Storia di Torino (vol 2)/Libro II/Capo I
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Libro Secondo
Capo Primo
Noi volendo descrivere storicamente l’interno della città, faremo capo da Dora Grossa, poi entreremo nelle vie che al nord ed al mezzodì di Dora Grossa, o sboccano in quella, o corrono in direzioni parallele; e seguiteremo a percorrere colla stessa ragione la piazza del Castello, il corso della via di Po e delle strade che s’aprono a destra ed a sinistra della medesima.
Dora Grossa dovette essere la prima strada della città nascente de’ Taurini. Dal Castello alla meta circa dell’isola de’ Gesuiti essa ne segna la primitiva lunghezza. Seguitando fino alla via della Consolata, ne misura il primo ingrandimento, d’epoca ignota. Dalla via della Consolata fino al termine della città misura l’ampliazione fatta da Vittorio Amedeo ii, re di Sicilia, poi di Sardegna.
Entrando in Dora Grossa dalla strada reale di Francia si ha a mano manca uno dei quartieri di fanteria edificati dallo stesso sovrano sui disegni di don Filippo Juvara. Ma se ne vede qui solamente la parte posteriore ingentilita dal conte di Borgaro con una bella facciata per ordine di Carlo Emmanuele iii quando si rettilineo la via di Dora Grossa.
In fine della seconda isola a destra, voltando il canto, s’incontra la porta del Deposito di San Paolo. È questo un instituto d’educazione per fanciulle civili, governato dalla congregazione di San Paolo, della quale parleremo a suo luogo. Fu fondato nel 1684 dalla contessa Margarita Falcombello, moglie del senator Perracchino, come ricovero di fanciulle orfane, abbandonate, e perciò pericolanti; onde il volgo dava alle ricoverate il nome di Perracchine. Ma i buoni metodi d’educazione che vi s’introdussero, v’attiraron zitelle di più rilevata condizione; onde l’instituto mutò indole, massime dopoché alle fanciulle povere e pericolanti s’apersero altri asili: ed ora è una buona casa d’educazione posta sotto la special protezione di S. M. la Regina, nella quale alcune fanciulle godono il benefizio della pensione gratuita, altre in maggior numero pagano un’annua somma, per verità, molto discreta.
Sul finire della quarta isola è la via che mette in piazza Paesana. Su questa crociera era nel secolo xvi la porta Susina colle sue torri. Da una d’esse torri cominciò a tendersi, nel 1570, una grossa corda che facea capo alla cittadella; e per essa faceansi correre la sera le chiavi della porta al governatore che le rimandava per la stessa via aerea la mattina. Sul finire dell’isola seguente a mano manca trovasi la chiesa di San Dalmazzo.
Nel 1271 Gaufrido Goffredo vescovo di Torino l’aveva concessa ai frati di Sant’Antonio insieme colla non lontana chiesa di San Giorgio, posta nella regione di Valdocco; e d’allora in poi rimase una dipendenza del priorato di Ranverso (de rivo lnuerso), tra Rivoli ed Avigliana. La chiesa che si vede di presente fu edificata a spese di monsignor Antonio della Rovere vescovo Agenense, nel 1530, e perfezionata da monsignor Gerolamo della Rovere arcivescovo di Torino. Su tutte le crociere delle vôlte vedeansi le insegne di quella famosa stirpe.
Fu ristaurata ed ornata dalla confraternita di San Giovanni decollato, che pigliava il titolo di Sta Maria di Misericordia fondata in marzo del 1578 nella chiesa di San Simone: questa confraternita in febbraio del 1580 ottenne dai frati di Sant’Antonio facoltà di fabbricare sui quattro pilastri ultimi della loro chiesa un oratorio per cantarvi i divini uffici. Costrusse poi a ponente della chiesa una cappella per seppellirvi i giustiziati; e piii tardi atterrò l’antico campanile, e ne costrusse un nuovo.
Piccole e misere erano quasi tutte le chiese di Torino nel medio evo; erano inoltre squallide e sporche, e la loro suppellettile consisteva in due o al più quattro o sei candelieri di ferro, un calice di ferro o di stagno, due paramentali, una teca d’avorio o d’ottone dorato per riporvi il Santissimo ed i messali, breviarii ed antifonarii indispensabili. Gli altari eran di legno, pochi in muratura, tre forse o quattro in tutta la città di pietra o di marmo. Tutto questo appare dagli atti della visita pastorale cominciala da Giovanni di Rivalla nel 1568: e così misera era la casa di Dio, mentre nelle case private abbondava il vasellame d’argento; mentre anche un’osteria di villaggio serviva gli avventori distinti in bicchieri di argento. Ne molto progresso avean fatto le chiese Torinesi nel 1551, risultando dalla visita dell’arcivescovo Cesare Cibo che in pochissime si conservava il Santissimo Sacramento, e che poche aveano il fonte battesimale convenevolmente apparecchiato.
Non v’era neppure grande miglioramento nel 1584 quand’ebbe luogo la visita apostolica di monsignor Angelo Peruzzi vescovo di Sarcina. Soprattutto la casa di Dio era molto ancora lontana da quella nettezza, di cui dee sempre risplendere; ed un precetto, che toccò a quel prelato di dare e di ripeter sovente, era la provvista e l’uso delle scope.
Que’ che ristaurarono poi in Torino le case di Dio furono i Disciplinanti ed i Regolari.
Non era per altro in sì abbietta condizione al tempo della visita suddetta, la chiesa di San Dalmazzo, la quale gli parve molto bella, essendo, come notò, tutta a vòlta, e recentemente dai fratelli della Misericordia restaurata. Essi diffatto aveano alzato e ornato di pitture il coro. Trovò bello, e fornito di stalli elegantissimi, l’oratorio della compagnia, dedicato a Sta Maria di Misericordia, bella ancora la cappella di San Giovanni decollato, dove seppellivano i giustiziati. Osservò che questa confraternita aggregala a quella di San Giovanni decollato di Roma, era instituita per confortare i condannati, accompagnarli alla giustizia, seppellirne i corpi e far celebrare pii suffragi per l’anima. A questo fine deputava sei confortatori, e nei tre giorni che seguitavano immediatamente l’esecuzione di ciascun condannato, gli faceva dire tre uffizii e tre messe di San Gregorio.
La messa di San Gregorio, così chiamata da un consiglio dato da quel santo pontefice all’abate Prezioso, consisteva nel dire per trenta giorni continui successivi al transito d’alcuno una messa pel suffragio di quell’anima, e nel salmeggiare durante la messa l’ufficio de morti. Onde si scorge che solo impropriamente chiamavasi messa di San Gregorio il suffragio ridotto a soli tre giorni.
In molti luoghi, come a Novara, a Como ed altrove, coteste cappelle de’ giustiziati furono segno d’un culto superstizioso fondato sulla opinione che più facilmente abbiano potuto procurarsi l’eterna salvezza coloro che sì acerbamente espiarono i loro misfatti in questa vita, e furono confortati di sì caldi spirituali soccorsi. In alcune città, in una scura cappella, un fioco lume che v’arde perenne mostra un gran crocifisso, il cui piede è circondato dei teschi degli sciagurati che espiarono sul patibolo i delitti.
San Dalmazzo era chiesa parrocchiale, ed avea giurisdizione nel 1584 su mille anime. L’ordine di Sant’Antonio eleggeva il rettore, il quale veniva confermato dall’arcivescovo. Ma questi frati Antoniani poco fiorivano per merito di regolar osservanza, quando, per consiglio di S. Carlo Borromeo, il duca Carlo Emmanuele i deliberò nel 1608 di dar questa chiesa ai chierici regolari di San Paolo, chiamati volgarmente Barnabiti. Trattò co’padri di Sant’Antonio per aver la cessione della loro chiesa, e l’ottenne a condizione: che cessasse nella medesima l’antico titolo dei Ss. Antonio e Dalmazzo e si chiamasse unicamente San Dalmazzo, che si mantenessero le convenzioni fatte colla compagnia della Misericordia; che infine i padri di Sant’Antonio abitassero il palazzo di D. Amedeo di Savoia vicino a Sta Maria, fin che fosse compiuto il loro convento nel borgo di Po.
Niuna congregazione religiosa entrò in Torino con maggior solennità e maggior festa che quella dei Barnabiti. Carrozze di corte recaronsi a levare dodici padri a Vercelli, Asti e Casale. Sua Altezza coi principi suoi figliuoli, coi duchi di Mantova e di Nemours, con tre cardinali, col nunzio e cogli ambasciadori, co’ magistrati del Senato e della Camera andò ad incontrarli il 22 gennaio 1609 fino al borgo di Po, e li accompagnò a San Dalmazzo; onori che l’umiltà di que’ padri giudicò forse eccessivi, ma che fanno fede della pietà dei duca e del sommo concetto che aveasi delle virtù de’ Barnabiti
Non furono i Barnabiti tanto amici della confraternita della Misericordia, quanto eranlo stato i padri di Sant’Antonio. Lagnavansi del disturbo che recavano, salmeggiando, ai confessori; dell’impedimento che recavano al ministero parrocchiale, e tentarono ogni via di liberarsene.1 Ma inutilmente fino al 1698, quando i confratelli acquistarono dallo spedale di carità la chiesa che si trovava nell’isolato del Ghetto, quasi di fronte al palazzo ora posseduto dal conte Balbo; donde si trasferirono nel 1721 nella chiesa dell’antico monastero di S la Croce che uffiziano di presente.
Alla pia sollecitudine de’ Barnabiti va debitrice la chiesa di San Dalmazzo di molti ristauri e miglioramenti. Cominciarono dallo ingentilir la facciata. Poi volendo introdurre in essa chiesa una particolar divozione della Madonna santissima di Loreto, gettarono nel 1629 i fondamenti d’una nuova cappella che fu compiuta in due anni; ne fu promotore il padre Ottavio Asinari che nel 1634 venne promosso al vescovato d’Ivrea, e assai contribuirono a murarla e dotarla le sante principesse Maria e Catterina di Savoia, nonché una monaca di casa Scaglia (de’ conti di Verrua), chiamata al secolo Ginevra, e in religione suor Maria Cristina.
Nel 1701 i Barnabiti ripararono la facciata che minacciava mina, poi distrussero i muricciuoli che attorniavano la piazzetta, ed una benefattrice la fe’ lastricare; nel 1710 alzarono a maggior altezza il campanile. Nel 1742 il canonico Comotto della Metropolitana rifece di marmo l’altar maggiore. Sette anni dopo i Barnabiti rifecer quello del beato Alessandro Sauli. Nel 1756 restaurarono tutta quanta la chiesa, e posero sulla facciata l’iscrizione che si vede di presente, dettata dal P. Giacinto Gerdil, poi cardinale. La sagrestia fu rifatta nel 1769.2 Nel 1830 la chiesa fu renduta più elegante e più chiara mercè le sollecitudini del padre D. Ambrogio Fortis che ne era curato.
In quanto al collegio era dapprima il medesimo un palazzo del duca attiguo alla chiesa nel quale i nunzii pontificii solevano abitare. A poco a poco acquistando e rifabbricando, i Barnabiti erano pervenuti ad esser padroni di tutto quasi l’ampio isolato, sicchè aveano capace e splendida sede. Ora tornarono alle antiche angustie, se non che non da splendor d’edifìzii, ma da splendor di virtù misurasi il valore; e quello delle corporazioni religiose massimamente. Nè fallì questa gloria al collegio di San Dalmazzo. Isidoro Pentono, eletto nel 1609 preposto del medesimo, e due anni dopo provinciale del Piemonte, fu adoperato da Carlo Emmanuele i in alte cariche ed in negozii gravissimi di Stato, fatto gran priore dell’ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro e finalmente nominato vescovo d’Asti. Il padre Giovanni Bellarino e chiamato dal Gerdil, autore d’opere molto profonde. Il padre Giusto Guerin di Tramoy, curato di San Dalmazzo, era confessore delle Infanti Maria e Calterina, ed era in isiretta amicizia congiunto con S. Francesco di Sales e con Sta Giovanna Francesca Fremiot di Chantal. Fu poi egli stesso vescovo d’Annecy. Dopo il Guerin ebbero le Infanti a confessore il padre D. Amatore Ruga, pure del collegio di San Dalmazzo, pe’ conforti del quale fondarono i monasteri delle cappuccine e delle convertite.
Tutti questi eran uomini insigni per santita e per dottrina, banditori indefessi ed eloquenti della divina parola, potenti di consiglio e d’opere. Morì il Ruga di soli 47 anni, e sì alta opinione lasciò di se, che le Infanti ne vollero il cuore ed un fazzoletto intriso del suo sangue. Il corpo riposa in San Dalmazzo. Scrisse molte opere ascetiche, di cui si può veder il catalogo nell’Ungarelli. Bei nomi sono altresì quelli d’altri Barnabiti che fiorirono in questo collegio di Torino; Arnaud, Comoto, Avogadro, Visconti, Paolo Vincenzo Roero, che fu vescovo d’Asti nel 1655, Torelli, Ottaviano Roero, vescovo di Fossano nel 1675, Manara, vescovo di Bobbio nel 1716, Recrosio, vescovo di Nizza nel 1727, Francesco Gattinara, vescovo d’Alessandria nel 1706, arcivescovo di Torino nel 1727, Mercurino Gattinara, fratello del precedente vescovo d’Alessandria nel 1729; ma vinse la fama di tutti il dottore e difensore della Chiesa, Giacinto Sigismondo Gcrdil, professore d’elica e poi di teologia morale nella R. Università di Torino, socio della R. Accademia delle scienze, precettore di Carlo Emmanuele iv, creato Cardinale del titolo di Sta Cecilia nel 1777, morto nel 1802. Era questo il quarto Barnabita che avesse cattedra nella nostra Università.3
I Barnabiti, cacciati come tutti gli altri religiosi dalla rivoluzione francese, ripigliarono, dopo l’assetto generale de’ regni, la chiesa ed una piccola parte del collegio nel 1824. A questi benemeriti religiosi fu dal re commesso il governo del collegio Carlo Alberto, dalla Maestà Sua fondato a Moncalieri.
Tornando ora alla descrizion della chiesa: nel coro la gran tavola, che rappresenta il martirio di San Dalmazzo è del Brambilla scolaro del Delfino; nella cappella del Crocifìsso, la tavola in cui si raffigura il corpo del Redentore portato al sepolcro dai discepoli, fu dipinto dal Molineri saviglianese.
In questa chiesa fu sepolta, il 14 di marzo del 1574, Laura Nasi, figliuola di Ludovico Nasi bibliotecario d’Emmanuele Filiberto, fanciulla di 18 anni, di mirabile bellezza e di molta virtù, che fu pianta con varie maniere di componimenti dai più chiari verseggiatori che allora fiorissero.4
E noto che dopo la metà del secolo xiii si fece pressoché generale l’uso di seppellir i cadaveri nelle chiese. Prima di quel tempo riponeansi nel cimitero che v’era attiguo. I canonici ed i monaci si seppellivano nel chiostro della canonica o del monastero. Ai soli vescovile talvolta ai principi, più raramente ai semplici sacerdoti, ed ai morti con opinione di santità era concesso di riposare entro al sacro recinto; e siccome in varie epoche e in varii luoghi, o per divozione, o per ambizione erasi cominciato ad interrare i cadaveri nelle chiese, non mancarono più concilii di vietarlo; altri ancora disposero che più non s’uffiziassero quelle chiese in cui si vedessero a soprabbondare i sepolcri.
Ma, come abbiam veduto, sul finir del secolo xiii, la parte sotterranea delle chiese diventò sepolcro comune di tutti i fedeli. E solamente alcuna delle più grosse parrocchie, come a Torino il duomo, ebbero ad un tempo e sepolture in chiesa, e Campo Santo fuori di essa.
Le regole del seppellire a Torino eran queste. I fedeli che morivano senza elezione di sepoltura, erano portati alla parrocchia; se forestieri, al duomo; e per forestieri s’intendeano quelli che non aveano domicilio permanente in città. Que’ cittadini per altro che aveano un sepolcro famigliare in altra chiesa che nella propria parrocchia vi erano portati senza contrasto. Ma sempre il parroco del domicilio interveniva alla sepoltura, e partecipava agli emolumenti.
Le sepolture poi delle chiese più antiche erano camerette che s’aprivano immediatamente sotto al pavimento della chiesa; e la cui bocca era otturata da una pietra quadrata con iscrizione o senza. Le casse erano allogate l’una sopra l’altra. Nelle chiese più moderne le pietre sepolcrali sparse nel pavimento non sono che indizii o riscontri di sepolture esistenti nello scurolo, o sotterraneo inferiore, dove si vedono talora a forma di pozzi, colle casse accatastate; talora ordinate lungo le pareli, e murate separatamente con iscrizione, massime quelle dei religiosi e delle persone distinte.
La sepoltura dei bambini aprivasi e in San Dalmazzo e in altre chiese sotto al battistero, presso al luogo cioè dove avean ricevuto la stola candida dell’innocenza, non stata da loro nella brevità di questo terreno esiglio di niuna labe contaminata. Presso all’altar maggiore era il sepolcro de’ confratelli della Misericordia. Nel coro quello de’ religiosi. Nella cappella di San Giovanni decollato che s’apriva a ponente, presso al campanile, fuori del recinto della chiesa, si seppellirono fino al 1698 i giustiziati. Ma i personaggi di riguardo collocavansi d’ordinario nel sepolcro della Madonna di Loreto. Là scendeva in febbraio del 1556 Giacomo Ferraris, primo presidente del Senato; là in ottobre del 1660 Catterina Meraviglia, figliuola naturale di Carlo Emmanuele i, morta nella parrocchia di Sant’Eusebio, arrivata ai 40 e più anni con comune edificazione, frequenza de’ santi Sacramenti et osservanza di verginale purità; là il 10 luglio del 1673, Paola Cristina, contessa Birago di Vische, d’anni 38, vera madre della Nostra Chiesa, che a tutta la città fu d’ esempio per tutto il tempo della sua vita. In quella cappella; sotto alla fìnestra, fu deposto, il 4 settembre 1706, il generale Francesco Antonio Nazari, di Novara, colonnello del reggimento di Lorena, ucciso nell’assalto della cittadella; nella stessa cappella ebbe tomba il nestore de’ primi presidenti della R. Camera de’ conti, Gian Angelo Benzo, conte di Pramolo, l’8 di novembre del 1762, in età d’anni ottantasette.
Nella cappella di Sta Rosalia è sepolto D. Emmamiele de’ principi Valguarnera, siciliano, cavaliere dell’Annunziata, e gran ciambellano, morto in gennaio del 1770.
In San Dalmazzo fu similmente sepolto il 25 di agosto del 1636 l’eccellentissimo signor Ludovico Tesauro, figliuolo forse del presidente Antonino, autore dell’opera intitolata: Novae decisiones Senatus Pedemontani, e nipote del protomedico Antonio, cbe servì Carlo iii ed Emmanuele Filiberto, e cominciò la fortuna di sua casa.
Nel coretto laterale allo scurolo della Madonna di Loreto dalla parte dell’evangelo è sepolto Gian Tommaso Terraneo, morto nel 1771, autore dell’Adelaide illustrata; uomo di mente acuta e di fino giudizio: il primo che pigliasse ad illustrare con sana critica gli antichi ed oscuri secoli della nostra storia; uomo che ebbe a combattere assai coll’invidia e più ancora coll’ignoranza e con quella misera passion d’occultare, che una volta prevaleva in fatto di biblioteche e d’archivi.5
Procedendo innanzi troviamo dopo breve spazio l’isola che contiene la chiesa ed il collegio de’ Gesuiti.
Abbiam già notato che ne’ tempi romani e barbarici vedeasi alla metà circa di quest’isola il muro della città colla porta Segusina; e che prima del mille s’era già compresa nel perimetro delle mura quasi intiera l’isola che contiene la chiesa di San Dalmazzo. Dobbiamo ora notare che la via della Misericordia non esisteva, e che l’isola che sorge avanti la chiesa di San Dalmazzo, s’abbracciava con quella che le succede a ponente formandone una sola, composta d’una successione di piccole case, disgiunte da viottoli e cortili, frammezzo a cui vedevasi la piccola chiesa parrocchiale di San Benedetto, membro della badia di Rivalta, la cui porta s’apriva verso ponente, e il. cui lato settentrionale fronteggiava la casa dei bagni di San Dalmazzo.6
Nel secolo x la porta Segusina era difesa da un castello. Quando i monaci della Novalesa fuggendo l’impeto da’ Saraceni, abbandonarono l’Alpina e gelata loro residenza, sorgeva innanzi alla porta di quel castello la chiesa de’ Ss. Andrea e Clemente, dove i monaci si ripararono. Alquanti anni dopo, due Saraceni che si tenean prigioni in una torre d’esso castello imaginando un mezzo di salvarsi, gittarono fuoco sulla chiesa vicina, e levatosi rumor per l’incendio trovarono nel tumulto via di fuggire. Le fiamme consumarono il sacro tempio, ma gl’incendiarii furono raggiunti e giustiziati.
Nel medesimo luogo si rifabbricò un’altra chiesa, e si dedicò a S. Benedetto.7 In principio del secolo xii v’era annesso uno spedale, e n’era rettore un canonico del duomo Torinese. Dopo la meta di quel secolo, Carlo vescovo di Torino ne fece dono alla badia di Rivalta, che vi tenne dipoi un monaco col titolo di priore.8 Più tardi fu parrocchia. Questa chiesa fu la prima che ufficiassero i Gesuiti quando vennero nel 1566, come vedremo fra poco.9 Più vicina alla chiesa presente de’ Gesuiti parmi che fosse la chiesuola di Sta Brigida, di cui si ha memoria fin dal 1535. Era patronato della nobile famiglia Beccuti, da cui passò nel 1574 alla Compagnia di Gesù. Essendo sprovveduta d’ogni cosa, angusta e con mura fracide i padri la vendettero, nel 1608, al signor Amedeo di Parella, che la comprese nel palagio da lui rifabbricato, e posero l’imagine della Santa nel quadro di S. Francesco, nella loro chiesa.10
La chiesa de’ Ss. Martiri sorgea presso l’angolo sudovest della città, nel sito ove poi fu edificata la cittadella, e dove sul sepolcro stesso che raccolse i corpi di que’ gloriosi confessori della fede, s’era edificato un oratorio sul finir del secolo iii, convertito poi in tempio, quando cessò di parer caso di morte l’esser cristiano. Ampliato ed ornato dal vescovo S. Vittore, successore di S. Massimo, sul finir dei secolo v, e già divenuto allora segno di divoti pellegrinaggi; ruinato poi dai Saraceni e da altri barbari, ristorato dal vescovo Gezoneche v’aggiunse ne’ primi anni dopo il mille un monastero di Benedittini; caduto molti secoli dopo in commenda, nel 1556 fu distrutto dai Francesi, nella quale occasione vennero le sacre reliquie trasferite in Sant’Andrea, donde nel 1575 si portarono all’oratorio provvisionale de’ Gesuiti, mentre s’attendea la costruzione del nuovo magnifico tempio, in cui doveano essere definitivamente allogate.
Nel sito medesimo in cui si murava la novella chiesa de’ Ss. Martiri, sorgea prima la chiesa antichissima parrocchiale di Santo Stefano, di cui si ha memoria fin dal 950. Nella qual epoca era uso, che i canonici della Cattedrale fossero incardinati ad alcuna delle chiese della città, e v’esercitassero l’ufficio parrocchiale. Rettore della chiesa di Santo Stefano era allora l’arcidiacono del capitolo Torinese.
Nel 1551 la parrocchia di Santo Stefano era unita a quella di San Gregorio; nel 1575 fu soppressa, e la chiesa colle case vicine passò in proprietà del Seminario ivi fondato da monsignor Gerolamo della Rovere, in esecuzione dei decreti del Concilio di Trento, Tre anni dopo era fatta al Seminario facoltà di alienare la chiesa e le case vicine alla Compagnia di Gesù, affinchè si potesse, e meglio stabilire il loro collegio, e murare una chiesa più degna in onore de’ Ss. Martiri protettori di Torino.11 Sorse infatti nobilissima per le forme architettoniche, splendida per marmi e per dipinti la nuova chiesa de’ Ss. Martiri protettori della città di Torino. Ne die’ il disegno Pellegrino Tibaldi nato in Bologna, ma d’origine Milanese, il quale studiando in Roma i grandi maestri di pittura e spezialmente Michelangelo, era riuscito eccellente in quell’arte, tantoché i Caracci lo chiamavano Michelangelo riformato. Più tardi si volse all’architettura, e innamorato delle forme greche e romane guastò il duomo di Milano facendovi le porte d’altro stile; ma compensò la citta di quel peccato innalzandovi la stupenda chiesa di San Fedele. A questo grande architetto i Torinesi van debitori della chiesa de’ Ss. Martiri, la più ricca e, dopo il duomo, la più bella che sia tra noi; e dissi dopo il duomo, sia in quanto a purezza di stile, sia perchè non conviene dimenticare che la vera forma de’ tempii cristiani è la basilicale.
Vincenzo Parpaglia, abate commendatario di San Solutore, quello stesso che fu parecchi anni a Roma ambasciatore, o come allora dicevano, oratore del duca Emmanuele Filiberto, avea domandalo ed ottenuto da S. Pio v nel 1570, che si stralciasse un terzo circa delle rendite di quella ricca badia, e si cedesse in perpetuo alla Compagnia di Gesù, coll’obbligo fra gli altri d’edificare un tempio in onor di que’ Santi.
Fu cominciato nel 1577, nel qual anno a’ 23 di aprile il grande Emmanuele Filiberto ne pose la prima pietra insieme coll’arcivescovo Girolamo della Rovere e col Nunzio; e si ha memoria che fu posta al pilastro che è accanto alla porteria. Nello spazio di sette anni ne fu compiuta la meta, largheggiando e di doni e d’ufficii la compagnia di S. Paolo, poco prima per privata associazione formata ne’ chiostri di San Domenico per mantener illesa in Torino la pura fede cattolica. A’tempidi Maria Giovanna Battista duchessa reggente, e così sul declinare del secolo xvii, il P. Andrea Pozzi, gesuita Trentino, ne dipinse tutta la vôlta a sottoinsù, con singoiar maestria. Era quella vôlta una delle rarità pittoriche di Torino, ed essendo guasta dagli anni, parve ai Padri, che teste pulirono e ringentilirono di belle dorature tutta la chiesa, che non si potesse ristorare; e però furono chiamati a ridipingerla Francesco Gonin e Luigi Vacca.12
L’altar maggiore è disegno di Filippo Juvara ed opera del principio del secolo scorso.
Di elegante lavoro e degnissimi d’essere considerati sono in questa chiesa i due grandi candelieri di bronzo, che stanno dinanzi alla balaustra dell’altar maggiore.
Nel primo altare a destra la tavola rappresentante l’apostolo S. Paolo è di Federigo Zuccari, il quale gratuitamente lo dipinse in segno di stima per la congregazione di S. Paolo che ha il patronato della cappella.13
Appartiene alla sua scuola la tavola del secondo altare che rappresenta S. Francesco Saverio. Dalla parte dell’epistola il S. Ignazio a cui appare il Redentore è di Sebastiano Taricco da Cherasco.
Il grande ovato dell’altar maggiore colla Beata Vergine ed i Santi titolari è di Gregorio Guglielmi, romano.
Le statue scolpite in legno che vedonsi nelle nicchie della facciata sono di mano del Borelli, e ricordano un’arte che s’è oggi quasi perduta: parendo alla boria moderna che lo scalpello si disonori, trattando materie che non sien marmi o pietre; e temendo a condur lavori di legno di cambiarsi di scultori in legnaiuoli; senza rammentare quali sublimi legnaiuoli ebbe Firenze, quali vivi e spiranti crocifissi, quali mirabili stalli di cori intagliarono in più badie, legnaiuoli di quella sorte; senza ricordare che quel sommo architetto francese che era chiamato in Isvezia ad innalzare la cattedrale d’Upsal, s’intitolava modestamente maestro di tagliar pietre.
Il pulpito di questa chiesa fu sempre frequente d’illustri oratori, dei quali in niun tempo la Compagnia di Gesù ha patito penuria, e basti rammentare Daniello Barloli che predicò la quaresima del 1651, e Paolo Segneri che vi fece la quaresima del 1663. Nel 1584 i Gesuiti recavansi ad insegnare il catechismo ai ragazzi nel duomo e nella chiesa di San Dalmazzo.
La notte che seguiva all’ultimo giorno di settembre del 1773, monsignor Lucerna Rorengo di Rora, arcivescovo di Torino, delegato dal papa, mandò notificando ai Gesuiti di Torino la soppressione della Compagnia, co’ rigori che l’accompagnarono.
Questa soppressione, chiesta con tenaci e minacciose istanze dalle potenze Borboniche, e massime dalla Spagna, fu in Piemonte accettata piucchè applaudita. Il diario ms. de’ Carmelitani di Torino la registra in questi termini: Soppressione del tanto illustre, dotto, e in questi nostri Stati esemplarissimo ordine Gesuitico.
Già da un mezzo secolo e più la pubblica opinione non era molto favorevole ai Regolari, travagliata essendo, e per dir così, manipolata da una quantità di scrittori che li rappresentavano come occupatori delle ragioni de’ vescovi, e di quelle del principato, e delle sostanze de’ popoli, e contrarli alla pubblica pace: e, come accade nelle dispute appassionate, avvelenate da lunghi contrasti, anche talora da difese imprudenti, più perniciose all’assalito che l’assalto medesimo; gli errori, gli abusi, le sciocchezze, le colpe di pochi furono scritte a debito di tutti; e procedendo più oltre, si negò ai dritti dei regolari (come dai più avventati e men religiosi anche alle ragioni temporali della Chiesa in generale) la pacifica sanzione del tempo, che non può violarsi senza rovesciar un principal fondamento dell’ordine politico e civile, e rimetter tutto in questione ed in confusione. Tali dottrine proclamate con gran pompa di erudizione, e co’ fulgori e colle illecebre di uno stile ora splendido e imaginoso, ora spiritosamente beffardo, avean fatto senso non solo ne’ popoli, ma anche nei principi, i quali non possono a meno di risentir l’effetto d’opinioni che, per contenere nelle cause da cui movono qualche parte di vero e qualche apparenza di bene, si vanno generalizzando. Scarse furono dal pontificato di Benedetto xiv in poi le promozioni de’ regolari alla sacra porpora. Più tardi Ganganelli, Francescano, era il solo regolare che facesse parte del sacro collegio; esaltalo al trono pontificale, non solo non diede il cappello ad alcun regolare, ma per evitar mali maggiori, e impaurito forse dalla minaccia d’uno scisma, si risolvette a suo malgrado a disciogliere il più famoso, il più potente e il più lungamente ed accanitamente combattuto degli ordini regolari: conoscendo del resto ottimamente che niun ordine regolare è necessario alla Chiesa di Dio, niuno ne costituisce l’essenza, sebbene i regolari quando si governano collo spirito del Vangelo, e colle massime, e coll’accesa carità de’ Santi loro fondatori, lontani dal balestrarsi nel cozzo dei privati interessi e delle politiche agitazioni, sieno preziosi cittadini e grandi promovitori di religione e di morale.
Dopo la soppressione la chiesa de’ Gesuiti venne ufficiata qualche tempo da preti secolari, a cui si surrogarono i sacerdoti della Missione in virtù di R. biglietto del 23 luglio 1776. Ma il 3 dicembre del 1800 un commissario repubblicano venne loro notificando che la loro congregazione era soppressa, e che avean termine di due decadi a sgombrare.
Nel 1802 una parte del convento che guarda a mezzodì ed a ponente fu destinala ad uso di carceri correzionali.
Riposa in questa chiesa Filiberto Milliet, arcivescovo di Torino, dotto ed eloquente prelato, sepolto il 3 di settembre del 1625.14
Il 13 di marzo del 1672 a sera avanzata vi fu recato privatamente il famoso primo presidente Giovanni Francesco Belletia, che essendo semplice avvocato e sindaco di Torino nel 1630, e imperversando la pestilenza, sicchè tutti erano o morti o fuggiti, o infermi i governanti, egli solo tenne in mano il governo della città, e provvide alla salvezza pubblica ed all’abbondanza de’ viveri; degno perciò d’eterna memoria. In febbraio del 1675 lo seguiva nel sepolcro la moglie Priama.15 Tre anni dopo vi era sepolto il padre gesuita de Chale, professore di matematica nel R. collegio de’ Nobili. Giacciono pure in questa chiesa le spoglie mortali di Michele Antonio Vacchetta, sacerdote della congregazione della Missione, morto in concetto di santo, del quale si ha la vita stampata; e quelle del conte Giuseppe De-Maistre, profondo filosofo e scrittore eloquente, di cui si vede il monumento nell’ultima cappella a sinistra di chi entra.
Negli ipogei di questa chiesa, che belli ed ampii si stendono sotto alla medesima, ed al chiostro vicino si vede una tomba alquanto scalcinata, sulla quale ancor si legge il nome del vescovo Riccaldone, senza maggiori chiarezze. Io penso che contenga le spoglie mortali di Giulio Cesare Gandolfì, de’ marchesi di Riccaldone, che fu quattordici anni gesuita, poi governò il collegio delle Provincie; indi nominato, nel 1748, arcivescovo di Cagliari, dovette, perchè non era dottore, pigliar la laurea teologica nella R. Università, in età d’anni 38, e ricevette la consecrazione in questa chiesa medesima il 28 di aprile di quell’anno.
Il primo stabilimento de’ Gesuiti in Torino è frutto della pietà di Giovanni Antonio Albosco. Questo giovane studiava leggi nell’università di Mondovì, ove pigliò eziandio con grande onore la laurea, e conversando co’padri della Compagnia che da qualche tempo avevano casa in quella città, tanto si piacque della religiosa loro vita che gli nacque gran desiderio di introdurli a Torino.
Avea già cominciato l’Albosco ad esercitar l’ufficio dell’avvocato, quando nel 1564 si dispose di lasciar il mondo e rendersi Certosino. Nell’atto di sua rinunzia, che fu a’ 7 dicembre di quell’anno, lasciò alla Compagnia una casa che aveva comprata in Torino dal senatore Agostino della Chiesa con questa condizione che, se in termine di due anni la Compagnia non potesse stabilirvi un collegio d’otto religiosi, la detta casa tornasse a suo padre. Entrato poi nella Certosa di Pavia, e sempre caldo in quel desiderio, scrivea continue lettere ad Aleramo Beccuti principal cittadino Torinese, già vecchio e senza figliuoli, affinchè destinasse ad opera sì buona una parte delle sue sostanze. Da principio il Beccuti non badava punto a quelle sollecitazioni che gli parevano forse indiscrete. Ma un giorno finalmente rileggendo una lettera dell’Albosco, si sentì commosso; ed a Nicolino Bovio, suo amicissimo, die commissione d’informarsi de’ portamenti de’ Gesuiti. Capitò allora in Torino il padre Codret, savoiardo, che gli fu dal Bosio condotto; e le sue parole e le avute informazioni il sospinsero ad assegnare sulle sue possessioni di Lucento alla Compagnia scudi trecento d’oro annui, onde avesse abilità di stabilire un collegio nella città di Torino.
Ciò fu il 2 dicembre 1566. Addì 17 dello stesso mese giunse in Torino dal Mondovì il padre Giovanni Andrea Terzo con sette compagni, e pigliò a pigione dal prevosto di Rivalta una casa presso a San Benedetto, ottenendo ad un tempo facoltà d’ufficiar quella chiesa. Con questi principii e co’ soccorsi della Compagnia di S. Paolo fu fondato ed aperto sul finir del 1567 il primo collegio della Compagnia. In quella chiesetta il padre Acosta con un torrente d’eloquenza e di dottrina (sono parole d’una relazione contemporanea) spiegava due volte la settimana i salmi di David alla compagnia di S. Paolo, e tutte le feste orava al popolo con tal concorso, che fu necessario trasportare la predica da quelle angustie alla chiesa di San Dalmazzo. Ed essendo ornai troppo angusta la casa di San Benedetto ai tanti ministeri de’ padri, risolvettero d’occupar la casa Albosco, posta poco lontano tra la chiesa di Sta Croce (la Misericordia) e la cittadella, pagando del proprio agli eredi del Certosino quanto si richiedeva per averla libera.16
L’anno 1567, Emmanuele Filiberto volendo contribuire alla manutenzione del collegio, assegnò al medesimo un’annua provvigione di scudi 200. Nel 1572 Aleramo Beccuti, sempre più innamorato di que’ religiosi, volendo torli dalla casa Albosco, incomoda ed angusta e posta in un angolo della città, die loro in permuta la sua casa paterna presso la chiesa di Sto Stefano dove aveva già dato stanza al generale dell’ordine S. Francesco Borgia, che allora appunto si trovava in Torino. Del maggior valore fe’ dono alla Compagnia. Il 7 d’ottobre 1574 mancò di vita quest’insigne benefattore de’ Gesuiti, ultimo della nobilissima sua stirpe, e fu sepolto in San Francesco La Compagnia ne fu erede universale, ed ebbe per tal guisa il castello e le possessioni di Lucento; una casa alla Volta rossa ov’era l’osteria delle tre picche che levò poi da quel sito; il bosco del Meisino sulle rive del Po; le isole di questo nome nel fiume stesso la pescagione di esso fiume tra la foce di Dora e quella di Stura, e porzione del pedaggio di Torino. Il duca Emmanuele Filiberto avendo desiderato il castello di Lucento, del quale propriamente, come di cosa feudale, il Beccuti non avea potuto disporre, la Compagnia glielo dimise ricevendo altri beni in cambio.
I Gesuiti pigliarono possesso della casa paterna d’Aleramo Beccuti in febbraio del 1574; quattr’anni dopo ebbero, come abbiam detto, la chiesa di Sto Stefano e la casa del Seminario, e coll’andar del tempo acquistando le case Berta, Trotti, de’ Magistris e Losa, occuparono l’intero isolato. La chiesa presente occupa il sito della chiesa di Santo Stefano, parte del sito della casa Beccuti, e dal Sanata sanctorum in su il sito della casa Berta.17
Il collegio della Compagnia fu dapprima attiguo alla casa professa, poi presso l’università nella casa avanti San Rocco. Possedeva il collegio una bella biblioteca, fondamento della quale erano stali i libri recativi da Guglielmo Baldessano di Carmagnola, socio nel 1570 dei collegio teologico di questa università, ritiratosi a vivere presso que’ padri. Nel 1623 Luigi Albriccio, Gesuita, avendo predicato la quaresima in duomo con grande plauso, Carlo Emmanuele i glie ne volle contrassegnare il suo gradimento col dono di doppie 100 e di scudi 800 da impiegarsi in un censo sulla città per la biblioteca del collegio dei Ss. Martiri.
In esso collegio vivea a que’ tempi, e nel 1627 ne fu anche rettore, un uomo di gran mente e di molta dottrina, il padre Pietro Monod, savoiardo, teologo ed istoriografo della Real Casa, che la duchessa Cristina, tutrice di Carlo Emmanuele ii e reggente, adoperò in gravi maneggi di Stato; finchè nato nel Richelieu sospetto che fomentasse disegni ostili alla corona di Francia, quel superbo ministro ne chiedette minacciosamente non solo la destituzione, ma la prigionia. La duchessa seppe resistere; e quando carcerò il Monod a Monmegliano ed a Miolans dove poi morì, si fu per risentimento dell’inclinazione che dimostrava al principe cardinale Maurizio suo cognato, e della fuga da lui tentata: non per compiacere a Richelieu nelle cui mani ricusò sempre di consegnarlo.
Imperocché il sovrano che immola un proprio suddito alla prepotenza straniera, immola se stesso, ed una lieve canna gli sta meglio in man che lo scettro. Il bel palazzo dove si trova adesso la casa professa de’ padri della Compagnia di Gesù, fu rifabbricato nel 1771. Ivi si tengono la congregazione de’ mercanti e la congregazione de’ nobili ed impiegati; ed anticamente vi si teneva ancora la congregazione degli artisti, piuttosto degli artigiani, che fu trasferita al tempo della dominazione francese nella chiesa di San Francesco. Queste tre congregazioni poste nella casa de’ Gesuiti e rette da loro, rappresentavano a un dipresso tutti gli ordini della società.
La cappella de’ mercanti abbonda di buoni dipinti.
La vôlta che raffigura il paradiso è tutta dipinta a fresco da Stefano Maria Legnani, milanese, scolaro del Cignani e del Maratta ed egregio coloritore.
Le sei statue scolpite in legno e disposte all’intorno sono di Carlo Plura. La tavola dell’altare che rappresenta l’adorazione de’ Magi e le due laterali sono del P. Andrea Pozzi, piuttosto rare che buone, non accomodandosi volentieri quel padre al lento procedere della pittura ad olio, ed amando invece gli affreschi con iscorci e prospettive architettoniche, arte nella quale molto si segnalò, sebbene il suo gusto partecipasse assai de’ difetti di quel secolo tanto ammanierato. Gli otto gran quadri delle pareti laterali sono: il primo a sinistra di mano ignota; il terzo a destra del Pozzi; il quarto di Sebastiano Taricco da Cherasco, felice imitatore di Guido Reni; gli altri sono del Legnani.
Note
- ↑ [p. 162 modifica]Esibitione che fanno a S. A. i padri di S. Dalmatio per aver la lor chiesa libera (stampa molto rara, 1679).
- ↑ [p. 162 modifica]Non so in quali de’ tanti ristauri della chiesa, ma certo è che qui, come altrove, si rimossero varie iscrizioni. Condannando altamente la colpevole facilità con cui da taluni si manomettono tali monumenti, con palese disobbedienza al precetto de’ sacri canoni, con lesione dell’interesse delle famiglie, e sovente con danno della storia; restituisco in questo luogo un’iscrizione che esisteva in fondo alla chiesa, la quale avrebbe potuto allogarsi altrove, se la necessità, a cui non si resiste, ne comandava la traslazione:
CY GYST NOBLE HOMME TOVSSAINCT PREVOST
NATIF DE S. POVRCATN EN AVVERGNE
EN SON VIVANT CONSEILLER DV ROY
MESTRE DE SES COMPTES DE PIEDMONT ET SAVOYE
LE QVEL TREPASSA EN CETTE VILLE DE TVRIN
LE XVIII D’AOVST 1551
PRIEZ DIEV POVR SON AME.Raccolta d’iscrizioni patrie. Archivi di corte.
- ↑ [p. 162 modifica]Vedi Barelli, Memorie de’ padri Barnabiti; e Ungaretti, Biblioteca Barnabitica.— Debbo molte fra le notizie da me date alla gentilezza del padre D. Filippo Maria Riccardi, barnabita, cancelliere del collegio, erudito e diligente indagatore della storia dell’ordine.
- ↑ [p. 163 modifica]Nella raccolta ms. d’iscrizioni, conservata nell’Archivio di corte, è riferita come esistente in San Dalmazzo la seguente iscrizione:
LAVRAE NASIAE
VIRGINI ORNATISSIMAE
QVAE IN AMBIGVO RELIQVIT
VTRVM CORPORIS FORMA
ET VENVSTATE
AN MORIBVS ET VIRTVTIBVS AMABILIOR
LVDOVICVS NASIVS TAVRINENSIS
EMMANVELIS PHILIBERTI SAB. DVCIS SERENISSIMI
BIBLIOTHECARIVS
FILIAE AMANTISSIMAE HOC MONVMENTVM
P. C.
OBIIT FLORENTI AETATE ANNORVM XVIII
III IDVS MARTII MDLXXIV
RELICTO SVI DESIDERIO.La raccolta originale delle poesie fatte in morte di lei era possedula dal professore Giovanni Antonio Ranza, e da lui venne comunicata nel 1772 al chierico Saverio Nasi, che pare avesse intenzione di pubblicarla. Ma la cosa non ebbe effetto.
- ↑ [p. 163 modifica]
H. S. E.
IOANNES THOMAS TERRANEVS
LAVR. MEDICI F. PETRI FRANCISCI NEPOS
DOMO AVG. TAVRINOR.
SVBALPINAE HISTORIAE PARENS
QVI VIXIT ANN. LVII M. II DIES XXIV
DECESSIT IV KAL. QVINTIL. MDCCLXXI
JOSEPHVS VERNAZZA ALBENS. POMPEIANVS
AMICO ET MAGISTRO CARISSIMO P. - ↑ [p. 163 modifica]Memoria del secolo xvi, in fine, nell’Archivio parrocchiale di San Dalmazzo.
- ↑ [p. 164 modifica]
- ↑ [p. 164 modifica]Ecclesiam S. Benedicti, que est sita infra muros Taurini, juxta portam que Segusiana dicitur. Concessione del vescovo Carlo alla badia di Rlvalta. Archivi di corte.
- ↑ [p. 164 modifica]Istromenti autentici dell’Archivio parrocchiale di San Dalmazzo.
- ↑ [p. 164 modifica]Bolla pontificia di detto anno.— Registro de’ beni posseduti dal collegio della Compagnia di Gesù di Torino. Archivi del R. Economato.
- ↑ [p. 164 modifica]Bolle di Gregorio xiii del 1 d’agosto 1575, e’del 1 di maggio 1578. Archivi di corte.
- ↑ [p. 164 modifica]Questi dipinti vennero divulgati con stampe litografiche, ed illustrati dal signor avvocato Luigi Bocca.
- ↑ [p. 164 modifica]Sopra la tavola dov’è il monogramma di Cristo, emblema della Compagnia
di Gesù, leggesi la seguente iscrizione:
PAVLINAE
PIETATIS SOCIETATI
F. Z.
PIETATIS SVAE MONVM.
A. MDCVII. - ↑ [p. 164 modifica]Libro dei morti del Duomo.
- ↑ [p. 164 modifica]Libro de’ morti della parrocchia di San Gregorio.
- ↑ [p. 164 modifica]Archivi della parrocchia di San Dalmazzo.
- ↑ [p. 164 modifica]Indici e registri de’ beni posseduti dal collegio della Compagnia di Gesù in Torino. Archivi del R. Economato.