Storia di Torino (vol 1)/Libro V/Capo I
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Libro Quinto
Capo Primo
A questo fine noi piglieremo ad esaminare il reggimento comunale di Torino in ogni sua parte, e vedremo le persone che lo componevano, l’autorità e la qualità de’ loro uffici; la condizion de’ borghesi e de’ forestieri, le leggi che il comune bandiva; l’erario con cui sopperiva alle spese; la ragione che regolava le sue corrispondenze col principe.
Il comune componevasi dell’universalità de’ borghesi della città e del territorio. Ogni borghese dovea possedere una certa quantità di beni registrati e pagarne taglia al comune. Era questo possesso una malleveria della sua obbedienza e della sua fede. S’imponeva quell’obbligo ai forestieri che si riceveano in cittadini, fossero anche principi. Anzi ne’ tempi più antichi doveano comprar casa e beni. Nel secolo xiv si contentava il comune di obbligarli a farsi allibrare entro un certo termine pel valore di dieci lire.
La protezion delle leggi, l’ufficio de’ magistrati, i regolamenti delle arti, il pubblico insegnamento, le tasse dell’annona e dei salarii erano tutte indirizzate ad unico vantaggio de’ borghesi. Il forestiere, vale a dire il borghese di Chieri o di Rivoli, se dovea piatire non trovava a Torino un giurista che l’assistesse contra un Torinese, avea divieto di rendersi cessionario d’un credito contro di lui. Se comprava dovea pagare, non secondo la tassa, ma secondo il capriccio del venditore; se mandava un figlio a scuola, dovea accordarsi prima col maestro, e pagava assai più di quel che pagavano i figliuoli de’ Torinesi. Così era dappertutto. Ciascun comune era uno Stato che girava uno o due o al più cinque o sei miglia. Tutti quelli che non erano scritti borghesi e non facean taglia in quella terra erano stranieri, vale a dire incapaci della maggior parte de’ diritti civili.
Perciò quelli stranieri che per causa di traffico vi prendean dimora, erano solleciti di farsi concedere, almeno a tempo, i privilegi di cittadino, onde non essere in mezzo al civil consorzio a guisa di leprosi.
Il comune di Torino era rappresentato da tre consigli. Uno stretto, chiamato credenza o consiglio privato che spediva gli affari occorrenti alla giornata;
Un consiglio grande, composto di sessanta savi;
Infine il consiglio generale de’ capi di casa, chiamato conciane o parlamento, che si raunava sulla piazza avanti S. Gregorio (ora S. Rocco).
Il consiglio grande e il parlamento provvedeano agli affari di maggior riguardo.
I primi capi del comune furono, com’ è noto, i consoli, i quali eran tolti parte dalle famiglie nobili, chiamate d’albergo, parte dal popolo.
Nel 1200 fu surrogato definitivamente all’ufficio de’ consoli un podestà, che durava un anno in carica, e che era sempre forestiero e gentiluomo di nome e d’armi; egli pigliò nome di vicario, quando la città, perduta l’indipendenza, cominciò a render obbedienza al re Carlo i d’Angiò e poi ai principi di Savoia.
Il podestà conduceva seco un luogotenente, chiamato propriamente il cavaliere, incaricato del potere esecutivo, e come tale, capo d’alcuni sgherri, e dei decani od uscieri. Un giudice, e talora due; uno pel civile e l’altro pe’ malefizi; un notaio o segretario; un paggio e varii servitori. Tutti questi eran forestieri. Si rimutavano d’anno in anno. Nè il podestà o vicario potea partire finito l’ufficio, se non dopo d’aver mandato bando, che se alcuno avesse a richiamarsi di lui, o de’ suoi uffiziali o famigli, si presentasse ai sindacatori del comune; se richiamo v’era, i sindacatori assolveano il podestà o lo condannavano al ristoro del danno dato. Alcuna volta per altro, quando non v’era sospetto di futuri richiami, il comune gli permettea di partire senza aspettar il termine prescritto dagli statuti. Altra volta, per segno d’onore e di gratitudine a vicario che si fosse segnalato in beneficio della città, donava la propria bandiera, vale a dire l’aureo toro in campo d’azzurro.
Il podestà o vicario giurava, prima d’assumer l’ufficio, l’osservanza degli statuti e delle franchezze della città. Nè intera libertà avea nelle sue mani l’amministrazione della giustizia, ostandovi in prima gli statuti medesimi che faceano differenza tra borghesi e forestieri, e tra borghesi ed ecclesiastici, i quali ultimi per le loro immunità erano sospetti, e poco ben veduti dal comune, perchè non poteano partecipare a quella solidarietà di diritti e d’obblighi, che costituiva l’essenza del corpo comunale; ostandovi poi le provvisioni rigorose che la maggior credenza faceva alla giornata, ora contra gli ecclesiastici stessi che, non piegandosi qualche volta a pagar tasse per la difesa della patria, vi venivano obbligati col divieto fatto alla curia d’amministrar loro giustizia nelle cause in cui fossero attori; ora, quando soperchiava e invadeva gli uffici del comune una parte contro i principali della parte contraria, che per forza fatta alle leggi ed alla giustizia si bandivano e si condannavano a varie pene. Non parlo dell’ordine dato al giudice di procedere sommariamente e senza figura di giudicio in cause che concernevano gli interessi materiali del comune, nè d’altre provvisioni d’ugual natura che alteravano il solito andamento della giustizia.
Questi mali, più frequenti e più gravi finché durò l’indipendenza, non cessarono dopoché la città ubbidì ad un principe; perchè ivi non cessò per questo, anzi fu di poco diminuita l’ampiezza delle franchezze comunali, contentandosi il principe d’aver il diritto di scegliere un vicario fra i tre proposti; di goder parte de’ proventi del pubblico erario, e in ispecie le multe, e d’ottener tempo a tempo un sussidio di tanti fiorini per fuoco; infine d’essere dalle milizie del comune soccorso nelle sue guerre, per verità troppo frequenti.
Anzi allora un altro male s’aggiunse, che molte volte il vicario per obbedire al principe era costretto a fallire al proprio giuramento. Epperò talvolta, dopo d’aver giurato d’esercitar bene e fedelmente il suo ufficio, soggiungeva questa singolar eccezione: « salva sempre la volontà dell’illustre e magnifico uomo il signor Filippo di Savoia, signor di detta città. » Così Oberto di Scalenghe nel 1525.
Al giudice di Torino si diede nel secolo xv giurisdizione anche sulle giudicature di Moncalieri, Carignano, Vigone e Gassino.1
Abbiam già veduto come i principi d’Acaia aveano un consiglio residente a Pinerolo, che era ad un tempo consiglio di giustizia e consiglio di Stato. Negli anni in cui Amedeo vi fu tutore d’Amedeo principe d’Acaia, e ne resse lo Stato, e sia per questa cagione, sia per provvedere agli affari di Lombardia, fece spesso dimora al di qua dai monti, il suo consiglio risedette, ora a Pinerolo, ora a Rivoli, ora a Torino. Quando poi estinta la stirpe mascolina d’Acaia, il Piemonte fu riunito alla corona di Savoia, il consiglio di Pinerolo risedè a Torino, poi poco tempo a Moncalieri, finché, per diploma del 15 di marzo 1459,2 il duca Ludovico lo trasferì di nuovo a Torino, statuì che vi rimarrebbe in perpetuo, e volle che giudicasse con suprema autorità di prefetto pretorio. Questa corte di giustizia ebbe a’ tempi di Carlo il Buono il nome di Senato.
Francesco i, re di Francia, in febbraio del 1556, vi confermò la corte suprema di giustizia col nome e colle autorità di parlamento, od una camera dei conti. Emmanuele Filiberto, nel 1565, vi stabilì camera e senato.
Negli statuti del 1360 1360 1560 , essendosi inserito il divieto al rettore ed al giudice d’impedire che un cittadino vendesse o comprasse liberamente derrate entro la città a chi e da chi voleva; e di obbligare un cittadino o distrettuale a far prestanza di danaro, o di derrate al comune od a qualunque altra persona; od a rendersi cauzione: ed essendosi inoltre tolta ad essi vicario e giudice la facoltà di proibire ai notai di ricever atti richiesti da un cittadino, convien dire che questi abusi, tanto contrarii alla libertà delle contrattazioni, fossero dai credendari sovente ordinati, e dai vicari! e giudici, i quali giuravano di osservar-non solo gli statuti fatti, ma le riformagioni che fosse per fare il maggior consiglio, eseguite.
Riformagioni si chiamavano generalmente in Italia le provvisioni del gran consiglio che avean forza di legge. E notisi la sapienza della parola, che accusando l’imperfezione d’ogni ordine civile, mostra la necessità di continue modificazioni e correzioni che lo facciano progredir verso il meglio; mostra che le antiche costituzioni sono da emendare non da distrurre; mostra la follia di chi si pensasse di aver fatto in materia di leggi cosa immutabile e duratura, quando è fondamento dell’umanità, e condizione della futura, nè forse mai totale sua perfezione che, dai grandi principi! religiosi e morali in fuori, consecrati dall’Evangelio, il resto passi per varie successive, benché spesso insensibili trasformazioni, a cui conviene adattare gli ordini e le leggi.
Il podestà e il giudice solevano qualche volta eccedere ogni misura nel determinar la pena pecuniale da pagarsi da. chi non osserverebbe qualche loro precetto, sì in materia civile che criminale. Fu determinato che non potessero imporre maggior pena che quella di lire 40 per ciascuna persona e per ogni precetto non osservato. Ed era già ben grave.
Il giudice pronunziava nelle cause civili senza appello fino a soldi 100, esclusivamente. Se il valor della causa era maggiore s’appellava al vicario che dava altri giudici ó pronunciava egli stesso col loro voto fra 40 giorni. Nelle cause criminali il condannato a multa di 20 soldi o maggiore, avea facoltà di richiamarsene allo stesso giudice che era tenuto a dar cognitori che rivedesser la causa. Se la multa era di soldi 40 o più, si appellava al vicario, che deputava una curia non sospetta, cioè altri giudici che pronunziavano in termine di 40 giorni. Tutte le cause doveano ventilarsi e finirsi a Torino. Le seconde appellazioni, che in tempo dell’indipendenza andavano all’imperatore, definivansi sotto al dominio de’ principi di Savoia dalla loro curia, ma sempre al di qua da’ monti.
Capi della credenza maggiore, o sia del gran consiglio comunale, erano quattro chiavarii che si rimutavano di tre in tre mesi, e si sceglieano due di famiglie d’albergo e due del popolo. Chiamavansi sicuramente chiavarii dal custodir che faceano le chiavi delle arche del comune, riposte nella casa dei frati minori, sebbene nel secolo xiv le chiavi di tale archivio fossero in man del guardiano d’essi frali o del massaio. In esse anche serravansi i titoli più preziosi del comune, ed il libro rosso nel quale erano stati per giudiciale autorità trascritti. Nel refettorio de’ frati minori adunavansi ancora varie deputazioni di credendarii, o savi incaricali d’affari speciali, come i savi della guardia (custodie) ed i savi aventi balia sul registro. Talora conveniano eziandio in S. Gregorio. Gli uffici del comune pare che in tempi antichi, e qualche volta ancora nel secolo xiv, fossero tratti a sorte; ma d’ordinario i chiavarii eleggeansi dal vicario e dal giudice. Ogni tre mesi poi s’eleggeano dai chiavarii due sindaci, il che volea dire procuratori del comune incaricali di sostenerne gli interessi e di dettar le scritture occorrenti.
I chiavarii eleggeano otto ragionieri a ricevere i conti del massaio o tesoriere del comune, che si rendeano di tre in tre mesi. In questi ragionieri, presieduti da’ sindaci, ricadde più tardi la maggior parte dell’ordinaria amministrazion del comune. Eleggevano ancora i chiavarii, con partecipazione del vicario e del giudice, ventiquattro buoni uomini, sei per quartiere, che procedessero annualmente alla deputazione de’ campari e delle guardie forestali, incaricate della custodia de’ beni forensi. Infine eleggeano i chiavarii ed il giudice quattro estimatori3 e due ispettori, ed aggiustatori delle misure.
Ai chiavarii si dava ancora sovente la facoltà di nominare i quattro consiglieri di Grugliasco e quella ancor più preziosa di provvedere ai posti vacanti nel gran consiglio; le scelte doveano farsi di preferenza tra i figliuoli e i discendenti de’ defunti, o in loro mancanza tra i più prossimi loro congiunti.
Qualche rara volta nel concedersi ad un illustre forestiero la cittadinanza, gli si aggiungevano gli onori del decurionato. E per questa via li ottenne il 10 d’agosto del 1490 il nobiluomo Ibleto Avogadro di Colobiano.
Più frequentemente si dispensavano per alcun tempo dalla custodia diurna e notturna. Per otto anni ne fu francato, in febbraio del 1377, Ugoneto de’ Visconti di Balangero. Alcuna volta s’imponeva al novello cittadino l’obbligo di qualche rilevalo dono. Nel 1488, in ottobre, il nobile Pietrine Villa di Chieri offerì, secondo la promessa, al comune di Torino una spingarda di bronzo divisala colle sue armi gentilizie.
Infine alcuna volta lo straniero che domandava d’essere ammesso fra’ cittadini di Torino, proferiva di far omaggio al comune d’alcun suo luogo che possedesse in allodio e di tenerlo dal medesimo in feudo; e così fece in luglio del 1339 Bartolomeo Vagnone, che rendette omaggio pel luogo di Drosio, posto in mezzo ad una foresta di roveri, vicino al Sangone.4 Ma nel 1374 Amedeo vi, volendo crescere la popolazione di Torino, francò da ogni esercito e cavalcata, da ogni taglia a ciò relativa, e dal gaitagio (guardia notturna) quelli che di nuovo venissero ad abitarvi. Le sue lettere hanno la data del 3 di ottobre.
Un altro ufficio, e de’ più importanti del comune, era quello di massaio o tesoriere; ufficio sempre geloso, ma più a quei tempi ne’ quali la moneta era scarsa, ed in cui più violento era P appetito delle ricchezze. Perciò si commise non di rado alla fede di un monaco. Nel 1327 fu massaio fra Giorgio di Biella, monaco di Staffarda. Otto anni dopo, Pietro, preposto degli Umiliati. Nel 1342, Boleto, rettore di S. Silvestro. Il massaio facea tutte le spese necessarie per servizio del comune, ne riscotea le rendite, facea ridurre alle mani del comune i beni dei debitori che non pagavano, e obbligava i vicini più fa coltosi a comprarli, facea procedere a compra di grano e sperimento della panificazione, onde veder quanto costava, e determinar su quella base la tassa del pane.
Contro ai debitori che indugiavano il pagamento il consiglio deputava commissari alle esecuzioni alcuni savi che si chiamavano raspi.
Infine il comune aveva al suo servigio quattro notai o segretari; due eleggevali il comune, due il vicario. Addì 14 di luglio del 1452 si fe’ nel consiglio una importante mutazione. L’autorità principale, che prima era ne’ chiavarii, si ridusse nella persona dei sindaci, ai quali venne commesso in perpetuo il peso del governo della repubblica della città di Torino, e la piena e libera amministrazione degli affari della stessa città.
Il modo di deliberare fu vario ne’ diversi tempi. Ora praticandosi di votare per fave, o per tavolette bianche e nere, ora per seduto e levalo. Nel 1360 si stabilì o si confermò, che le deliberazioni si vin cessero nella prima delle narrate maniere; fuorché quelle che risguardassero nomine di sindaci o d’ambasciadori, od interessi dei principe, ne’ quali casi si votasse per levarsi e sedersi. E con forti sanzioni si volle invariabile questo capitolo, evidentemente imposto dal principe, che desiderava conoscere i suoi parziali ed i suoi aversarii.
Si stabilì ancora che a niuno, fuor del vicario e del giudice, fosse lecito di metter partito; e che non si mettesse se non su quelle cose per cui si fosse dai consiglieri aringato.
Secondo un’antica usanza, alla fine d’ogni reggi mento il comune deputava quattro savi che esami nassero e riferissero, con giuramento al principe le ingiustizie commesse da’ suoi rettori ed ufficiali.5
Nel 1359 entrò a parte del governo comunale un novello potere, la società del popolo, chiamata poi anche società di S. Giovanni Battista.
Fin dal novembre 1335 Caterina di Vienna ed il principe suo figliuolo aveano scelto tra i borghesi 400 uomini che fosser tenuti a correr armati alla bandiera al menomo cenno del vicario o del giudice.6 Era un cominciamento della società del popolo, che poi venne meglio organizzata quattr’anni dopo dal principe per desiderio d’avere una forza cittadina a sè devota. I quattro rettori di questa società pigliavano il primo luogo in consiglio dopo la curia; e con tal precedenza venivano al comune indirizzatele lettere del principe.7 La società del popolo aveva un grande ed un piccolo consiglio come il comune; ed affine d’acquistar maggior forza per maggior concentrazione d’imperio, ebbe d’ordinario un capitano, che doveva esser forestiero e nobile. Anzi fin dai 1339 trovo memoria d’un capitano generale di tutte le società del popolo. Capitano del popolo di Torino era nel 1353 Antonio di Buronzo vercellese, e mentre se ne aspettava l’arrivo, ne facea le veci Antonio di Romagnano.8 È noto che in tulli i comuni, quando la parte popolare ebbe il sopravvento, non mancò mai tra i grandi chi corresse a farvisi aggregare, volgendosi dove spirava l’aura del potere.
Quando sul finir del secolo xiv, e molto più nel xv, cominciarono a radunarsi insieme con qualche frequenza i deputati, o come allora si dicevano ambasciadori de’ nobili e de’ comuni; quando poco dopo a compiere la rappresentazione nazionale s’aggiunsero i deputati del clero, scemò notevolmente l’importanza e la considerazione delle società popolari che insensibilmente scomparvero.
L’usanza di radunare assemblee generali di deputati dei comuni e dei nobili non era frequente nel secolo xiii, ma pur ne troviamo qualche esempio; ed uno notissimo, e da noi già accennato, si è il parlamento de’ castellani, dei nobili e degli ambasciadori dei comuni del Piemonte, convocato addì 24 di maggio del 1286 ne’ prati di Giaveno presso al Sangone per udir lettura di due lettere, una di Ludovico Sire di Vaud, che narrava d’aver ceduto ogni sua ragione sul Piemonte ad Amedeo v, suo fratello, l’altra di Guja di Borgogna, madre e tulrice dei figliuoli di Tommaso iii, che significava al popolo piemontese d’aver ceduto a tempo l’amministrazione di questo Stato al medesimo principe.
Ma l’assemblea era convocata per ascoltare precetti, per conoscere a chi dovesse obbedienza, non per consultare, nè per operare.
All’incontro nel secolo seguente, i principi d’Acaia cominciarono a chiamare in generale adunanza i deputati dei comuni onde aiutarsi del loro consiglio in provvisioni d’interesse generale; come sarebbero quelle intese a reprimere il lusso, e quelle concernenti l’annona, vale a dire il serramento e il prezzo de’ grani, ed anche alcuna rara volta la difesa comune.
Un’assemblea in cui furon proposte e sancite leggi suntuarie, si tenne a Pinerolo nel 1328; ma, come tutte le leggi di egual natura, le quali debbono eseguirsi contra un sesso così gentile e così sottile in trovar amabili inganni, produssero poco frutto.
La vera causa che indusse l’uso delle generali radunanze degli Stati, fu la domanda di que’ straordinarii donativi chiamati sussidii; la quale, sebbene non si trovi esempio di rifiuto, pure avea sembianza di concessione libera e non di obbligo. Onde sapersi regolare sulla quantità, i comuni andavano indagando che cosa avessero conceduto altri comuni coi quali parea loro di potersi misurare. Torino s’informava delle intenzioni di Chieri e di Pinerolo.9 I principi di Savoia, affinchè le deliberazioni fossero più corte, desiderarono che deputati dei comuni, forniti di pieni poteri, si radunassero alla loro presenza, e risolvessero su tali domande, li maggior consiglio del comune che non volea delegare la sua podestà a due o quattro persone, mandava deputati coll’incarico di udire e riferire. E però una volta Amedeo vi protestò, che, se agli ambasciadori non si concedeva piena facoltà di risolvere sulle domande che farebbe, ei nulla direbbe loro.10
Le assemblee generali per concession dei sussidii non si componean dapprima che dei deputati dei comuni e dei nobili.
Cominciò Amedeo viii a radunar i prelati per consultarsi con loro quando vide sorger contrasti fra il concilio di Basilea e papa Eugenio iv. Per la medesima causa chiamò (credo) per la prima volta in generale assemblea i tre stati; a Evian il 20 novembre 1436; e di nuovo l’anno seguente a Thonon, nella qual occasione scrisse alla città di Torino di questo tenore:
« Il duca di Savoia ai nostri ben amati e fedeli, i sindaci e consiglieri della nostra città di Torino, noi vi salutiamo. Per alcune cose che toccano gran demente la nostra fede, noi abbiam divisato di convocar insieme i tre stati del nostro paese, senza i quali non vogliamo in alcuna guisa deliberare (sans les quels nous ne voulons aucunement déliberer). Perciò vi mandiamo e preghiamo che il xx giorno del mese prossimo di gennaio deputiate qui appo noi quattro dei più notabili della detta città di Torino. E guardatevi di non mancare per quanto amale là nostra santa fede, e desiderate a noi compiacere. A Dio siate. Scritto a Ripaglia il xxii di novembre mccccxxxvii. »
Radunaronsi un’altra volta gli siati nel 1439, quando Amedeo viii fu eletto papa. Trattavasi allora di trovar danari per le grandi spese che occorrevano. Sul finir di ottobre radunaronsi a Thonon, e di nuovo a Ginevra dal sette all’undici di dicembre. E furono liberali come conveniva alla magnifica rarità del caso ed alla grandezza dei bisogni.
Continuò per tutto quel secolo l’uso di radunar gli stati per chieder sussidii o per gravi affari di Stato.11 E siccome, mancata la sapienza di Amedeo viii, il duca suo figliuolo, dato ai sollazzi piucchè agli affari, non vedeva che per gli occhi d’Anna di Cipro sua moglie, che quindi nascean civili discordie, e chi avea più forza l’usava in luogo di ragione, i deboli erano oppressi, il danaro mancava, vendevansi od impegnavansi gli ufficii: siccome la sanità di Amedeo il non permise a questo eletto principe di riparare nel breve suo regno tanti disastri; e che venute poi le minorità e le reggenze, impacciatosi Ludovico xi nel governo della monarchia di Savoia, sollevatasi l’ambizione dei principi collaterali, la cosa pubblica pericolava, pigliarono allora gli stati, per volontà dei sovrani che aveano bisogno di un appoggio alla vacillante loro autorità, maggior ingerenza nel maneggio dei pubblici negozii e nell’indirizzo del governo. Nondimeno gli avvisi e doglianze, e le richieste degli stati erano sempre rassegnati in forma di umile preghiera; e sebbene non si chiedesse in generale che riforma di abusi, le risposte non erano mai nè tutte, nè interamente conformi alle domande.
Nel 1490 chiedettero gli stati, a titolo di grazia e di benefizio, che la duchessa Bianca permettesse loro di deputare sei persone, due ecclesiastiche, due nobili, due cittadine, metà oltramontane, metà cismontane, per sedere nel consiglio del principe, e suggerire quelle provvisioni che potesse richiedere il comun bene. Pregavano con grande istanza gli stati che la duchessa lasciasse loro la nomina d’essi nuovi consiglieri, perchè, diceano essi, noi abbiamo maggior conoscenza della capacità di ciascuno. La duchessa consentì la grazia, ma riservò a se stessa la nomina.
Molte volte si adunarono i tre stati nella città di Torino. E fra le altre il 10 febbraio 1479, d’ordine di Ludovico xi, affine d’avvisar all’elezione da farsi pel governo di tutta la patria di Savoia.12
Parecchie altre volte si radunarono i tre stati in Torino, massimamente dopoché Carlo i e la duchessa Bianca vi fecero residenza; la qual residenza vi fu continuata da Filiberto ii e Carlo iii. Durante l’occupazione francese si radunarono ancora varie volte; ed in una di tali assemblee, lasciando i deputati l’idioma latino o francese di cui s’eran valsi fino allora per offerire il sussidio, accompagnandolo coi soliti avvisi, doglianze e domande, cominciarono a servirsi della lingua italiana, come si conviene a città eminentemente italiana.
Venuto poi Emmanuele Filiberto, e trovando i popoli divisi dalle fazioni spagnuola e francese, contaminati in varii luoghi dall’eresia, giudicò miglior partito d’usar termini di governo più stretti, si astenne dal convocar generali adunanze di stati, e coll’intiera riforma degli ordini politici e sociali, restituì alla monarchia feudale, una monarchia assoluta, di titolo piucchè d’essenza.
- ↑ [p. 348 modifica]Lettere dì nomina dei giudice Mercurino de’ Ranzo. Lib. consil. 1436.
- ↑ [p. 348 modifica]Malacarne, Delle opere dei Medici e dei Cerusici che fiorirono negli Stati del Re di Sardegna, i, 114. — Vallauri, Storia della università del Piemonte, i, 94.
- ↑ [p. 348 modifica]Tassavano i salarii di quelli che aveano incarichi temporanei dal comune.
- ↑ [p. 348 modifica]Lib. consil.
- ↑ [p. 348 modifica]Lib. consil. 1333.
- ↑ [p. 348 modifica]Lib. consil.
- ↑ [p. 348 modifica]Vicario judici rectoribus societatis populi consiliariis et sapientibus est.
- ↑ [p. 348 modifica]Nel 1394 i chiavarli giuravano predictum eorum officium facere legaliter et observare capitala franchixias et libertates civitatis Taurini et eciam capitala Societatis S. Johannis Baptistae. Nel 1399 l’ 8 di giugno il principe Amedeo d’Acaia, onde compiacere la detta Società, ne riformò i due consigli, surrogando nuovi savi ai defunti ed agli inetti. li 30 di giugno 1418 gli uomini di Grugliasco si fecero contribuire ne’ carichi della Società di S. Giovanni Battista. Il 14 febbraio 1419 il comune deliberò che se il duca di Savoia (Amedeo viii) confermava la Società di S. Giovanni Battista co’ suoi statuti, gli si concederebbe l’annuo sussidio di cento fiorini. Di questi statuti, che sarebbero pur tanto curiosi, perchè l’origine della Società di S. Giovanni Battista di Torino è molto diversa da quella di S. Giorgio di Chieri, non rimane sventuratamente nissuna traccia. [p. 349 modifica]Anzi quelle che abbiam riferite sono le ultime notizie da noi trovale della Società del popolo a Torino.
- ↑ [p. 349 modifica]Una lettera d’Amedeo principe d’Acaia donne a Pinerol le mardi xxviii jour de mars (1396) indirizzata a nostre bien ame vicaire de Turin è del seguente tenore: Nous te saluons et quar au bon plaisir de Dieu nous serons demain matin a Turin nous te mandons que tu fay que ceulx de la ville desliberent en leur conseil et ordinent deux ou plusieurs qui haient toute puissance de noue povoyr outroyer subside et fogage de nos soudare et guerre comme les autres de nos villes et pais hont fait et feront a raison de troys gros pour feu. Et sachez que ceulx de cotte ville noue hont outroyé. Adieu soiez. — Lib. consil. civ. Taur.
- ↑ [p. 349 modifica]Quin aliter dictie mittendis nihil de nostra intencione diceremus eisdem. Lett. data da Pinerolo il 22 d’aprile 1369.
- ↑ [p. 349 modifica]Il mandato del comune a’ suoi deputati conteneva plenariam potestatem totius credencie nomine et vice totius comunitatis ad comparendum et sistendum in tribus statibus convocatis et congregatis cum dictis aliis ambasciatoribus patrie et concludendum in agendis propostisque et proponendis per ipsam totam patriam secundum quod comuni opinioni videbitur et placuerit cum plena libera et generali potestate prout et quemadmodum dictis ambassiatoribus patrie videbitur; non recedendo a comuni opinione ipsius patriae etc. Atto consolare del 5 dicembre 1467. Allora furono eletti i nobili Filippino Beccuti e Tommaso di Gorzano. La credenza ammonì ancora tutti quelli ebe avessero cagion di richiamo tam contro armigeros quam contra administratores justitie, a presentare i loro memoriali ai savi a ciò deputati, i quali ne esaminerebbero il fondamento ut ipsi nobiles Philippinus et Thomas caueam et materiam habeant instare quod removeantur et repellantur et ut bonus modus et debitus ordo adhibeatur et imponatur et ne populi ulterioribus oppressionibus graventur. L’anno seguente, addi 8 d’ottobre, si tennero i tre stati a Torino nel palagio del vescovo, e furono presieduti dal maresciallo di Savoia e dai signori del consiglio. Tota patria principatus et terre veteris. Terra vecchia chiamavasi la val di Susa con Rivoli colle valli di Lanzo, ed in breve con tutto il paese al di qua da’ monti che non avea ubbidito ai principi d’Acaia. Si radunarono di nuovo in marzo del 1469; anzi più d’una volta in detti anni 1468, 1469 per la guerra del Duca di Milano; poiché in un ordinato del 28 maggio 1469 si rammentano le querele pel mancamento di grano e di fieno fatte dai tre stati: qui sepissime celebrantur in hoc civitate, Continuarono a congregarsi in questa città, già fin d’allora capitale del paese cismontano, nell’anno 1470. In una adunanza tenuta sul finir d’agosto si [p. 350 modifica]
- ↑ [p. 350 modifica]Ut se reperire deberent Thaurini decima februarii quid ibidem tenentur tres status totius dicionis Sabaudie de mandato regio pro electione fienda super gubemio totius patriae Sabaudiae et super pluribus aliis. Conto del tesor. generale.