Una passione/VII
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VII.
Il colpo di fulmine.
— Stoffa artefatta — aveva sentenziato Rosalba — una di quelle stoffe moderne che non si capisce se siano di lana, di seta o di cotone. Se è per fare una cravatta non te la consiglierei.
Ippolito ritolse prontamente il prezioso campione dalle mani della donna che già stava sfilacciandolo per esaminarne bene la qualità.
— Il colore poi è di cattivo gusto — replicò Rosalba.
Questa recisa affermazione fece persuaso Ippolito che fosse invece tutto il contrario. In verità egli non aveva mai veduto nulla di simile nè come morbidezza nè come tinta. Forse avrebbe potuto trovare un riscontro nelle ali di certe farfalle che gli erano apparse palpitanti al sole ne’ caldi meriggi dell’estate; una creatura vestita così non poteva essere che una fata. Cenerentola appunto nella noce offertale dalla fata aveva rinvenuto una veste color della luna. Che fosse quella?
Egli la pose sul palmo della mano, poi sul ginocchio; indi la sollevò contro la luce e finì col passarsela delicatamente sulla guancia. Staccarsene non poteva. Era stata una idea geniale, bisognava convenirne.
Chiuso accuratamente nel taschino più misterioso del suo portafoglio, quel piccolo lembo di vestito lo seguiva dovunque: egli si sentiva quasi fiero di portarlo e ad ogni tratto lo toglieva per rimirarlo ancora, per ripetere a sè stesso che non era un sogno. Lo confrontava qualche volta di sfuggita cogli abiti delle signore che passavano sul Sentierone, ma non ne trovava mai alcuno che gli somigliasse; e neppure in Santa Maria, alla messa del mezzogiorno, dove egli vedeva delle rigide matrone vestite di nero, di grigio, di color marrone, di verde e di turchino scuro; oppure gonnelle bianche, rosa, cilestrine, verde acqua, giallo paglia appartenenti allo stuolo gaio delle fanciulle, senza trovare mai un richiamo a quella tinta ed a quel disegno. Nè, in fondo, ciò gli dispiaceva.
Cara, segreta, ignota al sol, romita, |
Ripeteva volentieri questi versi uditi una volta dallo zio Remo. Dovevano essere di Byron, non ne era sicuro, ma li ripeteva perchè rispondevano ad un suo intimo concetto dell’amore, vago ancora e confuso, come erano incerti i suoi desideri; seme giacente sotto il niveo frigidore di un temperamento timido e di una educazione austera cui non era bastato a far sbocciare completamente l’esperienza del suo anno di volontariato.
Questo calore latente e prigioniero compiva tuttavia ad insaputa di Ippolito il naturale cammino verso la maturanza che è legge della vita. Aveva, in quel principio efflorescente di giugno, ore di inquietudine nuova e il pensiero della incognita che gli era divenuto inseparabile compagno lo prostrava come nello sforzo di una attesa dolce e snervante. Fuggiva i compagni e in generale ogni occasione che potesse distrarlo dalla soave visione interiore. Una ragazza di Borgo Canale colla quale egli aveva amoreggiato un breve tempo lo fermò un giorno in fondo ai Torni, dove comincia il Pascolo dei Tedeschi, rimproverandolo di non lasciarsi più vedere. Ippolito le guizzò di mano, ridendo, e sì pose a correre all’impazzata con mille diavoli in corpo, sconcertando la ragazza che stette ferma un poco a rimirarlo in quella sua corsa furiosa e poi alzò le spalle riprendendo la via di città.
— Ippolito — disse zio Romolo la mattina del nove giugno — ho un affaruccio a Milano per il quale sarebbe necessaria la mia presenza colà e nello stesso tempo ne ho un altro a Treviglio che mi porterà via tutto il tempo. Vuoi andare a Milano in mia vece?
Ippolito non se lo fece dire due volte. Le sue poche gite alla grande città erano sempre state così rapide che gliene restava ancora un ampio desiderio. Fece quel giorno più allegramente del solito la strada a piedi fino a Bergamo, solo che invece di salire alla funicolare si arrestò alla stazione prendendo un biglietto di andata e ritorno per Milano. Il diretto partiva alle dieci. Sarebbe tornato indietro alle quattro. Tutto sommato, sei ore di svago piacevolissimo.
Ma come fu in treno e, lasciatosi dietro la bella prealpe bergamasca avanzava rapidamente nella pianura, Ippolito non ardì dare un nome alla gioia tumultuosa che gli veniva crescendo nel petto, che accelerava il battito de’ suoi polsi e non lo lasciava fermo un minuto dall’uno all’altro sportello del carrozzone.
Sapessi almeno dove sta di casa! Quando questa formula precisa gli si affacciò al pensiero il dubbio non era più possibile. Pure le sue tendenze di sognatore gli facevano preferire ancora l’incertezza vagabonda che rappresentava per lui quasi uno stato musicale dell’anima, la vera atmosfera adatta al suo temperamento; e poichè alcune note gli venivano sulle labbra si pose a solfeggiarle fra sè e sè, provando in tale sfogo una dolcezza straordinaria.
Verdello e Treviglio gli sfuggivano senza che se ne accorgesse. A Cassano mise fuori il capo per guardare l’ameno gruppo di case sulle sponde dell’Adda, ultimo sorriso del paesaggio. Con Melzo la pianura milanese si stendeva assoluta padrona dell’orizzonte; una stazione ancora e poi Milano!
Ippolito era troppo provinciale, troppo poco abituato a quella che i suoi zii chiamavano ancora «la capitale lombarda» per esimersi da una certa commozione quando il treno si fermò sotto l’ampia tettoia, e discese senza impaccio ma non senza curiosità, poichè infine era la città dove Ella abitava, dove avrebbe potuto passarle accanto, sfiorarla, udire il suono della sua voce... Ce n’era d’avanzo per metterlo in orgasmo.
Andò subito a sbrigare la faccenda della cambiale, ansioso di riservarsi alcune ore di perfetta libertà per girondolare a suo agio e vedere il Castello restaurato. Doveva però anche far colazione e siccome erano le dodici e mezzo si pose a cercare un posticino in qualche trattoria. Le tende distese sopra i tavolini di ferro del caffè Crespi, di fianco alla Galleria, gli parvero ospitali colla via dinanzi spruzzata di fresco sulla quale numerose donnine passavano sollevando leggiadramente l’orlo della gonna. Passavano anche molte fanciullette vestite di bianco, col velo bianco, coi guanti bianchi, una medaglia appuntata al petto, un libriccino in una mano e un cartoccio di dolci nell’altra; Ippolito riconobbe in esse le piccole cresimande.
Che bel mese giugno! La primavera non è finita, l’estate non è cominciata ancora. Un contadinotto sull’angolo della Cooperativa vendeva delle rose magnifiche, pavonazze; e l’aria era lucente, il cielo sereno, le finestre delle case tutte aperte, le tende dei negozi tutte calate, e il via-vai della gente continuo, ininterrotto, di una giocondità tranquilla che faceva credere a un popolo di felici.
Una signora con due fanciullette vestite di bianco venne a sedersi a un tavolino accanto a quello di Ippolito e fece portare delle acque dolci con delle paste. Le due bimbe erano raggianti. Un po’ impacciate nel velo, temendo di sciuparlo si mostravano reciprocamente con gesti misurati le immagini racchiuse nei loro libri, accoccolate con una gamba sola sulle seggioline di ferro, un pasticcetto fra le dita. Parlavano e mangiavano tutt’insieme, divise fra la naturale tendenza al riso e la gravità della circostanza che imponeva loro un contegno riservato.
Ippolito pensò alla sua propria cresima fatta con grande pompa alla parrocchiale del villaggio e all’orologino d’argento che gli aveva regalato lo zio Romolo, nonchè a un manualetto di esercizi per prepararsi al Sacramento — dono questo di zio Remo — che portava un titolo oltremodo suggestivo: Il gran giorno si avvicina. Una gentile simpatia, come un ritorno all’infanzia, lo attirava verso quelle bimbe dagli sguardi ingenui e dal cicaleccio di cingallegre. Una era bruttina, l’altra così così; ma che ne sapevano esse? Il livello di una uguale ignoranza nella scienza terribile della vita le conservava ilari. Le malattie, i dolori, gli inganni stavano sospesi sulle loro teste; ma poichè ignoravano, ridevano. Fra le due quale avrebbe subito la tortura della verginità? quale la tortura della maternità? L’amore e la fortuna le attendeva o la miseria e l’abbandono?
— Fammi assaggiare il tuo dolce; ti darò un poco del mio — dicevano.
E così, così anche fra dieci anni, povere fanciulle! E la porzione di dolce che voi offrirete vi parrà sempre maggiore di quella che vi daranno in cambio.
Accorgendosi di diventare filosofo Ippolito scosse le briciole della modesta colazione e si alzò per partire.
— Signore — disse una delle bambine correndogli dietro — dimentica la sua mazza.
Egli prese la sua mazza ringraziando. Poi si avvicinò al giovane contadino che vendeva rose all’angolo della Cooperativa, ne comperò due e le gettò in grembo alle bambine.
In piazza del duomo spese dieci minuti a girare intorno al monumento di Vittorio Emanuele, interessandosi ai particolari del bassorilievo, ai curiosi vestiti delle donne, alle divise degli zuavi, cercando di immaginarsi quel periodo di eroiche baldanze e di guerreschi entusiasmi, un po’ mortificato che quella bella pagina gloriosa fosse già voltata irremissibilmente nel libro della storia, domandandosi ingenuamente che cosa aveva fruttato alla patria tanto olocausto di lagrime e tanto sangue.
Avviandosi giù per via Dante tornò a incontrare molte signore eleganti — «Lei forse?» — e ancora fanciulle vestite di bianco cogli ampi veli bianchi svolazzanti nella trasparenza dorata dell’aria, più poetiche, più leggiadre che mai quando la fascia verde degli alberi di piazza Castello pose intorno al loro candido batter d’ali una decorazione di fronde. Dove, dove sarà? In quale di queste vie, di queste immense case, di questi quartieri interminabili? Il suo piede, forse or ora, ha percosso queste pietre. Sulle vetrine di questi negozi si è posato certo il suo occhio intelligente. Quando? In questo stesso momento? Là forse allo svolto, dove Parini guarda accigliato? Tu l’avesti la tua primavera, o poeta. Ora tocca a me.
Che dolce calore nel sangue! Che elasticità nei nervi! Il piacere di vivere lo dominava tutto, così puro e così ardente che egli si sentiva portato sul dorso di un corsiero ideale. Correvano biciclette intorno a lui con slancio di freccie, ma egli correva del pari nell’impeto de’ suoi desideri e delle sue forze di giovine. Ippolito non sapeva di essere bello, non se ne era mai curato, eppure lo era al punto che molte donne lo guardavano ammirate e sorprese. Quegli occhi nerissimi nel volto pallido di biondo, e le labbra porporine, e la foresta di capelli e le membra perfettamente modellate, tanti doni riuniti erano abbastanza rari per passare inosservati, tranne che a lui stesso.
Anche egli guardava le donne della sua età, inebbriandosi in quell’innocente abbandono di sguardi che forma la più ambita attrattiva del passeggio pubblico quando si hanno vent’anni o poco più; e le desiderava tutte, leggermente eccitato dalla quantità insolita, piacendogli dell’una la vita sottile, dell’altra la massa delle chiome, di una terza il sorriso colto a volo o la malizia provocatrice delle pupille, o il piccolo piede guizzante sotto la gonnella di seta; meno ancora, un nastro annodato in un certo modo, una sottana di una certa forma, lo spillo doppio appuntato dietro sulla cintura. Seguì per alcuni passi una signorina che aveva uno di codesti spilli, in forma di freccia con una opale nel mezzo; ma la udì parlare e fuggì disgustato dalla voce.
I negozi di via Dante lo attiravano ad uno ad uno. Stette fermo lungamente a osservare le porcellane di Ginori e la piccola mostra di Levante colle sue stoffe tessute a vivaci colori, le armi damaschinate, le fiale misteriose contenenti l’essenza di rosa cara alle Sultane, quelle piccole fiale lunghette cosparse di polvere d’oro dove pare esse abbiano lasciato l’impronta concava delle loro dita.
In piazza Castello deviò di alcuni passi per osservare il negozio d’arte del Grubicy, attratto da una tela dell’East, una meravigliosa trasparenza di notte lunare nella vallata dell’Avon. Oh! trovarsi in quel paesaggio con Lei!...
Eccolo davanti alla porta del Castello. Una striscia di carta incollata al muro lo avverte che il Museo del Risorgimento è chiuso per nuovi lavori in corso. Entra nel Museo Archeologico. Attraversa sale che sembrano fatte non per uomini ma per giganti. Un popolo di pietra lo guarda. Quante memorie! Gira silenziosamente intorno ai capitelli rovesciati, agli avanzi di colonne e di archi, alle statue. E queste furono le sale dei Visconti e degli Sforza! Cerca cogli occhi il posto dove il duca Galeazzo al giungere dell’inverno faceva rizzare due edicole di legno, una per lui e una per la duchessa, cospargendone il suolo di paglia per mettersi al riparo contro i rigori del freddo. Sale la scala graziosa che guida al piano superiore e si trova nel Museo Artistico, da’ cui ampi finestroni entra tutta la luce e tutto il verde della piazza sottostante.
Distratto dalla varietà stessa delle bellezze Ippolito non sa più dove guardare e passa in mezzo alla raccolta delle maioliche antiche deplorando la ristrettezza del tempo che lo sospinge. Si consola pensando che potrà tornare un’altra volta ed affretta il passo volendo accontentarsi di un colpo d’occhio generale. Non può peraltro tralasciare la galleria dei quadri, in fondo alla quale vede rizzarsi elegante e superba la bella Incognita di Van Dyck. Corre anzi a quella, spinto da una lontana analogia, da una curiosità romantica e siede sul panchettino che la previdenza del custode ha collocato davanti al celebre ritratto. Sì, è bella! Ippolito la esamina minutamente, dai capelli aerei al fine profilo, alla bocca troppo piccola quasi schiva di baci, al collo delicato, alle ammirabili mani. Non gli sfuggono nè le trine dell’abito, nè le perle del monile, nè il colore indefinibile delle fettuccie che le palpitano sul seno a guisa di farfalla imprigionata. Beate loro! — pensa Ippolito — ma si commove meno, in fondo, di quanto avrebbe creduto.
Esce dal Castello con una folla di immagini nel pensiero e mentre sta per prendere il tram della stazione, d’improvviso cambia strada e scende a piedi giù per il Corso. Nessuna riflessione, nessuna causa apparente determina questo mutamento di itinerario. Egli va all’appello misterioso del destino.
Va il giovine provinciale sul marciapiede del Corso mescendosi ai soliti passeggieri, incominciando a provare quella lieve sensazione di stordimento che assale sempre l’abitante della campagna travolto per un giorno nella inquieta onda cittadina; ma appena fuori del centro, verso i Navigli, in vista dell’arco che termina così leggiadramente il Corso sullo sfondo delle Alpi lontane, egli respira più largamente. La massa verde dei giardini a sinistra lo invita ad attraversarli in tutta la loro lunghezza, poichè appunto mettono capo alla stazione, e piega in via Palestro.
Silenzio chiaro di giornata estiva. Le poche case tranquille hanno le persiane chiuse, gli anditi spruzzati d’acqua fresca, i portoni aperti ma sonnolenti sui piccoli cortili pieni di verde dove le vecchie portinaie fanno la siesta all’ombra di un vaso di basilico, col gatto sui ginocchi. In fondo alla via verdeggia ancora la fuga degli alberi fronzuti e la Villa Reale sorge tutta bianca come la Bella dormente nel bosco.
In tali condizioni ogni rumore si avverte subito. Ippolito si voltò allo scalpicciare pesante di un cavallo fra le ruote di un veicolo rivestite di gomma e fu appena in tempo a gettarsi contro il muro, perchè la carrozza girando sullo sterzo si era fermata rasente a una di quelle case che egli stava costeggiando. Il pericolo fu avvertito anche dalla signora che si trovava nella carrozza, la quale prima di scendere piegò vivacemente la testa verso Ippolito per modo che i loro occhi si incontrarono a brevissima distanza e si toccarono quasi nel corruscare istantaneo di una fiamma, colpiti insieme da una rivelazione e da una meraviglia!
Più ratta del baleno la bellissima creatura passò davanti a Ippolito dandogli una visione di cielo. Un suono inarticolato morì nelle sue fauci poi che aveva sentito sul suo volto l’aria smossa dalle di lei vesti e mentre spariva nell’andito aveva riconosciuto in quelle medesime vesti la stoffa e le tinte singolarissime del lieve tessuto che Ella gli aveva inviato un giorno per consolarlo...
Eppure ciò non sembrava possibile. Così bella? Così bella?
Si trovò alla stazione senza ricordare menomamente la via percorsa, pentito di non essere entrato dal portinaio, di non averla seguita, di non aver gridato il suo nome... Il suo nome? Ma se non lo sapeva neppure!...
Entrò allora come un pazzo nel caffè e si fece dare carta, penna e calamaio.