Una passione/V
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V.
La lettera.
Era stata veramente una imprudenza quella di scendere, contro i consigli del medico, e il tenero Remo ebbe ragione di spaventarsi quando vide sulla soglia Ippolito, bianco come un morto. Lo stesso Romolo, il quale ostentava in ogni occasione lo spirito forte, fu colpito dal pallore del giovane che si reggeva a stento.
— Quale follìa! — disse; perchè anche i moti spontanei della compassione gli uscivano in forma di rimprovero, senza di che gli sarebbe parso di menomare la sua forza.
— Non ne potevo più — rispose Ippolito semplicemente, lasciandosi cadere sulla sedia che Remo gli aveva accostato. — È già un mese, lo sapete!
— Oh se lo sappiamo!
Il giovine teneva un braccio al collo e sul volto gli si vedevano gonfie e vermiglie ancora le traccie delle bruciature riportate nella notte fatale dell’incendio. I capelli rasi, i baffi e le sopracciglia bruciacchiate contribuivano ad alterargli la fisonomia per modo che Romolo guardandolo fisso tornò a dire:
— E bello non sei diventato.
— Il dottore — si affrettò a soggiungere Remo — ha promesso che guarirà perfettamente.
Rosalba e la servetta vennero esse pure a contemplare il redivivo. Remo suggerì che occorreva riconfortarlo un poco e poi persuaderlo a ritornare nel suo letto.
Ippolito guardandosi in giro con la speciale compiacenza dei convalescenti fermò l’occhio sui noti oggetti che gli apparivano in sembianza di vecchi amici ritrovati: le sedie ricoperte di cuoio, la libreria, l’attaccapanni, la lucerna con la sua gonnella di carta verdina e una pertichetta appoggiata in un angolo, la quale particolarmente lo fece sorridere ricordando l’uso a cui era destinata; cioè di sciogliere il piccolo panneggiamento della finestra che si impigliava regolarmente nei vetri quando era il caso di aprirli o di chiuderli. La pertichetta era stata un’idea di Rosalba.
— Come ti senti però?
— Bene, zio Remo, bene.
Ma impallidiva.
— Orsù. È meglio tornare a letto.
Romolo lo prese attraverso la vita con le sue braccia poderose costringendolo ad alzarsi. A malincuore il giovine si lasciò trascinare dal colosso, confortato da Remo che andava dicendo:
— È per il tuo meglio. La scossa che hai ricevuto è stata forte e bisogna andar cauti. Poco per volta. Abbi pazienza.
In cucina la servetta gli pose in mano la lettera.
Ma Ippolito aveva presunto troppo dalle risorse della sua gioventù e fu meravigliato della spossatezza che lo prese di ritorno in camera. Cacciandosi sotto le lenzuola ebbe un brivido. Fuori dell’uscio Remo, che era salito ad accompagnarlo, gli gridò ancora: — Copriti bene! — e udì dal basso la voce agra di Rosalba la quale borbottava: — Purchè non faccia una ricaduta!
Tutto ciò non era allegro. Ippolito comprese in quel momento più viva che mai la tristezza della sua solitudine morale che gli creava un bisogno insoddisfatto di carezze e di parole dolci, di una dolcezza che non fosse quella ingenita di Remo, uguale per tutti. Oh! un bacio — di chi? — non lo sapeva, ma un bacio ardente sulla sua fronte, per lui, tutto e solamente per lui!...
Voltandosi vide la lettera. La prese, la guardò, non riconoscendo la scrittura. Il sesto era simpatico, la carta filogranata di una tinta pallida di avorio, l’inchiostro nerissimo. Il suggello di ceralacca color di viola recava impresso un solo monosillabo: Se.
Durante il periodo acuto della sua gloria egli aveva ricevuto dei fasci di lettere: lettere di amici, di condiscepoli, di curiosi, di oziosi, di vanesii, di incettatori d’autografi, di giornalisti che lo invitavano a descrivere la scena dell’incendio e del salvataggio quasi miracoloso, e, infine delle persone salvate che gli offrivano la loro riconoscenza; pure una lettera come quella non gli era giunta mai, ne era sicuro.
Per un senso inesplicabile sorto in quel momento istesso, intuizione o presentimento che fosse, speranza folle o vago terrore, o semplice ansia dell’ignoto, egli esitava ad aprirla. L’ora era troppo mesta perchè quella lettera che sembrava averlo chiamato con una misteriosa forza di magnetismo, traendolo, nuovo Lazzaro, dalla specie di sepolcro dove giaceva da tanto tempo, non dovesse esercitare sulla sua sensibilità un’acuta impressione dove sentimento e fantasia lavoravano insieme. Gli veniva dunque dal mondo, dal gran mondo ignoto e lontano, una voce?
Alzò la lettera contro la fiamma della candela senza che nulla trasparisse; se l’accostò al volto, ma non avvertì nessuno dei soliti profumi commerciali, benchè fosse invasa da un sottilissimo effluvio proprio degli oggetti femminili chiusi negli stipi odoranti di legni fini e di fiori freschi.
Sorse a sedere sul letto. Non aveva più freddo. Con un movimento affatto giovanile ricacciò indietro le coperte. Fu un lampo. Si ricompose, si riadagiò girando la lettera fra le mani per vedere da qual parte avrebbe potuto aprirla lasciando intatto l’enigma del suggello. Sul tavolino da notte c’era un piccolo cucchiaio; lo prese e ne introdusse delicatamente la parte sottile in un interstizio della busta. Ancora un istante di esitazione. Che mai, che mai lo aspettava? Crac! La busta spaccata gemette.
Non così un ladro od un innamorato procede cauto sul sentiero di un violato giardino come Ippolito ritirò dalla busta il foglietto e delicatamente lo aperse. Un’anima forse vi stava rinchiusa? Segnava in quel momento il destino l’ora decisiva della sua vita? Egli avvertì come un soffio misterioso. Pallido, rattenendo il respiro, lesse:
«Signore,
«Una persona che si è interessata vivamente al terribile incendio del 26 gennaio per la parte generosa che Ella vi ha sostenuto, desidera sapere se le conseguenze cessarono dall’essere per Lei così dolorose come apparivano nei primi tempi. Le notizie contraddittorie dei giornali esaltano, invece di calmare, il mio spirito. Vorrebbe essere tanto gentile da comunicarmi direttamente una parola? La domanda è indiscreta, lo so, e ne chiedo scusa; ma vi sono dei sentimenti così spontanei e così vivi che non si curano delle convenienze. Tale è la mia ammirazione per il suo coraggio.
Lilia
«Fermo in posta — Milano.»
Depose il foglietto aperto sulla rimboccatura del lenzuolo e lo guardò nello stesso modo che si guarda una fisonomia nuova. Senza essersi mai interessato di grafologia, Ippolito non poteva sfuggire all’impressione spontanea e affatto naturale che desta in ognuno di noi l’aspetto di quei segni che si ricongiungono immediatamente per mille indizi ad una volontà. Più lo scrittore è ignoto meglio lo si cerca nella sola rivelazione concessa, la sua scrittura. Il carattere, l’educazione, qualche volta perfino l’aspetto fisico escono meravigliosamente dalle parole scritte: una lettera al pari di un volto può riuscire attraente o ripugnante, perchè la lettera, come la voce, come lo sguardo, come il riso, come il pianto, come il passo, come l’ombra, se non è tutta la persona, è però della persona una emanazione diretta che difficilmente inganna.
La scrittura che egli aveva davanti agli occhi, semplice e chiara, presentava un tutto insieme nitido con assenza assoluta di svolazzi, molto spazio fra le linee tracciate con mano ferma e nessuno di quegli uncini così sgradevoli nella loro laidezza rivelatrice di ignobili istinti. Le parole non troppo inclinate indicavano forse che l’intelligenza soverchiava la sensibilità, ma alcune finali prolungate oltre il consueto davano pure indizio di animo generoso. La firma sopratutto era caratteristica per l’altezza speciale delle due elle conferenti a quel nome di donna una eleganza straordinaria.
— Lilia! — ripetè Ippolito a voce alta per udire il suono di quelle sillabe così leggiadramente aggruppate — e gli parve un suono dolcissimo, morbido come una brezza che scuota sovra un alto stelo il calice profumato di un fiore. — Lilia!
Era un nome affatto sconosciuto, che non si ricongiungeva a nessuna reminiscenza nè di persone, nè di libri, un nome non udito mai, nuovo eppure non straniero, quale veste entro cui palpitasse un corpo lungamente vagheggiato.
Chi poteva mai essere?
Tornò a prendere in mano il foglio e lo rilesse attentamente, sembrandogli di notare nelle prime linee una intenzione di impersonalità che andava man mano scomparendo fino alla dichiarazione finale ed alla firma, sicura, slanciata, escludente il sotterfugio dell’anonimo. La spontanea accusa di indiscrezione ed il perdono richiesto indicavano una natura delicata, mentre la sicurezza dello stile non lasciava dubbio sulla educazione della scrivente.
Una donna, una fanciulla certamente; bel nome, molto entusiasmo, molta franchezza — così concludeva Ippolito ricacciando la lettera nella busta — ma chi sarà mai?
Le tre parole ferma in posta si potevano interpretare in diversi modi. La signorina non era libera; oppure non voleva svelare il suo nome; oppure sotto l’apparente disinvoltura vi era un ritegno pudibondo di fanciulla che pur osando teme... L’ambiente provinciale in cui era cresciuto Ippolito favoriva lo sviluppo di questo tipo primitivo.
Una pura fanciulla! Non era questa la forma più concreta del suo sogno? A chi aveva egli mai pensato nei mattini di primavera vagando sotto i castani fioriti delle Mura di Bergamo, se non ad un fresco viso sorridente accanto al suo, a un fresco cuore che palpitasse contro il suo braccio? E nelle estasi un po’ mistiche della chiesa, quando l’organo di Santa Maria Maggiore lo trasportava fuori della realtà, non era ancora una bianca fanciulla che egli vedeva fluttuare fra le nuvole dell’incenso o prendere parvenza di vita nelle figure evanescenti dell’arazzo antico?
Egli era giovine, egli era giovine. Il succo meraviglioso dei vent’anni scorrendo nelle sue belle membra virili chiedeva ad alta voce la corona della fioritura. Presagiva egli qualche cosa al di là? Forse, in certi momenti; ma tutte le sue forze tumultuavano ora nella tempesta della preparazione, e qualunque fosse la meta non la vedeva, non poteva vederla attraverso la visione persistente del desiderio giovanile.
Lilia! Gli parve di scorgere un fascio di rose bianche, di gigli bianchi, di bianchi narcisi odoranti lievi, di serenelle bianche sfrangiate in una caduta di petali pioventi intorno al suo guanciale di convalescente. Chiuse le palpebre sotto un’onda di voluttà dolcissima.
Delle tante fanciulle salvate la notte dell’incendio una forse gli scriveva? Tale supposizione affacciatasi un istante alla sua mente fu subito rimossa. La fanciulla avrebbe anzitutto parlato di sè stessa. Ippolito fu quasi lieto di concludere che ciò non poteva essere, perchè quelle povere educande acerbe ed un po’ goffe non gli suscitavano nessuna immagine seducente; ma poteva essere una sorella od una amica. Ad ogni modo la lettera veniva da Milano e domandava risposta a Milano.
Risposta? Ecco una cosa che sembrava molto difficile. Che dire? In qual modo? E perchè? Decise di non pensarci oltre per quella sera. Soffiò sul lume e si voltò dall’altra parte.
Ma le pendole incominciarono allora a suonare in coro e Ippolito che doveva pure esservi abituato, perdette subito l’invito al sonno. Toc toc — tec tec — tin tin — drilin din din; e con la sveglia facevano tutte insieme un baccano indiavolato. Mai avevano fatto tanto baccano. Che cosa si narravano proprio in quella notte? Ippolito le ascoltò suo malgrado finchè tacquero, contando cinquantatrè ore suonate pazzescamente dalla pendola di Paolo e Virginia che aveva tratto tratto questi capricci incomprensibili. — Fanno forse all’amore — pensò Ippolito rivedendo al buio con l’immaginazione le due figurine di bronzo abbracciate sotto la foglia di palma. E rise.
Perchè gli venne in mente improvvisamente il passaggio degli Ebrei attraverso il Mar Rosso? Non vi era alcun nesso logico fra le due idee, e in verità dovette riconoscere che non gl’importava nulla delle avventure degli Ebrei. Il coro del Nabucco alla buon’ora, quello aveva una certa ragione di opportunità: «Va’ pensiero sull’ali dorate». Ma perchè dorate?... Cercò di raffigurarsi l’effetto di due ali color di oro. Già. La chioma di Berenice! Che c’entrava adesso la chioma di Berenice? Magnifica, senza dubbio. Portavano capelli finti le antiche dame romane? Forse Cleopatra no. 1,450,000,000? Sarà vero che la popolazione del globo ascende a tanto? Che lunga, lunga, lunga fila di uomini! Quei giornali d’America le sanno tutte. Voglio imparare l’inglese.
— Dàlli al gatto!
Questo grido singolare interruppe le divagazioni febbricitanti di Ippolito. Era Rosalba la quale dormendo nella camera attigua sognava di uno de’ suoi nemici famigliari. Ippolito vide anche lei, come già aveva viste le figurine della pendola, con l’immaginazione eccitata: Rosalba, stesa nel suo vedovo letto, un fazzoletto giallo annodato sui pochi capelli grigi, la bocca aperta, un cero pasquale appeso al muro e, sotto, il ritratto del defunto marito in una di quelle fotografie vecchie così tristi a vedersi e così brutte.
— Povera donna! — pensò ancora Ippolito. — Chi sa se sarà stata ai suoi giorni un po’ piacente. Non crederei.
Irritato dalla veglia, volle provarsi a dormire ad ogni costo. Aveva letto in qualche luogo che ciò si ottiene aprendo e chiudendo successivamente le palpebre per trenta o quaranta volte, ma si stancò gli occhi senza ottenere lo scopo. Ancora mille immagini scomposte vennero ad assediarlo: paesaggi, racconti, memorie, visioni, storia, romanzo; un profilo, un suono, il colore di un abito femminile, l’eco di una risata di amici; tante cose lette, scritte, vissute, sognate, inventate lì per lì con una foga insolita che aveva della rivelazione e della allucinazione insieme.
E poi tornò a pensare alla lettera ricevuta, meravigliato di sentirsi fluire alle labbra incomparabili parole di risposta, con una abbondanza, una chiarezza meravigliosa. Tutta la risposta gli sorse così finita nelle cellule della mente senza fatica, senza pentimenti. La scriverebbe così, al mattino, subito appena desto. Intanto però bisognava dormire. Pazienza che il tempo dell’insonnia non era stato sprecato poichè la risposta era pronta. Firmerebbe semplicemente Ippolito? No non conveniva. Meglio era Ippolito Brembo tutto intero. Dormire intanto, dormire...
Col lenzuolo buttato sulla faccia per concentrarsi meglio, egli serrò gli occhi disperatamente; e quando credette di avere raccolto un po’ di sonno, mentre gli sedava il cuore nelle prime dolcezze dell’oblio, il canto di un gallo lo fece sobbalzare. L’alba!
Affranto dalla veglia si chetò finalmente quando il sole era già alto e dormì parecchie ore di un sonno profondissimo, pesante. Al suo risvegliarsi vide seduto ai piedi del letto lo zio Remo che lo contemplava con una ciera compunta. Romolo intanto caricava le pendole.
— Ha la febbre...
— Non c’era da aspettarsi altro dalla bravata di ieri sera.
— Benedetta gioventù! Vuol proprio sempre pagare la propria esperienza.
Quantunque Remo avesse pronunciato queste parole con un tono mansueto e pieno di indulgenza, Romolo non accettò il la offerto dal fratello e rizzando tutte le sue punte di uomo malcontento rispose:
— Mi sembrava che a bruciacchiarsi mezzo fosse già stata una bella paga per il suo sentimentalismo e a starsene a letto per oltre un mese c’era anche la buona misura. Vuol dare la mancia adesso questo gran signore?
— Eh! eh! — fece Remo mostrando di gustare lo scherzo, come faceva sempre per pacificare l’animo del fratello. — Eh! eh!
La faccia del buon maestro, attraverso abilità di mimo trovò modo di distendere un sorriso sull’espressione desolata che gli produceva la scoperta della febbre; il risultato dovette esser buono perchè anche Romolo sorrise rimettendo la campana di vetro su Paolo e Virginia.
Ippolito, accovacciato sotto le lenzuola, si sentiva la testa pesante e vuota nello stesso tempo, il palato secco, le membra dolenti. Seguiva cogli occhi macchinalmente i movimenti di Romolo che grande e grosso com’era oscurava tratto tratto o l’una o l’altra delle finestre.
— Piove ancora — disse il colosso.
Remo pensò che non avrebbe neppure in quel giorno potuto servirsi del suo ombrello nuovo senza grandi contrasti al pian terreno, essendo una opinione di Rosalba che fosse peccato sciupare gli ombrelli nuovi quando piove.
— Tornerai presto, zio Remo?
— Se mia moglie me lo permetterà — obbiettò Remo colla dolce e innocente malizia delle sue pupille rotonde. Sua moglie, in linguaggio figurato, era la scuola.
— Punto e a capo — disse Romolo tastando nel passare a canto al letto la fronte del giacente. — Ne avremo per un altro mese.
— No, no; speriamo di no! — si affrettò a rispondere Remo, fiducioso nell’influenza degli auguri.
I due fratelli uscirono insieme. Ippolito rimasto solo volle scrivere subito la lettera. Sentiva che il mal di testa si avvicinava a gran passi e gli sembrava di guadagnar tempo. Già non era questione che di poche parole. Saltò giù a prendere il calamaio, la penna, la carta; rabbrividiva di freddo, ma non ne fece caso. Son poche parole: Signorina.
Colla penna levata cercò la parola seguente, quella bella parola che incominciava la lettera, dietro la quale tutti gli altri periodi scorrevano lisci come fiume di latte. Che parola era?
Tornò a bagnare la penna; rilesse in cima al foglio nitido: Signorina. Aggiunse un punto esclamativo, così: Signorina! Ma la parola non veniva; nè quella, nè alcun’altra. Egli l’aveva pure scritta tutta col pensiero una letterina breve ed elegante che non diceva nè troppo nè poco, che era gentile e dignitosa insieme. Dove era fuggita? In quale angolo remoto della memoria? Ah! Un momento gli sembrava di afferrare a volo il motivo generale, ma anche quello fuggiva, gli si scioglieva nel cervello con un’inconsistenza di bolla di sapone, con un fruscìo vano di falena che batte l’ala contro il lume acceso. Nulla! Non trovava più nulla.
Si strinse la fronte nelle palme con una violenza di concentrazione che parve spezzargliela. Nulla!
Allora fece una pallottola del foglio di carta, la scaraventò in fondo alla camera, e colle mani diaccie, le tempie di fuoco, i denti che battevano, si cacciò disperato e vinto sotto le coltri.