Storia di Torino (vol 1)/Libro V/Capo II
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Capo Secondo
Fin dai primi tempi dell’indipendenza, e così dal secolo xii, doveva la città di Torino aver cominciato a promulgarne; ma la riforma, o per dir così, l’edizione che ne rimane, non è più antica del 1360, sebbene s’abbia frequente memoria di statuti anteriori. Le modificazioni introdotte dagli statuti nel dritto romano tendeano principalmente ad assicurare il favore dell’agnazione nelle successioni intestate. In tali successioni, quando non v’erano discendenti, l’agnato prossimiore escludeva ogni altra persona se si trattava di case: la figlia dotata e maritata dal padre, nulla potea chiedere dopo la morte di lui nè a’ fratelli, nè ai figliuoli de’ fratelli per la successione paterna e materna. La metà della dote della moglie, premorta senza prole dall’ultimo matrimonio, rimaneva in piena proprietà del marito ancorché la moglie avesse figliuoli d’un altro letto.
Il favore dell’agnazione era nell’indole del comune. Il comune era un risultamento di più associazioni riunite in una sola. L’associazione era l’elemento da cui avea avuto vita, l’elemento di cui campava, l’elemento ancora che lo turbava. La prima e più naturale e meno faziosa associazione era quella della famiglia a’ tempi in cui ogni cittadino era soldato, in cui niuno viveva ozioso, ma tutti, con diversi uffizi, o magisteri, od arti, s’industriavano per procacciarsi onore ed averi: le famiglie le più numerose erano pertanto le più potenti. Tendeano esse a crescere e ad arricchire, e concentrar ne’ maschi della stessa agnazione ogni maniera di forze. Le fanciulle non facendo parte della famiglia, altro non si cercava se non che fossero maritate conveniente mente o monacate.
Inoltre lo statuto mirava ad impedire che i beni del territorio cadessero nelle mani di corpi o di persone che difficoltassero di pagarne taglia al comune, perchè allora l’aggravio dello scemato registro ricadrebbe sugli altri cittadini. Tali erano i religiosi ed i forestieri. Rispettando l’immunità ecclesiastica ne’ beni che costituivano la dote delle chiese e de’ monasteri, non voleano che questa dote immune s’ampliasse. Perciò statuivano che, se alcun cittadino legasse o donasse a qualche chiesa o luogo religioso alcuno stabile, la chiesa od il luogo religioso dovessero rivenderla ad un cittadino laico in termine di un anno, e se la chiesa o il luogo religioso noi facesse, lo stabile fosse devoluto al conte di Savoia. Così lo statuto. Ma ne’ tempi dell’indipendenza doveva essere devoluto al comune, anzi allora, e se ne ha esempio del 1220, quando il comune alienava alcuna possessione, facea solenne divieto al compratore d’alienarla o d’obbligarla a chiesa, spedale o luogo religioso, come pure ad uomo d’altra giurisdizione.
Quest’ultima espressione risguardava appunto gli stranieri, ai quali lo statuto vietava di vendere, impegnare o dar in enfiteusi beni situati nel territorio di Torino, a pena ch’essi beni s’intendessero di pien dritto devoluti al comune, e fossero venduti in termine d’un mese dal massaio a prò e per conto del medesimo.
Ancora prescriveasi che niuno, che si fosse dedicato a qualche religione o spedale facendogli donazione de’ beni che possedeva, fosse franco dalle imposte, e dalle altre gravezze cittadinesche, fuorché vi risedesse e portasse l’abito religioso; ed anche in tal caso la religione non acquistasse se non i beni che possedeva al momento in cui fece la donazione e pigliò l’abito, non quelli che posteriormente per qualsivoglia modo gli sarebbero pervenuti.
Del rimanente i cherici ed i religiosi erano tenuti di pagar la taglia per tutti i beni posseduti che non fossero veri beni di chiesa.
Soprattutto eran tenuti di concorrere in tutto ciò che riguardava la difension della patria, e così alle fortificazioni ed alla guardia della città. Nel 1257 per finir la guerra che ardeva tra Chieri e Torino, quest’ultimo comune aveva imposto sessanta soldi imperiali alla badia di Rivalta pe’ beni annessi alla chiesa di S. Secondo tra la Dora e la Stura. Que’ canonici ricusarono il pagamento; onde Guglielmo Favet podestà, avutane facoltà dal maggior consiglio, obbligò Ardizzone Silo a comprar tanti beni di S. Secondo fino alla stima di sessantatrè soldi, con riserva del riscatto per un anno a favor della badia di Rivalta. I tre soldi erano aggiunti per mercede della stipulazione di quell’istromento di compra forzata.1
Molle volte nelle frequenti riforme del registro v’ebbero gravi contrasti fra il comune e il clero; talvolta quest’ultimo ricorse al grave rimedio delle censure; e i savi del consiglio gittarono alte querele super iniquitate, superbia et immoderata avaricia cleri.2 Se con ragione, l’ignoro. Lagrimevoli erano al certo queste dissensioni, che sceveravano in certo modo gli ecclesiastici dal novero de’ cittadini.
Il podestà nuovo, entro al primo mese dacché avea tolto l’ufficio, dovea chiedere al vescovo ed ai canonici se essi erano pronti a pagar le multe stabilite ne’ bandi campestri pe’ danni dati dalle loro bestie, e farle pagare agli altri sacerdoti, religiosi e cherici. Se negavano di volerlo fare, niuna multa si riscotea dai borghesi pe’ danni che i loro animali avesser dato alle possessioni del clero.
Ancora un esempio del modo con cui si procedeva rispetto ai religiosi. Nel 1146 due pii cittadini torinesi, Pier Podisio e Taurino Rista, arcano, fondalo uno spedale po’ pellegrini, al varco della Stura, dotandolo di beni sufficienti, e l’avean dato ai monaci vallombrosani coll’incarico di mantener una nave pel passaggio gratuito de viandanti. Nel 1220, un altro torinese de’ più qualificali, Ardizzone Borgesio, v’avea costruito un ponte ed una chiesa, dismettendo ogni cosa all’abate di Stura coll’obbligo di mantener il ponte e la barca. Nel secolo xiv tale obbligo era diviso fra gli abati di Stura e di san Solutore minore, ma pare che non si curassero gran fatto d’adempirlo. Nei 1378 il comune, dopo d’averli inutilmente avvertili, ordinò che i beni destinati a mantener il ponte e la barca si riducessero a sue mani, e l’anno seguente comandò che la curia procedesse sommariamente, e senza figura di giudicio, in tutte le quistioni che insorgessero per la riduzione d’essi beni a mani del comune. Dirò per ultimo che quando i canonici del duomo aveano affari da trattar col principe, dovean chiedere al comune che gli piacesse di nominare per questo fine due o piò deputati o, come allora si chiamavano, ambasciadori.3
L’intenzione degli statuti torinesi, comedi quelli in generale di tutti gli altri comuni, era che quegli solo si riputasse vero borghese, che pagasse le taglie e le altre imposte, e soddisfacesse ai carichi reali e personali, massime alla guardia della città. Chi non soddisfaceva a quest’obbligo niun voto avea in consiglio, nè poteva far mettere in deliberazione cosa alcuna; nè i forestieri ammessi alla cittadinanza godeano con effetto i privilegi di cittadino, se non abitavano in città, tenendovi fuoco e catena e soddisfacendo tutti gli obblighi degli altri borghesi. E qui torna in acconcio il dire quali fossero i privilegi tanto invidiati de’ borghesi.
In prima i borghesi d’un comune eran liberi, possedeano i loro beni in allodio, erano riputati capaci di feudi nobili sol che non esercitassero arti meccaniche, aveano ampia, e senza limiti, la facoltà di testare, e gli altri dritti civili.
Poi erano capaci degli uffizii del comune: e come elettori, o come eletti, o come capi di casa partecipavano in qualche modo al governo ed alla sanzion delle leggi.
Il comune era una gran compagnia, in cui v’era piena solidarietà fra tutti i soci. Un Torinese a cui per infortunio ardesse la casa veniva ristorato dal comune. Un cittadino a cui fosse recisa una vigna, guastato un campo, ucciso uno de’ suoi porci vaganti per la città, riceveva, se non si scopriva il colpevole, ammenda dal comune. Se un Torinese, viaggiando anche in lontane regioni, era offeso, danneggialo, carceralo da qualche principe, barone o comune, la città di Torino spediva ambasciatori a chieder ragione e riparazione dell’offesa e del danno; ed essendo negala o indugiata, concedeva facoltà al cittadino di vendicarsi e di ristorarsi di sua mano, imprigionando l’offensore o la sua famiglia, od i sudditi ed i concittadini del medesimo, e pigliandone l’avere. Il che si chiamava dar lettere di rappresaglia. Ancora quando qualche comune cresceva la gabella a pregiudicio de’ mercatanti di Torino, il consiglio dava lettere di rappresaglia, e trattava i mercatanti di quella terra com’erano nella medesima trattati i suoi cittadini. Perciò in ottobre del 1388, avendo que’ di Rivoli stabilito nuove gabelle, il comune di Torino ordinò l’arresto delle persone e delle merci de’ Rivolesi, fino al ragguaglio delle somme riscosse pel nuovo dazio, ovvero finché sene facesse ammenda e revoca; e intanto vietò il far mercato di qualunque specie con que’ di Rivoli, infliggendo loro per tal modo una specie d’interdetto commerciale.
Per quest’obbligo appunto che correva al comune di ristorar ogni danno dato ad un suo borghese, cercava esso d’impedire che si esponessero senza riguardo ai pericoli. Perciò nel 1326, essendo gran guerra tra il conte di Savoia e il Delfino bandì che i Torinesi che avessero bestie al pascolo ne’ monti verso il Delfinato le ritirassero in termini di quindici giorni; in difetto il comune non darebbe aiuto per farle restituire se venisser tolte. — Ancora, siccome i porci vaganti per la città senza custode venivano spesse volte uccisi, e toccava al comune ristorarne il padrone, si vietava siffatto abuso: e faceansi provvisioni atte a scemarla frequenza degli incendii, perchè al comune s’apparteneva di tener indenne il proprietario.
In favore de’ borghesi l’annona era tassata; era tassata la mano d’opera; il prezzo de’ drappi e delle tele e di quasi tutte le cose venali; la mercede da pagarsi ai maestri. La loro persona avea nello statuto una stima più alla che quella degli stranieri, poiché più grave pena infliggevasi a chi uccidesse o ferisse o svillaneggiasse un cittadino, che a chi uccidesse, o ferisse, o svillaneggiasse uno straniero. Ogni cittadino poteva di propria autorità far sesimento o porre sequestro in qualunque casa di Torino sulle cose proprie, che gli fossero state rubate, o sulle cose del suo debitore, e del fideiussore. E il padrone della casa era tenuto a rendersene guardiano e mallevadore fintantoché il giudice avesse pronunziato. Si procurava che ai borghesi mai non mancasse mercato di vettovaglie. Primachè i borghesi avesser comprato, niun rivenditore potea comprare. Finchè fosse venduto il vino nato nel territorio Torinese non si allargava, come allora si spiegavano, il vino forense, vale a dire, non si permetteva l’introduzione del vino nato in altri territori. E questo stesso vino, quando s’introduceva dai borghesi per uso proprio, era colpito dalla sola metà della tassa, imposta a chi lo introduceva per rivenderlo. Infine il comune raccomandava vivamente al papa i suoi cittadini, perchè i benefizi vacanti nella città e nel territorio venissero loro esclusivamente conceduti. Così per esempio nel 1388 molto operò perchè si nominasse alla badia di Stura Ardizzone Beccuti.
Il considerar che si facea lo straniero, come fuor del dritto comune, era causa che quando giungevano forestieri di gran riguardo, come principi, cardinali, legati, i savi lassavano il prezzo de’ viveri, e la pigione delle case. Così fecesi similmente a prò degli studenti, quando, ne’ primi anni del secolo xv, fu da Ludovico principe d’Acaia fondata l’università.
La solidarietà di tutti i comborghesi d’una terra se aveva la sua grande utilità nel preservarli, per quanto sì stendesser le forze del comune, da ogni danno, aveva per altro grandissimi inconvenienti. Imperocché sovente accadeva che un Torinese andando fuori, fosse arrestato o per debiti d’un suo concittadino, o per debiti del comune, o per debiti del conte di Savoia, e del principe d’Acaia. Di modo che consideravasi come obbligato, non solo per qualunque de’ suoi comborghesi, ma anche pel signore; il che era in verità un abuso, essendo il sovrano affatto straniero al principio d’associazion comunale. Ma allora era diritto internazionale il sistema delle rappresaglie. E quando, ad esempio, un borghese di Chieri aveva un credito verso un borghese di Torino, siccome sapeva che in questa città la sua condizione di forestiere non gli permettea di sperare nè aiuto di consiglio legale, nè pronta giustizia, e che, in vigor dello statuto non potea far cessione del suo credito; ricorreva ai savi ed al consiglio della sua terra. Il consiglio scriveva al vicario ed ai savi di Torino, per farlo pagare; e se in certo termine non si effettuava il pagamento, concedeva al creditore lettere di rappresaglia, con certe condizioni che limitavano alquanto il violento arbitrio privalo, e per virtù di quelle il Cheriese pigliava di viva forza la persona e l’avere del primo Torinese che gli capitasse innanzi, e si pagava di sua mano, od otteneva in altro modo pagamento, o sicurtà di pagamento. Per questo medesimo principio di solidarietà il comune era mallevadore, in proprio, dei furti che si commettevano, e di cui non si scopriva l’autore. E perciò in aprile del 1329 rendette due fiorini d’oro, che erano stati tolti a certi romei o pellegrini.
In materia criminale gli statuti moderavano notevolmente l’asprezza del dritto romano. A’tempi dell’impero romano, quando si sancirono le principali regole in tal materia, avvilita era singolarmente la dignità dell’uomo; e molti di que’ Cesari crudeli e balordi ne faceano per ogni lieve cagione strazio e macello.
Ai barbari che occuparono l’imperio parve di far maggior caso dell’uomo libero. Alle pene corporali contrapposero una spezie di tariffa, per cui potessero i colpevoli per moneta ricomperarsi. Tanto per non perder la mano, tanto per il piè, per l’orecchio, pel naso, per l’occhio. Alcuna volta v’ebbe perfin tassata una somma a cui si estimava il capo. Gli statuti de’ comuni seguitarono questo costume che favoriva i soli ricchi, ma che serviva eziandio di stimolo a darsi all’assiduo lavoro, padre della ricchezza. Pei reati per altro più gravi non isfuggivasi la pena meritala. Il colpevole d’una grassazione, il che si chiamava con frase pittoresca e commerciale, romper la strada, potea schivar la morte pagando cento lire. Ma il recidivo perdea la vita sol che la cosa derubata eccedesse il valore di cinque soldi. L’incendiario era bruciato vivo. I traditori perdeano il capo. Un forestiero che venisse in Torino tentando d’ammazzare un cittadino era irremissibilmente punito coll’ultimo supplicio. Un cittadino che uccidesse un altro cittadino era punito secondo il dritto romano, ma poteva accordarsi cogli eredi del defunto. Un cittadino che uccidesse un forestiere era punito di multa. Ma poi sì stabilì che si punisse, come sarebbe stato punito il forestiere nella sua terra, se avesse ucciso un Torinese.
Quando si levava rumore in città per un furto, od altro misfatto, i vicini eran tenuti ad accorrere e trattener il fuggiasco. Le porte della città si chiudevano immediatamente. E rade volte accadeva che il colpevole potesse salvarsi. Ma lo statuto era, secondo l’antica franchezza, molto sollecito nell’ordinare che, dai casi gravissimi in fuori, quali erano l’omicidio, l’incendio, i furti grandi, la congiura contra il comune, o contea al principe, il tradimento, le grassazioni, lo stupro violento di donna onesta e casta, il rettore od il giudice non potesse porre nissun cittadino in arresti od in carcere quando offerisse di dar cauzione. Così era protetta la libertà individuale, gli accusali poteano continuare il la voro, attendere alle faccende domestiche fino alla sentenza; nè sì vedeano tanti esempi di lungo car cere preventivo, dimostrato poi ingiusto dalle sentenze assolutorie.
Troppo lungo sarebbe il noverare tutte le riformagioni contenute negli statuti o fatte prima o dopo, con cui si provvedeva alla sicurezza interna ed esterna a mantener la fede pubblica, a far fiorire il commercio, alla polizia della città, alla custodia de’ beni forensi, alla salute pubblica, agli studi. Di alcuni ordini principali favelleremo a suo luogo. Intanto notiamo che ogni statuto comunale, e così quello di Torino, conteneva insiem confuse e miste varie maniere di leggi e d’ordini. Leggi politiche costitutive ed organiche primitivamente comprese nel tenore del giuramento, che si prestava dai consoli e dagli altri capi del comune. Leggi civili, contenenti, siccome abbiam veduto, poche modificazioni al dritto romano, a pregiudizio delle femmine, per mantenere forza e splendore agli agnati maschi, e serbar loro massimamente il possesso delle case cittadine, e per respingere dall’acquisto di stabili i religiosi ed i forestieri. Leggi criminali, ordinate massimamente a mantenere la pace pubblica, per cui si poneva ammenda alla menoma ingiuria verbale. A questo fine, ed insieme alla depressione de’ nobili, mirava uno statuto del 1327, che proibiva agli alberghi de’ nobili di mandar la solita torcia alla chiesa di S. Giovanni il dì della festa. Leggi fiscali, che risguardavano il pagamento delle taglie e delle altre gravezze, sì reali che personali. Provvisioni di polizia sanitaria, di polizia de’ costumi e di polizia rurale. Infine ordini che si potrebbero chiamare d’occasione; ed erano certe proibizioni di riedificar castelli, la cui distruzione avea costato molto sangue e molto tesoro al comune; certi giuramenti di tentar di ricuperare una terra od un castello perduto; il divieto d’ammettere agli uffìzi certe famiglie. In Torino, dove una volta il marchese di Monferrato era stato signore, e dove più altre avea tentato di diventarlo, anche fomentando tra’ cittadini mali umori e segrete cospirazioni, si statuiva che qualunque uomo avesse in parole od in fatti cominciato a trattare perchè il marchese di Monferrato, o qualunque altro, fuor del conte di Savoia, avesse alcun dominio in Torino, perdesse immediatamente il capo e l’avere.