluto che si facesse oggi una colazione sommaria in cucina per serbare il servizio e l’appetito al pranzo solenne; anche la cucina oggi è così bella col rame lucidato di fresco e le fresche ghirlande di lauro! Mio zio Remo infine fece venire i suoi scolaretti più poveri e più diligenti e distribuì, a ciascuno un piccolo regalo. Io le scrivo... ed ecco perchè tutta la casa è in festa.
Abbiamo poi i peschi e i mandorli fioriti che ci intuonano sotto le finestre una sinfonia di colori; uno stuolo di rondini s’incarica dell’accompagnamento. Mio zio Remo assicura che nessun lusso è paragonabile a questo. Mio zio Remo è un santo o poco ci manca. Apparentemente la sua professione è di fare il maestro; in realtà è quella di fare il maggior bene che può.
Mio zio Romolo non è cattivo, ma non avendo trovato il mondo come lo desiderava lui, è sempre in collera con tutti. Rosalba è la vedova di un terzo fratello. Ella ha un’abitudine curiosa: quando chiama i suoi cognati separatamente dice Romolo o dice Remo al pari di chiunque, ma se le avviene di dover pronunciare i due nomi insieme allora sono Romolo e Remolo. Questa è la mia famiglia.
Dimenticavo un quadretto che sta proprio davanti al mio tavolino, in mezzo a due vecchie pendole. Il quadretto, chiuso in una cornice di cartapesta dorata di gentile fattura, apparteneva ad una mia cugina anziana rimasta nubile in seguito alla perdita del suo fidanzato il quale morì tragicamente per un colpo partito da un fucile che si credeva scarico. Mia cugina ricamò allora questo quadretto co’ suoi propri capelli. Rappresenta una tomba ombreggiata da un salice piangente e sulla fronte si legge:
Piangi pure, o salcio amico, |
E le dirò che io voglio bene a questa cugina non conosciuta mai tanto quanto agli altri parenti, cioè moltissimo.
La ringrazio vivamente del bel volume che ha voluto mandarmi, certo contro i miei meriti, per un nuovo impulso del suo cuore caritatevole che interpreta i bisogni delle anime affamate. Lo leggerò con raccoglimento. È d’uopo peraltro che le tolga subito un’illusione: non so chi possa averle parlato del mio ingegno; le assicuro che nessuno finora se ne è accorto, neppur io. La prospettiva di finire in una cantoria, che a lei sembra orribile, non è poi tanto brutta per un giovine povero, sognatore, di mediocre intelligenza, che abborre dal commercio, dalla burocrazia, dalla folla, e che ama invece il silenzio rotto solo dall’armonia dei suoni. Le energie giovanili cui ella allude esistono certamente, ma si trovano allo stato di un esercito senza capo. Per drizzarle ad una mèta un po’ più alta ci vorrebbe quell’impulso speciale che appunto mi manca, forse quello stato «tormentoso, febbrile, che fa star male, che strappa lagrime di sangue, che fa comporre la canzone di Ofelia e l’ultimo atto del Rigoletto» chiamato da lei «curiosità», da me «genio», e che è forse un’altra cosa ancora.
Un secondo ringraziamento le devo, sentitissimo, per l’offerta relativa al Conservatorio di Milano. Dopo ciò che le ho detto e della mia famiglia e della modestia delle mie aspirazioni capirà che non posso accettare. Del resto anche il Conservatorio di Bergamo ha tradizioni gloriose, e se bastò a un Mayer, a un Donizetti, a un Ponchielli, si figuri se non devo accontentarmene io!
No, cara signora, non vado a stabilirmi a Bergamo, bensì mi reco a Bergamo tutti i giorni per frequentare le lezioni. È una strada un po’ lunga, specialmente se il tempo è cattivo, ma questa fatica muscolare mi fa bene, poi, quando sono a Bergamo, prendo la funicolare per portarmi al Conservatorio.
Mi domanda se Bergamo è bella? Se le dicessi che è bellissima crederebbe ella forse a un entusiasmo di campanile? In verità è bellissima. Immagini, dopo una successione di pianure, una montagna che si erge improvvisamente a guisa di baluardo, e su questa montagna una città, e ai piedi di essa una seconda città, e fra l’una e l’altra una fascia di viali verdi, di giardini in pendio, di fiori che salgono e scendono a gruppi, a festoni, a macchie, a cespi, incorniciando i veroni, sbucando fra le pietre con una festosità di bimbi in vacanza; bianchi, rosei, azzurri, biondi, quali appunto sono, i colori della fanciullezza. Come vede, fiori, gioventù, luce, vita — e accanto, vecchie pietre nere, vecchie torri, vecchie chiese, vecchi palazzi pieni di memorie, vecchie storie di amore e di terrore. Bellissima, Bergamo, bellissima! Ho pensato a lei, ieri, nella cappella Colleoni che fiancheggia la chiesa di Santa Maria.
E con ciò finisco. Le bacio la mano devotamente.
Ippolito Brembo.
15 maggio. Perchè finire? Questo vocabolo non mi è mai mai parso tanto sgraziato come leggendolo nella cara sua lettera che avrei voluta lunga il doppio. Le notizie che mi dà di lei, della sua famiglia e della sua città le ho trovate interessantissime. È tutto nuovo per me che vivo in una città così diversa, priva di famiglia, senza scopo nella vita.
Oh! ma lei non deve rinunciare alle conquiste dell’avvenire, sarebbe un delitto. Io sento vibrare attraverso le sue parole un’anima calda e poetica, una coscienza pura, e tali doni non possono giacere inoperosi in un giovane di ventidue anni. Forse lei stesso si ignora, forse le circostanze non furono fino ad ora favorevoli al suo pieno sviluppo. Mi lasci credere che è così. Ma intanto non limiti l’orizzonte davanti al suo pensiero. Occorre qualche volta mirare più in là del punto visibile per colpire nel segno.
Contro il solito mi sento oggi molto male. Non capisco che cosa possa essere, ma la penna mi cadde di mano. Volevo dirle tante cose!... Mi si oscura la vista... Addio per oggi. Le scriverò ancora presto.
Lilia.
19 maggio. Gentile incognita, la sua ultima lettera mi lascia perplesso. Ho aspettato tre giorni sperando di avere qualche notizia della sua salute, ma incomincio ad essere agitato. Come sta? Voglia dirmelo subito.
Il suo interessamento mi commuove oltre quanto mi sia possibile confessare, la dolcezza di questa corrispondenza è tale che tremo alla sola possibilità di perderla, sia pure per qualche tempo.
Se non può scrivermi mi mandi un cenno qualsiasi, un fiore ancora, un foglio, un filo, ma ch’io sappia, ch’io sappia!
Ippolito.
22 maggio. Signora, signora, una parola!
Ippolito.
24 maggio. Un dubbio orribile mi tormenta. Lei, ammalata non può andare alla Posta a ritirare le mie lettere, ed io dove, dove la cerco?
Ippolito.
27 maggio. Povero amico, fu proprio così! Sentendomi poco bene, decisi improvvisamente di partire per la Riviera, dove stetti tutti questi giorni in una beatitudine che mi rese ingrata ed egoista.
Tornando oggi mando subito alla Posta e le sue tre letterine mi fanno tanto piacere che mi sembra di stare ancor meglio che in Riviera. Tuttavia ho una quantità di affari accumulati che mi reclamano imperiosamente.
Pazienza ancora. Tra poco.
Lilia.
28 maggio. Grazie, mia buona fata! Passai dieci giorni in una angoscia indescrivibile, che non avrei mai immaginata prima di provarla. Queste pene peraltro ebbero il vantaggio di illuminarmi sulla falsità della nostra situazione. Ella sa chi sono io e dove sto. Io non so nulla di lei.
La supplico a credere che nessuna curiosità indiscreta mi suggerisce questa ricerca. Potrei a rigor di termine ignorare per sempre la sua essenza terrena, pago della spirituale felicità che mi arrecano le sue lettere; ma se per un caso che è già accaduto o per altri che potrebbero accadere si rompe il filo della nostra corrispondenza, che cosa faccio io per rintracciarla? È uno stato di inferiorità che mi umilia, riducendomi all’impotenza di agire proprio nel momento in cui vorrei provarle tutto il mio attaccamento. Ella mi comprende, nevvero? Sarei desolato di essere frainteso o di recarle la benchè menoma contrarietà, ma non apprezzerei al suo giusto valore il tesoro della di lei benevolenza se non provassi così acuto e torturante il timore di perderla.
Fortunata Riviera! Si vede che le mie descrizioni non l’hanno invogliata a visitare le bellezze di Bergamo, dove pure l’aria è balsamica e in questi giorni deliziosa di effluvii primaverili. Non più nella cappella Colleoni ma sugli spalti delle mura, sotto la pioggia odorosa dei fiori dei castani d’India, io penso a lei ora; i grappoli che stanno ancora sospesi ai rami nella loro forma graziosa di candelabri sembrano illuminare di una luce ideale la danza errabonda delle mie visioni.
Le bacio le mani devotamente.
Ippolito.
2 giugno. Fanciullo! Si rassicuri; qualunque cosa accada, le sue lettere verranno regolarmente ritirate dalla Posta. Attraverso un periodo singolarissimo, non mi riconosco più io stessa; credevo di essere ammalata e non è vero; pure non sono in stato normale. Che avviene in me? Poco abile a scrivere, sempre, mi trovo più che mai impacciata adesso. Mi perdoni.
Lilia.
P.S. Supplisco all’aridità di questa lettera accludendole una striscia di stoffa dell’abito che porto oggi. È qualche cosa di me che viene a trovarla. Le fa piacere?