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sogno, meno ancora o più ancora, per ciò che l’anima sente di fatalmente sospeso fra noi e l’ora? E non è nemmeno ciò che vorrei dire; se vi fossero parole per esprimerlo potrebbe questo strazio uscire dal mio petto: ma le parole non esistono o io non le conosco.

Devo ringraziarla per la sua lettera quantunque fosse una lettera cattiva, ben diversa dalla prima, ben diversa da quei teneri messaggi fioriti che tanti soavi sogni addussero al mio capezzale. Sono giovine, è vero. Ella sembra chiedermelo in modo ironico, ed io le rispondo col cuore gonfio di lagrime. Sì, se essere giovine vuol dire credere, sperare, amare il fantasma ideale, inseguire la visione alata, darsi tutto e prodigarsi tutto, io sono giovine.

La ringrazio ancora dei fiori che ella mi mandò durante la mia ultima malattia, ma non oso offrirle più una riconoscenza della quale non saprebbe che fare.

Può dire, se crede, al suo direttore della Gazzetta nuova che le conseguenze dell’incendio mi tennero bensì a letto due mesi, ma che non sono rimasto nè storpio, nè cieco, nè cretino, come egli ebbe la bontà di scrivere.

I miei rispetti, signora.

Ippolito Brembo.