Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo VI/Parte III/Libro III/Capo V
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Capo V. Gramatica e Rettorica. 1. Niun secolo ci si è ancora offerto, nè ci si offrirà, io credo, giammai, a cui sì giustamente convenga il titolo di secolo de’ gramatici e de’ retori, come quello di cui ora scriviamo. Benchè i gravi e serj studj della teologia, della filosofia e della giurisprudenza avessero coltivatori in buon numero, sopra ogni cosa però aveasi in pregio lo scrivere con eleganza nella greca lingua non meno che nella latina, e que’ TERZO •449 che n’eran maestri, venivano in ogni luogo considerati come uomini maravigliosi e degni di esser chiamati con assai lauti stipendj ad occupare le cattedre delle università più famose. Lo scoprimento di molti degli antichi scrittori, e il moltiplicarsi che se ne fecer le copie per mezzo della stampa, giovò non poco ad accrescere il favore e ad agevolare il successo di tali studj. E convien confessarlo a lode di questo secolo, che i gramatici.in esso vissuti con maggior fama non eran già uomini che sapessero o insegnassero solamente le nude leggi gramaticali e gli sterili precetti della rettorica, ma erano insieme interpreti e comentatori, per riguardo a’ tempi loro, eruditi dei buoni autori, imitando in ciò l’esempio de’ gramatici antichi di Roma. Abbiam già parlato de’ maestri della lingua greca ch ebbe in questo secol l’Italia. Or dobbiamo ragionar de’ latini, benchè molti di essi dell’una insieme e dell’altra lingua tenessero scuola. E io darò il primo luogo a uno di cui forse non v’ebbe chi più lungamente si esercitasse in questo faticoso impiego, e di cui grande era il nome fin dal cominciamento del secolo; dico del'Celebre Guarino Veronese. Di lui, oltre altri scrittori, ha ragionato a lungo il march Maffei (Ver. illustr. par. 2, p 131), e più esattamente ancora il ch. Apostolo Zeno (Diss. voss. t. 1, p. 213, ec.), alle ricerche de’ quali mi lusingo di poter qui aggiugnere qualche nuova riflessione, H. Il consenso unanime degli scrittori di que’ tempi, che dicon Guarino morto nel 1460 in Tiraboschi, Voi. IX. i5 it. Sfudì dì Guarino <1« Ysioua. i45o LIBRO età di novantanni, ci mostra eh1 ei nacque l’an 1370. Ebbe a patria Verona, e da essa sola prese il cognome, poichè in niun’altra maniera egli è mai nominato che Guarino da Verona. Se dobbiam credere a Gioviano Pontano scrittore della medesima età (De Aspirat. l. 1), il nome di lui era propriamente V arino, e solo per adattarsi all'ordinaria maniera di favellare si appellò Guarino. Ch ei fosse discepolo di Giovanni da Ravenna, si afferma da alcuni scrittori di questo secolo citati dal march Maffei; e l’ordin de’ tempi cel rende probabile. Ma ei non fu pago di apprendere la lingua latina; e navigò in Costantinopoli par imparare la greca alla scuola del celebre Manuello Grisolora, di cui già abbiam favellato. Il che si afferma non sol da molti scrittori, ma dallo stesso Guarino in alcune sue lettere scritte in occasion della morte del suddetto Grisolora, e pubblicate dal P. Calogerà (Racc, d Opusc. t. 25). Pontico Virunio, che scriveva al principio del secolo xvi, ci narra che solo in età già avanzata andossene Guarino in Grecia, e che dopo essersi ben istruito alla scuola di Manuello fece ritorno in Italia con due gran casse di libri greci da lui ivi raccolti; e ch essendo una di esse perita per naufragio, Guarino ne fu afflitto per modo, che in una notte incanutì. Il march Maffei taccia con ragione di favoloso cotal racconto, di cui non troviam cenno in altri scrittori più antichi, e pruova colla testimonianza di Angelo Decembrio, che Guarino era ancor giovinetto, quando navigò in Grecia. E a dir vero, s’ egli era nato l’an 1370, e se il Grisolora venne TERZO | 45 I la prima volta, come si è provato, in Italia l'an 1393, è evidente che Guarino non potè fare tal viaggio che in età di circa 20 anni. HI Ritornato in Italia, cominciò tosto Guarino a tenere pubblica scuola, e la tenne in non poche città. Giano Pannonio vescovo delle Cinque Chiese in Ungheria, che per molti anni ne fu scolaro, in un panegirico in versi che scrisse in lode del suo maestro, le annovera tutte: Tu mare froenantes Venetos, tu Antenoris alti Insti tuis cives, tua te Verona legentem, Finis et Italiae stupuit sublime Tridentum; Nec jam flumineum referens Florentia nomen, Ac Phoebo quondam, nunc sacra Bononia Marti; Tandem mensuram placida statione recepii, l’acis et aligeri Ferraria mater amoris. Carm, p. 24. Il Zeno pensa che in questi versi il poeta annoveri le città in cui tenne scuola Guarino, con quell’ordine stesso con cui egli dall’una passò all’altra, cioè Venezia, Padova, Verona, Trento, Firenze, Bologna e Ferrara. Ma dubito che il Pannonio non abbia qui tenuto altro ordine che quello che la comodità del verso gli ha permesso; perciocchè è certo, come ora vedremo, che da Verona ei passò a Ferrara. Egli è nondimeno assai difficile a diffinire in quali anni precisamente fosse Guarino nelle suddette città. Sembra che Firenze fosse la prima in cui egli fece mostra del! suo sapere. Così si afferma in un'orazione inedita di autore anonimo in lode di Guarino, scritta mentre questi i45a Libito era in Veiona, die si conserva nell’Ambio» siana, come mi ha cortesemente avvertito il ch. sig dott Oltrocchi prefetto della medesima. E a questa gita di Guarino a Firenze allude probabilmente,Leonardo Bruni in due lettere a Niccolò Piccoli, nella prima delle quali così gli scrive: Joannes Graecus miles Bononiam venit ad XI Kal. Martias. Secum habet Demetrium non Poliorcitam, et Guari nitrii Veroruensem. Hic, ut gustare primo aspet ta potiti, j uveiti s est apprime doctus, et qui tibi placere non immerito possit l. 3, ep. i,j). Poscia nella seguente gli scrive: Guarinus tibi praesto aderit, quem praesentem intueri ac perspicere licebit. Queste lettere non han data, ma il dirsi nella prima che Guarino era giovine, basta a mostrarci ch’essa dovette essere scritta al più tardi su’primi anni del secolo xv. Innoltre al fine della medesima lettera dice il Bruni, che non si sa ove sia il Grisolora, ma che credesi ch ei si trovi in Ispagna, il che ci rende probabile ch essa fosse scritta tra ’1 i4o5 e ’1 i-fot), verso il qual tempo abbiam) già veduto che il Grisolora si andò aggirando per diverse corti d'Europa. Questo dunque fu il tempo probabilmente in cui Guarino fu chiamato a Firenze, Una sua lettera inedita, che conservasi in questa biblioteca Estense, scritta da Firenze a:26 di febbrajo del 1414 » c* pruova che in quest'anno egli era nella stessa città. Ma io credo ch egli non vi facesse stabil soggiorno, e che in alcuno di questi anni ei fosse in Padova e in Bologna, nelle quali città abbiam veduto TF.nzo »453 affermarsi da Giano Pannonio eli’ ei tenne scuola. Breve però dovette essere in amendue il soggiorno di Guarino, poichè gli storici di quelle università non ne fanno alcuna menzione. La gloria di aver condotto Guarino a Firenze si attribuisce da Poggio a Niccolò Niccoli morto nel 1437 (Orat. in fun. Nic. Nicol). Ma Leonardo Bruni in una sua feroce invettiva non mai pubblicata contro lo stesso Niccoli gli rimprovera fra le altre cose di aver poi per invidia maltrattato Guarino per modo, che questi determinossi ad abbandonare Firenze (Mehus praef. ad Vit. Ambr. camald. p. 32); il che pure affermasi da Francesco Filelfo (l.2, ep. 18). Veggiamo infatti che Guarino si lasciò trasportar dallo sdegno contro il Niccoli per modo, che in una lettera a Biagio Guascone, rammentata e pubblicata in parte dal Mehus (l. c p. 51, (60, 61). ce ne forma un carattere assai svantaggioso. Ma già abbiam più volte veduto che i letterati di questo secol furon troppo soggetti a lasciarsi travolgere dalla passione e dall' invidia contro i loro rivali per modo, che spesso non sappiamo a cui credere 5 e ci convien tenerci in guardia per non lasciarci sorprendere dalle accuse che si danno l’un l’altro. Deesi qui avvertire che abbiamo una lettera di Ambrogio camaldolese a Francesco Barbaro, in cui si tratta di chiamar Guarino professore a Firenze: Scrivo ancora, dic egli (l. fi, cp. 20), a Guarino una lettera, ch io ti prego a fargli tener prontamente, anzi a unirti meco in questo affare. Ecco la cosa di cui si tratta, la quale io spero che sia per riuscirgli d onore e di <4^4 MURO vantaggio non ordinario. La nostra gioventù 'lo brama con tanto ardore, che non v ha cosa a lui grata, ch’ella non sia disposta a fare. Innoltre il Magistrato a cui appartiene lo scegliere i professori a onore di questa nostra città, è disposto a invitarlo con quello stipendio che a lui piacerà. Ed è cosa maravigliosa a vedere quanto sien bramosi d averlo i più onorati e i più nobili tra questi giovani. A te appartiene il condurlo ad abbracciare questo a lui si onorevole ed opportuno partito, e a soddisfare al comun desiderio. Questa lettera non ha data, ma essa non può intendersi del primo invito ch’ebbe Guarino a quella città, sì perchè niuna delle lettere di Ambrogio appartiene a que’ tempi, ma la più antica è del i.fai, sì perchè in essa si nomina il Cardinal di S. Angelo, cioè il Cesarini, che fu a quella dignità innalzato nel 1426 e deesi perciò credere che un’altra volta si trattasse di condurre Guarino a Firenze, ma senza effetto. IV. Più certi monumenti abbiamo intorno al soggiorno di Guarino in Venezia e in Verona. Egli era certamente in Venezia nel 1415 quando Manuello Grisolora morì in Costanza, come raccogliesi dalla lettera che di colà egli scrisse a Giovanni di lui figliuolo, quando ne udì la morte (Calog. Racc, d Opusc. t. 2.5, p. 297), e dalla orazion funebre che ad istanza di Guarino ivi ne disse Andrea Giuliano (ib.; Agostini, Scritt. venez. t. 1, p. 264). Egli era pure in Venezia nel 1.41S. quando Leonardo Giustiniani di lui scolaro recitò l’orazion funebre di Carlo Zeno (Agosf. I. cit. p. ¡.\\). Nò è picciol i X TERZO 1455 lode di questo celebre professore l'aver ivi avuti a suoi scolari i due suddetti Andrea Giuliano e Leonardo Giustiniani, e innoltre Marco Lippomano e Francesco Barbaro, il qual ultimo fa spesso grandissimi elogi del suo maestro, e confessa di essere a lui debitore di quanto sapeva singolarmente nella greca letteratura (ib. t. 2, p. 37, ec.). Da Venezia passò Guarino a Verona sua patria. In qual anno precisamente ciò avvenisse, non trovo indicio a stabilirlo; ma egli vi era l’an 1422; perciocchè in quest’anno il B. Alberto da Sarziano dell’Ordine de’ Minori colà trasferissi, benchè già in età di 37 anni, per apprendere sotto sì valoroso maestro la lingua greca, come dalle lettere di lui medesimo pruovano il marchese Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 137") e il P. degli Agostini (l. c. t. 1, p. 231). Il proemio da Guarino premesso agli Statuti di Vicenza com{)ilati da Francesco Barbaro nel 1425, e una lettera da lui scritta a Giovanni da Spilimbergo l’an 1428, ci mostrano che in questi due anni ancora ei soggiornava in Verona (Quirini Diatr. ad Epist. Fr. li ari), p. 200, 203). Nella qual città fra gli altri scolari egli ebbe l’onor ’istruire Ermolao Barbaro il vecchio, che ben mostrossi riconoscente al suo maestro; perciocchè nel proemio della traduzione da lui fatta di greco in latino nell’an 1422 di alcune favole d’Esopo, e indirizzata ad Ambrogio camaldolese, così gli scrive (Ambr. camald. l. 24, ep. 19). Quod quum pro virili parte adsequi constituerim, Guarino patri et praeceptori meo me totum tradidi ut (quenuidrnodum cjus
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industria, et diligentia, et charitate adfectum est) a teneris, ut ajunt, unguiculis, Latinarum literarum, quidquid sunt, prudentiam et suavitatem degustarim, sic Graecam humanitatem ac disciplinam ab eo cognoscere queam, cogn ita nique prò viribus perei pere, perccptam ad bene vivendum jucundeque convertere. Questo passo ci mostra che Guarino era insieme maestro della lingua greca e della latina, e che a lui si dee in gran parte il rifiorire e risorgere all’antica eleganza che fecero in questo secolo l’una e l’altra in Italia, come vedremo fra poco accennando gli elogi de’ quali egli è onorato. Verso questo tempo medesimo io penso che debbasi stabilire la scuola da lui tenuta in Trento, come abbiamo udito affermarsi da Giano Pannonio. In una lettera da lui scritta a Francesco Barbaro, dimorante allora in Venezia, pubblicata in parte dal card Querini (l c. p. 209), Guarino gli narra che a cagion della peste che travagliava Verona, egli erasi ritirato a Trento. Il suddetto eruditissimo cardinale pensa che questa lettera appartenga al i4'5o, nel qual anno, egli dice, quella città ricevette gran danno dalla pestilenza. Ma nel 1430 Guarino era già a Ferrara, coma ora vedremo; e io credo che la detta lettera appartenga o alla fine del 1426, o al principio del seguente, nel qual tempo il Barbaro era in Venezia. Egli è adunque probabile che circa quel tempo ritiratosi Guarino a Trento per sottrarsi al contagio, fosse da que cittadini pregato ad aprire ivi scuola, e ch’ ei secondasse le loro brame; ma che poscia, cessata la peste, facesse ritorno a Verona. TERZO I /fin V. L’ultimo e il più lungo soggiorno di questo celebre professore fu nella città di Ferrara. Il Borsetti afferma che’ ei fuvvi chiamato dal march Niccolò III l'an 1436. perchè in quella università tenesse scuola di lingua greca e latina (UisL Gymiuferr. t. 1, p. 39), ec.; t. 2, iy). E in fatti egli ha pubblicato un decreto del Consiglio dei’ Savj di quella città fatto a'22 di maggio del 1441 7 *n cu‘? dopo aver lodato Guarino che già da cinque anni teneva ivi scuola con sommo plauso, egli è confermato nell’ impiego medesimo e collo stesso stipendio di lire 400, che finallora avea avuto, per altri cinque anni. Ma è certo che più anni innanzi egli era stato chiamato a Ferrara, non già a professore di quello Studio, ma a maestro di Leonello d Este allor giovinetto. Che questa fosse la ragione per cui Guarino fu invitato a Ferrara, affermasi chiaramente dall’autore degli antichi Annali Estensi pubblicati dal Muratori: Marchio vir illustris (cioè il march Niccolò III) Guarinum Veronensem, virum profecto in utraque lingua Graeca et Latina callentem, alterum Italiae lumen... gratia, benevolentia, donis illicere, quo Leonelli animum humanitatis studiis expoliret exornaretque, curavit (Script. rer it. vol. 20, p. 455). Il card Querini però diligentissimo investigatore de’ monumenti letterarj di questo secolo da alcune lettere inedite di Guarino ha provato (Diatr, ad Epist Fr. Barb. p. 373, ec.) che l" invidia e il mal talento di alcuni Veronesi contro Guarino lo indussero ad accettare allora le generose profferte del marchese «458 LIBRO Niccolò, mentre dapprima per amor della patria avea rigettate quelle del marchese di Mantova. L’epoca poi del passaggio di Guarino a Ferrara trovasi espressa in due lettere inedite del medesimo, che si conservano in questa biblioteca Estense, in una delle quali scritta da Verona a’ 31 di marzo del 1429 ei parla dell’invito che dal march Niccolò avea ricevuto; l’altra è scritta da Argenta luogo del Ferrarese al 1 di luglio dello stesso anno, e ci mostra con ciò che Guarino erasi colà già trasferito. Ma poichè ebbe soddisfatto al desiderio del march Niccolò nell’ istruire il giovane principe, a cui poscia fu sempre carissimo, come ci pruovan più lettere da lui scritte allo stesso Leonello, e pubblicate dal P. Pez (Cod. Diplom. Epist. t. 5, pars 3, p. 154, ec.), ei fu eletto a professore di quella università l’anno i436 (a), e in questo impiego confermato per altri cinque anni coll’accennato decreto del 1441 - 11 Corte storico veronese racconta (Stor. di Veron. I. i5) che l’anno 1431 i Veronesi riebbero alle loro scuole il Guarino collo stipendio di 200 scudi E ch’ ei pensasse di tornare a Verona, me ne fa sospettare una lettera d’Ambrogio camaldolese, in cui del Guarino scrive a Niccolò Niccoli (t. 8, ep. 47): Veronam illum rediturum et ipse percepì: ra(o) Sotto lo stesso anno 14^6 a’ 2 d’agosto trovasi ili questo ducale archivio segreto un ordine del marchese ISiccolò III, perchè si diami sei moggia di frumento Claro /'irò D. Guarino E"eroriensi in subsidium rei sue familiaris. TERZO *4^9 tionem ex nostro Barbaro discessus sui nullam audivi, et explorare contendam. Il Borsetti ha pubblicate innoltre due elegie (l. c. t 1 p. 32, ec.), una scritta in nome di Verona a Guarino, in cui lo esorta a lasciar Ferrara per andare ad istruire i suoi concittadini: l altra scritta da Guarino alla sua patria, in cui non si mostra lontano dal fare ad essa ritorno, e chiede sol qualche indugio, finchè cessin le guerre che allor desolavano quei’ paesi. Queste due elegie non sappiamo quando fossero scritte. Ma la lettera d’Ambrogio è del 1433; e perciò se Guarino tornò a Verona, ciò non potè accadere che verso quel tempo. A me non sembra però probabile ch’ei vi tornasse; e ciò è sembrato inverisimile anche al cardinal Quei ini {Diatr. ad Epist. Barbar, p. 115), benchè egli pure da più monumenti compruovi che i Veronesi usarono d ogni sforzo per allettarvelo. Certo egli era in Ferrara, quando vi si aprì il concilio: e il medesimo cardinale cita alcune lettere di Guarino (ib. p. 280), in cui questi racconta che la presenza de’Greci dava a lui ancora non picciola occupazione. Sembra ancor certo che all’ occasion del trasporto che del concilio si fece da Ferrara a Firenze, egli parimente passasse a questa città, forse per servire d’interprete nelle conferenze tra’ Greci e Latini. In fatti una lettera scritta a’ 14 d’ottobre del 1441 Bernardo Giustiniani a Jacopo Zeno, che allora era a quel concilio (Leon, et Bern. Justin. Epist. et Orat. ep. 15). ci mostra che ivi pure era Guarino; anzi di lui si parla in modo come se si fosse 14^0 T.IBKO per tal maniera stabilito in Firenze, che non fosse possibile lo staccarnelo. Ciò non ostante è certo ch ei ritornò a Ferrara, ov' egli era nel 1450. Se ne vede segnato il nome nel catalogo de’professori di detto anno, ch’io tengo presso di me, ove ancora si aggiugne lo stipendio assegnatogli di 300 lire; stipendio, a dir vero, non proporzionato alla fama di sì grand’uomo, in confronto a quello assai maggiore di 700, di 900, di 1000 lire, che vedesi ad altri assegnato, e inferiore ancora a quello ch’ egli avea avuto negli anni precedenti. VI. Così continuò Guarino a istruire la gioventù nelle scuole, finchè a’ 4 di dicembre del 1460 finì di vivere, come abbiamo nelle Appendici agli Annali Estensi del Delaito (Script. Rer. ital. vol 18, p. 1096). Un decreto del duca Borso de’ 24 di gennaio del 1468, di cui tengo copia, nel qual rimette il dazio di dieci fiorini d’oro, che pagar doveasi pe’marmi che i figliuoli di Guarino avean fatto trasportar da Verona per formarne un onorevol sepolcro al padre, ci mostra che il decreto dallo stesso duca del 1461 pubblicato dal Borsetti (l. c. p. 59), in cui si ordina che a spese del pubblico gli sia eretto un maestoso sepolcro, non ebbe effetto che più anni dopo, e che in non picciola parte esso fu fatto a spese de’ figliuoli medesimi di Guarino. Questo sepolcro perì fra le rovine del tempio di S. Paolo, in cui era posto, pel tremuoto del 1571; e solo se ne conserva memoria in un elogio in versi che ancor vi si legge, e che riportasi dal Borsetti. Gli encomj con cui parlano di Guarino gli TERZO 146ì scrittori di que’ te,I)P'’ son ta** clie uiun altro di onesto secolo ne ha avuti i più luminosi. Pio II lo dice maestro di quasi tutti coloro che ottennero allora nome di eleganti scrittori (Comm. I -j). « ¡'ggiugnc che ne fu pianta la morte da tutti gli scolari che a lui eran concorsi da ogni parte d’ Europa per apprenderne la lingua greca e la latina (ib. l 3). Il Tritemio lo chiama (De Script. eccL p. 807) l’ uomo forse il più dotto de’ tempi suoi nella profana letteratura, e versato ancor nella sacra, e peritissimo nella greca e nella latina favella, e per cui opera risorsero a miglior vita gli studj delle belle arti avviliti prima e quasi estinti. Bartolommeo Fazio, che gli era stato scolaro, e che scrivea mentre era ancor vivo Guarino, ne fece questo magnifico elogio (De J iris ili. p. 18): Artem Rhetoricam profitetur, qua in re supra quinque et tri gii ita annos se exercuit Ab hoc uno plures docti et eloquentes viri facti sunt, quam a ceteris omnibus hujus ordinis, ut non immerito quidam de eo dixerit, quod de Isocrate dictum ferunt, plures ex ejus schola viros eruditos, quam ex equo Trojano milites prodiisse. Quum ex Leonardo yl re tino ali quando quaesitum esset, quaemnam nostrae tempestatis doctum virum existimasset, unum sibi Guarinum videri respondit. Ejus quoque praestantiae singulare testimonium est Epigramma hoc nobile Antonii Panormitae editum ab illo, quum vita J’unctum audivisset: Q11.intimi Uormili'lue saiictiim volere C.itonem, Quantum Ce|ilimi volituniem fersea Cado, A li idem 1 belio pacanlein viribus orbem, Tantum laeta suum vidit Verona Guarinum. LIBRO Nicalao Marchiani Estensi, ac Leonello ejus filio, quem Latinis ac Graecis literis erudivit, percarus ac perjucundus fuit Nè però a lui mancarono, come a tutti i più dotti uomini di questa età. invidiosi e rivali. Già abbiam veduto che Niccolò Niccoli da amico gli divenne nemico, e diè occasione a Guarino di scrivere contro a lui un’ amara invettiva. Francesco Filelfo, uomo nato a muovere e a sostener guerra contro di tutti, avendo udito che Guarino avea in qualche parte disapprovata una sua orazione detta nelle nozze di Beatrice d’Este con Tristano Sforza, scrisse controdi lui una pungente lettera a Lodovico Casella ministro del duca Borso, in cui fra le altre cose con poco lodevol jattanza dice (l. 12, ep. 63); Quid enim Guarinus novit, quod Philelphus ignoret? Con Poggio ancora egli ebbe qualche contesa; perciocchè avendo questi fatto un confronto tra Scipione il maggiore e Cesare, e avendo data al primo la preferenza, Guarino gli scrisse contro, sostenendo che maggior lode si dovesse a Cesare; e Poggio perciò gli fece un’ alquanto risentita risposta (V. ejus. Op. ed. Basil. 1538, p. 365). Ma questa discordia fu presto amichevolmente composta per mezzo di Francesco Barbaro, e amendue tornarono all’ antica amicizia. come raccogliesi da una lettera di Poggio allo stesso Guarino ib. p. 355; V. e tiara Quiriti. Dintr. ad Epist. Barb. p. 46). Finalmente egli ebbe a contendere con Giorgio da Tra bis onda, che avendo pubblicato in Venezia un Trattato di Bellori ca, nel quale parlava poco onorevolmente del TERZO l463 metodo di Guarino, che pur gli era stato, benchè per poco tempo, maestro, costrinse questo a difendersi, e la difesa fu seguita da altri scritti che si accennano dal Zeno, il quale confessa che per l’ una parte e per l altra non si tenne quella moderazione che a dotti conviene. VII. Da Taddea Cendrata sua moglie ebbe almen dodici figli, due de quali singolarmente furon celebri per sapere, e ne faremo tosto menzione. Ma prima che de’ figli, dobbiam dire delle’ opere da lui lasciateci. Molto egli adoperossi nel traslatare in latino le opere degli antichi scrittori greci. A lui dobbiamo singolarmente la traduzione di molte Vite di Plutarco, e di altre opere dello stesso autore, come de’ Paralelli minori. del libro De liberis instituendis, di quello De dif/erentia assentato ri* et amici. Per comando di Niccolò V recò dal greco in latino i primi dieci libri della Geografia di Strabone, mentre Gregorio di Tiferno, Ossia da Città di Castello, traduceva gli altri sette. È certo però, che Guarino a’ primi dieci aggiunse la traduzione degli altri libri. Il Zeno e il march. Maffei lo han provato coll autorità di più codici, a’ quali io posso aggiugnerne uno assai elegante e magnifico che si conserva in questa biblioteca Estense, e in cui tutta quell opera vedesi da Guarino solo tradotta, benchè nelle edizioni che ne abbiamo, i soli primi dieci libri della sua traduzione sieno stati pubblicati. seguendosi negli altri quella di Gregorio. Convien però confessare che la traduzioni di Guarino sembrarono ad alcuni dotti uomini di que’ tempi non troppo felici, conio VII. Sue opcr*. 1464 ljbho pruova il Zeno colla testimonianza del card Jacopo Ammanati e di Paolo Cortese. Lo stesso Zeno e il march. Mafl'ei ci danno un esatto catalogo di tutte le altre opere sì pubblicate come inedite di Guarino. Esse sono parecchi trattatelli grammaticali per!le lingue greca e latina, comenti sopra alcuni antichi autori di amendue le lingue, molte orazioni fatte in Verona, in Ferrara e altrove, alcune poesie latine, e molte lettere, delle quali due codici si hanno in questa biblioteca Estense, oltre più altre sparse qua e là in altri codici (*). lo non entro a parlare minutamente di tali opere, sì perchè ciò non è proprio di questa mia Storia, sì perchè i due suddetti scrittori e il Fabricio corretto da monsig. Mansi (Bil)l. ined. et inf Latin, t. 3, p. i i<j, ec.) nulla ci lasciano a bramare su questo argomento. Solo deesi aggiugnere che una lettera, o anzi un’orazion panegirica da lui scritta l’an 1447 'da Ferrara ad Alfonso re di Napoli, mentre Girolamo suo figlio era al servigio di quel sovrano, e un’ orazione in lode di Niccolò III d’Este sono state non ha molto date alla luce (Miscell. di varie Operette, t. 6, Ven. 1742 p. 47 > Misceli. Baluz. ed. luc. t. 3, p. 196). A lui ancora dobbiamo le Poesie di Catullo, (*) Alcune Lettere inedite ili Guarino da Verona sono siale pubblicale di fresco per opera dell'eruditissimo I*. ab ¡Ylittarclli (tìibt. MSS. >S\ Mi eh. Vtwrl. />. 4-f), ec.). coll’orazion funebre ila lui delta in lode ili Gin. Niccolò Salerno, e colia notizia di più altre operette inedite che se ne conservano nella biblioteca di S. MicLci Ut Mutuilo. TERZO I.J65 che o egli *1 primo disotterrò, o almeno corresse e ripulì per maniera che si potessero e leggere e intendere. Intorno a che è a vedere un enimmatico epigramma dello stesso Guarino riportato dal Zeno, e la spiegazione ch’egli ne dà. più felice al certo di quelle date già da più altri. Havvi ancora chi gli attribuisce l’orazion contro Carlo Malatesta pel rovesciamento della statua di Virgilio in Mantova; ma abbiam già mostrato esser quella opera di Pier Paolo Vergerio. Io conchiuderò ciò che appartiene a Guarino col bell'elogio che ne fece, mentre egli ancor vivea, Timoteo MafFei in un suo dialogo citato dal Zeno: Guarinum nostrum, qui totam Italiam literis humanitatis ornavit, nunc jam grandaevum ornant duo potissimnm; itu redibilis memoria rerum, et indefessa lectitandi exercitatio, qua fit, ut vix edat, vix dormiat, vix exeat domo, cum tamen membra sensusque in eo juvertiliter vigeanL Vili. I due figliuoli di Guarino, che più felicemente ne seguirono le vestigia, furon Girolamo e Battista, nati amendue, come osserva il march Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 154), prima che il padre abbandonasse Verona, e che perciò da veronesi si annoverano a ragione tra’ loro. Della’ educazione di Girolamo fu il padre singolarmente sollecito; perciocchè gli indirizzò un’Istruzione, che conservasi manoscritta nella biblioteca Tuana; e il figlio ben corrispose alle paterne sollecitudini. Il march Maffei da una lettera inedita di Guarino, ch è probabilmente quella che noi abbiamo accennata poc’ anzi, raccoglie che Girolamo fu al Tijuboschi, Voi. IX. 16 l466 LIBRO servigio ilei re di Napoli nell’ impiego di segretario. Alla qual pruova un’ altra ne aggiugnerò io tratta dalle Opere di Lorenzo Valla, il qual racconta che quando egli l’an 1447 abbandonato il campo del re Alfonso in Toscana, sen venne a Napoli, e quindi a Roma, era con lui Girolamo, e assaltati presso Siena da una truppa di 160 nimici, questi insieme con alcuni altri fu fatto prigione, e benchè ancor giovinetto fu tormentato: Hieronymus Regium Secretarium dignum Guarino patre juvenem cum aliquot aliis, qui praecedebant, exceperunt... Hieronymus, et si magis adolescens quam juvenis, tamen, ut poslea mi/ii re tu Ut, ab hostibus tortus est (Antidot. in Pogg. l. 4 Op. p. 354)• Le quali parole ci mostrano ancora che riebbe poscia la libertà. Ma fin quando e dove vivesse egli poscia, niun cel dice. Nulla pure, ch’io sappia, sene ha alle stampe; ma solo se ne conservano orazioni ed epistole e poesie manoscritte, come mostrano il suddetto march Maffei e il Borsetti. Più celebre ancor fu Battista, professore in Ferrara di lettere greche e latine, e maestro fra gli altri di Giglio Giraldi e di Aldo Manuzio, che gli dedicò la sua edizion di Teocrito e di altri poeti greci nel 1495. Angiolo Poliziano il dice il più celebre professore della sua età (Epist. l. 1), e gli onori che gli furono conferiti, ci pruovano in quale stima egli fosse. Nell’ iscrizion sepolcrale postagli nella chiesa di S. Paolo in Ferrara si afferma che dal duca Borso fu inviato ambasciadore in Francia; che da lui pure ebbe doni e distinzioni non ordinarie; e che da TERZO 1^67 Renato re di Napoli fu onorato del titolo di senatore. Negli Atti della Computisteria de’ duchi di Ferrara si ha un decreto del duca Borso del 1466, con cui gli si accresce di 10 lire al mese il consueto stipendio, e ciò propter ejus praestantiam, et virtutem, quae efficiunt ipsum suae dominationi charissimum; e un altro del duca Ercole I del 1478, con cui comanda che gli si faccia un dono di 25 agnelle (a). Il marchese MalTei (l. ciL p. i56, ec.), il Borsetti (Ilistor. Grmn. Ferr. t 2, p. /\i) e il Fabricio (Bill. mcd. et inf. Lai t. 3, p. 131) annoveri) Due altri decreti del duca Ercole I onorevolissimi a Battista Guarino conservansi in questo ducale archivio segreto Nel primo, che è de' 15 di novembre del 1486, gli conferma il dono fattogli nove anni addietro di alcuni beni nel Modenese, e dice i Dignissimut mini Baptista ipse fuit ob singularem omnium liberalium,artium cognitionem laudatissimosque ejus mores et merita, ut non solum ipso munere, sed longe majore eum prosequeremur. Nel secondo, che è de’ 23 di gennajo dell’ anno seguente, gli concede alcune esecuzioni, e ne fa questo magnifico elogio: Numquam possemus tot tantisque beneficiis Baptistam nostrum Guarinum virum Cl. cumulare, quin pluribus et amplioribus dì gnu s sii et abeatur; sive oratorie sive aliarum quarumeumque ardimi eximi ani doctrinam, quibus omnem fere hanc nostram civitatem illustravit; sive proba fissinws mores, sive modestiùm, sive integritatem, sive animi Religionem, quibus claret, in considerationem venimus (sic). Decrevimus igitur omnibus in rebus, quas per facultates nostras liceat, ob tantarum virtutum, et singolarium erga nos cumulum commodis onorique suo semper consulere, ec. Qual piacere dovean provare i letterati del secolo XV nel servire ai' principi che con sì graziose e onorevoli espressioni facevan conoscere in quanto pregio avessero i lor talenti e i loro studi t IX. Cominciamenti diCiovanui AuriLIBRO rauo tutte ¡e opere da lui composte, che sono principalmente poesie latine, delle quali abbiam quattro libri stampati in Modellane! i4y6> orazioni e lettere parimente latine, comenti sopra Lucano, e sopra le Lettere di Cicerone (i quali però non so se esistano), e sopra Catullo, traduzioni dal greco di alcune orazioni di Demostene, di Dione Grisostomo e di S. Gregorio Nazianzeno, e alcuni opuscoli di diverso argomento. Il Borsetti ne ha pubblicate alcune poesie latine, che non avevano ancor veduta la luce, e che non sono per altro le più eleganti cose del mondo. 11 Trilernio (DeScript, eccl c. 910) ne fa un magnifico elogio, e dice che l’anno i494 *n Cl,i egB stava scrivendo la sua opera degli Scrittori ecclesiastici, erano già 33 anni che Battista tenea scuola in Ferrara. Degna ancor d’esser letta è un’ elegia che a lui scrive Tito Vespasiano Strozzi (Carm. p. 48, ed. ald. 1513), in cui altamente ne loda il sapere e l ingegno. IX. Noi ci siamo allontanati alquanto dal principio del secolo, per non dividere i figli dal padre. Ma ora dobbiamo ritornare a quelli che ne’ primi anni di esso ottennero maggior nome. Non v’ ebbe forse mai due uomini fra’ quali passasse conformità sì grande nella lunghezza della vita, nel genere degli studj e nelle vicende a cui furon soggetti, come Guarino Veronese e Giovanni Aurispa, nati e morti amendue quasi al medesimo tempo, e amendue professori della stessa arte e quasi nelle stesse città, amendue raccoglitori indefessi di codici, amendue recatisi in Grecia per apprendere quella TERZO *469 lingua e per fornirsi di libri (111), Giovanni Aiìrispa fu siciliano, e nacque in Noto nel 1369, un anno innanzi a Guarino; poichè vedremo che morì pure di novantanni nel 1459. Il co. Mazzucchelli, che assai diligentemente ha trattato di questo gramatico (Scritt. ital. t 1, p. 1277), afferma sull" autorità di Rocco Pirro, ch’ egli ebbe dapprima nella chiesa della sua patria la dignità di cantore; ma le parole del Pirro a me sembran anzi distruggere che stabilire questa opinione; la quale però non è di tale importanza, che si debba qui disputarne (a). Ove passasse i primi anni di sua gioventù, e ove facesse i suoi studj, non v’ha chi ce ne abbia lasciata memoria. Solo è certo ch’ ei passò a Costantinopoli, e più anni vi si trattenne, per apprendervi la lingua greca, e per raccogliervi molti codici; il che quanto felicemente da lui si facesse, abbiamo altrove veduto. Quanto e in quali anni ei soggiornasse in Grecia, non si può accertare. Ma ben possiamo indicare quando ei ne tornasse, colla scorta di una lettera di Francesco Filelfo, ch’ era al medesimo tempo in Costantinopoli (l. 2, ep. 5)'. In essa il Filelfo parla di due libri che lasciati avea al(*) Giovanili Aurispa prima di viaggiare in Grecia Iti professore di Umanità in Savona nel i4'5, come raccogliesi dal decreto su ciò fatto dagli Anziani di quella città indicatomi dall1 altre volte lodalo signor Giantoinmaso Belloro. (a) L’Aurispa fu veramente cantore o precettore non in Noto, ma in Siracusa, la qual dignità però era sostenuta dalle rendite di alcune parrocchie di Noto, ed ebbe poscia più altri beneficii ecclesiastici (Marini, degli Archiatri ponti/, l. *, p. 143)• «47° ttMtO l’Aurispa in Costantinopoli, mentre egli era sul dipartirne per andare ambasciadore dell’impera, dor greco a Sigismondo re de’ Romani; e aggiu. gne, che quando tornò a Costantinopoli, trovò l'Aurispa partito già per l’Italia: Memoriter nemini, cum essem triremem prope inscensurus, petiisse te, ut duos illos codices ad reditum usque meum ex Pannonia tuae fidei commendarem cum vero Costantinopolim revertissem, tu aberas in Italia. Or l’ ambasciata del Filelfo a Sigismondo avvenne, come vedremo in questo capo medesimo, nel 1423, e perciò era allora l’Aurispa in Costantinopoli, e ne partì poco appresso. Anzi io congetturo ch’ egli nel tornare in Italia si unisse col giovane imperadore Giovanni Paleologo figliuolo dell’ impera* dor Manuello ancor vivo e regnante, e da lui assunto fin dal i4'9 all’imperial dignità. Che l’an 1423 a’ 15 di dicembre questo giovane principe, detto Calogiovanni, giugnesse a Venezia, ne abbiamo un’ autentica testimonianza nella Storia di Marino Sanudo (Script. Rer. ital, vol. 22, p. 971). Or al medesimo tempo troviamo in Venezia anche l’Aurispa. Perciocchè Ambrogio camaldolese in una sua lettera scritta al Niccoli verso questo tempo medesimo così gli dice: Quae de Imperatore juniore Graecorum scribis et de Aurispa nostro, gratissime legi (l. 8, ep. 3). E dopo aver detto che ha udito che quel principe sia venuto a chieder soccorso al suo vacillante impero, soggiugne di avere scritto a Venezia all’ Aurispa invitandolo a venire a Firenze. E innoltre lo stesso Aurispa in una sua lettera de’ 37 di agosto TERZO 147 * del »4j4 a Ambrogio camaldolese, il quale pare che gli avesse chiesto se fosse morto il vecchio imperador Manuello, gli scrive (l. 24) che quando egli partì da Costantinopoli, egli vivea ancora, ma era infermo: Senex ille Grecorum. et Rex et columen vivebat, adhuc, cum illinc discessimus, prae mala valetudine ta~ men jacebat; e infatti l imp Manuello morì nell'anno i.faS. Poiché dunque nello stesso an 1423 troviam l'Aurispa prima in Costantinopoli e poscia in Venezia, è certo che in quélranno appunto ei tornò in Italia; e poichè allo stesso tempo abbiam la venuta dell" imperador greco a Venezia, è assai probabile che con lui si unisse in un tal viaggio l’Aurispa; e vedremo in fatti che questi fu indivisibil compagno del giovane imperadore, finchè si trattenne in Italia. X. Il cortese invito che Ambrogio camaldolese avea fatto all’Aurispa di recarsi a Firenze, fu allora privo d’effetto. Una lettera dell’Aurispa, pubblicata fra quelle di Ambrogio (l. 24, ep. 38), ci mostra che a’ 15 di Febbrajo del 1424 egli era ancora in Venezia, e che il dì seguente dovea coll’ imperadore partir per Milano: Graecorum Rex oras hinc discedet, ut Mediolanum eat, et nos una secum. Se l’imperadore greco andasse veramente a Milano, e per quali altre città s’aggirasse, non saprei dirlo; poichè di questa venuta dell’imperador greco in Italia assai poco ci han parlato gli storici di que’ tempi. Solo una lettera di Ambrogio, scritta in quest’anno a’ 25 di maggio, ci mostra (l. 8, ep. 8) che non sapevasi allora ove egli fosse, »473 LIBRO e che dicevasi andato coll'imperadore in Francia: Audio illum in Gallias projèctum cuni lm pemtorc Gmeco. Ma da un altra a’ 25 di giugno dello stesso anno raccogliesi (ib. ep. 9) ch’ egli erasi da lui distaccato ed erasi portato a Bologna: Aurispa noster, ut a certis auctoribus didici, dimisso Imperatore Graeculo, se se Bononiam contulit. I Bolognesi non furon lenti a conoscere che l Aurispa avrebbe alla università loro accresciuto non poco onore; perciocchè questi in una sua lettera scritta ad Ambrogio a’ 27 d’agosto dello stesso anno (l. 24, ep. 53) gli dice: Credo equidem me huc conductum esse, si voluero, ad legendas literas Graecas. Ma frattanto egli trovavasi assai male a denari, e perciò confidentemente chiese nella stessa lettera ad Ambrogio cinquanta fiorini, pei’ quali ei gli avrebbe mandati alcuni libri greci. Ambrogio soddisfece prontamente alla richiesta dell Aurispa, e con sua lettera del primo di settembre gli inviò poliza di cambio, con cui riscuotergli in Venezia (l. 5, ep. 34); e insieme si fece a istantemente pregarlo che invece di fissarsi in Bologna passasse a Firenze, ove sperava che fra non molto sarebbe stato scelto a pubblico professore con determinato stipendio, e ov egli gli prometteva che avrebbe trovati giovani di egregio ingegno, i quali avendo già appresi gli elementi della lingua greca, bramavano sempre più di coltivarne lo studio. Scrisse al medesimo tempo Ambrogio a Niccolò Niccoli, perchè si adoperasse in questo affare medesimo, esponendogli il gran vantaggio che Firenze ne avrebbe avuto, TT.nr.o 1 r. avvertendolo die i Bolognesi, il duca di Milano, i Veneziani ed altri cercavano di allettare con grandi premj un uomo sì dotto (ib. ep. 39). Ma frattanto l Aurispa era stato fermato in Bologna, com egli scrive ad Ambrogio a’ 13 di settembre (l. 24, ep. 54). Come però non era ancora determinato il suo stipendio, egli era tuttavia dubbioso qual delle due città dovesse scegliere a preferenza. Finalmente determinossi in favor di Bologna, anche perchè le circostanze de’ tempi non gli permette* vano di passare a Firenze, e per un anno prese a tenere scuola di lingua greca. Ei confessa però, che ne’ Bolognesi di quel tempo non trovava inclinazione alcuna allo studio della lingua greca e delle belle lettere, benchè per altro essi fosser cortesi al sommo e piacevoli. Così egli scrive a’ 26 di ottobre (ib. ep. 55); nella qual lettera aggiugne che seguito avea il consiglio di Ambrogio di non accompagnare l imperador greco fuor d Italia; dal che raccogliamo che questo principe n era di fresco partito. Trattennesi dunque circa un anno in Bologna l Aurispa insegnando la lingua greca, e deesi perciò aggiugnere al catalogo di que professori datoci dall’Alidosi; se pur ei non ha inteso di parlar dell’Aurispa. ov ei nomina (Dott. Jorast. di T'eol. ec. p. 32) Giovanni di Sicilia nel 1428 lesse Filosofia Morale e poi naturale; il che se fosse, egli avrebbe errato e nell’anno e nella cattedra dall’Aurispa tenuta Due lettere da lui scritte da Bologna al medesimo Ambrogio camaldolese, una agli 11 di giugno, l’altra poco appresso (l. 24 ep. 5t, «4;4 unno 5a), che, benché non abbiano «lata di anno, appartengono certamente al 1425, ci mostran l'Aurispa disposto a passare nel vicino settembre a Firenze, ove già gli era apparecchiato l' alloggio presso i figli di Palla Strozzi, e ov egli era invitato a tenere scuola, benchè non fosse ancora fissato con quale stipendio. E ch’egli veramente passasse a insegnare la lingua greca in Firenze in quell’anno medesimo, benchè non ne abbiamo autentico monumento, a me sembra certissimo; perciocchè vedremo che nell’an 1428 l’Aurispa si adoperò per ritornare a Firenze. L’onore di averlo condotto a quella università, benchè si dovesse in gran parte ad Ambrogio camaldolese, fu però attribuito singolarmente a Niccolò Niccoli, il quale in fatti adoperossi in ciò assai caldamente, come raccogliesi dalle citate lettere dello stesso Ambrogio. Quindi Poggio nell’elogio che ci ha lasciato del suddetto Niccoli, il loda fra le altre cose per aver chiamato l’Aurispa a Firenze: Accessit deinde vir praestans ingenio et doctrina Joannes Aurispa Nicolai procuratione (Poggi Op. ed. Basil. 1538, p. 272). Ma se poi crediamo a Francesco Filelfo (l. 2, ep. 18), il Niccoli dopo averlo chiamato a Firenze, gli divenne nimico, e adoperossi per modo, che l’Aurispa fu finalmente costretto a partirsene. Già abbiamo veduto che il Niccoli vien parimente accusato di avere per somigliante maniera maltrattati il Grisolora e Guarino Veronese; e una lettera di Ambrogio camaldolese (l. 5, ep. 39) ci fa conoscere ch’ egli era in fatti uom facile a inimicarsi con que’ medesimi terzo i rl>r prima pii pran amici. Giì> che è fuor di dubbio, si è che breve fu il soggiorno dell’Aurispa in Firenze; e che l’an 1428 egli era in Ferrara. Io lo raccolgo da due lettere del Filelfo (l. 1, ep. 20, 24); una scritta da Venezia a’ 9, l’ altra da Bologna a’ 23 di febbraio dello stesso anno. Nella prima egli scrive a Leonardo Giustiniani di esser disposto ad imbarcarsi fra pochi giorni per andare per acqua a Bologna; nella seconda scritta all’ Aurispa gli dà avviso di esser giunto a Bologna il terzo giorno (dacchè erasi da lui distaccato; il che ci mostra ch egli andando per acqua da Venezia a Bologna era passato per Ferrara, e ivi veduto avea l’ Aurispa, il quale probabilmente era stato colà chiamato fallimmo del 1427 Ma qualunque ragion se n’avesse, il soggiorno di Ferrara non piaceva troppo all’Aurispa; ed egli nello stesso an 1428 trattava segretamente di tornare a Firenze. Ne abbiamo in pruova una sua lettera a Ambrogio camaldolese (l. 24, ep. 62), in cui gli spiega il suo desiderio, dicendo ch’ei non avea lasciata Firenze, se non con intenzione e speranza di dovervi un dì ritornare: Nosti, nulla alia ratione me istinc discessisse, nisi ut ita quandoque istuc redire possem, ec. Aggiugne che ha inteso doversi aprire in Firenze una solenne università; ch’ei desidera di esservi invitato, ma che di grazia si tratti ciò occultamente, talchè non ne giunga nuova al principe cui serviva, cioè al marchese di Ferrara. Questa lettera non ha data, ma parmi evidente che la riforma dello Studio fiorentino, di cui qui si tratta, sia quella i4/6 libro che fu opera di Palla Strozzi, di cui parlasi nell’antica Vita di questo celebre Fiorentino citata dall’ab Mehus (praef. ad Vit. Ambr. camald. p. 19). Ivi non si spiega in qual anno essa seguisse, ma si accenna solo che ciò accadde tra l 1422 e ’l 1423. Una lettera però del Filelfo scritta nel settembre del 1427 allo stesso Palla (l. 1, ep. 4*)> i'i cui accetta l’invito da lui fattogli di recarsi a tenere scuola in Firenze, ci fa vedere che in quell’ anno medesimo avvenne la riforma di quella università. Ma è piacevol cosa a riflettere che lo stesso Aurispa, mentre maneggiavasi occultamente per esser chiamato a Firenze, cercava di distogliere il Filelfo dall’accettar l’invito a lui fatto, e di allettarlo invece a venire a Ferrara presso il march Niccolò III, come ricaviam dalla lettera che il Filelfo gli scrisse in risposta (ib. ep. 48). E forse l’Aurispa destramente cercava per tal maniera e di sfuggire l’incontro di un fastidioso competitore in Firenze, e di agevolare a se stesso la via di partir da Ferrara, coll’ invitarvi chi gli potesse succeder nel suo impiego. XI. Le istanze fatte dall’ Aurispa per esser chiamato a Firenze non ebbero effetto; poichè veggiam che il Filelfo, il quale vi si recò veramente, di colà gli scrisse a’ 28 di luglio del 1428 (l. 2, ep. 2), ragguagliandolo del piacer ch’ ei provava nel soggiornare in quella città. Quindi è probabile che l’Aurispa continuasse ad abitare in Ferrara. Quivi certamente egli era nel 1438, quando l’imperador greco Giovanni Paleologo venne la seconda volta in TKRZO I4/7 Italia per assistere al general concilio cominciato ivi quest’ anno, e trasportato poi a Firenze; perciocchè Francesco Barbaro nel marzo di quest’anno scrisse all’Aurispa (Barb. ep. 52) che rendesse in suo nome omaggio a quel principe, e presso lui lo scusasse, se non potea recarsi a Ferrara per renderglielo personalmente. Il co. Mazzucchelli crede che a questo tempo appartengano le lettere da noi già citate di Ambrogio camaldolese e dell’ Aurispa, in cui si parla del seguire che questi facea l'imperador greco. Ma noi abbiam già mostrato ch esse si debbon riferire alla prima venuta in Italia del medesimo principe. Il suddetto concilio diede verisimilmente occasione al pontef Eugenio IV di conoscer l’Aurispa (a), e efi'elto del conoscerlo fu lo stimarlo e quindi sceglierlo a suo segretario. Con tal nome lo veggiamo distinto da Ciriaco d’Ancona nel suo Itinerario p. '7) scritto, come ha provato l’ab Mehus (praef. ad Itin. Kiriac. p. 36), nell’an 1441 - Una bolla dello stesso pontefice del 14 i 2, citata dal Borsetti (Hist. Gymn. ferr. t. 2, p. 36), ci mostra che in questo anno ancora godeva l’Aurispa del medesimo impiego; e in esso fu confermato da Niccolò V, eletto pontefice l’anno 14-4? > come pruova il Pirro, il quale ancora rammenta (Sicil. sacra, t. i, in (a) Il sig. abate Marini crede probabile che Eugenio IV conoscesse I’Aurispa, quando quel papa venne a Bologna nel i43f>. Cerio egli era già segretario pontifìcio nel i437, nel qual anno il papa inandollo nunzio al re di Castlglia; indi nel i44° a ì>ieua, e 1 anno seguente a Venezia (l. rii.). » 47^ LIBllO Eccl. Sjr.) le due abazie che gli furono da lui concedute, cioè quella di S. Filippo de’ Grandi in Messina, e quella di s Maria della Roccadia in Lentini; la qual seconda però non potè egli godere, essendo già stata dal re di Napoli Alfonso conferita ad altri (V. Mazzucch. l. c.). Ma mentre ancor vivea Niccolò V, l’Aurispa, abbandonata la corte romana, fece ritorno a Ferrara. Non trovo qual motivo a ciò lo spingesse. Ma una lettera scrittagli dal FiIclfo a’ a(j novembre del 1450 ci mostra (l. 7, ep. 51) che allora appunto era l’Aurispa colà tornato da Roma. In Ferrara ei passò gli ultimi anni di sua vita; e a questo tempo io credo che debbansi riferire le lettere a lui scritte dal celebre Antonio Panormita citate dal card Querini (Diatr. ad Epist. Fr. Barb. p. ò 2) e dal co Mazzucchelli. In esse egli il rimprovera scherzevolmente, perchè divenuto in Ferrara sacerdote e piovano, siasi stranamente ingrassato, e insieme lo esorta a ritirarsi in Napoli alla corte del re Alfonso che ardentemente bramavalo, e presso cui avrebbe piacevolmente passata la sua senile e omai decrepita età (*). (*) La lettera con cui il Panormita scherza coll’Aurispa ch era divenuto prete e piovano, non appartiene al 1450. come io ho creduto, ma circa al cpo -, perciocché il Panormita medesimo scrivendo a un certo Santo, gli dà la stessa nuova: Aurispa nostri• Sa retri o\ est, et Plebanus designatur; e poscia soggiugne s Philelphus adhuc Florentiae: Gasparinus hic senio jam et invaletudine confectus (Epist. p. 62, ed. Ven. 1553). Or Francesco Filelfo recossi a Firenze nel 1429), e Gasparino Barzizza morì circa il 1431, come a suo luogo si è detto. terzo *479 L1 Aurispa fu insensibile a cotai lusinghevoli inviti, e continuò a soggiornare in Ferrara (a). Il co. Mazzucchelli dice ch’ ei morì in Roma nel 1459 e ne cita in pruova i Comentarj di Pio II. Ma questi al contrario racconta di se medesimo (Comm. l. 2, p. 57. ed. Frane, i G14) che, essendo venuto a Ferrara l'an 1459. furono a lui mandati dal duca Borso Guarino e l’Aurispa, e aggiugne che questi poco dopo morì in età di 90' anni; le quali parole abbastanza ci pruovano che’ei morì in Ferrara. Io credo però, che in senso alquanto più ampio si debba prendere quel paullo post usato da Pio II, e che l' Aurispa non morisse che verso la fine del 1460 perciocchè il Filelfo, in una lettera scritta a’ 4 di gennaio del i46i (l. iti, ep. 29) a Leonardo Sabbatino genero ed erede dell'Aurispa, parla della morte di questo, come di cosa avvenuta di fresco. Il veder qui rammentato il genero dell' Aurispa, ci mostra che questi prima di entrare nello stato ecclesiastico avea menata moglie, e avutane una figlia maritata poi al detto Leonardo (b). (a) Monsig. Fnbbroui avverte che l'Aurispa nel i4^4 fu in Firenze, e da Cosmo de’ Medici venne amorevolmente accollo; e cita ancora una lettera da lui scritta, in cui dice di aver trovati in una Libreria di Magonza 11 Panegirico di Plinio a Traiano, ed altri Panegirici antichi, i Conienti di Donato a Terenzio, ed altri antichi codici (Vini Comi. Muti. t.?., p. 227, ec.). (b) Il trovare una figlia dell’Aurispa mi ha fatto credere (e perchè dovea io pensare altrimente?’) che" egli avesse avuta moglie. Ma ei non l ebbe veramente; e forse s’ei risorgesse, avrebbe a dolersi dell’ab Marini, il quale ha scoperto e fatto sapere a tutti che non solo una, XII. Sut upert. «48o MURO XII. Le premure de principi e delle città in chiamare alle loro scuole questo celebre professore, l’amicizia e la stima ch’ ebber per lui Ambrogio camaldolese, Antonio Panormita, Francesco Filelfo ed altri celebri uomini di quel tempo, gli elogi ch’essi ne han fatto, alcuni de’ quali sono stati da noi accennati, altri si arrecano dal co Mazzucchelli, una medaglia in onor di esso coniata che vedesi nel Museo di questo medesimo cavaliere, ci mostrano che l’Aurispa fu avuto a’ suoi tempi in concetto di uno de’ più valenti ristoratori di amendue le lingue. Alcuni aggiungono ch’ ei fosse ancora onorato della corona d’alloro. Ma essi sono scrittori vissuti troppo lontan da que’ tempi per poterci far fede di cosa di cui non si trova vestigio alcuno negli autori contemporanei. Pochi però sono i saggi che del suo sapere ei ci ha lasciati. Alcune traduzioni dal greco, che diligentemente si annoverano dal co Mazzucchelli, e che ora non son molto pregiate, sono quasi gli unici frutti rimastici dei’ suoi studj. Tredici lettere ne han pubblicato i PP. Martene e Durand (Collect. Monum. t. 3, p. 709), e poscia coll’aggiunta di alcune altre l’ab Mehus (Epist. Ambr. camald. l. 24, ep. 47). Alcuni epigrammi se ne conservano manoscritti nella Laurenziana, e una breve elegia ne ha inserita nel suo Itinerario Ciriaco ina due figlie e un figlio ancora egli ebbe da una sua serva, come raccoglievi da un Breve dell’ ottimo pontefice NiccolòV del i453, da lui pubblicato, nel quale comanda eh’ essi siano considerati come se fosser nati di legittimo matrimonio (I. cil.). TKRZO l48| J’Ancona (l. cit). 11 Giratili, che ile’versi dell’Aurispa scrisse con qualche disprezzo, rivolse contro di se medesimo lo sdegno di più scrittori siciliani. Io credo però, che questi non esigeranno da noi che uguagliamo l’Aurispa a Virgilio e a Catullo, ma che saran paghi che ne lodiamo lo sforzo nell’ imitare i migliori poeti. Di alcune altre opere di minor conto, e con minor certezza attribuite alPAurispa, veggasi il soprallodato co Mazzucchelli (*). XIII. Più assai scarse notizie eransi finora avute di Vittorino da Fcltre, uno de’ più celebri professori di belle lettere ebe in questo secolo fiorissero, e in ciò che appartiene all’arte di formare eccellenti discepoli superior di gran lunga a qualunque altro. Ma la Vita che ne scrisse Francesco Prendilacqua mantovano, che lo avea avuto a maestro, pubblicata di fresco dal chiarissimo signor Natale dalle Laste, e con belle annotazioni illustrata dal signor D. Jacopo Morelli, non ci lascia cosa alcuna a bramare su questo argomento (*‘). Mo(* \ Alcune altre opere delTAurispa si annoverano nel Catalogo de’ IVI SS. della Biblioteca di S. Michele di Murano, ove anche ne è stata pubblicata qualche prefazione dall’autore ad esse.premessa (p. 82, ec.); e una intitolata De conquestu virtutis trovasi ms. nella libreria di S. Salvatore in Bologna. (’*) 11 I1. Maestro Vairani domenicano ha pubblicata di fresco la Vita di Vittorino scritta dal Platina (Cremonens. Monum. pars 1, p. 14, ec.), in cui a un di presso si narrano le stesse cose che si leggono in quella del Prendilacqua, la quale però a me sembra molto migliore. Nel nome dei’ genitori discorda il Platina dal TlRABOSCHI, Voi IX. l7 LIBRO munente più bello per l’eleganza dello stile al pari che per la sceltezza delle notizie non si '1 ato da più anni addietro; rimirar Vittorino come il più saggio e il più amabile fra tutti i professori di questo secolo. Io ne farò qui un brevissimo compendio, aggiungendo ancor qualche cosa tratta da altri scrittori di quel tempo. Egli ebbe a sua patria Feltre, da cui prese il cognome; ed ivi nacque circa il 1379 da Bruto de’ Rambaldoni e da una certa Monda, e fu di famiglia onorata, ma povera per tal modo, che spesso mancava ancor delle cose più necessarie. Inviato a Padova per gli studj, nella grammatica, nella dialettica, nella filosofia fece i più lieti progressi. Abbiamo altrove narrato ciò che gli avvenne con Biagio Pelacani, ch era ivi professore di matematica, e abbiam veduto che Vittorino ributtato dall’avarizia di quell’uomo per altro assai dotto, da se medesimo coltivò quella scienza, fino a destarne invidia e stupore nel Pelacani. Tornato frattanto dalla Grecia Guarin da Verona, Vittorino da lui apprese la lingua greca, e a lui si strinse per modo, che ed egli ebbelo sempre in conto di padre, e Guarino mandò poscia Gregorio uno de’ suoi figliuoli alla scuola di Vittorino. Così rendutosi presto famoso in Prenddacqua; perciocché egli gli dì» per padre Bruto Uomagno, non de’ Rambaldoni, e per madre una Lucia. Ma a me sembra che l’autorità del Prenddacqua sia da preferirsi a quella del Platina, perciocché il secondo non era stato, coinè il primo, scolaro di Vittorino. non può a meno di non TERZO 1483 Padova pel suo sapere, fu destinato ad essere in quella università professore di rettorica e di filosofia. Ma appena ebbe egli per un anno sostenuto il nuovo suo impiego, che sdegnato pe’ licenziosi costumi de’ suoi discepoli (come narra Francesco da Castiglione che gli fu scolaro in Mantova, e ne scrisse un elogio pubblicato (Vita Ambr. camald. p. 408) in gran parte dall’ab Mehus), abbandonata quella cattedra, passò a Venezia, ed ivi pur tenne scuola, e vi ebbe fra gli altri a discepolo Giorgio da Trabisonda. La cattedra di Vittorino in Padova si fissa dal Facciolati all’an 1422 (Fasti Gymn. patav. pars 2, p. 53). Nel seguente anno perciò dovette ei passare a Venezia, e ivi trattenersi circa due anni; perciocchè circa il 1425 passò a Mantova, ove visse il rimanente de’ giorni suoi. Gianfrancesco Gonzaga signor di quella città bramando di educar nelle lettere non meno che ne’ costumi i suoi figli, e udite avendo gran lodi di Vittorino, chiamollo a Mantova, e a lui confidolli; e già abbiamo altrove parlato (par. 1, p. 45) del lauto stipendio che assegnò al maestro, e della vaga e magnifica abitazione che per lui insieme e per gli scolari di esso fè’ fabbricare. Ivi i figliuoli di Gianfrancesco, e con loro più altri giovani vivean sotto la direzione di Vittorino ch era al tempo medesimo lor maestro e loro amantissimo padre. Il Prendilacqua si stende assai lungamente in descrivere la sollecitudine e l’impegno dell’ottimo professore nel formare alle lettere o alla virtù que’suoi cari alunni, le istruzioni che opportunamente veniva lor dando, il saggio l4M LIBRO congiungere ch’ ei faceva del rigore colla dolcezza, le accorte maniere con cui gli scorgeva all’emendazione de’ lor difetti, gli esempj che lor dava in se stesso d’ogni più bella virtù, e singolarmente d’una verginale modestia, di una continua vigilanza sopra i movimenti del suo animo, e di una sincera e fervente pietà, il severo contegno con cui sgridava e puniva coloro che lasciavansi trasportare a qualunque atto sconcio, o irreligioso, la bontà e l’affetto con cui provvedeva a tutti i loro bisogni, il giubilo che provava in vedere i lieti loro progressi, fino a spargerne lagrime di tenerezza. Appena si crederebbe che in un secolo in cui i costumi erano ancora comunemente sì rozzi, si potesse trovare un sì perfetto modello di letteraria e di civile educazione; e se tutti coloro ai’ quali è confidato l’ammaestramento de’ giovani, ad esso si confermassero, quanto lieti e copiosi frutti trarrebbono essi dalle loro fatiche! XIV. La scuola di Vittorino divenne ben presto la più famosa che fosse a’ que’ tempi in Italia; e non solo dalle provincie di essa, ma ancor dalla Francia, dall’Alemagna e perfin dalla Grecia venivan molti a Mantova tratti dalla fama di sì valoroso e di sì amabil maestro. Ed essi vi trovavano ogni sorta di mezzi con cui istruirsi non sol nelle scienze, ma ancor nelle belle arti; perciocchè per opera di Vittorino, a cui non veniva mai meno la magnificenza e la liberalità del march Gianfrancesco, erano in quel collegio raccolti i migliori maestri di gramatica, di dialettica, di alitineTERZO l485 fica, di musica, ili scriver greco e latino, di pittura, di ballo, di canto, di suono, dell’arte di cavalcare, i quali tutti senza esiger mercede tenevano scuola. Non è perciò a stupire se molti de’ più gran personaggi e de’ più dotti uomini di quel tempo si vantassero di aver avuto a lor maestro Vittorino da Feltre. Molti ne annovera il Prendilacqua, e tra essi alcuni degni di special ricordanza, quattro figliuoli del suddetto marchese, cioè Lodovico che poscia gli succedette, Carlo, Gianlucido e Alessandro, i quali tutti furon da lui istruiti a scrivere con eleganza in greco non men che in latino, e Cecilia loro sorella, istruita essa ancor nelle lettere; e che richiesta a sposa da molti, e singolarmente dal duca d’Urbino, volle anzi consacrarsi a Dio in un chiostro, e dopo grandi contrasti entrata in un monastero, ivi passò santamente tutti i suoi giorni; Giberto da Correggio che alla gloria delle lettere unì quella dell’armi, e fu poscia infelicemente ucciso in Siena all’ occasione di un tumulto; Federigo di Montefeltro, poscia duca d’Urbino, carissimo al suo maestro, da cui apprese ad amare e a protegger le scienze con quell’ impegno che altrove abbiamo descritto; Gregorio Corraro che fu poi protonotario apostolico, uomo assai dotto, e di cui si ha alle stampe un’eloquente lettera, ossia orazione da lui indirizzata alla suddetta Cecilia per confermarla nel suo disegno di consecrarsi a Dio (Martene. Collect. ampliss. t 3, p. 829, ec.), e di cui parla a lungo il P. degli Agostini (Scritt venez. t. 1, p. 108, ec.); Battista Pallavicino vescovo di Reggio, di cui abbiam falla i486 LIBRO menzione tra’ poeti latini; Ognibene da Lonigo, di cui diremo in questo capo medesimo; C0_ simo de’ Migliorati, pronipote d’Innocenzo VII Taddeo Manfredi de’ signori di Faenza; Gabbriello da Cremona; Gianfrancesco Bianchi; Gianfrancesco Soardi bergamasco che fu poscia con sua gran lode podestà in moltissime città d’Italia, e singolarmente in Firenze e in Siena; Lodovico Torriano famoso giureconsulto; Antonio Beccaria veronese, di cui abbiamo parlato nel ragionar de’ coltivatori della lingua greca; Jacopo Cassiani o da S. Cassiano cremonese e canonico regolare (come raccogliesi da una lettera del march Lodovico a Niccolò V, scritta nel 1449 indicatami dal sig. avv Volta), uomo, a detta del Prendilacqua, dottissimo in fisica, in dialettica e in mattematica, che fu nella scuola successore di Vittorino ed erede dei suoi libri, e chiamato poscia a Roma da Niccolò V, tradusse più libri dal greco, e ivi poco appresso finì di vivere: le quali circostanze, con alcune altre che qui si narrano dal Prendilacqua, sono state sconosciute all’ Arisi nell’ elogio che ci ha dato di Jacopo (Crem. litter. t 1, p. 253); Sassuolo da Prato, che scrisse un magnifico elogio del suo maestro, pubblicato dal P. Martene (Collect. ampliss. t. 3, p. 843), uomo che di niuna cosa gloriavasi maggiormente che dell’estrema sua povertà, grande amico di Francesco Filelfo (V. Philelph. Epist. l. 2, ep. 45; l. 3, ep. i5, 3i; /. 4» ep. 6, ec. ec.), e che dopo aver composta qualche operetta grammaticale, fece una morte poco degna di un saggio filosofo; perciocchè venendo TERZO 1487 ¿a Roma ad Arezzo, ed essendogli stato negato in questa città l’alloggio, perchè era appestato, egli o per furore di frenesia, o per violenza del male, corse a gittarsi in un vicin fiume, e, benchè trattone presto, morì il dì appresso; intorno a che è degna di esser letta una lettera dell’ab. Agliotti (l. 3, ep. 46); Francesco da Castiglione da noi mentovato poc’anzi, Giampietro da Lucca, Teodoro Gaza, Pietro Balbi da Pisa, che dal Prendilacqua si dice dottissimo in astronomia, e ch esercitossi ancora nel tradurre di greco in latino più opere annoverate dal co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. 1, p. 89, ec.) (a); Giannandrea da Vigevano, che fu poi vescovo di Aleria (*); Baldo Martorelli che fu poi maestro de’ figli di Francesco Sforza; Gabriello da Concorreggio c Pietro Manna professori di belle lettere, il primo in Brescia, il secondo in Cremona; Bernardo (a) Alle opere tradotte dal greco da Pietro Balbo pisano che si annoverano dal co. Mazzucchelli, deesi aggiugnere Procli Theologia, che al fine ha l’epoca de 23 di marzo del 1462, e ch è da lui dedicata a Ferdinando re di Napoli. Del codice che contiene quest’opera, mi ha data notizia il colto e mio benemerito amico sig. Giuseppe Beltramelli più altre volte da me lodato. (*) Giannandrea da Vigevano qui nominato scrisse egli pure un breve ma magnifico elogio del suo maestro Vittorino da Feltre, nella prefazione premessa alla sua edizione di Livio, in cui fra le altre cose osserva che fu Vittorino ’il primo tra’ professori a spiegare pubblicamente quel grande storico. Anche la Vita che del medesimo Vittorino scrisse Francesco da Castiglione, è stata in parte pubblicata dal ch. sig can Bandini (Cat. Codd. mss. lat, Bibl. Laur. t. 3, p. 4'5). 1^88 LIBRO Brenzone veronese celebre giureconsulto; e final, mente Niccolò Perotti, di cui diremo in questo capo medesimo. Questi sono i più illustri scolari di Vittorino, che dal Prendilacqua si au* noverano; ed ei si protesta di averne tralasciati innumerabili altri cui pure avrebbe potuto nominare con lode. Gli elogi con cui parlano del lor maestro egli, e Francesco da Castiglione, e Sassuolo da Prato, potrebbon forse parer dettati, se non dall adulazione, almen dalla riconoscenza. Ma un altro assai più autorevole testimonio dell egregie virtù di Vittorino e del valore dei' suoi discepoli, abbiam nelle Lettere di Ambrogio camaldolese. XV. Due volte passò questi per Mantova, la prima nell’an 1433, la seconda due anni appresso; e amedue le volte ammirò il sapere non meno che le virtù di questo celebre professore. Son giunto a Mantova, scriv egli nel primo viaggio (l. 8, ep. 49, 5o), e vi sono stato accolto con affetto e con bontà singolare da Vittorino, ottimo uomo e mio amicissimo. Egli è sempre, meco, per quanto gli permettono le gravi sue occupazioni; nè egli solo, ma la più parte ancora de’ suoi discepoli son diligenti e assai bene istruiti. Alcuni tra essi sono sì avanzati nel greco, che han cominciato a tradurre in latino. Uno ha tradotta la Vita di Cammillo, alcune favole di Esopo, e qualche cosa del Grisostomo... Io non temo di dire che non so di aver mai veduto uomo miglior di lui. Egli certo ti ama (scrive a Niccolò Niccoli), e ti rispetta moltissimo. Non si sa staccar dal mio fianco, se non con gran TERZO 1481) dispiacere; e nel parlare non sa trattenersi, dal piangere per allegrezza; talchè ben si vede (quanto teneramente, ami i buoni egli, che tanto mi ama senza alcun mio merito. Mi fa continuamente doni assai pregevoli, e alla mia professione ben adattati, e non ommette a mio riguardo alcun atto di gentilezza. E nella seconda lettera: Dopo avere scritta e sigillata la precedente, sono ito a riveder Vittorino, e a visitarne i libri greci. Egli ci è venuto incontro co figliuoli del principe, due maschi e una fanciulla di sette anni. De' primi il maggiore ha undici anni, cinque il secondo. Sonovi ancora due altri fanciulli di circa dieci anni, figliuoli di altri signori. Erano innoltre con lui altri scolari... Egli insegna la lingua greca a’ figli e alla figlia del principe: tutti sanno già scrivere in greco. Son nove in tutto, che scrivono sì bene, ch'io ne son rimasto attonito. Ho veduta la traduzione di qualche cosa del Grisostomo fatta da uno di essi; mi è piaciuta assai; tre altri più provetti fanno meravigliosi progressi. Sono stato più ore con lui; di più cose abbiamo insieme parlato, e ne ho ammirata la bontà non meno che la dottrina. Scrivendo poi del passaggio da lui fatto per Mantova nell’agosto del 1435: Andammo, dice (l. 7, ep. 3), al castello di Goito lontano dodici miglia da Mantova, ove avea udito esser allor Vittorino co'figliuoli del principe. Arrivammo, mentre pranzavano. Vittorino ci venne incontro con tal allegrezza, che non potè trattenersi dal piangere. Gli dissi perchè fossi colà venuto, cioè per vedere non meno lui che tutti i • 49° LIBRO suoi scolari, e abbracciai ben di cuore quell’uom sì cortese, ed egli pure strettomisi al collo, non potevamo saziarci di vederci, e di parlarci a vicenda. Mi fece vedere Giovanni Lucido figliuolo di quel principe, giovinetto di quattordici anni da lui educato ed istruito. Questi ci recitò allora dugento versi da sè composti, ne’ quali si descrive la pompa con cui fu accolto in Mantova l’imperadore; e recitolli con tale grazia, ch' io ne stupii, e appena so credere che con maggior grazia recitasse Virgilio il sesto libro dell Eneide innanzi ad Augusto. Bellissimi erano i versi, ma più belli ancora rendevali la dolcezza e l eleganza del dicitore. Ei mostrommi ancora due proposizioni da lui aggiunte alla Geometria d Euclide colle sue figure, le quali ci fan conoscere quanto ei sia per essere illustre in tali studj. Era ivi ancora una fanciulla figliuola del principe di circa dieci anni, che scrive sì bene in greco, ch’io mi vergognai riflettendo che di quanti io ne ho istruiti, appena vi ha chi scriva sì leggiadramente. Eranvi ancora molti altri di lui scolari, e tra essi anche de’ cavalieri, e tutti mi renderono grandi onori per comando di Vittorino, che diceva loro, ogni cosa tra noi esser comune. Voleva egli che ci trattenessimo ivi un giorno intero; ma allegando noi la necessità di continuare il viaggio, ci accompagnò col seguito di molti fino a sei miglia. Questi elogi medesimi di Vittorino ripete egli in altra sua lettera (l. 12, ep. 38), e più lungamente ancora nella descrizione di questo suo viaggio (Hodaepor. p. 34, 35). I TERZO |/,JI XVI. Tale è il carattere di questo veramente ammirabile professore, che ci formano gli scrittori tutti di questi tempi; ed è cosa ancor degna di maraviglia che in un secolo in cui gli uomini dotti si laceravano a gara gli uni gli altri, non si trovi pure uno che pargli di Vittorino con biasimo e con disprezzo. Narra bensì il Prendilacqua che furonvi alcuni in Mantova i quali ardirono di sparlarne e ancor d’insultarlo, e ch’ egli fu sempre lungi da ogni pensier di vendetta; che anzi ricolmò di beneficj i suoi stessi nemici. Ma a me non è avvenuto di ritrovare un solo fra gli autori contemporanei a Vittorino, che ne formi un carattere svantaggioso o quanto al sapere, o quanto a’ costumi. Ciò di che dobbiam dolerci, si è che di un uom sì famoso non ci sia rimasta opera alcuna. Il Prendilacqua e Francesco da Castiglione ne incolpano la modestia del medesimo Vittorino, che faceagli schivare ogni occasione di lode. Il Prendilacqua però ne accenna alcune lettere famigliari e alcune poesie italiane e latine da lui scritte in età giovenile. Di queste non ci rimane frammento alcuno. Il sig. D. Jacopo Morelli afferma di aver letta in un codice della libreria Nani una lettera di Vittorino ad Ambrogio camaldolese (in Not. ad Vit Victor, p. 35) (*); ed egli ha ancor pubblicate alcune poche parole di un’orazione da lui detta (ib. p. 50) conservataci da Paolo Atta vanti nella svi Su* (*) La lettera di Vittorino da Feltre ad Ambrogio camaldolese è stata pubblicata nel Catalogo de! MSS. di S. Michele di Murano (p. 1207, ec.).
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sua Storia inedita di Mantova. Ma quell’onore ch’ ei non si curò d’ ottenere colle sue opere, egli lo ebbe, quasi suo malgrado, da’ suoi discepoli che ne renderono eterna la memoria e il nome co’ loro elogi. Egli morì, come narra il Prendilacqua, a’ due di febbraio del 1447 in età di 68 anni; e a pubbliche spese (poichè egli, avvezzo a impiegare quanto avea di denaro in soccorso de’ bisognosi, era vissuto al pari che morto in una estrema povertà) coll’intervento di tutta la città e de’ principi fu con sommo onore sepolto nella chiesa di Santo Spirito, ma sul nudo terreno, com’egli stesso vivendo avea ordinato. Così il Prendilacqua, da cui ho tratte in gran parte le notizie intorno a Vittorino da Feltre, ommettendone però, per timor di soverchia lunghezza, moltissime che si potran leggere con piacere e con frutto nella Vita medesima. Io aggiugnerò solo che in un codice di questo monastero di S. Pietro di Modena de’ Monaci Cassinesi, il qual fu già del celebre P. Bacchini, conservasi un’ orazione inedita del medesimo Prendilacqua da lui detta nella scuola di Vittorino, per ringraziare i suoi condiscepoli che salvato l’ aveano dalla morte. Perciocchè un giorno sceso con essi a bagnarsi nelle vicine acque, ei fu a gran pericolo di rimanervi sommerso, se gli altri accorrendo con loro rischio non gli avesser recato pronto soccorso. E questa orazione ancora è una nuova testimonianza della dolce ed amichevole unione con cui sapea Vittorino stringere a vicenda tra loro tutti i suoi discepoli. TERZO 1493 XVIL Grati nome ebbe ancora a que’ tempi Gasparino Barzizza. Nel parlare di lui potremo più brevemente spedirci; poichè già ne ha scritta con somma esattezza la Vita il dottiss card Alessandro Furietti, che prima di ogni altro ha dato alla luce congiuntamente le Opere di Gasparino non meno che di Guiniforte di lui figliuolo (Romae 1723,4); e innoltre un diligente articolo intorno a questo celebre professore abbiamo nell’opera del co. Mazzucchelli (Scritt ital. t. 2, par. 1, p. 498, ec.). Io perciò accennando in breve ciò ch’ essi hanno affermato con certe pruove, mi tratterrò solo, secondo il mio costume, ove ci si offra qualche punto a esaminare. Gasparino figliuol di Bettino nacque verso il 1370 in Barzizza terra del Bergamasco, onde trasse il cognome, ed ebbe un fratel maggiore di età, detto Jacopo, e benchè questi avesse menata moglie, e avutine più figliuoli, egli ancor nondimeno si unì in matrimonio con Lucrezia Agliardi. Ciò che degli studj da lui fatti in Bergamo, e della scuola da lui ivi tenuta per qualche tempo ci narra il card Furietti, è assai probabile, ma non veggo ch’ egli ne accenni alcuna certa testimonianza (*); e non è pure abbastanza provalo, (*) È certo che Gasparino fu laureato in Padova, ove perciò convien dire ch’ ei facesse almen per qualche tempo i suoi studj. E avea egli conseguito quest’onore fin dal 1393, come ricavasi da un documento del detto anno addi latrimi dal ch. sig. ab Giuseppe Gennari -, e degno anche di riflessione, perchè in esso il padre di Gasparino non è detto Bettino, come presso il card Furietti, ma Pietrobuono. Gasparinus qu. domini Petroboni qu. domini Bonomi de Barziziis civis Pergami in grammatica et rethorica doctoratus. i4y4 libko come avverte il co. Mazzucchelb, eh’ ci fosse scolaro di Giovanni da Ravenna. Pavia è la prima università in cui si può affermare con sicurezza che Gasparino fu professore di belle lettere. Nel catalogo dei professori dell’ università di Piacenza del 1399, quando colà era stata trasportata quella di Pavia, come altrove si è detto, non troviam menzione di Gasparino; e perciò dee credersi che solo al principio del sec xv vi fosse chiamato. Ei vi era certamente nel 1404 come raccogliesi dagli Atti di quella università da me altre volte citati. Ivi ancora nel 1406 gli nacque Guiniforte suo figlio, come mostra il co. Mazzucchelli (ib. p. 504), e ne abbiamo ancor pruova nel memoriale presentato da Gasparino al duca Filippo Maria Visconti, in cui parlando di Guiniforte dice: huius vestri Papiensis studii atque Urbis, apud (piata natns filerai (Op. p. 88). Dagli Atti suddetti raccogliesi che a’ 12 di marzo del 1407 ei ne fu congedato: Dimissio Magistri Gasparini et substitutio Joannis de Cremona cum scolario. E allora ei dovette passare a Venezia, ov è certo che per qualche tempo ei si trattenne, e vi ebbe a scolaro Francesco Barbaro allor fanciullo. Anzi ei fu alloggiato nella stessa casa del Barbaro; perciocchè questi in una sua lettera parlando di certi epigrammi di Marziale, dice di essi: quae adhuc pueris nobis apud eloquentissimun Gasparinum Bergomensem hospitem nostrum in sj mposio doctorum hominum apposita sunt (ep. 118, p. 158). Il Facciolati ci narra (Fasti Gymn. pat. pars 2, p. 119) che l an 1407 (cioè probabilmente al finir Tinto 14y5 di quell’anno) ci fu chiamato professor di rettorica a Padova j eh’ egli a questa scuola volle ne dì di vacanza congiungere quella ancora di filosofia morale; e che gli fu assegnato lo stipendio di 120 ducati. Questa università fu in fatti la sede ordinaria di Gasparino; perciocchè i due viaggi che il card Furietti racconta fatti da lui nel 1411 e nel 1412 a Ferrara e a Venezia, non furono che di breve durata, e non mai veramente abbandonò la sua cattedra. Fu bensì richiesto dai’ Bolognesi, ma non parendogli vantaggiose abbastanza le condizioni offertegli, non volle partir da Padova. Ivi però per le sinistre vicende de' tempi, e per l’incarico ch’egli pietosamente si addossò di sostentare otto figliuoli di Jacopo suo fratello morto nel 141 o7 ei venne in tal povertà, che con suo gran dispiacere fu costretto a vendere all’ incanto i suoi libri: e opportuno perciò fu il soccorso che ottennegli Fantino Dandolo podestà di Padova nel 1412 col fargli accrescere di 40 ducati l’ordinario suo sliDopo aver più anni esercitata in Padova la sua professione, fu Gasparino da Filippo Maria Visconti duca di Milano chiamato a quella città, perchè ivi tenesse scuola pubblica di eloquenza. Egli era ancora in Padova nel dicembre del 1417; come ci mostra una lettera da lui scritta a Lorenzo Bonzi (Op. p. 213). Ma nell’ottobre dell’anno seguente egli era già in Milano j perciocché essendo venuto a quella città il pontef Martino V, nel! tornare dal concilio general di Costanza, Gasparino pendio. xvm. 14'jG unno iu destinato a complimentarlo con una sua orazione che abbiamo alle stampe ib. p. 76) (a). li qual fosse la stima che aveasi dell eloquenza di Gasparino, da ciò ancor si raccoglie, che dovendo le università di Pavia e di Padova mandare oratori a complimentare lo stesso pontefice, egli fu incaricato di stendere le orazioni che da’ lor messi doveansi recitare, e che abbiamo tuttora fra le opere di Gasparino (ib. p. 80, 82). In Milano passò egli il rimanente de’ giorni suoi, caro però sempre ed accetto a quel duca, come afferma Guiniforte di lui figliuolo (ib. p. i3)j e perciò a ragione Francesco Filelfo in una lettera scrittagli nel 1428 con lui congratulossi che avesse la sorte di esser presso del miglior principe che allor avesse il mondo (l 1, ep. 32). Ciò non ostante una lettera da lui scritta a’ due suoi figli Guiniforte ed Agostino nel 1429 (Op. p. 219) ci accenna oscuramente alcune disgrazie ch’ egli insiem con essi dovea soffrire. Il card Furietti e il co. Mazzucchelli riflettendo al memoriale che Guiniforte offerì al duca Filippo Maria a’ 18 di febbraio del 1431, in cui chiede di esser destinato alla cattedra d’eloquenza tenuta già da Gasparino suo padre (ib. p. 10), ne argo(a) Par nondimeno che non fosse allora stabile il soggiorno del Barzizza in Milano j perciocché due altri documenti padovani, accennatimi dal soprallodato abate Gennari, cel mostrano in Padova nel 1420 enei 1421. Alcuni pregevoli monumenti per la storia de’ professori di quella università del secolo xiv mi ha egli gentilmente comunicati j ma per mia sventura Uoppo tardi mi sono arrivati per poterne far uso. TERZO! ^ mentano con assai probabile congettura che non molto innanzi avesse questi cessato di vivere; di che però non abbiamo monumento sicuro. Lo stesso co. Mazzucchelli ha in parte riferiti, e accennati in parte gli elogi de’ quali egli è stato onorato dagli scrittori di que’ tempi, i quali concordemente lo annoverano tra coloro che felicemente adoperaronsi in richiamare il buon gusto della lingua latina e dell antica eloquenza, benchè pur vi abbia chi lo riprenda di aver fatto più studio sull’eleganza delle parole che sulla forza dell’ orazione. Abbiamo altrove veduto ch’egli ebbe ancora gran parte nello scoprire e nell’ emendare i codici degli antichi autori. Finalmente il sopraccitato scrittore ci ha dato un esatto catalogo di tutte le opere sì stampate che inedite di Gasparino, le quali a quattro classi comunemente si posson ridurre, cioè ad alcuni brevi trattati appartenenti a grammatica e ad eloquenza, e parecchie orazioni da lui recitate in diverse occasioni, o composte per altri, a molte lettere scritte a’ suoi amici, ed altre di proposta e risposta da lui scritte ad esercizio e ad istruzione de’ suoi discepoli. Tre altre lettere ne ha pubblicate monsig Mansi (Miscel. Baluz. t. 3, p. 166, 432), e alcune se ne conservano in questa biblioteca Estense (a). (a) Presso i signori conti Carrara Beroa, altrove nominati, conservasi in Bergamo un codice ms. che contiene molte orazioni e molte lettere di Gasparino sconosciute al card Furietti; e un’ orazione fra le altre a un papa, cioè, come sembra, e Martino V, Tiiuboschi, Voi. IX. 18
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XIX. Più varie furono le vicende di Guini> forte di lui figliuolo, il quale se non giunse ad ottenere la fama del padre nell eloquenza e nell’eleganza, il superò ne’ gradi d’onore a cui fu sollevato. Intorno a lui ancora abbiamo un esattissimo articolo presso il co Mazzucchelli (l. c. p. 504), di cui tesserò qui un breve compendio, rimettendo chi ne voglia più esatta contezza allo stesso scrittore, il quale conferma ogni cosa da sè asserita con certe pruove tratte principalmente dalle opere del medesimo Guiniforte. Nato in Pavia nel 1406, diede fin da fanciullo sì grandi pruove di’ ingegno, che, mentre non avea che sette anni di età, suo padre solea chiamarlo divino. Fatti i suoi studi da cui potrebbe raccogliersi ebe il Barzizza fosse stato nominato dal papa suo cameriere. Ma è probabile che essa fosse bensì dal Ilarzizza composta, ma in nome di qualche altro, come veggiam eh’ ei lece altre volte. In una delle acceunate lettere, ch’egli scrive a un suo figlio, fa menzione della laurea conferita in Pavia all’altro suo figlio Guiniforle, di cui qui ragioniamo; il che ci mostra che fu di fatto superato 1’ ostacolo che vi si era frapposto, e che quell’atto riuscì a sommo onore di Gùiuiforte: Guìniforlus fratcr tuns, gli scrive egli, Urenti aiti s et doctoratu* est in arti bus. Non est curii Dei gratin audlimi multis saeculis quemquam ita mirifice se grssissc, aut qui tanto concursu ac frequentici hominum doctissimoruni sii expeditns. Omnes enìm divinissimum puerurn dixerunt: alti... alii ylngelum. D. Christophorus de Casteliono omnibus audieutibus dixic ei: liralus venter, qui te portavit. Una die respnndit mane de duabus difficillimis quaestionibus in phi/osopliia, post prandtum de duabus aliis, et de quolibel, de quo aliquis dubitare voluisset. Omnibus stupentibus mìrabiliter omnibus satisfecit, et id palarli dietimi est, curri etiarn doctorcs fauiosos cxcessisse. TERZO | /,gg nell’ università di Padova, e passalo poscia a Pavia, vi chiese i consueti gradi d’onore; ma vi trovò ostacolo nella legge che vietava a chi an* cor non avesse 20 anni il conseguirli. Quindi Gasparino porse un memoriale al duca Filippo Maria, in cui supplicò che non ostante tal legge potesse quell’ onore concedersi a Guiniforte, cui in esso egli chiama istruito nelle lettere greche e latine, e in parte ancor ebraiche (Op.p. 88). Ed è certo che allora, o poscia i desiderj di Guiniforte furono secondati; perciocchè il troviam onorato del titolo di dottore non solo delle arti, ma ancor di legge. Poichè fu morto Gasparino, Guiniforte chiese, come si è detto, di succedere al padre nella cattedra d’eloquenza da lui tenuta in Milano, e benchè essa fosse stata conferita dal duca a Frate Antonio da Ro dell Ordine de’ Minori, ei lusingavasi nondimeno sì fattamente di ottennerla per sè ancora, che cominciò da sè medesimo l’an 1431 a tenere scuola, nel cui aprimento disse l’ orazione che abbiamo alle stampe (ib. p. 16). Ma deluso dalle sue speranze, fu costretto ad accettar l'invito che in quell’ anno stesso gli venne fatto da’ Novaresi, di venire a spiegare nella lor città i libri di Cicerone de Officiis, e le Commedie di Terenzio; al che egli diede principio con sua prefazione recitata pubblicamente agli 8 di luglio. Ma assai breve fu il soggiorno di Guiniforte in Novara. Perciocchè per mezzo di Ugo da Villafranca insinuatosi nella grazia di Alfonso re di Aragona, passò a quella corte, e con una orazione innanzi a lui recitata in Barcellona a’ 14 di marzo del i,\5a (ib. p. 19 ne ottenne il favore, per modo che Alfouso 15oo unno dichiarollo suo consigliero. Quindi postosi in mare, navigò col re stesso alla spedizione contro l’isola di Gerbi su’ lidi d Africa occupata dal re di Tunisi, la cui conquista fu da lui stesso descritta (ib.p. 63). Di là tragittatosi in Sicilia, e caduto infermo, per consiglio de’medici fece ritorno a Milano, e ivi chiese supplichevolmente ed ottenne il suo congedo dal re Alfonso, a cui nondimeno proseguì ad esser assai caro. Il duca Filippo Maria onorollo del titolo di suo vicario generale; la qual dignità non distolse però Guiniforte dall’accettare la cattedra di filosofia morale, che finalmente gli fu conceduta insieme con lauto stipendio al fine del 1434 Elench. Actuum Sliulii tiriti, cui h. a.). Più nondimeno che della scuola, fu Guiniforte occupato ne’ pubblici affari, inviato ambasciadore dal duca al pontef Eugenio IV, al re Alfonso e al pontef Niccolò V. E negli Atti dell’ università di Pavia troviamo che l’an 1441 fu dal duca ordinato che, benchè ei fosse assente, gli si passasse il conceduto stipendio; e che questo gli fu accresciuto nel 1444 Dopo la morte di Filippo Maria, Guiniforte fu per qualche tempo al servigio del marchese di Monferrato e del duca Borso d’Este; ma poi da Francesco Sforza richiamato a Milano, e onorato col titolo di ducal! segretario, ivi passò il rimanente di sua vita. Il co. Mazzucchelli confuta l'opinione d’ alcuni scrittori che il dicon morto nel 1450, e da un’orazione a Pioli da lui composta per Galeazzo Sforza figliuol del duca l’an 1459 (Op. p. 57), mostra che fino a quell’ anno almeno egli visse. Al che io aggiugnerò che nello stesso anno troviamo TERZO l5ól eli' egli accompagni» nel viaggio n Firenze il medesimo Galeazzo, e con lui fu alloggiato in Bologna nel palazzo Gregoriano (Script. Jìcr. ititi■ voi. 18, p. 729). Dopo quest'anno però non veggiam più fatta menzione di Guiniforte ed è probabile che poco oltre sopravvivesse. Il suddetto card Furietti ne ha pubblicate, le opere, che sono per lo più epistole ed orazioni scritte in uno stile comunemente elegante e colto 5 oltre le quali alcune altre ne annovera il co. Mazzucchelli, e singolarmente un Comento latino sulla Commedia di Dante, di cui però non ci è rimasto che il solo proemio (Op. p. 79). XX. Materia più ampia di ragionare ci darà Francesco Filelfo, un de più celebri professori di questa età, non perchè ei non abbia di già trovati diligenti illustratori della sua vita, ma perchè ei fu uomo per onori non meno che per inimicizie famoso, e esposto più che ogni altro a cambiamenti e a vicende. Ne’ 37 libri di sue Lettere, che ci sono rimasti, nelle sue Satire, e in più altre sue opere spesso ei parla di sè medesimo, e spesso pure fanno di lui menzione, quali in biasimo e quali in lode, molti scrittori di quei tempi, fra’quali Vespasiano fiorentino ne ha scritta una breve e troppo superficial Vita ch è stata pubblicata in Roma nell’ an 1775. Fra’moderni il primo a scriverne stesamente la Vita fu Arrigo Foppio (Miscell lipsiens. t 5, p. 322), il quale però e ha ommesse più cose e ha commessi più falli. Dopo lui una assai più stesa e più esatta Vita del Filelfo ci ha data M. Lancelot (Mcm. xx. Si enltt a putlare di FranciiroFì* I «'Ilo» 1503 unito de FAead. des Inscr. t 10, p. 691), di cui si è singolarmente giovato il P. Niceron (Mem. des Hom. ill. t. 42, p. 230). Alle ricerche d’essi ha aggiunte più cose Apostolo Zeno (Diss. voss. t. 1, p. 275), e qualche altra notizia ce ne ha somministrata il dott Sassi (Hi st. tjrpogr. mediai.). Noi dunque, seguendo il nostro costume, direm brevemente ciò che questi illustri scrittori hanno stesamente provato, e ci tratterremo soltanto ove ci avvenga o di combattere le loro opinioni, o di aggiugnere qualche cosa alle loro ricerche. XXI. Francesco Filelfo nacque in Tolentino nella Marca d'Ancona a’25 di luglio del 1398; cosa da lui ripetuta più volte nelle sue Lettere, quasi temesse che su ciò prendessimo errore. Ma nulla egli ci dice intorno alla qualità dei’ suoi genitori, e alla taccia che Poggio gli appose (Op. p. 176, cd. llnsil. i538; in Invect. 2, in Phil. et. in Facetiis p. 470), di bastardo e di figliuolo di un prete. I sopraccitati scrittori di ciò non fanno alcun cenno. Ma io penso che questa sia una dell’ imposture con cui Poggio cercò di oscurare la fama del Filelfo, e molto più che non veggo ciò affermarsi da alcun altro antico scrittore. Andossene a Padova, ove alla scuola di Gasparino Barzizza fece gli studj dell’ amena letteratura con sì felice successo, che giovinetto di non ancora vent’ anni vi fu destinato a professor d’eloquenza (a). Se dovessimo credere (<7) Costantino Lascari nel passo altrove prodotto annovera il Filelfo tra gli scolari del Grisolora in Firenze. terzo i5o3 a Poggio, non vi sarebbe infamia e delitto di sorta alcuna, di cui il Filelfo nei’ primi anni di sua gioventù bruttamente non si macchiasse. Egli cel rappresenta in reo commercio con un prete, a cui era stato affidato; poscia in Fano malconcio di pugni e di calci, e costretto a rifugiarsi in una bettola ed appiattarvisi sotto di un letto; quindi in Padova bastonato pubblicamente e cacciato dalla città per opera di uno, il cui figlio egli avea sedotto; e finalmente in Venezia infamato per modo, che gli convenne fuggirsene in Grecia (ib. p. 177, 178). Il Filelfo ha rigettate cotali accuse in una sua lettera a Leodrisio Crivelli, negandole apertamente (Epist. l. 26); e benchè il negare sia cosa agevole a farsi, e non basti a provar l’innocenza dell'accusato, qui nondimeno a favor del Filelfo si aggiugne l invito ch' egli ebbe a tenere scuola di eloquenza in Venezia, ove si trattenne dal 1417 “I '4'9; l’onore che vi ricevette della veneta cittadinanza, e il titolo di cancelliere che gli fu accordato, acciocchè con maggior decoro potesse andarsene a Costantinopoli; le quali onorevoli distinzioni non sarebbono state, per quanto sembra, concedute al Filelfo, s’ ei fosse stato quell uomo ribaldo e perduto che Poggio descrive. Anzi lo stesso Filelfo racconta, ch essendo in Venezia, pensò di rendersi monaco in S. Giorgio maggiore, ma ne fu sconsiglialo da BarMa è impossibile ¡1 combinar cib coll’ epoche inrontrastabili delta nascila del Filetto nel,3<)S. e della cattedra dal Grisolora tenuta ¡11 Firenze tra i i3tyc) c i lijoa. i5o4 Linno / tolommeo Fracanzano, il quale poscia feci egli stesso ciò che avea dissuaso al Filelfo (l 1, ep. 43). La scuola dal Filelfo tenuta in Padova è certa pe' monumenti da noi accennati. I na lettera di Francesco Barbaro, già rammentata nel parlar che altrove abbiamo fatto di Giorgio da Trabisonda (l. a, r. a), ci pruova che quando egli era per navigare in Grecia, faceva scuola in Vicenza. Il che come si possa combinare con ciò che abbiam detto, non saprei congetturare, se non forse dicendo che da Padova ei passasse a Vicenza, e dopo a Venezia per andarsene in Grecia, ma che fosse ivi trattenuto ad insegnare per qualche tempo. L’an 1420 (non il 1419; come scrive il Lancelot; poichè è certo per testimonianza dello stesso Filelfo, ch ei non fu assente da Venezia che sette anni e cinque mesi) tragittò a Costantinopoli, come si è accennato; ove sotto la direzione di Giovanni Grisolora figlio di Manuello e dgpiovanni Crisocroce fece grandi progressi nella lingua greca. Ivi ei prese in moglie Teodora figlia del suddetto Grisolora e di Manfredina Doria; e correggersi debbono gli scrittori che hanno affermato ch’ella era figlia di Manuello, ingannati da una non bene intesa iscrizione che riportasi dall’Argelati (Bibl. Script, mediol, t. 2, pars 2, p. 2089), e che più correttamente è stata pubblicata dal ch. P. Allegranza (De Sepulcr. Cristian.). Questo matrimonio del Filelfo diede occasione a un altra accusa di Poggio. Perciocchè questi gli rimproverò di averla presa a moglie dopo averla violata (Invect. p. 178). Io crederci volentieri, tetizo (5o!Ì come ha asserito il Zeno, che questa ancora fosse una pretta calunnia. Ma confesso che mi tiene alquanto dubbioso una lettera di Ambrogio camaldolese scritta verso questo medesimo tempo, e assai prima che Poggio dichiarasse guerra al Filelfo, in cui di queste nozze dice: Nuper a Guarino accepi litteras, quihus vehcmenter infortunam mvehitur, quo Jiliam Joannis Chrysolorae clarissimi viri is acceperit exterus, qui, quantum libet borio ingenio, longe tamen illis nuptiis inipar essct, querìturque substomac/ians tixorem Chry solorae venalem habuisse pudicitiam, moechumque ante habuisse quam socerum (l. 8, ep. 9) (’). Le quali parole sembrano accusare il Filelfo di delitto commesso, non colla figlia, ma colla madre; e ci provano almeno che fin d’allora corsero intorno a un tal matrimonio voci non molto onorevoli al Filelfo. E certo però, che questi seppe ivi ottener la grazia de1 due imperadori Paleologi Manuello il padre e Giovanni il figlio, da’ quali fu inviato nel 1 ambasciadore al sultano Amurat II, e all1 impcrador Sigismondo; e in occasione di questo secondo viaggio, invitato da Ladislao re di Polonia ad assistere alle reali sue nozze, vi si trovò presente in Cracovia Fauno 1424z e ^ (*) Intorno a questo passo mi è stato fatto riflettere che se questo fosse il senso, sarebbesi dovuto dire generum, e non socerum, perchè il Filelfo veniva ad esser genero della madre. La riflessione è verissima, ma per una parte il testo di Ambrogio, il qual si ha alle stampe, dice socerum; per l’altra io non saprei qual altro senso aver possano quelle parole: onde io lascio a sciogliere questo problema agli eruditi. l5o6 LIBRO recitò un’ orazione alla presenza dell imperadore e del re di Danimarca e di più altri principi. XXII. L’an 1427 partì da Costantinopoli, invitato con replicate preghiere da molti nobili veneziani, e a’ 10 di ottobre giunse a Venezia, e ne diè parte con sue lettere a Leonardo Giustiniani e a Francesco Barbaro primari suoi protettori, e allora assenti da Venezia per timor della peste. Questi il lusingarono per qualche tempo colla speranza di onorevole stabilimento; ma il Filelfo veggendo che le parole non mai cambiavansi in fatti, annoiato finalmente se ne partì, e nel febbrajo del 1428 passò a Bologna. Che questa fosse la ragion vera della partenza del Filelfo, e non già i furti da lui fatti al Giustiniani e al Barbaro, come gli rinfaccia Poggio (l. c. p. 179), è abbastanza chiaro non solo dalle prime lettere dello stesso Filelfo (l. 1), nelle quali continuamente si lagna del non attenerglisi le fatte promesse, ma ancor dal riflettere che il Giustiniani ed il Barbaro furono sempre assenti, mentre il Filelfo si trattenne in Venezia, come le stesse lettere pruovano chiaramente. E ugual fede sembra che meriti un altro fatto, che dal Poggio raccontasi, di certo vasellame d’ argento dal Filelfo involato ad un frate, che per sua sventura gli si era dato a compagno nel viaggio da Venezia a Bologna. L’ accoglimento ch’ egli ebbe in Bologna, fu tale, che il più onorevole non potea bramarsi. Gli scolari e i professori tutti e gran numero di cittadini furono subito a visitarlo, c il cardinal legalo TF.RZO 1507 Lodovico Alemando vescovo d’Arles lo accolse con sommo onore; e tosto ei fu destinato a leggere eloquenza e filosofia morale coll ampio stipendio di 450 scudi d’ oro. Ma i tumulti che non molto dopo si sollevarono in Bologna, gli renderono spiacevole quel soggiorno j e adoperossi per modo, che fu da’ Fiorentini invitato a tenere scuola nella loro città con promessa di 300 scudi d’oro pel primo anno, e di accrescimento di stipendio per gli anni seguenti. Superate non poche difficoltà che alla sua partenza si attraversarono, delle quali ei parla a lungo nelle sue lettere ad Ambrogio camaldolese (Ambr. camald. Epist. l. 24, ep.29), passò finalmente a Firenze nell’aprile del 1429 Una lettera da lui scritta alTAurispa a’3i di luglio di quest’anno medesimo ci mostra quanto ei fosse lieto del suo nuovo soggiorno: Firenze, dic egli, mi piace al sommo; perciocchè ella è città a cui nulla manca, o si consideri la magnificenza e la bellezza degli edificj, o la nobiltà e lo splendore de’ cittadini, Aggiugni che tutta la città a me solo è rivolta: tutti mi amano, mi onorano tutti, e mi lodano sommamente. Quando esco per la città, non solo i primarj cittadini, ma le più nobili matrone ancora per onorarmj mi cedono il passo, e mi rispettan per modo, ch' io ne ho rossore. Ho ogni giorno quattrocento e più scolari, e questi la più parte uomini di alto affare, e dell ordine senatorio (l. 2, ep. 2, ec.) Egli era ivi destinato singolarmente alla lettura di Dante, come raccogliesi da un decreto del pubblico de’ 12 marzo i4-3i prodotto dal canonico i f»o8 unno Salvino Salvini, in cui egli venne ascritto a quella cittadinanza (Fasti consol. pref. p. 18) (a). Questo scriltor medesimo cita un decreto dell’anno 1455, da cui si trae die anche in quest1 anno era il Filclfo in Firenze nello stesso impiego; ma tutte le lettere da lui scritte in detto anno col mostrano in Milano, e convien dire perciò, che sia corso in quel numero qualche errori;. Ma in mezzo a sì grandi onori soggiugne il Filelfo eh’ ei ben si avvedeva di aver de’ nemici. E nomina Niccolò Niccoli e Carlo Aretino 5 e anche di Ambrogio camaldolese mostra di non fidarsi abbastanza. Da Cosimo de1 Medici confessa di essere onorato ed amato. Ma poscia questi non men che Lorenzo fu da lui posto nel numero de1 suoi nemici. E certo il Filelfo nelle sue lettere scritte ne1 cinque anni eli’ei si trattenne in Firenze, ci parla assai spesso delle persecuzioni eh1 ei vi ebbe a soffrire, e narra fra le altre cose il pericolo in cui trovossi un giorno, che andando alla sua scuola fu assaltato colla spada alla mano da un sicario, e a gran pena camponnc la vita (l. 3, ep. 4)} e mostra d1 esser persuaso che (a) Monsig. Fabbroni ha prodotto un decreto del Comun di Firenze de’ io marzo di questo stesso anno 1431, in cui comanda che Francesco Filelfo interprete di Dante sia confinato a Roma per avere ingiuriosamente parlato della Repubblica veneta (Vita Cosm. Med. t. 2, p. 69). Se dunque esiste il decreto dal Salvini pubblicato de’ 12 dello stesso mese, convien dire che gli amici del Filelfo si maneggiasse!- per modo che ottenesser la rivocazion della pena due giorni prima intimatagli. E certo ei continuò ancor qualche anno il soggiorno in Firenze. TERZO l509 il colpo venisse da’ Medici o da’ lor partigiani (a). Or di queste sì calde e sì oslinate uiinici/.ie qual crederem noi che fosse l’origine? Il Filelfo altra non ne riconosce che l’ invidia contro di sè conceputa. Poggio al contrario l’ attribuisce a’ delitti e alla scostumatezza del Filelfo. Ma il primo è un reo che parla nella sua propria causa; il secondo è un dichiarato nimico che non debb’ essere udito. Io trarrò qualche lume per rischiarar questo punto dalle Lettere di uno che, benchè fosse egli pure sospetto al Filelfo, parla nondimeno in maniera che si mostra giudice imparziale non meno che saggio in tali contese, cioè di Ambrogio camaldolese. Egli scrive assai lungamente di queste discordie in una sua lettera a Francesco Barbaro (l. 6, ep. 21), e dice che il Filelfo e il Niccoli (poichè questi per confession del Filelfo fu il principale tra suoi nemici) eran dapprima stati amicissimi, ma • he ora l’amicizia era cambiata in irreconciliabil discordia; che il Niccoli mostrava in addietro rispetto e deferenza sì grande verso il Filelfo, che potea sembrare soverchia"; ma questi più avido di ammassare denaro, che di serbar l amicizia, avea cominciato a cercar pre(a) Le nemici z.ie che il Filelfo ebbe in Firenze, giunsero a tale, che ei fu costretto a starsene in casa, ed ivi tenere le sue lezioni. Cosi raccogliamo da un" orazione ebe uis. se ne conserva nella Laurenziana da lui detta nidi’ottobre del 143f, e innanzi ¡1 cui si legger Orario Inibita in principio pub li ime leclionis, quarti domi legere aggmsus est, quum per invidos publtce nequiret (Band. Cat. C'odd. ¡Ubi. Laur. I. 3, p. 4<p).
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testi di romperla col Niccoli; e che avealo trovato nella libertà con cui questi, secondo il suo ordinario costume, non solo non approvava ogni parola che egli dicesse, ma riprendeva ciò che stimava degno di correzione j die di qua era nato lo sdegno del Filelfo contro il Niccoli, e ch’egli l’avea sfogato con una’invettiva da lui so lita contro il preteso suo avversario, in cui rimprovei avagli i più neri delitti; cosa, egli dice, che ha stomacati tutti coloro a’ quali era ben nota la vita di Niccolò. Nè crediate, aggiugne Ambrogio, ch io parli così, perchè non voglia riprendere in cosa alcuna il Niccoli, di cui io non approvo la soverchia libertà di parlare, benchè ella venga da animo schietto e sincero; ma pel rimanente so ch’egli è uomo dabbene. E in altra lettera a Leonardo Giustiniani così dipinge il Filelfo (ib. ep. 26): Egli ha alquanto, o, a dir meglio, moltissimo di leggerezza e vanità greca; mi viene a trovare, e anche troppo sovente, e promette di sè stesso gran cose. Ma presso coloro che ben s’ intendono di cotai merci, meglio ei farebbe se parlasse più parcamente di sè medesimo; perciocchè la lode, ancorchè vera, in bocca propria suol riuscire spiacevole. Dio lo aiuti. Or un uomo che tanto presumeva di se medesimo (e di ciò abbiam! pruove anche in molte sue lettere), non è maraviglia che si eccitasse contro lo sdegno e l’ odio di molti: e che trovando nel Niccoli un libero e franco biasimatore delle sue cose, ei se ne risentisse per modo, che si venissero poscia formando quelle funeste discordie che finalmente furon dannose al solo Filelfo. TERZO I5II XXIII. Perciocché questi, quando vide che il partito dei’ Medici, abbattuto nel settembre del 1433, era risorto un anno appresso più forte che prima, credè saggio consiglio l’ abbandonare Firenze, se pur ei non ne fu esiliato, come racconta Vespasiano fiorentino nella Vita del Filelfo da noi poc’anzi citata (a); il quale aggiugne che il Filelfo divenne nimico di Cosimo, perchè questi veggendo ch’ei s’impacciava ne’ pubblici affari più che a lui non si conveniva, affin di abbassarlo, fece venire a Firenze a competer con lui Carlo Aretino, la cui scuola rendette presto deserta quella del Filelfo. Ei recossi allora a Siena, ov egli era al principio dell’an 1435 collo stipendio di 350 scudi d’oro. Cosimo de’ Medici, il quale se (n) Le lettere del Filelfo scritte nel i4”3 a Lorenzo de’ Medici, pubblicate da monsignor Fabroni, e che citeremo più sotto, ci mostrano ebe ci fu veramente da Fiienze esilialo come ribelle: Consideralo, due egli, la vostra legge cantra di rubelli, tra’quali per opera della buona memoria di Carlo d’Arezzo c di Poggio con la loro sinagoga io fui ingiustissimamente connumerato. E in un’altra: Quando ultimamente io leggeva a Firenze, liairva fiorini 351 l’anno.... la qual mia condotta fu per anni tre, 11 fini nel 54 (è corso errore di stampa, e dee leggersi del 34« come dulie cose qui dette è palese, e anebe dall’ epoca della morte del Pìccoli, die accadde nel ■ 4^7) nel qual anno del mese (l’Agosto fui recondotto ptr altri anni tre a' fiorini 45: per c ’ascltun anno, il che non ebbe liK>go; perocché fasta la novità del mese di Septembre, furono facti Qffitiali de lo studio niellimi tucti a me conirarj, tra’ quali era Niccolò Niccoli et Franco Sacchetti. Jl perché io presi partilo, et andai a Siena. l5l2 libro odiava i vizj del Filelfo, pregiavane però l’p» rudizione e il sapere, tentò di renderselo di nuovo amico, e gli fece a tal fine scrivere da Ambrogio camaldolese. Le due lettere con cui il Filelfo gli risponde, l una del primo d’ ottobre del 1437, l’altra de’9 di dicembre dello . • 1 « » 11 • stesso anno, ci scuoprono sempre più l animo indocile ed altiero di questo scrittore. Perciocchè nella prima, dopo aver rammentate le insidie tese alla sua vita per comando, com’ ei credeva, di Cosimo, dice ad Ambrogio, che più non gli parli dell’ amicizia di un tal uomo, ed usi egli pure, conchiude, i pugnali ed i s'cleni; ed io userò l' ingegno e la penna (l. 2, ep. 34)- E nell’altra: Io non voglio l’amicìzia di Cosimo, e ne disprezzo l'inimicizia (ib. ep. 25). Un uomo di tal carattere non è maraviglia che avesse nimici, e provasse gli effetti del loro sdegno. Quello stesso sicario che avealo assalito in Firenze, venne a Siena per tentar nuovamente il colpo; ma scoperto e arrestato, ebbe troncata la destra, e sarebbe stato ucciso, se il Filelfo non si fosse per lui interposto. Di questo tradimento ancora egli incolpò Cosimo, ma senza poterne recar pruova di sorta alcuna; e a me pare che M. Lancelot abbia qui troppo facilmente adottato il pensar del Filelfo, e attribuito a Cosimo un delitto che non ha altra testimonianza che quella del Filelfo medesimo; dove al contrario le villanie e gli oltraggi con cui egli cercò di oscurar la fama di Cosimo, sono sotto gli occhi d’ognuno nelle Satire da lui scritte, nelle quali facendone TERSO I5I3 latino il nome lo chiama Mondo (a). Frattanto Filippo Maria Visconti duca di Milano, l imperador greco Giovanni Paleologo, il pontefice Eugenio IV, e le università di Perugia e di Bologna lo invitarono a gara, come raccogliesi dalle lettere ch’ ei lor rispose nell agosto e nel settembre del 1438. Questi inviti però si può con ragione sospettare che da lui stesso fossero procurati per sottrarsi all’invidia de'suoi nimici; e certamente riguardo al duca di Milano abbiam la lettera dal Filelfo scritta a Gianfrancesco Gallina (l. 2, ep. 29), con cui gli si raccomanda, perchè faccia in modo che quel principe a sè lo chiami. Egli accettò l’invito de’ Bolognesi per il primo semestre dell’ anno seguente, dopo il quale diede parola al duca di Milano di andarsene a lui. Recatosi dunque a Bologna nel gennaio del vi riaprì la sua scuola, e per quel solo semestre, con liberalità non più veduta, gli furono assegnati 450 ducati. Ma ei non seppe mantenere esattamente la fede data. Verso la fine di aprile sotto pretesto della fuga di suo figlio Giammario (la quale non sènza fondata) Ma mentre il Filelfo dolevasi delle insidie a lui tese, tendevane egli ad altri, e prezzolò un sicario per uccidere in Firenze Carlo Marsuppini e un certo Girolamo da Imola, e un altro cittadino ebe non è nominato. Ma arrestato il sicario, gli furon tagliate amendue le Eroidi di Ovidio il Sassi; ne rammenta innoltre, alcune poesie latine e un Orazione in, lode di Francesco Sforza che si conservano, manoscritte nell’Ambrosiana (L. Argelati fra. professori d. t. 2, pars 3, ec.). Tiraboschi, Voi. IX. 151 4 LIBRO mento sospetta M. Lancelot che fosse concertata col padre) venuto a Piacenza, ed ivi trovatolo, da Pietro Piazza governatore di quella città pel duca di Milano fu istantemente pressato ad andarsene, poichè n era sì poco da lungi, a rendere omaggio a quel principe, ove giunto, e accoltone con sommo onore, trovò pretesti bastevoli per non più dipartirne. Benchè M. Lancelot sembri dubitare se il Filelfo tenesse ivi pubblica scuola, è certo nondimeno che ei veramente la tenne fin presso alla morte di quel duca accaduta nel 1447 5 perciocché in una sua orazione detta in Milano nel 1471, allorchè ripigliò ivi gli scolastici esercizj, egli afferma che già da 25 anni aveagli interrotti: Evocatur miles emeritus post quintum et vigesimum annum in aciem docendi. Il veggiamo in fatti nominato più volte negli Atti della università di Pavia, a cui era arrolato; ne quali ai’ 20 di giugno del 1440 si fa menzione del salario che gli si dovea contare, senza però esprimere qual fosse; agli 8 di novembre dell anno seguente si citan lettere ducali, colle quali si ordina che gli si paghino 700 fiorini; a’ 19 d’agosto del 1446 troviamo che fu fatto decreto pro cassatione stipendii D. Francisci Filelfi, et assignatione D. Martino de Ferrariis senza che ne sappiam la ragione (a). Egli (a) Che il Filelfo anche in Pavia tenesse scuola, si era affermato solo da Apostolo Zeno (Diss. voss. t. 1, p. 278), il qual però non ne avea recate le prove. Il sig. Siro Comi, altre volte da me lodato, è stato il primo a produrle (Fr. Philelph. Archig. ticin. vinti icatus, p. 178, ec.) da un passo dell’ Orazion del TERZO |5I5 però continuò a starsene in Milano. Mortagli frattanto la moglie Teodora nel 1441 > «gli pensò di arrolarsi nel clero j ma poscia ad istanza del duca ne depose il pensiero, e prese in seconda moglie Orsetta o Orsina Osnaga nobile milanese, da cui pure, come prima da Teodora, ebbe più figli. Ma questa ancora gli morì sei anni appresso; ed egli allora cercò di nuovo di entrar nel clero, e chiese ed ottenne da Eugenio IV la dispensa che a lui perciò, come a bigamo, era necessaria; ma poscia qualche anno appresso cambiò di nuovo pensiero, e si unì in terzo matrimonio con Laura Maddalena de’ Mazzorini, che il fece padre parimenti di non pochi figli. XXIV. La morte del duca Filippo Maria privò il Filelfo d’un principe che amavalo e proteggevalo sommamente, e da cui avea ricevuti onori e donativi non piccoli. Ne’ torbidi onde fu sconvolto lo Stato ne’ tre anni seguenti, il Filelfo, dopo aver colle sue lettere sollecitati più principi a venire in soccorso de’ Milanesi, gittossi finalmente al partito di Francesco Sforza (a); ed egli fu uno de’ deFilelfo detta in Pavia nel i4i6, quando fu eletto vescovo di quella città Jacopo Borromeo, in cui parlando a’ Pavesi lor dice: pristina illa vestra maximaque merita, quibus liic jampridem tlorens et publiee sum a vobis et privatim ornatus. Brevissimo però fu il tempo eh’ egli passò in Pavia; perciocché, come lo stesso autore osserva, esaminando la data delle lettere del Filelfo, vi giunse a’ io di ottobre del t>5g, e ne parti a’ 3 di febbraio dell’ anno seguente. (a) Nello stesso anno i LÍ7 cul mori d duca Filippo Maria, Francesco Sforza scrisse a Giuvauui ile’ l5l6 LIBRO tintati (lolla città a complimentarlo, allor quando fatino i45o Francesco ottenne di esserne riconosciuto signore e duca. Il nuovo principe assegnò al Filelfo onorevole stipendio, che però non sappiamo a qual somma montasse. Ma quanto fu facile il duca nell’ accordarglielo, altrettanto difficili nel pagarglielo si mostravano i ministri; di che egli spesso si duole nelle sue lettere a Cicco Simonetta ducal segretario (l. 7, ep. 36, 37, 49, 52, 53; l. 9, ep. 9, 15, 42, 51,ec.). Questa difficoltà nel riscuotere le sue pensioni, e forse la inimicizia che in Milano passava tra lui e Pier Candido Decembrio pubblico professore (a), l’invogliarono di cambiar soggiorno e padrone; ed ei fissò gli occhi sopra Alfonso re di Napoli. Il matrimonio d’una sua figlia da lui immaginato gli offrì il pretesto di chieder con sue lettere denaro a più principi; mezzo da lui usato più volte, e che sempre più ci discuopre l’animo non troppo nobile del Filelfo. Ma ei non ardì di chieder congedo al duca, il quale ancora a gran pena gli concedette il viaggio di quattro mesi, ch’egli finse di voler fare soltanto a Roma. Giunto a questa città a’ 18 di luglio Medici tiglio eli Cosmo, che il Filellb pentito delle ingiurie contro di Cosimo scritte desiderava di ottenerne il perdono, e per mezzo suo gliel chiedeva (Fabron. Fila Cosm. fri ed. t. 2, p. 115). ¡Von sappiali) però qual risposta egli nc ricevette. (a) Il sig. Senebier ha giustamente osservato ((.2, p. 3p7, ec.) che il Decembrio, secondo ch’io stesso ho riferito di lui parlando, era allora probabilmente Ìiurtiio già da Milano, e eh’ ci non era ivi stato pub« ilico professore, ina segretario ducale. TERZO l5iJ del 1453, udiamo che gli avvenisse coll’ottimo pontef Niccolò V, come coll'usata sua semplicità racconta Vespasiano fiorentino (Vita, p. 11): Giunto a Roma nel tempo di Papa Nicola, fece pensiere alla sua tornata di visitare la Sua Santità. Inteso Papa Nicola come che. era in Roma, subito mandò a dire, che l' andasse a visitare. Intesolo Messer Francesco subito andò alla Sua Santità, e le prime parole che gli disse, furono: Messer Francesco, noi ci maravigliamo di Voi, che passando di qui non ci abbiate visitato. Messer Francesco rispose, come egli faceva pensiere visitare il Re Alfonso, e poi venire alla Santità Sua. Papa Nicola, che sempre era stalo amatore degli uomini letterati, volle che Messer Francesco conoscesse la sua gratitudine, e pigliò un legato di ducati cinquecento, e sì gli disse: Messer Francesco, questi denari vi voglio io dare, perchè vi possiate fare le spese per la strada. Messer Francesco veduta tanta liberalità usatagli, ringraziò la Sua Santità infinite volte di tanta gratitudine usatagli (a). Poteva egli sperare ancor maggiori vantaggi, ma la morte di Niccolò seguita due anni appresso rovinò le speranze dell infelice Filelfo. Nè minori furono gli onori ch ebbe in Capova dal re Alfonso. Questi solennemente lo dichiarò (n) 11 Filelfo ebbe anche dal pontefice Niccolò V il titolo di segretario pontificio il primo di settembre dello stesso anno i4?3, ed ebbe po'ria il medesimo onore da Pioli a’ 12 di giugno del 14**3 (.Marini, Degli Archiatri pontif. I. i,p. laq), oltre l’annua [tensione die gli assegnò, come ho avvertito. I 5 I 8 LIBRO cavaliere, gli diè il privilegio di usare le. sue arme reali, e gli pose in capo la corona d’alloro, come ad insigne poeta. Caduta frattanto Costantinopoli in mano dei' Turchi, ebbe il Filelfo. tornato a Milano, la trista nuova che Manfredina Doria sua suocera con due sue figlie era stata condotta schiava. Il duca Francesco prese (parte al dolor del Filelfo, e mandò due giovani a Costantinopoli, con una lettera e un’oda dello stesso Filelfo a Maometto II. Questo gran principe, che in mezzo al furore dell’armi pregiavasi di onorare i dotti, accolse favorevolmente le suppliche del Filelfo, e rimandò libere le sue schiave. Verso il medesimo tempo finalmente si ricongiunse in amicizia con Cosimo de’ Medici, e d allora in poi tennesi sempre unito a quella illustre famiglia. L’ elezione di Pio II al sommo pontificato, seguita nel 1458, diede nuove speranze al Filelfo. Questi afferma di averlo avuto, come altrove abbiamo veduto, a suo scolaro in Firenze; la qual gloria però da altri gli venne allor contrastata: e a me sembra, a dir vero, che gli argomenti di dubitarne arrecati dal Sassi non sieno di leggier peso. È certo però, che Pio avea del Filelfo concetto e stima non ordinaria. In fatti il nuovo pontefice assegnò tosto al Filelfo una pensione annua di ducati 200) e il Filelfo, ottenutane dal duca la licenza, andossene a Roma per ringraziarnelo; nel qual viaggio ricevette grandissimi onori da’ principi tutti, per le cui terre ebbe a passare. Ma questa pensione non gli fu pagata che per il primo anno, dopo il quale parte per l’inimicizia che aveagli TERZO |5ig dichiarata Gregorio Lolli segretario del papa, parte per l’infelice stato dell’ erario pontificio, ei non potè mai riscuoterla. Quindi ne venne il furore da cui il Filelfo si lasciò trasportare contro la corte di Roma e contro il pontefice, e mentre ancor vivea, e poichè fu morto, fino ad accennare oscuramente che se non veniagli pagata la pattuita pensione, ei sarebbesi gittato tra’ Turchi. Una lettera del card Jacopo Piccolomini, in cui a nome del collegio de’ cardinali rende grazie al papa che abbia fatto imprigionare il Filelfo insieme con Giammario suo figliuolo pe’ loro scritti maledici contro Pio II di fresco defunto, ci mostra ch’ ei fu veramente così punito de’ suoi trasporti. Le ragioni per le quali M. Lancelot ha dubitato della sincerità di una tal lettera, e della verità di un tal fatto, sono sembrate poco probabili al Sassi (l. c. praef. p. 7); e certo difficilmente si può provare la supposizione di detta lettera conforme in ogni parte a’ sentimenti e allo stile di chi la scrive. XXV. Non men che del papa doleasi il Filelfo del duca Francesco Sforza, o, a dir meglio, di coloro che non permetteangli di riscuotere lo stipendio da lui assegnatogli. Le lettere però da esso scritte verso gli ultimi anni della vita di quel gran principe ci mostrano che il Filelfo era allora assai più contento del proprio suo stato. Ma allora appunto ei perdette il suo protettore morto nel 1466. Galeazzo Maria figliuolo e successor di Francesco non ebbe men caro il Filelfo; ma questi si duol sovente i5ao LIBRO che alle parole ei non facesse corrispondere i fatti; si lamenta della’ estrema sua povertà a cui era condotto; e scrive or agli uni or agli altri chiedendo pietosamente soccorso. Ma come credere a tai querele, mentre veggiamo che in altre sue lettere scritte al tempo medesimo ei tratta di spendere non leggier somma di denaro per acquistar certi libri? Convien dire per certo o ch’ egli non fosse mai sazio di ciò che veniagli liberalmente accordato, o che fosse troppo prodigo scialacquatore delle sue sostanze. Non lasciava egli in fatti di cercar di continuo nuovo stabilimento; e l’avrebbe ottenuto, se il duca di Milano non gli avesse costantemente vietato di uscire da’ suoi dominj. La traduzione della Ciropedia di Senofonte, ch’egli inviò nel 1469 al pontef Paolo II (a), gli ottenne il dono di 400 ducati, nella qual occasione recatosi a Roma a rendergliene grazie, nel suo passaggio per Firenze fu con sommo onor ricevuto da Lorenzo de’ Medici. Tornato a Milano, tornò alle antiche doglianze sul non pagarglisi le dovute pensioni, e agli antichi trattati per esser chiamato altrove con maggior suo vantaggio. Ma tutto inutilmente, per la fermezza del duca in volerlo presso di se; anzi questi lo indusse l’an 1471 benchè già in età di 73 anni, a ripigliare i faticosi esercizj scolastici, (n) La dedica a Paolo li della traduzione della Ciropedia di Senofonte fatta dal Filclfo è segnata a’ ai di settembre del 1467, come ha avvertito il P. Audil'redi rammentando l’edizione lattane in liouia nel 1 4t4 (Cut. rom. Jùlit. sacc. xr, /j. 4¡3). TERZO l5ai e a spiegare la Politica il’Aristotele (a). Tre anni appresso, cioè nel ì4?4» ottenne finalmente (li esser chiamato a Roma dal pontefice Sisto IV a tenervi scuola di filosofia inorale, collo stipendio annuo di 5oo ducali; nè il duca si oppose allora alla sua partenza. Venuto pertanto a Roma, prese a spiegare pubblicamente a grandissimo numero di scolari accorsi ad udirlo le Quislioni Tusculane di Cicerone; ed ebbe fra gli altri a suo uditore il celebre Alessandro d’Alessandro, che di lui lasciò ne’suoi libri onorevol menzione (Dies Genial. I. i, c. a3). Ma dove poteva mai il Filelfo abitar lungamente? Dopo la morte del duca Geleazzo Maria, sperò egli per avventura d’incontrare più lieta sorte in Milano, e vi fece ritorno nel 1477, (a) Quando Lorenzo de’ Medici fece risorgere l università di Pisa, il Filelfo adoperossi per esser colà chiamato; e ottenne nel ria Cicco Simonetta una lettera di raccomandazione a Lorenzo, e a lui due volte in quell’ anno scrisse perciò egli ancora. Queste lettere sono state pubblicate da monsignor Labbroni (l'ila Laur. Med. t.2, p. ec.). In esse ei parla di se medesimo colla sua usata modestia: Sapete, dice nella prima, non potere in questa etate havere un altro Philelpho. E nell’altra: Voi sapete che in questa etate niun altro se po mettere a comparatione mecho in la mia facholtà.- chiede 500 fiorini l'anno, e dice che il suo impiego sarebbe leggere in eloquentia et philosophia morale così in Greco come in Latino, come leggeva in Firenze nel tempo antedecto; chel Dante io leggeva per mio piacere, e per far cosa grata alla vostra inclyta Città. Ma ei non ottenne ciò che bramava. Alcune altre lettere del Filelfo ha pubblicate monsig Fabbroni, che confermano e rischiaran le cose che di lui abbiam dette (ib. p. 22, 381, ec.). l5l2 libro allegandone per motivo il desiderio di condurre a Roma la sua famiglia tutta. Le sue speranze nondimeno furono di bel nuovo deluse, ed egli, dopo aver perduti ivi i due figli e la terza sua moglie, fra non molto dovette tornarsene a Roma, e quindi un’altra volta a Milano, ove’era nel 14^51 y nel qual anno stampò ivi alcune sue orazioni con altre opere da lui dedicate a Lodovico Sforza soprannomato il Moro. In quest’anno medesimo offertagli da Lorenzo de’ Medici la cattedra di lingua greca in Firenze, nella decrepita età di quasi 83 anni non temè di accettarla, e d intraprendere quel viaggio, per cui però gli convenne ricorrere per denaro a Jacopo Antiquario, da cui ne fu provveduto liberamente, come afferma Francesco Puteolano nella lettera dedicatoria de XII Panegirici antichi a lui indirizzati. Ma appena giunto a Firenze il Filelfo, sfinito dalle fatiche e dal caldo eccessivo della stagione, vi morì a’ 31 di luglio dell’anno stesso; ed ebbe sepoltura nella chiesa dell’ Annunciata de’ Servi di Maria. Cornelio Vitelli in un suo opuscolo contro Giorgio Merula scritto circa il tempo medesimo in cui morì il Filelfo, e di cui parleremo verso il fine di questo capo, rimprovera a Giorgio di aver cagionata la morte al Filelfo stato già suo maestro con alcune mordacissime satire contro lui divolgate; delle quali fu tanto afflitto il povero vecchio, che ne morì in tre giorni. Benchè una tale testimonianza sia assai autorevole, il veder però, che non v’ha altri che di ciò faccia motto, ci fa sospettare che il Vitelli abbia qui troppo facilmente adottato qualche popolare non ben fondato racconto. TERZO l5a3 XXVI. Più altre circostanze della vita del Filelfo io ho passate sotto silenzio sì per amor di brevità, sì per non trattenermi in ripetere quanto già hanno scritto gli autori da me citati. Ciò che ne ho detto, basta a mostrarci qual uomo egli fosse. Un’avidità insaziabile di denaro, per cui non temeva d’importunare con lettere or l’uno or l’altro dei’principi italiani e de’ loro ministri, e per cui lasciavasi trasportare a maldicenze e a villanie contro coloro che o gli negavan soccorso, o promesso non glielo attendeano; una certa incostanza che non l’ avrebbe lasciato fermare stabilmente soggiorno in qual che fosse città, se il comando e la forza non l’ avesse talvolta arrestato; un animo insofferente di riprensione, per cui dichiarava guerra a chiunque non approvasse le cose sue, furon per certo macchie non picciole che oscuraron di molto la fama di un uomo per altro sì dotto. Oltre più pruove che già ne abbiamo vedute, racconta Gioviano Pontano (De Serm. l. 5, c. 1), che mentre predicava in Milano S. Bernardino da Siena, il Filelfo ardì di motteggiarlo per modo, che eccitò l’odio di tutti i Minori, non solo contro di se medesimo, ma, come suole avvenire, contro tutti i professori di belle lettere. Deesi confessar nondimeno a qualche scusa di lui, che comunemente ei fu assalito, non assalitore; e che vergognossi ei medesimo dei trasporti a cui avealo condotto la sua passione (l. io, rp. 52). Ma checchessia de’ difetti morali, ei fu uomo di grande ingegno e d’indefessa applicazione allo studio, come ci pruovano le moltissime XXVI. Su«* 0|MT*. i5a4 libro opere da lui composte (’). Un esatto catalogo ce ne ha dato il da noi rammentato più volte Apostolo Zeno; e di molte tra esse abbiam già favellato, cioè di quelle che appartengano a filosofia morale e a storia, delle traduzioni ch ei fece dal greco e delle sue poesie. Qui voglionsi aggiugnere i due libri intitolati Conviviorum, ne’ quali narra i discorsi tenuti in Milano in occasione di un solenne convito, e vi tratta parecchi punti di varia erudizione, misti però talvolta a qualche poco onesta quistione; molte (*) benché nè ponili fossero nè leggieri i clifetli die nsniraron la fama di Francesco Filelfo, non vuoisi però dissimulare che qualche pregio egli ehbc agli uomini di lettere non troppo comune. Giorgio Valla che l’aveva avuto a maestro, nella prefazione alla sua edizione di Columalla, racconta che il Filelfo nella sua scuola non affermava mai cosa eli’ ei non sapesse appoggiata alI’autorità di gravi antichi scrittori; che se non veni vagli tosto alla mente la spiegazione di qualche dilTicit passo, non si arrossiva di consultare gli autori da’ quali potesse ricever lume, e che suggeriva a’ discepoli chi potessero consultare; che se talvolta si fosse avveduto di aver preso errore spiegando, ritrattava modestamente ciò eh’ avea detto; e clic non permetteva giammai che i suoi scolari apparassero da lui tali cose, delle quali dovesse poi o vergognarsi, o pentirsi. Alcune orazioni italiane dal Filelfo per la maggior parte composte in nome de’ podestà di Firenze alla fine del lor reggimento, consei vansi mss. nella libreria Farsetti. (Bibl. ms. Fars. p. z33), c alcune altre opere inedite se ne hanno nella libreria di S. Michel di Murano, nel cui Catalogo ne c stata pubblicata qualche parte (Bibl. MSS. S. Midi. Fenet. p. 883). I tre primi libri de’ dieci da lui composti col titolo de Exilio conservatisi nella Magliabeccliiana in Firenze; e sono pieni di amare e sanguinose invettive contro di Cosmo de’ Medici e di Lorenzo di lui fratello (Fabr. Vita Cosm. Med. t. a, ]>. io, i55). TERZO l5a5 orazioni funebri, nuziali e di altri diversi argomenti; i trentasette libri di Epistole famigliari latine; alcune esercitazioni ad uso degli scolari; le quali opere tutte si hanno alle stampe, oltre più altre che si rammentano manoscritte, delle quali veggasi il suddetto Zeno (a). Nell’eleganza dello stile egli è inferiore di molto ad altri scrittori del suo tempo; ma a niuno ei cede nella varia erudizione d’ogni maniera, e singolarmente in ciò che appartiene all’ interpretazione dei’classici autori, all’antica mitologia, e alla perizia nel greco. Le Lettere del Filelfo sono utilissime alla storia di questo secolo; ed è a dolersi che non ne abbiamo che edizioni poco corrette. Nel 1743 una nuova se ne intraprese in Firenze, ma fu presto interrotta per la immatura morte dell’editore, e non ne abbiamo che i primi quattro libri. Alcune lettere greche ne sono state pubblicate, non ha molt’anni, nella Raccolta milanese (an. 1756, n. 10, 19; 1757, n. 10). XXVII. Tra’ molti figli ch’ebbe il Filelfo, niuno ha più dritto ad aver luogo in questa Storia, che Giammario il primo fra tutti, e che ritrasse in se stesso i pregi non meno che i difetti del padre. Lo ebbe Francesco in Constantinopoli dalla prima sua moglie Teodora l'an 1426. Condottolo seco in Italia, ei medesimo venne instruendolo nella latina e nella (<i) Non noclie opere niss. ilei Filelfo conscrvansi in più codici di diverse biblioteche in Milano, c una diligente ed esulta dccrizion ce ne ha data il P. ab. Casali (Ciardi /'.'pisi, 1. 1, p. 202, ec.). i5a6 libro greca letteratura, e coinpiacevasi nel vedere i lieti progressi che il giovinetto in essi faceva. La fuga di Giammario da Bologna a Piacenza nel 1439), da noi già mentovata di sopra, abbiam veduto che fu probabilmente concertata col padre stesso, benchè da ciò che vedrem nel decorso, potrem conoscere ch’egli era di sua natura non poco portato a tali risoluzioni. Nel 1440 inviollo Francesco a Costantinopoli, donde l’imp Giovanni Paleologo fin dall’an 1418 gliel avea richiesto (Philelph. I. 3, cp. 37). Ma avendo saputo ch egli vi gittava inutilmente il tempo, con sua lettera de’ 31 di dicembre del 1441 1.5}ep. 5) avvisatolo della morte di Teodora, e sgridatolo della sua negligenza, gli comandò di tornarsene in Italia. Per alcuni anni è probabile ch egli stesse col padre in Milano. Quindi, non sappiamo in quale occasione, fattosi conoscere a Renato re di Napoli e signor di Provenza, fu da lui posto in magistrato a Marsiglia l’an 1450, di che Francesco rendette grazie con sua lettera a quel sovrano (l’. 8, ep. 1) (*). Mentre il Filelfo era (*) Fra le molte città d’Italia in cui Giammario Filelfo tenne pubblica scuola, dee annoverarsi anche Savona, ov egli fu da quegli anziani chiamato nel 1444 a maestro di grammatica e di rettorica, colla pensione di lire 100 annue, ed altre lire 28 per la pigion della casa: della qual notizia pure io son debitore al già nominato sig. Giantommaso Pelloro. Aggiungasi ancora, che un’altra opera inedita di Giammario conservasi in Mantova presso la nobil famiglia Arrivabene, che ha per titolo: Marii Filelfi arti uni et utrìusi/ue juris fiottoni, ri/uni) nitrati, et portele laureati, tlt comminiti TERZO 1537 in Marsiglia, fu da quel re impiegato a formare la biblioteca del monastero di S. Ma.ssi mino, come raccogliam da una lettera di Andrea Alciati, che in essa trovò l’intero Comento di Donato sulle Opere di Virgilio (Marq. Gudii Epist. p. 84$). Di là tornato a Milano, ne partì di bel nuovo, e il veggiamo aggirarsi per diverse città, forse per tornare a Marsiglia, donde sembra ch’ ei di nuovo venisse presso il padre in Italia l’an 1451, e similmente nel seguente anno il troviamo or in uno or in altro luogo, senza fissar soggiorno in alcuno. Nell’ottobre dello stesso anno Francesco si esibì ad ottenergli la cattedra di belle lettere in Genova (l. 9, ep. 27, 43, 58, ec.). Ma non par che Giammario si curasse di averla. In fatti nel 1453 il veggiamo in Torino in esercizio di giureconsulto. Perciocchè Francesco scrivendogli con lui si rallegra (l. 11, ep. 55) che sia in quell’antica e nobil città; ma lo avverte insieme a voler esser oratore, poeta e filosofo, anzi che giureconsulto ed avvocato. Ivi ei si trattenne più anni; e una lettera da Francesco a lui scritta nel 1455 (l. 12, ep. 61) ci a'cceuna gli onori che vi riceveva dal duca di Savoia (a). vitae conthientìa tiri Xistum Robur Pontificem Maximum; del qual codice fa menzione il eli. sig. ab. Bettinelli (Delle Lett. ed Arti mant.p.iZ). Un’ orazione e alcune ullrc poesie italiane e Ialine ne lui di fresco indicate il eli. sig. canonico Rondini (Cat. Codd. mss. hit. Bibl. Luiir. t. 3, p. 7i*t); t. 5, p. 465). (ti) Del soggiorno del Filelfo in Torino abbiamo anche una pruova in alcune poesie, che ivi se ne conservano nella biblioteca di S. Agostino, scritte da quella i5a8 LIBRO Il trovarsi a’ confini della Francia indusse Giammario a scorrerla fino a Parigi, com’egli fece nel seguente anno 1456; il qual viaggio però non fu molto approvato dal padre (l. 13,ep. 24). Nel 1459 fu ai piedi del pontef Pio II in Mantova, che volle conferii gli la dignità di avvocato concistoriale. Ma Giammario non si curò d’accettarla. Più grato gli fu l’onorevole invito che da’ Veneziani egli ebbe di tenere presso loro scuola di lettere umane. Verso il principio di marzo del i4(3o ei ne fece la solenne apertura innanzi al doge Pasqual Malipiero, a tutto il senato e a numerosa assemblea; e fu udito con applauso non ordinario. Non sappiamo quanto egli ivi si trattenesse, e solo troviamo che la poco lodevol fama che di lui si sparse pe’ suoi costumi, fu cagione ch’ ei dovette partirne. Probabilmente ei da Venezia tornò a Milano, ove, come si è detto, fu insieme col padre racchiuso in carcere per le loro maldicenze contro il pontef Pio II. Liberatone poscia, per qualche tempo egli aggirossi per diverse città, cioè Bergamo (a), Verona e Bocittà, e quasi tutte a un certo Michele Lucerna, di cui già era quel codice. Due di esse hanno la data del c del i4'7(a) Del soggiorno fatto da Mario in Bergamo si ha anche pruova nel codice delle Poesie di Alberto Carrara presso i sig. conti Carrara Beroa, altre volte citato, in cui leggonsi alcuni versi di Giovanni Malpede bresciano, ne’ quali parlando del mentovato Alberto dice al I deilo, al qual gli indirizza: ... Qua n Bfrgomm ¡am ¡ani trlliirc I orisi i L&optat propria® sedes fatisiasque futura®. TERZO >5aQ logna, in lotte tenendo scuola, ma partendo da tulle dopo assai breve soggiorno, finché stabilitosi nello stesso impiego in Ancona, ivi durò per lo spazio alinen di quattro anni (V. Sax\ /fisi, tjpogr. medioL p. 263, ec.). Finalmente chiamato da1 Gonzaghi a Mantova, ivi ancora fu professor d’eloquenza, ed ivi, come afferma Jacopo Filippo da Bergamo (Sappi. Chron. I. io, ad extr.), morì l’anno 1480, un anno innanzi a Francesco suo padre. Intorno alla qual epoca da alcuni non ben combattuta si posson leggere gli argomenti che il Sassi arreca a provarla. Questo scrittor medesimo pruova eli ei ricevette 1’ onore del poetico alloro dal suddelto re Renato, e parla diligentemente di ... Quid melius potuisti Bergoma tellus, Cernere ijuam ¡.acro durontem vertice Musas ... Ut colcrcnt ingenti:» culmina montis Bergonici l E lo.stesso Carrara in una elegia al Filelfo così gli dice: Carmina divino vix dum cantata cothurno Aspexi, o patriae gloria magna meae. Te duce Bergomeus conscendet sydera Caesar, Tu dabis aeternos, clare poeta, dies. Da un’altra elegia del Carrara raccoglisi che il Filelfo ebbe una figlia detta dal nome dell'avola Teodora, a cui la indirizza, e ch era essa pure eccellente poetessa, e col padre soggiornava in Bergamo, detta perciò dal Carrara: O decus, o nostri gloria magna soli. In Bergamo innoltre vedesi tutt’ ora nella facciata di una picciola casa, che ora appartiene al sig. co. Valletti, inciso un poco felice epigramma da lui composto in lode di Giovanni Buccelleno, col titolo: Carmen Poetae Marii Philelphi. Tiraboschi, Voi. IX. 20 i53o LIBRO alcune delle opere da lui composte. Ma esse sono un nulla in confronto al numero infinitamente maggiore di quelle che Mario scrisse; la maggior parte delle quali or sono perite, altre giacciono manoscritte in diverse biblioteche. Il march Maffei accenna un’elegia di Mario (Ver. illustr. par. 2, p. 206), che conservasi in Verona nella libreria Saibante, in cui descrive il numero prodigioso di opere che avea composte, prime di giungere al xlv anno di sua età. Di questa elegia mi è stata gentilmente trasmessa una copia; e io la riporterei qui volentieri, se la soverchia lunghezza non mel vietasse. Egli accenna ivi poesie in grandissimo numero, e di generi tra lor diversi, epigrammi, satire, canzoni, commedie, tragedie. Parla di un poema da sè composto sulla caduta di Costantinopoli: Romaque Turcorum capta furore nova. Il qual poema, sconosciuto finora a quanti hanno scritto di Mario, è stato di fresco scoperto nella biblioteca della città di Ginevra dal sig Senebier eruditissimo bibliotecario della medesima, diviso in quattro libri. Egli me n’ha cortesemente inviata un’esattissima descrizione; ma io rimetto chi brami di esserne con più minutezza informato al diligente Catalogo de’ Codici di quella biblioteca, che si apparecchia a darci il mentovato sig. Senebier (a). Di 1111 altro (et) 11 sig. Senebier ha poi pubblicato il qui indicato Catalogo, e si può in esso vedere un’esatta descrizione di questo poema (p. 236) che ha per titolo Amyris, o i/e l ita rebusque gestis invictissimi Regis et lmperatoris clarissimi Mahumeti Turcharum Principis. TEnzo 1531 suo poema fa menzione Mario in quella elegia, diviso in sedici libri, in cui descrive le imprese di Ercole, e vi unisce le lodi di Ercole I duca di Ferrara, a cui è dedicato. L’originale di questo poema, che parimente non è stato finora rammentato da alcuno, si conserva,in questa biblioteca Estense, nella quale abbiam parimente un opuscolo De bellicis artibus et urbanis da lui dedicato al duca Borso, e il romanzo italiano intitolato Glicephira Ninfa Bolognese, di cui parlano il march Maffei e il Quadrio (t. 2, p. 3<)5; t. 7, p. 108). Amendue queste opere son da lui accennate nella suddetta elegia, come pure le Elegie in lode di Cosimo de’ Medici, che si conservano nella Laurenziana con molte altre poesie del medesimo (Band. Cat. codd. lat. t. 2, p. 159, t 3, p. 799, ec.). Accenna poscia una Vita d’Isotta, non so se della veronese, o della riminese (’), un opuscolo delle Lodi della poesia indirizzato ad Ermolao Barbaro, un libro contro le facezie di Foggio, (*) lo lio qui dubitato se la Vita d’Isotta, che Giammario I-'ilell'o afferma di avere scritta, dovesse intendersi d’Isotta Nogorola, o d’ Isotta da Rimini. Il Catalogo de’ MSS. di S. Michel di Murano mi ha fatto conoscere che fu la Nogarola, di cui il Filelfo scrisse la Vita, che ivi conservasi (Bibl. MSS. S. Mich. Venet. p. 894) insieme con alcune poesie in lode della medesima altrove già pubblicate (Mem, per servire alla Stor. letter. t. 6, par. 6, p. 17; t. 7, par. 1, p. 23). Il P. ab. Mittarelli nel darci di ciò ragguaglio ci avverte insieme che Giammario scrisse anche un’ altr opera intitolata Isottidis in lode d’Isotta da Rimini; ma non ci dice nè ove essa conservisi, nè su qual fondamento egli 1’ alienili. <53 a libro molte operette storiche, molte morali, i Comenti su i libri ad Erennio, e sulle Poesie del Petrarca, e moltissime altre opere di diverse materie, e finalmente la traduzione in latino della Teogonia di Esiodo, e degli Inni d Orfeo, e quella di Omero che avea cominciata, e in italiano quella della Geografia di Strabone che stava allora facendo. Fra tante opere però assai poche son quelle che abbian veduta la pubblica luce. Esse sono l’Epistolarium, che non è già, come alcuni hanno creduto, una raccolta di sue epistole famigliari, ma sono esempj di lettere di diversi argomenti da lui proposte per modello ed istruzione de suoi discepoli. Innoltre la traduzione in terza rima dell’Uffici della Beata Vergine, coi’ Salmi, colle Preci, cogl Inni, e con altre Orazioni stampate in Venezia nel 1488. Essa fu da lui dedicata, come mi avverte il ch P. Affò, da me più volte lodato, di aver osservato in un codice a penna che ne ha la real biblioteca di Parma, a Maddalena figlia di Galeotto dal Carretto marchese del Finale nella Riviera di Genova, vedova di Pierguido Torello conte di Guastalla morto nel 1460. Ed era in fatti il Filelfo assai attaccato al suddetto marchese; perciocchè in onor di esso compose in latino la Storia della guerra del Finale da lui sostenuta contro de’ Genovesi nel 14 Ì7 e ne’ due anni seguenti. Essa era già stata stampata per inserirla nella gran Raccolta degli Scrittori delle cose di’Italia. Ma perchè si vide ch’essa era troppo piena di errori per colpa del codice ch era stato usato, fu allora soppressa. Non ha molto però, che TERZO 1533 si è cominciato a vederne alcune copie separatamente, c a me fra gli altri è riuscito di averla. Finalmente alcuni frammenti della Vita di Dante, clic scritta avea Giammario, sono stali pubblicali dall’abate Melius (praef. cui Vit. Divitis, ec. per Jann. Manert.) e dal can. Bandini (Cat. Codd. lat. Bibl. Laur. t. 2, p. 708, ec.). Nè dee tacersi un raro pregio di questo scrittore, di cui ci ha lasciata memoria Giglio Gregorio Giraldi, il qual dice di averlo udito da Ciro fratello di Giammario; cioè che trovandosi egli talvolta in un consesso di ben cento persone, e essendogli da ciascheduno proposto un argomento su cui verseggiare, egli rispondeva a tutti sul campo con quell’ordine stesso con cui era stato interrogato. Aggiugne però il Giraldi, ch’ egli ottenne più fama co versi detti all’improvviso che co composti (De Poet. suor. temp. dial. 1). E in fatti la fretta con cui il Filelfo scrivea, ne ha rendute le opere poco eleganti, e troppo inferiori a quelle di molti altri scrittori di questi tempi. XXVIII. Il lungo soggiorno che Francesco Filelfo fece in Milano, e la premura di que’ duchi in ritenerlo, ci fan vedere che in gran pregio erano in quella città gli studj della’ eloquenza. In fatti grande è la copia de’ celebri professori che in essa ne troviamo nel corso di questo secolo; e io accennerò qui in breve le principali notizie intorno ad essi, seguendo la sicura scorta del sopraddetto dott Sassi che con ammirabile esattezza ha illustrata la storia letteraria della sua patria de’ tempi di cui parliamo. Quel Bonino Mombrizio, di cui nbbiam 1534 LIBRO favellato fra gli scrittori di storia ecclesiastica, fu egli pur professor d’eloquenza in Milano l’anno 14$1; e forse, come congettura il detto scrittore (l. c p. 14®)? succedette al Filelfo, quand’egli nel detto anno ne partì per Firenze, Pochi anni prima aveva ivi tenuta la medesima scuola Cola de’ Montani da Sagio (a) bolognese di patria, uomo di fervido ingegno e di vivace eloquenza, ma d’animo torbido e sedizioso. Questi allor quando Galeazzo Maria figliuol di Francesco succedette al padre l’an 1466, cominciò ad istigare i giovani nobili suoi scolari,. e singolarmente Girolamo Olgiati, contro Gianfrancesco Pusterla uno de’ ministri del duca, e per un anno continuò a sparger semi di tumulto e di sedizioni. Quindi avendo sedotto lo stesso Girolamo con due altri a passare segretamente sotto le insegne del famoso general d’ armi Bartolommeo Colleone, venuto perciò in odio alla nobiltà milanese, trovossi quasi del tutto abbandonato, e senza scolari non meno che senza amici. Ottenne nondimeno fra qualche tempo di rientrare in amicizia con molti; ma poscia abbandonata quella città, andossene a Roma; poi di nuovo a Milano, indi a Bologna; e di qua un’ altra volta a Milano, ove tornò ad avere un affollato concorso de’ suoi antichi scolari e di tutti i professori della (<7) Dcesi scriver da Gaggio, cioè da Gaggio della montagna nel Bolognese, onde era orinndo il Montano, il cui cognome era Capponi. Di ciò e di altre notizie ad esso spettanti reggasi il eh. co. Fantuzzi (Scritt. bologn. r. 6, p. 64, ec.). TERZO 1535 città, e a stringersi in amicizia co’ grandi. Alcuni satirici epigrammi da lui composti contro Gabriello Paveri Fontana, di cui diremo tra poco, indussero il duca Galeazzo Maria a farlo chiudere in carcere. Anzi, come racconta Paolo Cortese, quel principe il fece pubblicamente frustare; poichè sospettò che avesse violata una zitella (De Cardinal. l. 3). Quindi egli ricominciò ad accendere gli animi della nobiltà contro il duca, finchè essendo egli stato esiliato, il fuoco da lui eccitato contro Galeazzo scoppiò nell orribil congiura, per cui questi fu ucciso a’ 26 di dicembre del 1476 Tutte le quali circostanze ricavansi dal processo fatto contro il detto Girolamo Olgiati, uno de congiurati, pubblicato dal Corio (Stor. di Mil. ad an. 1476). Dell’odio di Cola contra il duca Galeazzo Maria allega il Giovio una piacevol cagione; cioè che avendo Cola avuto a suo scolaro il giovane principe, e avendolo talvolta . punito colle sferzate, poichè questi fu duca volle render la pariglia al maestro, e in pubblico gli fè’ soffrire in maniera non troppo onorevole lo stesso gastigo (in Elog. Vir. ill). Ciò sembra saper alquanto di popolar tradizione. Pur qualche cenno se ne ha ancora nell'epitaffio a lui composto dal Casio, che allor vivea: Nel Felsineo Gazzo Cola Montano Nacque, e fu Mastro alla Casa Sforzescha; Dal Duca offeso sì guidò la tresca, Che occidere lo fece al Lampugnano Epitafi, p. 36. Checchè ne sia, Cola esiliato da Milano, l536 LIBRO recossi, come congettura il Sassi (l. c. p. 158). a Ferdinando re di Napoli, per cui comando recitata avendo un’orazione a Lucchesi affin di distoglierli dall’ alleanza da essi stretta con Lorenzo de' Medici, ne incorse per tal modo lo sdegno, che questi, arrestatolo su’ monti presso Bologna, il fece strozzare. L’accennata orazione, che conservasi manoscritta (*) nella biblioteca Ambrosiana, è il solo monumento che del sapere di questo non troppo saggio professore ci sia rimasto (a). XXIX. Scolaro di Francesco Filelfo, e al suo maestro assai grato, fu Gabriello Paveri Fontana di patria piacentino. Questi venuto a Milano e postosi alla scuola del Filelfo, fu da lui istruito nella greca non meno che nella latina lingua; e gli si strinse in amicizia per modo, che avendo ardito Giorgio Merula di mordere e in voce e in iscritto il Filelfo, egli prese a difenderlo, e pochi mesi innanzi alla morte dello stesso Filelfo pubblicò in Milano una latina Invettiva contro di esso, da lui per disprezzo chiamato Merlano (**). Da essa racco(*) L’Orazione a’Lucchesi di Cola Montano, ch’io credeva sol tns., fu stampata sulla line di quel secolo stesso; e il eli. sig. D. Jacopo Morelli, che l’ha veduta, mi ha avvertito eh’ ella è di fatto piena di tratti amari e maligni contro de’ Medici. (a) Cola Montano avea anche scritte alcune Regole gramnticali, come ha osservato il P. ab. Casati (67cereii Epist.t. a, p. 224, ec.), benché nou sappiasi se esse abhian mai veduta la luce. (**) 11 Menila non potè esser detto Merlano per disprezzo, perchè tale era veramente il cognome della sua famiglia, la quale in Alessandria sussiste tuttora, come TERZO |537 gliesi cir egli teneva scuola di eloquenza in Milano) che ivi avea avuto a suo scolaro lo stesso Merula nell’ eloquenza non meno 'che nella poesia; che avea scritto un Comento sulle Poesie di Orazio, e una Gramatica pel giovinetto principe Giangaleazzo Maria. Nè solo si sfoga egli in questa sua Invettiva contro il Merula, ma ancora contro Francesco Puteolano, di cui diremo fra poco 5 perciocché nelle turbolenze che si eccitarono in Milano per le discordie tra Cicco Simonetta e Lodovico Sforza, il Paveri tenuto essendosi pel partito di Lodovico, ed essendo caduto dalla grazia di Cicco, poco mancò che non fosse esiliato; e vide chiamato a Milano il suddetto Francesco partigiano di Cicco, e perciò suo nimico, e tra essi quindi si accesero quelle poco letterarie contese, per cui l’un contro l’altro si volsero con villanie e strapazzi. Veggasi intorno a lui il sopraccitato esattiss dott Sassi, a cui io aggiugnerò che il Paveri trovasi nominato negli Atti della università di Pavia, a cui appartenevano ancora i professori di Milano perciocchè veggiamo che nell’anno 1478 gli fu accresciuto lo stipendio, e nel 1480 fu conceduta dispensatio D. Gabrieli Pavero de Fontana Artis Oratoriae Lectori in Urbe Medio lani, ut possit acquirere bona immobilia in Comitatu Papiae. Il Sassi parla ancora (ib. p. 187, ec.) del poema elegiaco da lui composto sulla vita e la morte del duca Galeazzo Maria Sforza, mi lia avvertito il sig. ab. Giulio Cordava de’ conti di Caluni.'indrnna da ine altre volte lodato, e solo per ver/.j di latinità face vasi egli dire Menda. 1538 libho clic abbiamo alle stampe, e di un epitalamio per le nozze di Francesco Lampugnani con Lis.ilietta Borromea, che conservasi in un codice a penna nella Ambrosiana (a). Questo scrittor medesimo ci ha date le più esatte notizie (p. 137. ec.) che si potessero rinvenire, intorno al sopraccennato Francesco Puteolano, di patria parmigiano, e professore egli pure in Milano di belle lettere. Il Paveri nella mentovata Invettiva ne parla con gran disprezzo, per insulto chiamandolo poetone, e deridendo il metodo ch’ ei tenea nello spiegare gli antichi autori, che era in somma di trapassar con un salto ciò che vi trovava di’ oscuro. Ciò non ostante è certo ch’ ei fu avuto in concetto d’uomo dottissimo, e che fu caro singolarmente a Jacopo Antiquario, a cui dedicò alcune opere di scrittori antichi latini da lui date in luce. Le lettere con cui egli gliele indirizza, che dal Sassi sono state inserite nella sua opera (p. 483, 548, 549), rammentano i benefizj ch ei ne avea ricevuti, e vi si accenna singolarmente ch essendo Francesco in Bologna, ed essendo venuto allo stremo di povertà, l’Antiquario gli diè pietosamente soccorso; che chiamato poscia a Milano avea da lui ricevuti onori e benefìcj in gran copia; che per lui i suoi fratelli godevano l’immunità; per lui egli avea ottenuto e lauto stipendio ed ampj beneficj ecclesiastici; per lui era tornato in grazia di Lodovico Sforza, di cui avea incorso lo sdegno. Egli adoperossi più nel dare alla luce le alia) Intorno al Paveri veggansi ancora le Memorie per la Stori.1 letteraria di Piacenza (l. 1, p. 36, cc.). i TERZO 153t.J Irui opere clic lo sue} e a lui principalmente dobbiamo l’edizione di alcuni trattati degli antichi gramatici latini e greci, che si annoverano dal sopraccitato Sassi; il quale aggiugne che di questo professore altro non gli è avvenuto di ritrovare che un’ elegia nella morte del duca Galeazzo Maria, la quale si ha manoscritta nell’Ambrosiana (*). Io soggiugnerò in vece nn (’) Di Francesco Puteolano abbiamo anche una breve orazione in lode di Francesco Sforza da lui premessa alla Storia di quel gran principe, scritta da Giovanni Simonetta, e stampata in Milano nel Una lettera latina a Paolo Trotti primo segretario del duca di Ferrara per implorare la protezione di questo principe su un certo podere ch’ egli avea in Montecchio, ne ho io trovata in questo ducale archivio, la quale non dispiacerà, come spero, di veder qui riferita: Quod te audio, magnifice vir, propensissimo animo in banarum arti uni professores seni per extitisse, ac veri Maecenatis munus defungi, spes me certissima manet, foret ut tuo adminiculo injuriam propulsare possim. Est miihi in Agro Montechii Agellus: eo ne pacifice frui queam, Guido Taurellus protonotarius apostolicus infestissimus! mihi est: et quamquam jure et principum nostrorum mandato ab hujusmodi injuria deberet absterrere, pergit tamen in contumacia; atque. eo liberius, quod Illustriss. Princeps meus jus non habet in Montechii Agro; quare etsi spero ipsius Caesaris mei commendatione me mea jura retenturum, te tamen etiam atque etiam rogo, ut Camino oleum addas, atque ita ad Praetorem Montechii scribas, ne Taurclli potè mia vatis optimae causae possit officere: nam horum praediorum pos'cssionem nactus, et legitimo quidem jure non pessum citra apertissimam injuriam dejici'. Vale bonorum praesidium. Mediolanum Kal. April. E. M. T. Servitor Franciscus Puteolanus Poeta Laureatus. •G4o LIBRO magnifico elogio di Francesco non avvertito dal Sassi, e che leggesi al fine di un opuscolo di Filippo Beroaldo intitolato Oratio Proverbi alt s, da cui ancora si trae che questi era stato scolaro di Francesco in Bologna: sicut ego feci, dice egli, cum Magistro meo Francisco Puteolano, quem honoris et amoris causa nomino, quem omnimodis laudibus celebro, qui literatas literas senio pene intermortuas et situ squalentes ad lucem nitoremque cum primis revocavit, cui acceptum refero quidquid in me est doctrinarum (a). XXX. Nel medesimo impiego e circa il tempo medesimo fiorì in Milano Ubertino soprannominato Cherico da Crescentino nel Monferrato, di cui pure ha trattato con diligenza il ch. Sassi (p. 273, 278, ec.), traendone le notizie dalle opere da lui stesso date alla luce. Ubertino dopo essere stato sette anni professor d’eloquenza nell’università di Pavia, chiamato a Milano da Francesco Sforza, vi stette più anni onorato sommamente da lui non meno che da Galeazzo Maria di lui figliuolo, e vi pubblicò i suoi Comenti sulle Lettere famigliari di Cicerone, lodati assai da Marc’Antonio Sabellico (Dial. de lat. linguae reparat.), e degni in fatti di lode (nj Bellissimo e pieno di nuove ed esatte notizie è l'articolo che intorno a Francesco Puteolano ossia dal Pozzo ci ha dato di fresco il celebre P. Affò tanto benemerito della storia letteraria di Parma (Aleni, de* Letier. parmig. I. 1, p.?.q3, ce.), con cui si può accrescere e rischiarare ciò eh’ io qui brevemente ne ho detto. TFRZO I54I per riguardo al tempo in cui furono scritti (*). Egli era ancora in Milano a’ 26 di giugno l’an 1476 perciocchè negli Atti dell’ università di Pavia si vede in quel giorno accennato un decreto pro salario designato Magistris Hieronymo Cribello et Ubertino Cresentino ad lecturam Rhetoricae Mediolani. Dopo la morte del duca Galeazzo Maria, veggendo Ubertino che in mezzo a’ torbidi allora insorti ei non poteva esser sicuro, ritirossi a Casale di Monferrato, ed ivi aprì pubblica scuola sotto la protezione del marchese di Monferrato signor di quella città, dal quale insieme e da que’ cittadini fu onorato di ampio stipendio. D)’ allora in poi non sappiamo che avvenisse di lui. Troviam solo che’ ei diè ancora alle stampe il Comento sopra le Eroidi di Ovidio 5 e il Sassi ne rammenta innoltre alcune poesie latine e un’orazione in lode di Francesco Sforza, che si conservano manoscritte nell’Ambrosiana. L’Argelati fra’ professori d’eloquenza in Milano nomina ancora Antonio da Ro, detto in latino Raudensis, dell’Ordine de’ Minori (Bibl. Script, mediol. t. 2, pars 1,p. 1213, ec.), a cui abbiamo una lettera scritta da Gallarate borgo vicino a Ro nella diocesi di Milano dal b. Alberto da Sarziano (inter ejus Op. p. 400), nella quale (*) Oltre il Coniento qui nominato sulle Lettere famiglimi ili Cicerone, avea Ubertino Cherico ancor coment.iti i libri degli Ottici del medesimo Cicerone e il primo delle Metamorfosi d’ Ovidio; e nella prefazione al suddetto Comenlo ei dà speranza a’ lettori di dar presto alla luce questa ed altre sue fatiche. Ma non sembra eh’ egli eseguisse il suo disegno. LIBRO gli scrive non doversi alcun vergognare di essere uscito da ignobil famiglia e da piccol villaggio, come a lui era accaduto. Ch’ ei fosse scelto professor di eloquenza, l’ abbiam già veduto parlando di Guiniforte Barzizza; e che in quest’arte egli avesse fatto studio, cel mostrano ancora e il suo libro De Imitatione Eloquentiae, e altre sue opere in prosa e in versi, che conservansi manoscritte, e si annoverano dal suddetto Argelati (a). Ei volle ancora riprendere parecchi passi deli1 Eleganze del Valla, il quale perciò gli rispose con un1 amara Invettiva che si ha alle stampe. Ebbe ancor briglie con Antonio Panormita, perchè a ragione avea riprese le oscenità dell’ Ermafrodito di questo scrittore. Abbiamo in alcune edizioni di Lattanzio un catalogo di errori eli’ egli pretese di scoprire e di correggere in esso. Ma di ciò ei fu acremente ripreso da Francesco Filelfo in una sua lettera (l. 5, ep. 20), e un certo frate Adamo da Genova gli rispose pure con un pungente epigramma che suole andare unito alle stesse edizioni. Qui finalmente deesi aggiugnere tra’ professori d’eloquenza, che in Milano ebber (a) Nella Laurenziana conservansi alcune poesie latine di Antonio da Ro, e nel medesimo codice altre se ne contengono di Mala testa Ariosto, di Marrasio siciliano, di Maffeo Vegio, di Jacopo Pesaro, del Pororcelli, del I’anorinita, ec. (Cat. Codd. lat. Bibl. Laur. t. 3, p. 806, ec.); e molte altre poesie trovansi o accennate, o riferite nello stesso Catalogo, i cui autori potrebbono qui aver luogo, se di tutti i poeti, de’ quali in questo e nel seguente secolo fu infinito il numero in Italia, io dovessi parlare. TERZO i543 gran nomo, Giorgio Menila il quale per più anni vi tenne scuola. Ma di lui già abbiamo trattato nel ragionar degli storici di questa età. E più altri potrei ancor rammentare, che nella stessa città, singolarmente a’ tempi degli Sforzeschi, e in altre università italiane furon maestri di belle lettere; ma l ampiezza dell’ argomento che trovomi aver fra le mani, mi consiglia ad usar brevità, e a ristringermi a que’ soli che in sapere e in fama andarono innanzi agli altri. XXXI. Tra questi deesi distinto luogo a’ due Valla, Lorenzo e Giorgio, che in questo secol medesimo salirono a gran nome; e il primo singolarmente, di cui non v’ ebbe forse alcuno a que’ tempi che per guerre sostenute al pari che mosse fosse più rinomato. Di lui perciò tratteremo qui con qualche particolar diligenza, anche perchè niuno, ch’io sappia, ne ha scritta stesamente la vita. Il Bayle gli ha dato luogo nel suo Dizionario; ma ciò ch’ egli ne dice, è tratto per lo più da troppo moderni scrittori, e non ci spiega abbastanza il carattere di quest’ uom singolare. Noi ci varremo delle stesse opere di Lorenzo, e di quelle ancora che contro di lui furono scritte, procurando di distinguere ciò che nell’une e nell’altre vi ha di certo, da ciò che deesi attribuire al caldo della disputa e al furor di partito. Che Lorenzo nascesse in Roma, affermalo chiaramente egli stesso in più luoghi delle sue opere, e singolarmente nei’ suoi Antidoti contra Poggio: Romam, in qua ego natus sum (Op. p. 329, ed. Basil. 1540). Credesi nondimeno »544 Mi; no eh’ ei fosse oriomlo «ia Piacenza (a). In pruova della quale opinione io non arrecherò quel passo • Ielle sue Eleganze (l. 3, c. 57) in cui dice: Ego sum ortus Romae’, oriundus a Piacendo, j perciocché queste parole da lui si recano per esempio del modo con cui si debba usare la voce oriundus: Cujus utendi hic modus est: ego sum ortus, ec.; e non bastali per ciò a provarci che ivi egli parli di se medesimo. Miglior pruova ne è un breve Elogio del Valla, scritto dall’ab. Giannantonio Vigerino, e che conservasi in un antico codice della Vaticana, citato da monsig Domenico Giorgi (Vita (a) Molti documenti appartenenti al Valla conservatisi nell’ archivio de’ 1*P. Agostiniani di Santa Maria del Popolo in Roma, che dal più volte lodato P. Tommaso Veroni mi sono stnti gentilmente comunicati. Un transunto ne Ito inserito nelle Giunte alla prima edizione della mia Storia, che ora ommetlo per brevità, e mi basta indicare ciò che da essi ricavasi. Lorenzo dunque fa figlio di Luca dalla Valle piacentino, dottor d’ambe le leggi ed avvocato concistoriale non rammentato finora da quelli che ci han dato il catalogo di quegli avvocati, e di Catarina figlia del maestro Giovanni Scribani pur piaccutiuo. Luca era già morto a’ 19 di marzo del 1419, nel qual giorno la madre di Lorenzo già vedova comprò in Roma case ed orti assai grandi pel prezzo di trecento fiorini. Lorenzo ebbe un fratello per nome Michele, e una sorella per nome Margarita, che fu poi moglie di Ambrogio Dardanoni milanese scrittore ed abbrcvialore apostolico, e alia quale Lorenzo per parte di dote assegnò con islromento stipulato in Pavia a’ \ di marzo del '433 una sua casa in Roma. Ed essa insieme con Catarina sua madre adempiendo le promesse latte ma non eseguile dal Dardanoni, furon poi splendide benefattrici del suddetto convento di Santa Maria del Popolo. TERZO l545 Nicolai V, p. 207), ove espressamente egli è detto Placentia oriundus. In fatti egli stesso ci narra ch essendogli morti, mentr’ ei contava 24 anni di età, l’avolo e un zio materno, ei fu da’ suoi parenti mandato a Piacenza per raccoglierne l’eredità (Op. p. 352). Il Bayle e gli altri scrittori affermano comunemente ch’ei nacque nell'an 1415 fondati sull’iscrizion sepolcrale riferita da molti, in cui si dice ch'ei morì l’an 1465 in età di 50’ anni. Ma (quanto all’ epoca della morte, questa iscrizione è già stata convinta di falsità dall’esattiss Apostolo Zeno, come vedremo fra poco e io aggiungo ch’ella non è men falsa per riguardo all’ epoca della nascita. Lo stesso Valla nel luogo poc’ anzi accennato racconta ch essendo in età di 24 anni chiese di succedere nella carica di segretario apostolico a un suo zio materno allora defunto (a), (a) Alcune altre notizie di Lorenzo Valla o dalla Valla ci ha date il sig. abate Marini (Degli Archiatri pontif', t. 1, p. 241) che, trattando degli archiatri pontificj, tanti bei lumi intorno a più altri punti di erudizione ci ha comunicati. Egli ha osservato che il z.io materno di Lorenzo, a cui egli in età di 24 anni tentò di succedere nell’impiego di segretario apostolico, fu Melchiorre degli Scribani, il quale finì di vivere usuila line del 1429), o sul cominciar del seguente; e che perciò deesi fissar la nascita di Lorenzo circa il i Job, e nel 1'¡3o l’andata a Piacenza; che Nicco1ò V nel 1448 il nominò scrittore apostolico; e che non da questo pontefice, ma da Callisto III fu nominato nel 1455 canonico di s. Giovanni Laterano, dopo essere Stato da lui scelto a segretario apostolico, e che da lui ebbe ancora più altri canonicati e bcueficii. Tiraboscui, Voi. IX. ai XXXII. Suotoggior* no in divera* città. 1546 LIBllO e che Poggio si adoperò, perchè il pontef Martino V non gliela concedesse: petivi Secretariatum quatuor et viginti annos natos, quem ne impetrarem, tu... a pud Martinum me accasasti, ec. Soggiugne poscia, che pochi giorni appresso pel sopraccennato motivo andossene a Piacenza, e che mentre lungamente vi si trattiene, venne a Morire Martino V (nel febbraio del 1431), e fu eletto Eugenio IV. Quindi, ove ancor voglia concedersi che la partenza del Valla da Roma seguisse solo l’anno precedente 1430, è evidente che contando egli allora 24 anni di età, era nato al più tardi nel 1406 Ei non ci ha tramandato il nome di suo padre j e solo dice ch’ egli era dottore in amendue le leggi (Op.p. 34(i) e avvocalo concistoriale (ib. p. 629). Ei dice innoltre che fino all’età virile fu educato in Roma (ib. p. 347), cioè, come abbiamo veduto, sino all’anno XXIV, e che ivi ebbe a suoi maestri e direttori nella lingua greca Giovanni Aurispa, nella latina Leonardo Aretino: tum praecipue Aurispae et Leonardi Aretini, quorum alter Graece legendo, alter Latine scribendo ingenium exc itavit me uni, ille praeceptoris (uni enim mihi legebat), hic emendatoris, uterque parentis apud me locum obtinens (ib. p. 43). Ma quanto all’Aurispa, ei non potè istruire il Valla, che dopo il 1440 nel qual tempo solamente recossi a Roma, come di lui parlando abbiamo osservato. XXXII. Giunto Lorenzo all’ età di 24 anni, e chiesta invano, attesa l’età sua giovanile, la carica di segretario apostolico, venne a Piacenza, come si è poc’anzi accennato, per TERZO 1547 raccogliervi l'eredità de’suoi parenti ove mentre si trattien lungamente, accadde frattanto la morte del pontef Martino V, e l'elezione di Eugenio IV nel 1431, che fu poi seguita dalle guerre civili che si svegliarono in Roma. In questa occasione, come lo stesso Valla racconta (ib p 352), da Piacenza egli passò a Pavia, e in quell’ università fu condotto ad essere professore d’eloquenza. Era ivi allora Antonio d’Asti di cui abbiam parlato tra’ poeti latini di questa età, ed egli ebbe ivi a suo maestro nelle lettere umane Lorenzo, e ce ne lasciò ne’ suoi versi un onorevole encomio: Nec tamen interea placidos, quos semper amavi, Liqui Oratorum Rhetoricaeque libros; Nec liqui historicos veteres doctosque Poetas, Naturae humanis artibus ipse dalus; Quii* lune audivi, dum tempus ferret, ab illo, Qui mihi praecipuus Valla m.icistor erat, Qui dictas artes hac tempestate legebat, Orator tota clarus in Italia Script. Rer. ital. t. 14, p. 1013. In questo soggiorno in Pavia due cose rimproverano Poggio e il Fazio a Lorenzo la prima, ch essendo egli oppresso da’ debiti fiu.se un chirografo a provarli di già pagati, e che, scoperta la frode, ei fu da quel vescovo condannato a portare un’ infame mitera in capo 3 l’altra, che avendo egli composta e detta una declamazione contro il celebre Bartolo, poco mancò che dagli studenti di legge non fosse fatto in pezzi, e che ciò sarebbe avvenuto, se coll’ aiuto di Antonio Panormita non si fosse egli sottratto al lor furore; contro le quali 1548 LIBRO accuse più volle Lorenzo prolesta di falsità e d1impostura (l. di. p. 351, ec., 629, ec.), negando apertamente la prima, e per riguardo alla seconda confessando bensì ch" ei disse un giorno contro la rozzezza e la barbarie dello stile di Bartolo, ma che la contesa nata perciò fu solo tra l rettor de legisti e quel de filosofi, aggiugnendo che il Panormita fin d’ allora gli si era dichiarato nimico. Quanto si trattenesse il Valla in Pavia, nè egli cel dice, nè io posso raccoglierlo altronde. Ma è probabile che la peste, la quale nello stesso anno 1431 fece sì grande strage in Pavia, e costrinse a fuggirne gli scolari non meno che i professori, come narra il sopraccitato poeta astigiano (l. c. p. 1014), ne costringesse a partire anche il Valla (a). 11 Vigerino nell Elogio da noi già mentovato, nominando le città nelle quali Lorenzo fu professore, annovera, oltre Pavia, Milano e Genova ancora. Di queste due città non trovo menzione alcuna nell opere del Valla, trattone il cenno ch’ ei fa una volta di aver parlato in Milano con Rafaello Adorno professor di legge in Pavia, e poscia doge di Genova (Op. p. 462). Ben veggo ch egli accenna di essere stato in Firenze, mentre eravi anche Antonio Panormita (ib. p. 620); ma non ci .spiega s'ei vi fosse pubblico professore, o per altra occasione. Così ci conviene restare incerti (n) Se la peste costrinse il Valla a partir dn Pavia nel 1431, convien dire eli’ci poscia vi facesse ritorno; perciocché egli vi era nel marzo del Q33, come ci mostra lo strumento indicalo poc' anzi. TERZO l549 di ciò che ii Valla facesse nel corso di alcuni anni. Ma questo fu il tempo probabilmente in cui Lorenzo cominciò ad essere conosciuto da Alfonso re di Napoli, e a seguir questo sovrano nelle diverse guerre e nelle varie vicende ch’ebbe dall’an 1435 fino al 1442 in cui, espugnata la capitale, rimase padrone del regno. Così sembra raccogliersi dal seguente passo del Valla: Quid mendacius, quam ne* gare me navigasse, qui Venetias mari circumfluas, qui insulam Siciliam adii, qui non semel oram Etnisca ni Ligtis/jrarnqtie sani praetervectus, qui pugnis navalibus ad Insulam Inariam et alibi interfui non sine vitae periculo? negare me eli ani militiarn exportmn, et nudum conspexisse ensem, qui tot expeditionum clarissimi Regis Alphonsi comes fui; ac tot praelia vidi, in quibus de salute quoque mea agebatur, qui denique Salerni pro incolumitate Monas ferii, cui germanus.... praeerat, fortissime dimicavi, locumque tutatus sum (Op. p. 273)? E altrove ancora più chiaramente afferma che, prima dell’ espugnazione di Napoli, trovandosi egli colla corte in Gaeta (a), Antonio Panormita gli si era ivi dichiarato nimico: Et antequam fi ex expugnitret iVcapolini, fuii illc mifii inimicissimus jam inde a Cajeta (ib. p. 342). Ma breve fu il soggiorno del Valla presso il re Alfonso, e dopo il concilio (a) In (Ineta trovimi il Valla l'anno 14 IH, come si raccoglie ila una lettera ili esso ai] Arnoldo Srvolln sciatta da quella citta, l ite leggeri in alcune «linoni delle Favole di Esopo l55o LIBRO fiorentino e dopo il ritorno di Eugenio IV a Roma, die avvenne nel 1443, egli si' stabilì in questa città, ed ivi ebbe quelle contrarie vicende che ora diremo. XXX IR. Fra le opere di Lorenzo abbi am
- quella intitolata De donatione Coi* fantini, nella
’ quale egli combatte la tradizione comunemente allor ricevuta, che Costantino avesse donata Roma a’pontefici, e. ciò ch è più degno di biasimo, degli stessi pontefici parla con assai poco rispetto. Egli la scrisse (benchè non la divolgasse se non più anni dopo) a tempi di Eugenio, e poco dopo il concilio di Firenze, come raccogliesi chiaramente dall’ opuscolo che Antonio Cortese padre di Paolo a’ tempi di Pio II scrisse contro quello del Valla, e che perciò intitolò Antivalla. Esso, o, a dir meglio, un lungo frammento di esso conservasi manoscritto in Lucca tra libri di Felino Sandeo; ed io ho avuta la sorte di vederne una copia presso questo ch. sig. march Giambattista Cortese. In esso adunque parlando Antonio del tempo in cui il Valla compose il suddetto libro, dice: Cum pacata esset Respublica Christiana, Pont. Max., cum se abdicassent paulo ante Pseudopontifices Principatu, cum Byzantinus Imperator ac Praesul Romanum Pontificem patris loco Florentiae praesentes adorassent.... ecce subito Laurentius.... libellum de falsa pontifìcis potestate conscribit, ec. Anzi ei dovette scriver quel libro fin dal 1440, benchè solo alcuni anni dopo se ne avesse contezza; poichè egli accenna in esso la fuga da Roma di Eugenio seguita, TERZO I55I dice, sei anni prima, cioè nel 1435. Soggiugne poscia il Cortese, che Eugenio IV, avuto avviso del libro che si scriveva dal Valla, ne consultò i cardinali, i quali dissero che conveniva far ricercar del fatto e punire il Valla, se fosse reo; e che questi allora fuggito segretamente andossene ad Ostia, poscia a Napoli, e finalmente a Barcellona: An vero occulta est fuga illa tua? Tunc cum dissimulato habitu Ostiam primo, deinde Neapolim, postremo Barchinonem aufugisti, ec. il Valla, fuggito da Roma, volle difendersi, e inviò un’Apologia ad Eugenio IV, che abbiam alle stampe tra le sue opere. In essa ei non fa motto del suo libro sulla Donazione di Costantino, forse perchè non essendo ancor divolgato, gli parve che non fosse su ciò luogo a legittima scusa. Ei difende in essa singolarmente i suoi libri intorno al piacere e al vero bene, e la sua Dialettica, pei’ quali ancora convien dire ch ei fosse accusato. Pare innoltre che gli fosse imputato a delitto l’ aver parlato in favor del sinodo di Basilea; perciocchè il Rinaldi cita un orazion da lui detta in lode di Eugenio, in cui Lorenzo di ciò si scusa (Ann. eccl. ad an. 1446, n. 9). Ma non avendo io veduta questa orazione, non so quando, o a qual occasione da lui fosse detta. Or tornando all’ Apologia, in essa dice Lorenzo (Op. p. 797), ch’egli temendo una sollevazion popolare, avea creduto necessario il porsi in salvo; che un ottimo re (cioè il re Alfonso) avealo amorevolmente accolto; e che questi, chiamati a sè coloro da’ quali era stato accusato, aveagli i55a muro «grillati severamente. Questa citazione de' nemici del Valla innanzi al re Alfonso è assai difficile a spiegare come potesse avvenire. Si può nondimeno‘congetturare che essendo Alfonso circa il 1445 unito col papa contro il co. Francesco Sforza, con cui nelle terre medesime della Chiesa fu lunga guerra, venuto il re in qualche occasione a Roma, o ne contorni di questa città, accadesse ivi ciò che il Valla racconta. Ove fuggisse il Valla', e come dopo essere stato qualche tempo in Napoli, passasse a Barcellona, l’abbiamo udito poc’anzi. Ma presto ei dovette tornare a Napoli. XXXIV. Il re Alfonso lo accolse con sommo onore, c lo ebbe sempre carissimo, e con suo diploma dichiarollo poeta, e uomo ornato di tutte le scienze (ib.). In Napoli aprì il Valla scuola pubblica d’eloquenza, della quale, se dobbiam credere a Poggio, egli valeasi più a sedurre che ad istruire i giovani suoi scolari. Il Valla, colle più forti espressioni che usar si possano, grida su ciò alla calunnia e all’impostura, e sfida Poggio a citare un sol testimonio de’ delitti onde lo accusa (ib. p. 348, ec.). E certo il testimonio di Poggio, scrittore oltre modo maledico e trasportato, non è bastevole a farci pruova di sorta alcuna. Il che pure vuol dirsi di altri delitti che questi rimproverò al V alla. Non gli mancarono pero ivi accusatori e nimici in buon numero; e la libertà sua nel parlare e nell’esporre le proprie opinioni, il condusse a qualche pericolo. Egli stesso lungamente racconta (ib. p. 356, ec.) le contese che convennegli sostenere, perchè avea asserito TERZO l553 die non solo ora supposta la lettera di Cristo ad Abagaro, ma che non era mai stato un Abagaro al mondo; e perchè avea ripreso f Antonio da Bitonto celebre predicatore di que’ tempi il quale avea affermato che ciaschedun articolo del Simbolo degli Apostoli era stato da un di essi separatamente composto; proposizioni che or non offendono alcuno, ma che allora sembravano a’ meno dotti temerarie e poco meno che ereticali. Per la seconda opinione singolarmente fu il Valla costretto a comparire innanzi all’Inquisizione, e forse non ne sarebbe uscito felicemente, se la protezione di Alfonso non lo avesse fatto sicuro. Ivi ancora egli ebbe per dichiarati nimici Bartolommeo Fazio e Antonio Panormita, ch erano alla medesima corte; e col primo di essi venne a furiosa contesa, per cui si scrisser l’un contro l’altro sanguinose invettive. Il Fazio fu il primo a rivolgersi contro il Valla, impugnando e criticando amaramente la Storia della Vita del re Ferdinando padre d’Alfonso da lui scritta, e altre opere da lui pubblicate. Due frammenti di queste invettive sono stati dati alla luce nelle Miscellanee dette del Lazzaroni (t. 7). Non tardò punto il Valla a difendersi e a mordere a vicenda il Fazio con quelle amare Invettive che abbiamo tra le sue opere, nelle quali malmena il suo avversario non meno che Antonio Panormita di lui amico (benchè questi, come afferma nel suo Antivalla il suddetto Antonio Cortese, gli avesse ottenuta la liberazion dalla carcere, a cui per le sopraccennate accuse era stato condennato), e non sol ne rileva gli 1554 LIBRO errori e i difetti nello scrivere, ma scuopre e forse ancor finge ogni cosa che giovar possa ad infamarne il carattere e il nome. Al tempo in cui il Valla trattennesi nella corte del re Alfonso, appartiene ancora la contesa ch’egli ebbe con frate Antonio da Ro da noi già mentovato, il quale avendo nel suo libro dell’Imitazione criticate parecchie cose del Valla, benchè non mai nominandolo, questi, insofferente d’ogni censura, se ne risentì oltre modo, e contro di lui ancora scrisse una fiera e pungente invettiva che coll altre è alle stampe. XXXV. Così fra gli onori e fra le contese passò qualche anno il Valla alla corte del re di Napoli, finchè invitato dal pontef Niccolò V tornossene di nuovo a Roma. Il Zeno crede che ciò accadesse nel 145 c (Diss. voss. t. 1, p. 154) J e ne reca in pruova una lettera a lui scritta in quell'anno da Francesco Filelfo (l. 9, ep. 3), in cui gli dice di aver udito ch’egli, lasciato il re Alfonso, si era trasferito a Roma, Ma a me sembra che questo passaggio debba fissarsi all'anno 1447? e cl,e il Filelfo abitante in Milano e in tempi in cui quella città era sconvolta da’tumulti di guerra, non ne fosse informato che più anni dopo. Ed ecco qual ragione me ne persuade. Avea Poggio rimproverato al Valla un furto di codici fatto al monastero di s Chiara in Napoli, aggiugnendo che perciò egli fuggendo ritirato erasi in Roma. Il Valla, rispondendo al Poggio (Op. p. 354), racconta in qual modo egli avesse comperati quei’ libri, e come poscia venuto a Tivoli, ov era allora Alfonso, stette con lui più uicsi; clic accotnpagnollo I poscia nella spedizione contro de’ Fiorentini, e che sofferendo egli molto per le continue piogge, il re stesso lo consigliò a tornarsene a Napoli; che dopo aver corso un grave pericolo per l’assalto sostenuto vicino a Siena da cento sessanta ladroni, giunto a Napoli e invitato frattanto con vantaggiose e onorevoli condizioni dal papa, egli avea accettato l’invito, e venuto era a Roma. Ora il soggiorno in Tivoli del re Alfonso, e la sua guerra contro de’ Fiorentini negli antichi Giornali napoletani pubblicati dal Muratori (Script. rer. ital. t. 21, p. 1130) si fissa all’anno 1447 con Queste parole: l’anno 1447... creato Papa Niccola, il Re se partío da Tivoli, e venne in Toscana, e pigliò Castiglione di Peschiera, ec. E il Rinaldi ancora avverte che nel detto anno venne il re Alfonso a stabilirsi per qualche tempo in Tivoli (Ann. eccl. ad h. an.). Finalmente il sopraccitato Antonio Cortese nel suo Antivalla dice espressamente che Niccolò appena eletto pontefice accordò al Valla il perdono, e richiamollo a Roma. Par dunque certo che in quest’anno seguisse il passaggio del Valla da Napoli a Roma; ed è probabile che il novello pontefice Niccolò V, eletto in quest’anno, cercasse tosto di avere alla sua corte un uom sì famoso. Ma è ancor probabile, e così in fatti affermasi dal Vigerino nel già indicato Elogio, che il Valla volentieri si conducesse ad uscir dalla corte di Alfonso per l’invidia e per l’odio de’ suoi nemici.
Contese da lui avute con altri letterati.XXXVI. In Roma ancora aprì il Valla scuola pubblica d’eloquenza, benchè non tosto che vi 1556 LIBRO
fu giunto, ma circa tre anni dopo (*). Perciocché nelle contese avute con Poggio fanno 1453,
come ora vedremo, avendo questi rimproverato
al Valla che i suoi discepoli in Roma avealo
quattro anni addietro trovato oppresso dal vino,
ei convincelo d’impostura col rammentargli che
sol da tre anni ha cominciato ad esercitar quell'impiego (()Op. p. 342). Era allora professor
d’eloquenza Giorgio da Trabisonda segretario
del papa, il quale pieno di stima per Cicerone
mostrava di non aver gran concetto di Quintiliano. Il Valla al contrario ammirava Quintiliano
per modo, che credeva che non si potesse senza
ingiuria antiporgli Cicerone. E questo fu il fine,
com’egli stesso racconta (ib. p. 348), per cui
egli ancora prese a salir sulla cattedra, e adoperossi co' cardinali per avere stipendio uguale
a quello di Giorgio, segretamente però, sicchè
il pontefice nol risapesse) perciocchè questi,
com’egli dice, non ne avrebbe avuto piacere,
sì perchè il Valla non in altro si occupasse che
nelle traduzioni da lui ingiuntegli, sì perchè non
si recasse molestia a Giorgio da lui molto amato.
Mentre egli veniva in tal maniera facendo pompa
del suo sapere, si accese l’ostinata guerra tra
(*) Nello libreria Nani in Veneria conservasi un'orazione detta dal Valla in Roma l’anno i<}*7 In princìpio sui stinìii (Cnrhl■ mst. BUI. Nati. p. i<>3), di cui
pur è copia nella Laurenziann (Ca;. Codd. Int. Bibl.
Lattr. t. 3, p.^o.3). jVla io sospetto di qualche errore
in (pie’ numeri, perciocché i documenti da me accennati
non ci permettono di dubitare che assai prima di sjucll’anno non cominciasse il Valla a tenere scuola in
Roma. TERZO l557
lui c Poggio, per cui sì fìeramente innasprironsi l’un contro l’altro. Avea Poggio pubblicate alcune sue lettere, quando gli giunse alle
mani una severa critica ad esse fatta, ch’egli
attribuì al Valla, il qual per altro chiaramente
protesta più volte che non già egli, ma un
suo scolaro erane stato l autore (ib. p. 253,
275, 327). Questa fu la scintilla ch eccitò un
sì luttuoso incendio. Guerra più arrabbiata e
furor più sfrenato tra due letterati non videsi
mai. Le cinque Invettive di Poggio contro il
Valla, delle quali però la quarta è perduta, e
gli Antidoti e i Dialogi del Valla contro Poggio, sono per avventura i più infami libelli
che abbian veduta la luce. Così non vi ha ingiuria e vitupero che l’ un non vomiti contro
dell’altro j non oscenità e ribalderia che a vicenda non si rimproverino degni perciò amendue di biasimo, benchè il Valla meno di Poggio, perchè, se è vero che la critica contro
le lettere di esso non fosse sua, egli impugnò
la penna sol per difendersi. Ciò che mi sembra
più strano, si è che il Valla non temè d’indirizzare i suoi Antidoti allo stesso pontef
Niccolò V, e non troviamo che questi si adoperasse a sopir sì gran fuoco. Francesco barbaro, il cui sentimento vantavano amendue a
lor favorevole, ma che nondimeno avea dati
gran contrassegni di stima per Valla, scrivendo
a questo nel maggio del 1453 (ep. 234),,1)0"
slrò quanto ardentemente desiderasse di vedergli insieme riuniti. Chi crederebbe che anche
Francesco Filelfo, uomo per altro sì fiero nel
combattere i suoi nemici, avesse in orrore la l558 LIBRO
guerra tra essi insorta, e si sforzasse a porle
fine? E nondimeno così fu veramente, e nel
marzo dell’anno stesso scrisse ad amendue una
efficacissima lettera (l. 10, ep. 52), in cui rimproverando loro gli eccessi a’ quali si lasciavan
condurre, gli consiglia ad esser più saggi, confessando però, che pur troppo era egli ancora
caduto nel medesimo fallo. Ma non troviamo
che il desiderio del Barbaro e del Filelfo avesse
effetto; nè abbiamo indicio di amicizia riconciliata fra questi implacabili due nemici. Un’altra
contesa non men feroce sostenne egli in Roma
contro Benedetto Marando giureconsulto bolognese; perciocchè avendo il Valla pubblicato
un opuscolo, in cui sosteneva, contro il parere
di Livio, che Lucio e Arunte Tarquinj eran
nipoti e non figli di Tarquinio Prisco, e avendo
il Morando combattuta questa opinione, il Valla
insofferente dell’altrui critica contro di lui ancor si rivolse con due risposte, le quali, benchè
siano men sanguinose di quelle contro Poggio e il Fazio, non sono però un troppo perfetto modello di pulitezza ed onestà letteraria.
XXXVII. Fra queste contese ei non cessò
di coltivare i consueti suoi studj; e per ordine
di Niccolò V si rivolse.singolarmente a recar
dal greco in latino la Storia di Tucidide; e
racconta egli stesso, che avendola offerta al
pontefice, questi di propria mano gli fece dono
di 500 scudi d’oro (Op.p. 355). Da lui innoltre fu fatto canonico di S. Giovanni in Laterano e scrittore apostolico, come, oltre tutti
i moderni scrittori, affermasi dal più volte citato Vigerino). Ma il Valla non corrispose, corno TERZO *559
dovea, alla clemenza e alla bontà del pontefice
perciocchè destinato da lui insieme con altri
uomini dotti a raccogliere e a ripulire le Bolle
antiche de’ l’api, ei di questa occasione si
valse per finire il suo libro già cominciato più
anni addietro della Donazione di Costantino:
Concisis omnibus, dice il Cortese, fidei, pietatis modestiae, humanitatis vinculis, orationem hanc, quam in Eugenium exorsus J'ueras,
in Nicolaum perfecisti, et quem patris loco
colere debueras, insolentissima es petulantia insectatus. Ciò non ostante, o il libro del Valla
non si divulgasse allor molto, o il pontefice con
singolare clemenza gli perdonasse, non troviamo
ch’egli perciò sostenesse disastro alcuno, o che
fosse costretto a partire da Roma. Gioviano
l’ontano racconta che negli ultimi anni di sua
vita essendo il Valla venuto a Napoli per visitare il re Alfonso (nella quale occasione dice
il l’ontano stesso che’ egli allor giovinetto ebbe
il piacer di conoscerlo, e di trattare con lui),
il re esortollo a recar parimente in latino la
Storia d’Erodoto; e che essendovisi egli accinto, sopraggiunto da morte non potè condurla
a fine (inter ejus Op. ed. Ven. i5o8, p. 298).
Conv ieri però dire che qualche parte ei ne offerisse ad Alfonso; perciocchè il Fazio racconta
che n ebbe da lui in dono somma non piccola
di denaro (De Viris ill. p. a3) (a). Abbiaci
(a) Par nondimeno, checchè ne dica il Pontano,
che il Valla conducesse a fine la sua versione di Erodoto, benchè non fosse pubblicata che più anni dopo
la morte di esso, (Certo nella prima edizione fattane in
Venezia nel 147-4 » 0 nella seconda fattane in Roma
l i5Go libro
già accennato che l’epoca della morte del Valla
non è ben segnata nella iscrizion sepolcrale
che si produce da molti, ov egli si dice morto
l’anno 1^(37. li Zeno ha chiaramente provato
(Diss. voss. t. 1, p. '72, ec.), colla testimonianza del suddetto Pontano, che il Valla finì
di vivere prima del re Alfonso morto nel giugno del 1458; e coll’epoca della morte del
Fazio accaduta, come si è detto, nel novembre del 1457, ha provato ch egli morì nell'agosto dello stesso anno, come di fatto si
all'erma dal Giovio, il quale rapporta lo scherzevole distico fatto intorno al breve spazio con
cui si tennero dietro questi due nemici:
Ne vel in Elysiis sine vindice Valla susurret,
Facius haud multos post obit ipse dies. »
Etog. Viror. ill. p. 197.
Alle quali pruove un’ altra ne aggi ugnerò io
tratta dal più volte mentovato Elogio del Vigerino, in cui si dice ch’ ei morì sotto il pontificato di Callisto III: Ipso de inde (Valla) sub
Callisto ejus nominis Papa III functo vita. Or
Callisto III morì nell’agosto dell’an 1458,
cioè nove anni prima dell’ epoca della morte
del Valla segnata nella pretesa iscrizione. Egli
è ben vero che in alcuni codici della Vaticana,
citati da monsig. Giorgi (Vita Nic. V,p. 185),
vedesi la traduzione d’Erodoto del Valla dedicata a Pio II, successor di Callisto; ma quel’anno seguente, tutta la traduzione si dice del Valla,
e solo nella prima si dice che essa Tu riveduta ila l*eneticllo lìroguolo. TERZO l56l
sta dedica dovette l'arsi probabilmente da chi
condusse a fine la traduzione; perciocchè il
Valla, benchè fosse già morto Niccolò V, pose
nondimeno innanzi ai’ libri da sè tradotti il
nome di questo pontefice suo mecenate e benefattore.
XXXVNL Ciò che finora abbiam detto del
Valla, ce ne scuopre abbastanza il carattere,
e ce lo mostra uomo di’indole risentita ed altera, che soffrir non voleva uguali, o vicini,
e che non sapea perdonare a chiunque ardisse
di sentire diversamente da lui; e un’altra pruova
ne reca Paolo Cortese, il quale racconta che
avendo il Valla da non so qual pontefice ricevuta una negativa, egli sdegnato coi cardinali,
forse da lui creduti autori di tal ripulsa, pubblicò contro ciascheduno di essi molti pungenti
distici, rimproverando loro gravissimi vizi (De
Cardinal. l. 2, p. 88). Ei non ebbe mai moglie, e nondimeno ebbe tre figli. Ed è piacevol
cosa il vedere com’egli risponde a Poggio, il
quale, benchè tinto della medesima pece, non
avea lasciato di rimproverargli tal cosa. Perciocchè egli gli dice (Op. p. 362) che per
mostrare che la castità da lui sì lungamente
serbata era effetto non di natura, ma di virtù,
e insieme per far rivivere in qualche modo la
sua ormai estinta famiglia, avea da una giovane
zitella avuti tre figli; che questa gli era sempre
stata fedele; e che sperava di darle presto marito. Gran lode, conchiude egli parlando della
medesima, aver serbata la fede anche a non
legittimo marito! Nuova maniera di scusa, per
vero dire, e nuovo argomento di lode per lui
TlRABOSCUI, Voi. IX. 22 i56a libro
11011 meno che per la sua donna. Noi il loderemo più volentieri per l’indefesso studio della
greca e della latina letteratura, in cui sempre
occupossi, e pei’ molti pegni che nelle sue
opere ce ne ha lasciati. Molte ne abbiam già
accennate, che ci dimostrano che non v’ebbe
sorta di studio a cui egli non si rivolgesse.
La storia, la critica, la dialettica e la filosofia morale furon da lui illustrate scrivendo; e
riguardo a quest’ ultima, oltre i libri Del Piacere e Del vero Bene da noi già rammentati,
uno ne scrisse sulla Libertà dell’arbitrio, il qual
per altro poco più altro contiene che ciò che
appartiene alla divina prescienza, dalla quale
egli pruova non recarsi alcun danno alla libertà
degli uomini. Ei mise mano ancora alla Sacra
Scrittura, e scrisse sul Nuovo Testamento, non
però come teologo, ma come dotto nel greco,
riprendendo più passi della traduzione già fattane, e mostrando come si potesser meglio
tradurre. Per lo studio da’ lui fatto di questa
lingua, oltre le due traduzioni da noi mentovate, ei recò ancora in prosa latina Omero;
la qual versione si ha alle stampe, e ribattè
vigorosamente l’accusa datagli dal Fazio di
aver fatta sua quella di Leonzio, che si conservava in Firenze (Op. p. 622). Ma l’ opera
che ha renduto più celebre il Valla, e che ora,
dimenticate tutte l’altre, è ancor di qualche
uso, sono le sue Eleganze, in cui comprende
gran parte delle regole gramaticali e delle riflessioni che usar si debbono a scrivere correttamente. Quest’ opera fu allor ricevuta con incredibile applauso, e non sì tosto s’introdusse TERZO |563
la Slampa in Italia, clic se ne videro in pochi anni molte edizioni. Alcune altre opere
del Valla, che non trovansi nell’ edizione di
Basilea, ma che si hanno separatamente alle
stampe, si annoverano dal Fabricio (Bibl. med.
et inf. Latin, t. 6, p. 282) e dall’Oudin (De
Script eccl. t. 3, p. 2439, ec.). Paolo Cortese
nel suo dialogo degli Uomini dotti, dopo aver
l’atto il carattere di questo scrittore conforme
a ciò che ne abbiam detto noi pure, riflette
ottimamente (p. 27, ec.) ch’egli scrisse assai
bene intorno alla lingua latina, ma che non
seppe usarne bene ugualmente, benchè pur fosse
uomo per acutezza di’ingegno celebre in tutta
l'Italia; e ne dà per ragione, che procurava
egli bensì di spiegar la forza e l indole di ciascheduna parola, ma non sapeva contornare il
discorso in quella maniera che ad ottenerne
lode si conveniva. Il Fazio ancora, benchè gli
fosse nimico, gli diede luogo tra gli uomini
illustri, de’ quali ha tessuto l’elogio (De D'iris
ili. p. 23); ma non si stese molto in lodarlo,
e altro quasi non fece che accennar l’opere
da lui pubblicate. Con lode ancora ne parla
Gioviano Pontano (De Serm. l. 1, c. 18; l. 6, c. 4), biasimandone però egli ancora lo stile
non abbastanza colto e purgato, la facilità
nel riprendere gli antichi scrittori, e la iattanza con cui parlava ei medesimo del suo
sapere e delle sue opere. Ma più di tutti ne
ha parlato con grandissima lode Erasmo da
Rotterdam, che in una lunga sua lettera va
dimostrando che a lui in parte si dee il risorgimento della letteratura e della critica (t. 1, 1564 LIBRO
ep. io3). Nè lo stesso Valla per ultimo ha tralasciato di tramandarci le lodi di cui era stato
onorato, inserendo nelle sue Invettive contro
Poggio (Op. p. 351, ec.) le lettere che in sua
commendazione aveano scritte alcuni uomini
più celebri di quell età, come Lorenzo Zane
arcivescovo di Spalatro (il quale ancora in altra sua lettera pubblicata dal P. degli Agostini
(Scritt. venez. t. 1, p. 202, ec.) forma un tale
elogio del Valla, che del più dotto uomo che
mai fosse vissuto al mondo non potrebbe farsi
il maggiore), Francesco Barbaro, Pietro Tommasi ed altri. Ma s’egli ebbe encomiatori in
gran numero, non gli mancarono pure avversarj e nimici che il malmenarono; talchè come
è difficile a diffinire se maggiori fossero i pregi
ovvero i difetti del Valla, così non si può ben
decidere se maggiori fosser le lodi di cui fu
onorato, o gli insulti coi’ quali fu maltrattato.
XXXIX. Più scarse notizie abbiamo di Giorgio Valla, di cui il Crescenzi afferma (Corona,
par. 1, p. 218, ec.), ma senza recarne pruova, che fu cugino di Lorenzo. Qualche parentela nondimeno è probabile che con lui avesse;
poichè quegli, come si è detto, credesi fonda-,
tamente piacentino d’origine, e piacentino di
nascita fu certamente Giorgio, che così spesso
egli s’intitola nelle sue lettere. Quando nascesse, e ove passasse i primi suoi anni, non vi
ha monumento che cel dimostri. Solo da un’opera di Pontico Virunio, citata da Apostolo
Zeno (Diss. voss. t. 2, p. 314), raccogliamo
ch’egli ebbe a suo maestro nel greco quell" Andronico di cui si è altrove parlato. L’Argelati, TERZO |565
che gli ha dato luogo tra gli scrittori stranieri
che lungamente han soggiornato in Milano (Bibl.
Script, mediol, t. 2, pars 2, p. 2181), dice
ch’ ei fu scolaro di Giovanni Marliani celebre
professor di que tempi nell’università di Pavia.
Io non so qual pruova si possa addurne (a),
uè so pure a che fondamento si appoggi ciò
ch’egli e il Sassi (Hist. typogr. mediol. p. 536)
affermano dopo altri recenti scrittori, che per
opera di Jacopo Antiquario ei fosse dal duca
Francesco Sforza prescelto a maestro de suoi
figliuoli. Francesco Puteolano nella lettera all’Antiquario scritta nel 1482, e di nuovo pubblicata
dal Sassi (ib.p. 483), a cui pare che questo scrittore si appoggi, dice solo che l’Antiquario avea
intrapresa la causa di Giorgio Valla e di Giorgio Merula in tal modo, che uno avea già ottenuto ciò che bramava, dell’ altro non disperavasi ancora: parole troppo oscure, perchè
si possa raccogliere ciò che vogliano indicarci.
E Giorgio nella sua lettera, con cui dedica all’Antiquario la sua versione dell’Introduzione di
Galeno ai’principi della Medicina (ib. p. 536),
loda bensì generalmente i beneficj da lui ricevuti, ma di questo non fa espressa menzione. Io
anzi dubito che siasi preso equivoco fra Giorgio
Valla e Giorgio Vallagussa, che a questi tempi
medesimi fu maestro de’ figli del duca Francesco,
(a) Che il Valla fosse discepolo del Marliani si è poi
provato dall’ eruditissimo sig. proposto Poggiali nell esatto e copioso articolo che intorno a questo professore
ci ha dato (Meni, per la Storia letter. di Piar. t. 1,
/>. 131), ove più altre belle nolizie della vita e delle
opere del Valla si potran ritrovare. l5GG LIBRO
come dopo il Muratori i*d altri osserva altrove
il medesimo Argelati (Bibl. Script, mediol. t. 2,
pars 1,p. i558). Questi soggiugne ch’ei tenne
scuola pubblica d’eloquenza prima in Venezia,
poscia in Milano; ma egli ha errato nell' ordin
de tempi; e la serie delle cose che di lui narreremo, ci farà conoscere che Giorgio fu prima
o in Milano, o in Pavia, poscia in Venezia. E
in Pavia egli era certamente nel 1471; perciocchè Alberto da Ripalta in una orazione in quell'anno tenuta, e inserita ne’ suoi Annali (Script.
rer. ital. t. 20, p. i)34) ì tra 1 Piacentini celebri
per sapere e per perizia della greca e della latina lingua, che allor viveano, nomina Gregorium Vallam Papiae legentem: nel qual luogo
parmi evidente che per errore il nome di Gregorio sia stato intruso in vece di quello di Giorgio. In fatti negli Atti di quell’ università si accenna un decreto fatto nel 14prò solutione
salarii Magistri Georgi Vala. Ch’ ei fosse ancora in Milano, ce lo rende probabile l’ amicizia contratta con Jacopo Antiquario. Il Borsetti lo annovera ancora tra i professori della
università di Ferrara (Histor. Gymn. ferr. t 2,
p. 47)• Ma il Baldassari, ch è il solo da lui
citato in pruova, non basta a persuadercelo;
anzi egli stesso non lo afferma chiaramente. E
certo ch’egli poscia passò a Venezia, ove pur
fu condotto alla cattedra d’eloquenza. Ed egli
vi era l’anno 1486; perciocchè Callimaco Esperiente, ossia Filippo Buonaccorsi, che nel detto
anno fu in Venezia ambasciadore del re di Polonia, nominando i letterati che ivi frequentavano la sua casa, annovera fra gli altri Giorgio TERZO l56;
Valla (V. Agostini, Scritt, venez. t. 1,p. 554).
In Venezia pure egli ebbe a suo scolaro Giannantonio Flaminio, il quale grato all'amore del
suo maestro ne lasciò nelle sue Lettere un onorevole elogio (/ i, cp. 7).
XL. Ma qui appunto lo attendevano le sue
sventure. Vivea allora Pontico Virunio, di cui
altrove abbiam detto, stato già scolaro del Valla. Quando una notte parvegli in sogno di vederlo tolto di vita, e di fargli il funebre epitaffio in quaranta versi. Riscosso dal sonno, e
temendo che qualche sventura soprastasse a
Giorgio, gli scrisse tosto a Venezia, avvertendolo che vivesse cauto. La lettera trovò il Valla
vivo bensì, ma stretto in carcere per opera del
Placidio segretario di Gianjacopo Trivulzi; ed
egli leggendo la lettera del Pontico, Ahi caro
Pontico, esclamò, tu non dimentichi il tuo
maestro nè vivo, nè morto. Tutto ciò si narra
dal medesimo Pontico ne’ due libri che in verso
eroico scrisse De miseria litterarum, citati da
Apostolo Zeno (l. dtp. 3i5). Questa prigionia
del Valla si racconta ancora da Gian Pietro Valeriano ne suoi libri De literatorum infelicitate,
ove introduce Gasparo Contarini a narrare che
mentre il Valla, uomo, com’egli dice, di molto
studio, di molta dottrina, e autore di molti
libri, teneva scuola in Venezia, essendosi dichiarato fautor del Trivulzi, e sparlando liberamente di coloro che gli eran nimici, accese
contro di sè lo sdegno del duca di Milano Lodovico Sforza, il quale adoperossi per modo,
che in Venezia stessa fu il Valla fatto prigione.
Così questa sventura di Giorgio dal Pontico si
XL.
Sua prigionia, c tua
morir. l568 LIBRO
attribuisce allo stesso Trivulzi, dal Valeriano
si attribuisce allo Sforza. E benchè il Pontico
fosse egli pure scolaro del Valla, com era il
Contarini, da cui il Valeriano avea udito il fatto, essendo però allora assente il Pontico da
Venezia, e presente, come fra poco vedremo,
il Contarini, sembra che a lui più che al Pontico si debba fede; e molto più che, poichè
Giorgio fu morto, Gianpietro di lui figliuolo ne
dedicò le opere allo stesso Trivulzi; pruova
evidente ch’ egli era a lui favorevole. La circostanza del partito che a favor del Trivulzi avea
preso il Valla contro il duca Lodovico, m induce a credere che ciò accadesse fanno i499>
in cui quel gran generale conducendo l armi
francesi mosse guerra al duca, e costrinselo ad
abbandonare Milano. Soggiugne poscia il Contarini presso il medesimo Valeriano, che dopo
qualche tempo esaminata la causa del Valla,
fu posto in libertà, e rimesso alla sua cattedra; ma che poco appresso, mentre una mattina disponevasi a venire alla scuola, ove spiegava le
Quistioni Tusculane di Cicerone, e disputava
ogni giorno con grande impegno e dottrina dell’immortalità dell’ anima, ritiratosi per natural
bisogno, perdè ivi improvvisamente la vita; e
noi, dice il Contarini, che ogni giorno sul
far dell’aurora ci recavamo ad ammirar il sapere di un uomo sì dotto, ci avvedemmo di
averlo perduto solo allora quando, passata già
l ora della lezione, mandammo alcuni alla sua
casa a chiedergli la ragione di tanto indugio;
ed essi tornando contro ogni nostra espettazione (poichè ei non avea dato alcun indizio TEMO |5(3;)
(P infermità) ci recarono la funesta nuova della
sua morte. Questo racconto del Valeriano, a
cui certo non si può apporre la taccia d uomo
non bene informato, basta a convincer d’errore!’ asserzione del Puccinelli, seguito poscia
dalFArgelati e dal Sassi, che afferma (Chron.
Coenob. Glaxiat. c. 43) il Valla esser morto
in Milano, e il corpo esserne stato sepolto
nella chiesa del monastero di S. Pietro in
Gessate, a cui egli avea lasciati in dono i
suoi libri. Forse così avea ordinato il Valla,
ov ei morisse in Milano. Ma essendo morto in
Venezia, è probabile che ivi pure fosse sepolto. E forse qui ancora si è preso equivoco con
quel Giorgio Vallagussa da noi nominato poc’ anzi.
XIJ. Il suddetto Argelati ci ha dato un ampio ed esatto catalogo dell opere di Giorgio,
sì di quelle che si hanno alle stampe, come
di quelle che sono inedite. Giampietro Valla di
lui figliuolo ne pubblicò molte insieme l anno 1501 (cioè un anno o due dopo la morte
del padre) colle stampe di Aldo, e dedicolle
al sopraddetto Gianjacopo Trivulzi. Il loro titolo
è De expectandis et fugiendis rebus; e abbraccian trattati sopra le principali scienze non meno
che sopra l’amena letteratura. In essi il Valla
si dà a vedere uomo versato in quegli studj
di cui ragiona, e ci offre quasi un’ enciclopedia, ristretta però a quel poco che singolarmente nelle scienze filosofiche allor si sapeva.
A me dispiace di non aver potuto vedere questa edizione; che forse dalle opere stesse del
Valla avrei tratti più lumi ad illustrarne la vita.
XII.
Sue opere 15-0 LIBRO
Molto esercitassi egli ancora nel recare in latino gli antichi scrittori greci, la cui lingua
avea diligentemente studiata; e abbiamo fra gli
altri i Problemi di Alessandro di’Afrodisia, l’Introduzion di Galeno, e alcuni altri trattati medici da lui traslatati. E avea egli in fatti studiata ancora la medicina, benchè non si trovi
memoria che la esercitasse •, e ne abbiamo in
pruova alcuni trattati appartenenti a questa
scienza e all’ anatomia da lui pubblicati. Finalmente egli occupossi non poco, come la profession sua richiedeva, in illustrare le opere
rettoriche di Cicerone, e altri antichi autori latini, e in scriver trattati appartenenti all’ eloquenza, de’ quali abbiam parecchi alle stampe.
E ci basti aver ciò accennato intorno all’ opere
di questo indefesso scrittore, delle quali, come
ho detto, si può vedere un diligente catalogo
presso l Argelati; a cui ove pur alcuna ne manchi, non è di questa mia Storia il farne più
diligente ricerca. Una sola particolarità intorno
al Valla non è da ommettersi, la quale, se si
ricevesse per vera, cel farebbe credere uomo
che putisse un pocolin di magia. Pietro Crinito
racconta (De Honesta Disciplina l. 6, c. 11)
che Ermolao Barbaro gli diede l importantissima notizia che il demonio nel parlare usava
di una voce bassa ed esile, aggiugnendo ch’egli stesso aveane fatta pruova un giorno in cui
insieme con Giorgio da Piacenza interrogollo
intorno alla Entelechia d’Aristotele. Il Valla era
in Venezia a tempi di Ermolao; ed è perciò
assai probabile ch’egli sia il Giorgio qui mentovato Il Crinito però ci permetterà di ricevere TERZO I I
cotesto suo racconto come ricevonsi ormai da
tutti gli uomini saggi cotali ciancie.
XLÌl. Il Valla non fu il solo celebre professore di belle lettere, che avesse in questo secol Venezia; la quale anzi n’ ebbe tanti, che
per numero e per fama di essi può stare al
paragone di ogni più illustre città. Già abbiam
veduto che ivi tennero scuola e Guarino e i
due Filelfi e Vittorino da Feltre, e innoltre Giorgio Merula e Marcantonio Sabellico mentovati
già tra gli storici. A questi debbonsi aggiugnere
Gianpiero da Lucca, traduttore di qualche opera
di Plutarco, che passò poscia l’ultimo anno
di sua vita ad insegnare in patria, e vi morì
nel 1.457 onorato di solenni esequie (V. Fahr.
fiibl. nied. et inf. Latin, t. 4 ■ P- 2i5), e Lorenzo Morneo che da Gasparino Barzizza vien
detto (Op. p. 177) oratore e poeta egregio,
Pietro Perleoni riminese a cui moltissime lettere abbiamo di Francesco Filelfo, Benedetto
Brognolo da Legnano (Mazzucch. Scritt. ital.
t 2, par. 4> p• 2i34), Francesco Negro professore prima in Venezia, poi in Padova, indi
alla corte di Ferrara sul principio del sec xvi.
(V. Agostini, Scritt. venez. t. 2, p. 473, ec.) (*),
(*) Questo Francesco Negri, o Fosco, egli è proba,
biltncnle quegli che fu maestro del card Ippolito
d’Este il vecchio, e che dall’Ariosto è lodato, ove parlando di quel cardinale ancor giovinetto, dice:
Fusco gli è appresso, che gli occulti sensi
Chiari gli espone de l' antiche carte
Orl), fur. c. xtvi, »t. 8y;
la quale notizia è sfuggita a que’ che di lui hanno fit.or
ragionato, e anche ad Apostolo Zeno. »5^2 libro
Filippo da Rimini (Zeno, Lettere, ti.p. 4l 1),
e più altri che si annoverano dal P. degli Agostini (Scritt. venez. t. i, pref. p. 44)) de’ ilua^ |,0>
pure già abbiam favellato, o in più opportuno
luogo dovrem ragionare. Quindi a ragione Francesco Filelfo scrivendo al suddetto Perleone,
e nominando Venezia, ne fa questo magnifico
elogio (Epist. l. 17, p. 115): Una est urbs
urbium omnium, quae sub sole sunt, populosissima, liberalissima, adeo ut neque paucis
(doctoribus opus sit ad tantam instituendam adolescientiam, neque deesse praemium viro erudito
et eloquenti cuique possit in tam multis amplissimisque fortunis. A questi veneti professori
possiamo aggiugnere Palladio Negri padovano,
che latinamente volle appellarsi Fosco, e Bartolommeo Celotti da Brugnano nel Friuli, detto
in latino Uranio, il primo professore prima in
Trau nella Dalmazia, poscia in Giustinopoli,
ossia Capo d’ Istria, e ivi morto d’ apoplessia
nel 1520, il secondo professore in Udine. Di
amendue parla il ch. Apostolo Zeno (Diss. voss.
t. 2, p. 49, 54)e del primo singolarmente
accenna la lode datagli da alcuni scrittori di
que’ tempi di uno de’ ristoratori della lingua
latina, e accenna alcune opere da lui composte,
fra le quali abbiamo in istampa i Comenti sopra
Catullo, e un libro De situ orae Iliirici. In Venezia ancora fu professore per alcuni anni Antonio Mancinelli, che prima avea tenuta scuola
in Velletri sua patria, in Roma e in Fano.
Molt’ opere, altre gramaticali, altre di comenti
sopra gli antichi scrittori, ed altre poetiche se
ne hanno alle stampe, delle quali si ha un TERZO |5^3
diligerne catalogo presso il Fabricio (Bibl. med
et inf. Latin, t. i, p. 126, ec.). Egli era nato
nel 1452, e visse fin oltra al i5oo.
XL1H. L’università di Padova, che al principio del secolo avea avuti i tre celebri professori da noi già mentovati, Guarino da Verona, Francesco Filelfo e Gasparino Barzizza,
altri non men valorosi n’ ebbe nel decorso di
esso, e più ancora negli ultimi anni. Il Facciolati annovera (Fasti Gymn. pat. pars 1,
p. 53, ec.) Jacopo Langosco verso il 1431,
e dopo lui Antonio Picino da Bergamo, Egidio
Carpi che nell’an 1436 passò a Bologna,
Matteo da Rido, Lauro Quirini di cui abbiam
fatta altrove menzione, e di cui il P. degli Agostini coll’ usata sua diligenza ha ampiamente
trattato (Scritt. venez. t. 1, p. 205, ec.), Bullengero siciliano, Domenico da Rossa bresciano,
Angiolo da Rimini e Francesco Neri veneziano.
Ma due singolarmente negli ultimi anni di questo secolo furono in Padova professori d’ eloquenza, che per le arrabbiate contese tra loro
insorte tutta mossero a rumore e a scompiglio
quella fiorente università. Essi furono Rafaello
Regio e Giovanni Calfurnio, uomini quasi sconosciuti prima che l’eruditiss card Querini ne richiamasse a luce la memoria e ’l nome.
Questi (Epist. ad Sax. ad calc. Bibl. Script,
mediol. p. 20), seguito poscia dal P. degli Agostini (l. dtp. 520), afferma che il Regio fu di
patria bergamasco; ma essi non ne adducono
pruova: ed io altra non ne ritrovo se non il
detto di Cornelio Vitelli, che in un suo opuscolo
contra il Perotti sopra la prefazione di Plinio
Vl.tll
l'mb'liorf
in PadiUN:
(libello Rrgi«. JOjf LIBRO
alla Sloria ha turale, indirizzato a Partenio Veronese, dice: Te vero et Bergomatem Raphaelem nostrum hac in re judices deligo, ove tutte
le circostanze mi par che non altri possano
dinotare che il nostro Regio. Nè io so su qual
l'onda mento nell1 edizion veneta del 1586 de’
Comenti di Rafaello sopra le Metamorfosi d'Ovidio egli sia detto Volterrano {a). In una disputa da lui scritta contro il Calfurnio l’ an 1488, e dedicata ad Ermolao Barbaro, sopra
alcuni passi di antichi scrittori, che abbiamo
alle stampe, egli dice che l’an 1482 era stato
chiamato a legger rettorica in Padova collo stipendio di 200 forini un cotal Cataldo siciliano;
ma che mostrandosi questi poco opportuno a
tal impiego, egli venuto con lui a pubblica
sfida, l’avea superato per modo, che di comune consentimento degli scolari ne avea ottenuta la cattedra, e che il Calfurnio ch erasi
fatto innanzi per ottenerla, avea sofferta una
vergognosa ripulsa; che per quattro anni avea
egli tenuta scuola con tale applauso, che essendosi offerti due valorosi competitori a contendergli quella cattedra, erano stati rigettati
dagli scolari; che finalmente due anni addietro,
cioè nel 1486, il Calfurnio erasi adoperato per
modo, e avea con tale frode raggirato l’affare,
che non ostante che la più parte degli scolari
fosse in suo favore, ei nondimeno per opera
(a) 11 Regio credesi nato in Cavenno, terra della
\alle di S. Martino nel contado ili Bergamo, ove tultnr sussiste un gruppo di case che diccsi il Castello
ile’ Ue. t]el rcllore singolarmente era giunto ad ottener
quella cattedra. Trattennesi però ancora il Regio
in Padova, e non cessò mai d’abbaiare contro
del suo rivale. Così la disputa poc’anzi da noi
mentovata, come un Dialogo, ch’ei finge d’aver
tenuto col Calfurnio sopra alcuni passi di Quintiliano, è pieno delle più amare invettive e
delle più gravi contumelie contro il suo avversario. E perchè questi avea riprese alcune note
di Rafaello sopra le Metamorfosi di Ovidio,
in esse ancora egli lo morde, chiamando lui
arrogantissimo, e inette cavillazioni le difficoltà
da lui oppostegli. Abbiam parimente una lettera
da lui scritta a Sigismondo Ongaro, in cui si
duole che il Calfurnio (al quale egli comunemente dà il soprannome di Bestia, ch era proprio dell’ antico famoso Calfurnio Pisone) non
contento di scrivere contro di lui, ed infamarne
il nome con apporgli que’ delitti de’ quali era
reo egli stesso, avesse ancora tentato di farlo
uccidere. Qual fede debbasi a tali accuse, il
vedremo fra poco, trattando dello stesso Calfurnio. Qui frattanto avvertirem solamente che
quel Cataldo siciliano, di cui parla con sì gran
disprezzo il Regio, debb’ essere quel Cataldo
Parisio siciliano, in lode di cui abbiamo un
epigramma di Ermico Caiado portoghese, che
allora era in Italia, e che confessa di averlo
avuto a suo primo maestro:
Formasti ingenium primus. primusque per altos
Duxisti lucos antraque Pieridum.
A te principium Musae; tibi nostra Thalia
Supplicat, et se vult te genitore satnm.
Lpigrainm. I. i. I?}~fì LIBRO
Marino Beeicliemo nalio di Scutarì nella Dalmazia, e professore verso il medesimo tempo
in Venezia e in Brescia, in una sua prelezione
sopra Plinio citata dal card Querini (De
Brix. liter. t 1, p. 104 » ec.) racconta che Rafaello fu poscia cacciato dall università di Padova; ch egli era scrittor maledico e nemico
di quanti celebri professori allora fiorivano;
ch essendo stato invitato da’ Bresciani a tenere
scuola fra loro, si era fatto attender sei mesi,
ed erasi poscia con lettera assai ardita lagnato
con quel magistrato, che non veggendol venire
dopo più inviti replicati per ben sei mesi, avesse
chiamato a tal fine Giovanni Taberio.
XLIV. Da Padova passò il Regio a Venezia,
ove certamente era nel 1492; perciocchè in
quest anno ei diede ivi a Ottaviano Scotto da
Monza i suoi Comenti sopra le Metamorfosi
di Ovidio, perchè colle sue stampe li pubblicasse. Ma poichè videgli usciti in luce, avendo
conosciuto che essi erano stati per altrui mano
alterati e guasti, ne menò gran rumore, e citò
lo stampatore in giudizio, ove non sappiamo
che si decidesse. Ma egli fece di nuovo stampare da Simon Bevilacqua i suddetti Comenti
nell'an 1493 (V. Agostini, l. c. p. 525, ec.).
Altre ristampe se ne fecer poscia negli anni seguenti, e il Regio in una sua lettera a Filippo
Ciulano, premessa all' edizion fatta nel 1513,
si vanta che di questi Comenti eransi già fatti
oltre a cinquantamila esemplari. Nè questo fu
il solo tra gli antichi scrittori illustrato dal Regio.
Il Fabricio, che niuna notizia ci dà della vita
di questo professore, ne annovera ancora (Bibì. TERZO 1577
ni ed. vd inf. Latin, t. 6, p. i> 1) i Coment» sopra i Libri ad Erennio, e sopra le Istituzioni
di Quintiliano, e innoltre alcune traduzioni dal
greco dell’opere di S. Basilio e di Plutarco.
Egli fu poi surrogato l’an 1503 al Calfurnio
nella cattedra d’ eloquenza in Padova (Zeno,
Diss. voss. t. 2, p. 413), ove vedrem fra poco
ch’ ei fu trovato da Erasmo, ma poscia trovossi un’altra volta in Venezia verso il 1508;
perciocchè il più volte lodato P. degli Agostini rammenta (l. c t 2, p. 307) una pubblica disputa che verso questo tempo si tenne
ivi nella chiesa di S. Stefano tra lui e il suddetto Becichemo sulla quistione, a cui si dovesse la preferenza tra Cicerone e Quintiliano.
Nello stesso impiego egli era verso il 1515,
come raccogliam da una lettera di Giovanni
Watson al celebre Erasmo (Erasm. ep. 183,
t. 1). Un’altra lettera di Vittore Fausto, scritta
al medesimo Becichemo nell’aprile del 1519
(Epist. cL Virar. VeneL i568), ci mostra che
il Regio in quell’ anno vivea ancora, ma vecchio e mal fermo in salute e che allora qualche altra contesa dovea essere insorta fra questi
due rivali. Da ciò che il ch. Zeno racconta di
Marino Becichemo, raccogliesi che il Regio
morì in Venezia, ov’era professor d’eloquenza,
l’anno i5ao (Di ss. voss. t. 2, p. 415). Noi
vedremo fra poco che il detto Becichemo e
altri difensori del Calfurnio formano di Rafaello un carattere assai svantaggioso. Ma se
noi siam pronti a non credere tutto ciò che
Rafaello ci dice de’ suoi nimici, possiamo con
ugual ragione sospendere di dar fede a tutto
Tira boschi, Voi. IX. a3 15^8 LIBRO
ciò eli' essi contro di lui ci raccontano: riflessione che sempre dobbiam aver presente all animo nella storia di questo secolo, in cui
lo spirito di partito e il furore delle contese
giunse al più alto segno a cui giammai l’invidia e la maldicenza lo conducesse. E certo
il suddetto Erasmo, che venuto in Italia circa
il 1506, conobbe in Padova il Regio, ne parla
con molta stima r Patavii neminem vidi celebrerà, prue ter Raphaelern Regium hominem
admodum natu grandem, sed cruda viro viridisque senectus. Erat tunc, ut opinor, non
minus annis lxx, et tamen nulla fuit hyems
tam aspera, quin ille mane hora septima adiret
M. Musurum Graece profitentem, qui toto anno
vix quatuor intermittebat dies,, quin publice
profiteretur. Juvenes hyemis rigorem ferre non
poterant; illum senem nec pudor nec hyems
abigebat ab auditorio (t. 1, ep. 671).
XLV. Giovanni Calfurnio, se crediamo a ciò
che ne racconta il Regio nella disputa sopraccitata, era natìo delle montagne di Bergamo,
e figliuolo di un carbonaio che lavorava nelle
fucine di ferro; donde egli dice che doveva essergli venuto il cognome di Calforno, benchè
egli per una cotale affettazione di greco si facesse chiamare e scriver Calphurnius. Leggiadro è il fatto che a questo luogo medesimo
il Regio gli rimprovera: Tuo padre, dic egli,
desideroso di rivederti, perciocchè sperava che
tu esser dovessi il bastone di sua vecchiezza,
dalle montagne di Bergamo sen venne a piedi
fino a Bologna, ove tu eri pedagogo; e si
diè a cercare per ogni parte chi gli sapesse TERZO |5^g
additare maestro 'Zanino, che così in patria tu
ti chiamavi. Ma non trovando alcuno che gliene
desse contezza, finalmente si avvenne a caso
in te stesso; e mentre il povero padre si apparecchiava a stringerti la destra, ed abbracciarti con affetto paterno, tu il rigettasti si
brutalmente, che nol volesti pur riconoscer per
padre; ed egli nè con preghiere, nè con lusinghe, nè colla interposizione di qualche sacerdote non potè ottenere di parlarti una volta
almeno in segreto. Deposta dunque ogni speranza che l'ir felice genitore in te avea riposta,
tornossene in patria, ov essendo interrogato
da’ suoi vicini, che facesse maestro Zanino,
rozzamente si ma graziosamente rispondeva:
Che si faccia egli, nol so io già; ma ei non
è più Zanino, ma sì Scalfornio, e per verità
ch ei mi ha scalforniato; perciocchè i montanari di Bergamo chiamano scalfornie le frodi
e gl inganni. È troppo verisimile che questo
racconto sia stato o coniato interamente dal
Regio, o almeno esagerato di molto. Anzi pare
che non gli si possa pure dar fede in ciò che
appartiene alla patria di Calfurnio, perciocchè
egli è creduto comunemente bresciano, e tale
in fatti lo dice il sopraccitato Becichemo, il
quale parlando a’ Bresciani lo chiama loro concittadino (ap. Quirin. l. c p. 103): Civem
vestrum Joannem Calphurnium: e bresciano
pure lo dice Agostino da Olmuz in una sua
lettera scritta in Padova nel 1464 (ib. p. 65).
Io nondimeno non veggo per qual motivo il
Regio volesse farlo credere bergamasco anzi
che bresciano \ e se il medesimo Regio era 158o LIBRO
bergamasco, ei doveva pure sapere se il Calfunio fosse, o no, suo compatriotto (*). Già
abbiamo udito in qual modo, secondo il Regio, egli ottenesse la cattedra di eloquenza
nell università di Padova; ed egli aggiugne che
tale era il disprezzo in cui era presso i suoi
scolari il Calfurnio, che molti di essi, abbandonata quella città, se n’andavano a Bologna,
a Ferrara, o ad altre scuole. Il Becichemo,
nella prefazione da noi mentovata, rigetta come
mere calunnie tutte le cose dal Regio scritte
contro il Calfurnio, e di questo professore ei
fa un lodevol carattere, dipingendolo come
uomo d’innocenti e santi costumi, d’indole
dolce e nimico di ogni contesa, e dotto innoltre al par di chiunque nel greco e nel latino linguaggio. Se il solo Becichemo ci parlasse
così del Calfurnio, potrebbe credersi scrittor
sospetto, o parziale, e le lodi di cui l’onora,
forse si prenderebbono come frutto di partito
o di prevenzione. Ma più altre testimonianze
assai onorevoli a questo professore abbiamo
in diversi scrittori. Cassandra Fedele lo dice
lume dell eloquenza e tutore delle belle arti
(*) Il dubbio in cui qui lio lasciato ciò che appartiene alla patria del Calfurnio, è sciolto da un rotolo
ebe si conserva presso i Canonici lateranensi di S. Giovanni di Verdara in Padova, a’quali egli lasciò la sua
libreria, e in cui egli si nomina: Ego Johannes t/ui dicor Calphurnius Planza de Bufìnonibus ex Bordonia
agri Bergomatis. Questa notizia mi è stata comunicata
dal eh. sig. Don Jacopo Morelli, a cui non potrò mai
mostrarmi abbastanza riconoscente pe’ lumi che contimi amen te mi somministra. TERZO 1 581
(ep. 3). Pierio Valeriano lo annovera tra letterati infelici; dice di averlo, essendo fanciullo, conosciuto in Padova (De InJ'elic. littcrator. p. 28); e racconta che il Calfurnio, cui
egli chiama uomo di rarissima erudizione, fu
sempre esposto alle calunnie e alle ingiurie de’
suoi rivali, ma che soffrendo ogni cosa con
invincibil coraggio, in altro non occupavasi che
nell’ acquistarsi colle sue dotte fatiche nome
immortale; finchè sorpreso da paralisia e perduta la voce, morì senza poter indicare le
opere ch’ ei lasciava da sè composte, delle
quali poscia si usurparono altri l onore. Con
molta lode ancora di lui ragiona Gianantonio
Flaminio scrivendo all’Antiquario, e lo dice
hominem ad unguem factum; e descrive la
singolar gentilezza con cui da lui fu accolto e
quasi a forza per più giorni trattenuto in Padova (l. 3, ep. 4); e dalla lettera con cui
questi risponde al Flaminio, raccogliesi che
l’Antiquario ancora amavalo molto e avealo in
molta stima (ib. ep. 5). Il Becichemo aggiugne
ch ei morì in età di 60 anni; e ciò accadde
nel 1503, e il Becichemo stesso ne fece l’orazion funebre (Zeno, Diss. voss. t. 2, p. 413).
Nella morte di lui scrisse alcuni versi il medesimo Valeriano, nei quali, dopo aver detto
ch’ ei sapea quanto saper potevasi di latino e
di greco, lo propone per esemplare di un letterato indefesso.
Quicumque libris igitur impallescitis,
Exemplo habete singuli Calfurnium.
Ma insieme si duole ch’egli tutto intento a I r>8a LIBRO
fornir se stesso di pregevoli cognizioni, appena pensasse a pubblicar cosa alcuna (Carni.
/>. 9G, ed. ven. 1558). Egli affaticossi singolarmente nel correggere i codici degli antichi
poeti e nel comentarne le poesie (*). E ne
abbiamo alle stampe le annotazioni sopra la
commedia di Terenzio intitolata li cantanti tno-,
rumenon, di cui ancora emendò le altre commedie; il che pur egli fece delle opere di Catullo e di Ovidio. Il Regio, nella più volte
citata disputa, gli rinfaccia che le note sulla
sopraddetta commedia di Terenzio fossero state
da lui involate a Guarino da Verona e ad Ognibene da Vicenza; ma già abbiam osservato
che non dobbiamo esser sì facili a ricevere
cotali accuse. Di alcuni altri opuscoli e di alcune poesie del Calfurnio veggasi il card
Quirini (l. c. t. 2, p., ec., 289). Il Calfurnio morendo lasciò i suoi libri alla chiesa
di S. Giovanni di Verdara, ove perciò se ne
vede ancora il mausoleo e la statua (Tomas.
Bibl. patav. mss.).
XLVT. U11 celebre professore d’eloquenza
non inferiore ad alcuno ebbe in questo secolo
la città di Vicenza, cioè Ognibene da Lonigo.
Di lui ha lungamente parlato il P. Angiolgabriello da S Maria carmelitano scalzo (Bibl.
dei' Scritt. vicent. t. 2, p. 135), che ne ha tratte
le più accertate notizie da’ monumenti che nella
detta città si conservano; ed io perciò sarò
(*) Dal Calfurnio si ebbero ancora corrette ed emendate, com’egli all'erma, le Poesie di Tibullo, di Properzio, e le Selve di Stazio stampate in Vicenza nel i4#i. TERZO I583
pago (li accennare in breve ciò che egli ha
svolto e provato diffusamente. Ognibene, nato
in Lonigo castello^del Vicentino, fu figlio di
Arrigo de’ Bonisoli, come da quattro carte di
quell’ età mostra il suddetto scrittore. Egli non
sa intendere per qual ragione il card Querini lo abbia detto (Dia.tr. ad Epist. Barb.
p. 106) della famiglia Scola, e dubita ch’egli
abbia preso equivoco nel legger due versi di
Q. Emiliano Cimbriaco, ne’quali dice:
Tu caetus juvenum bonos frequenta,
Quales Omnibonus scholas habebat,
Praeceptor meus.
Ma sarebbe troppo grave un abbaglio di tal
natura; e il card Querini ha avuto assai miglior fondamento della sua opinione, cioè l’autorità di Biondo Flavio, da lui a quel luogo
citato, il quale fra gli scolari di Giovanni da
Ravenna nomina Omnibonum Schola Patavinum (Ital. illustr. reg. 4)- Come però questo
storico non si mostra bene istruito della patria
di’Ognibene, così potè errar facilmente ancor
nel cognome (*). Fin dal i436 trovasi in una
(*) Ho creduto che Biondo Flavio avesse dato per
errore il soprannome di Scola a Ognibene da Lonigo \
ma il ch. sig. Jacopo Morelli nelle erudite sue note aggiunte al Catalogo de’ Codici mss. latini della libreria
Nani (p. 59), ha avvertito e pruovato che Ognibene
Scola padovano dee distinguersi da Ognibene da Lonigo
vicentino, e ha additate alcune opere inedite che son
certamente del primo, e non del secondo. Il primo pure, e non il secondo, come io ho creduto (t. 5), fu
quegli ch’ebbe a suo maestro Giovanni da Ravenna. i584 unno
carta distinto col grado di maestro e di professor d’eloquenza: circumspectus artis Oratori ut
professor Magister Ognibene, ec. Nondimeno
ei non fu scelto a tenere scuola in Vicenza
se non l’anno 144^ » in cui fu sostituito a s
Bartolomineo de’ Bufoni cremonese. Quindi è
probabile ch ei tenesse prima scuola in Trevigi, onde di fatto veggiamo ch’egli scrisse
l’an 1441 una lettera a Francesco Barbaro,
ringraziandolo di un beneficio che’ ei si era
proferito a concedergli, ma scusandosi insieme
dall’accettarlo (Barb. Epist. p. 176). Il card
Querini (l. c.) congettura che il Barbaro lo
invitasse a qualche università più famosa, e
può essere che così fosse, ma non se ne ha
pruova sicura. Ciò ch è certo, si è che dal 1443
fino al 1493, che fu l’ultimo di sua vita, ei
tenne scuola in Vicenza (*). E con qual applauso ei la tenesse, ne è indizio un decreto
fatto da’ notai di Vicenza nel 1456, in cui riflettendo che niuna scuola era abbastanza capace all’affollato concorso che da ogni parte
faceasi ad udire Ognibene, per l’alta stima in
che egli era d’uomo dottissimo nelle lingue
latina e greca e nell’eloquenza, gli accordarono
a tal fine l'ampia sala del lor collegio. Infatti
in una orazione che cinque anni dopo la morte
di Ognibene recitò alla città di Vicenza Bartolommeo Pagello, ei piange il danno ch’essa
(*) Nel pubblico archivio «Iella città «li Trevigi si
conserva fatto con cui Ognibene fu condotto a tenere
scuola in quella città nel t447i e convien dire perciò,
ch’egli interrompesse per qualche tempo il lungo suo
soggiorno in Vicenza. TERZO 1585
soffriva per la perdita di sì celebre professore,
e rammenta il concorso che da tutta l'Italia si
faceva ad udirlo,aggiugnendo che dalla Grecia
venivan molti o per conoscerlo di presenza, o
per frequentarne la scuola; che i principi stessi
ad essa mandavano i lor figliuoli; e che tutta
la vicentina gioventù era allora rivolta agli studj,
dimentica perciò de’ piaceri, e nemica de' vizj
proprj di quella’ età. Somiglianti sono gli encomj con cui ne parla in una sua lettera Francesco Serpe gramatico vicentino di quei tempi,
il quale ancor dice ch egli non solo istruiva
con sommo impegno i giovani, ma molti ancora liberalmente manteneva a sue spese. Amendue poi ne lodano non solo il sapere, ma ancor l’innocenza e l’integrità de’costumi, per
cui era vivo specchio di ogni bella virtù, e
l’indole mansueta e piacevole, per cui non lasciossi mai trasportare a mordere o ad insultare i suoi avversarj: dote in ogni tempo pregevole assai, ma in questo secolo singolarmente
in cui sì pochi furono i letterari di sì dolci
maniere (*).
(¥) Niuno degli scrittori che han parlato di Ognibenc
da I.onigo, ha avvertito ch’ei fu per qualche tempo
maestro di Federigo Gonzaga marchese di Mantova,
del cui padre Lodovico era stato già condiscepolo sotto
il celebre Vittorino da Feltre. Lo afferma lo stesso
Ognibene nel dedicare al march Federigo medesimo
il suo trattato De partibus odo Oralionis, stampato in
Venezia nell’an 1473. Perciocchè dopo aver detto che
il march Gianfrancesco avea chiamato a Mantova il
suddetto Vittorino, e datigli ad allevare i suoi figli, Illum deinde, prosiegue, imitatus Genitor tuus optimus
me dignum duxit condiscipulum suum, cui lantani l58G LIBRO
XLVn. Ei fu uno de’ più dotti nella lingua
greca, che a questo secol vivessero, e gran
pruova ne è ciò che narra Barnaba Celsano
stato già discepolo d’Ognibene, nella prefazione
premessa a quattro Omelie di S. Atanagio dal
suo maestro tradotte; cioè che avendo egli recitata pubblicamente in Venezia innanzi al card Bessarione. un’orazione in greco, questi
ne rimase preso per modo, che confessò aver
lui superati nell'eloquenza i Greci tutti, sicchè
i Latini non aveano più che invidiare a’ medesimi. Infatti esercitossi Ognibene nel recare di
greco in latino molti degli antichi scrittori. E
primieramente ei tradusse le Favole di Esopo;
della qual versione, come di primizie de’ suoi
studj, egli parla nella già mentovata lettera
del 1441 a Francesco Barbaro (a). Quindi il
Rimicio, o a dir meglio, come pruova monsignor Giorgi (Vita Nic. V, p. iyS), Rinuccio d’Arezzo, che tradusse egli pure le stesse
Favole c dedicolle al Cardinal Antonio Cerdano,
onorato della porpora nel 144® z falsamente si
vanta di esserne stato il primo interprete; il
indolem traderei, tuam, dico, fratrumque tuorum erudiendam. In quo mihi utinam fortuna affuisset, studi um certe non de era t.
lai II eh. sig. ab. Morelli (Bibl. Farsetti MSS. t. 1,
p. 97) e la maggior parte degli scrittori hanno creduta
inedita la versione delle Favole di Esopo fatta da Ognibene. Ma se ne ha un’ edizione senza data di luogo
fatta Panno i4<P da Batista da Farlengo, il quale comunemente stampava in Brescia; ed essa conservasi in
Bergamo presso il più volte lodato sig. Giuseppe Beltramelli. In essa però il traduttore volle render greco
il suo nome, dicendosi Panagaihum Viceniimtm.
1 TERZO I Per
qual Uinuccio è quel medesimo probabilmente
che viene graziosamente deriso da Ambrogio
camaldolese in una sua lettera (l. 8, ep. 28)
come un solenne ciarlone, e pieno di vanità e
gonfio del suo sapere che pur non era infinito.
Ma anche Ognibene non può dirsi il più antico,
come ha affermato il P. Angiolgabriello •, perciocché abbiamo già osservato che fin dal 1422
aveale tradotte Ermolao Barbaro. Dice innoltre
il suddetto scrittore, che’ ei tradusse le Storie
d’Erodiano; del che diremo nel trattare della
versione di questo storico, che il Poliziano ci ha
data. Abbiamo ancor alle stampe la traduzion
da lui fatta del trattato di Senofonte intorno
alla Caccia, oltre quella delle Omelie poc'anzi
accennate. Molti ancora furono gli autori latini
da lui comentati. In Vicenza conservansi in un
codice a penna le note da lui scritte sopra le
Satire di Persio, a cui si aggiunge il compendio di alcune favole tratte da' libri d’Ovidio
dell'Arte di amare. Manoscritti ancora si hanno
i suoi Comenti sopra Giovenale, di cui vuolsi
che più del dovere si giovasse Giorgio Merula.
Dettò innoltre a’ suoi discepoli un Comento sopra Terenzio, e abbiam udito poc’anzi Rafaello
Regio rimproverare al Calfurnio, che di essi e
di que' di Guarino si fosse ei fatto bello senza
ragione. Al qual luogo non so come il P. Angiolgabriello abbia preso per opinione indubitata del card Querini ciò ch ei riporta soltanto colle parole del Regio, cui anzi ha in conto
di scrittore calunnioso. Abbiamo alle stampe i
Comenti da lui scritti sopra Lucano stampati 1.588 LIBRO •
in Milano nel i 4q 17 e poscia altrove; e il Maittaire e dopo lui il P. Orlandi aggiungono ad
essi i Comenti sopra Lucrezio stampati nello
stesso anno e dal medesimo stampatore. La
qual edizione non essendo stata veduta da alcuno (poichè anche il Sassi non ne parla (Hist.
typogr. mediol, p. 589)) che sulla fede del Maittaire) il suddetto P. Angiolgabriello sospetta
a ragione che siasi preso equivoco tra Lucano
e Lucrezio. Stampati pure si hanno i Comenti
di Ognibene su i libri dell’Oratore, degli Uffizj, dell’Amicizia, sulle Quistioni Tusculane e
su' Paradossi di Cicerone, e sulle Storie di Sallustio e di Valerio Massimo. Egli diligentemente
emendò i libri della Rettorica attribuiti a Tullio, e le Istituzioni di Quintiliano. Finalmente
di questo instancabile professore abbiamo alcuni
trattatelli gramaticali, alcune orazioni, alcune
lettere ed altre simili operette, delle quali si
può vedere un esatto catalogo presso il sopraccitato scrittore (*).
XLVI1I. Più feconda ancora di esimj professori di belle lettere fu in questo secolo, e
principalmente negli ultimi anni, la città di Brescia. Il card Querini ne ha parlato a lungo
nell’erudita sua opera della Letteratura brescia(*) Fra gli opuscoli inediti di Ognibene da Lonigo
io accennerò solo quello che è intitolato Liltellus de unilate et concordia Cirium ad Baptistam Trissinum, che
si conserva nella libreria di S. Salvadore di Bologna ì
perché esso sembra lo stesso che sulla lede del Montlaucon poco esattamente si riferisce dal P. Augiolgabriello
da Santa Maria (Scritt. vicenl. t. a, par. i, p. 109). TERZO l58i)
nn; cil io perciò accennerò solamente ciò che
basti a formarne una giusta idea. Non parlerò
qui di Marino Becichemo nominato poc’anzi,
e che, prima che in Brescia, avea tenuta scuola
in Venezia e in Padova perciocchè, comunque per più anni tenesse scuola in Brescia, egli
era natio di Scutari nella Dalmazia, e non appartiene perciò all'Italia; e chi pur ne brami
notizie, può trovarle esattissime presso Apostolo Zeno (Diss. voss. t 3, p. Accennerò
ancora soltanto i nomi di Giovanni Taberio
(Quirin, (de Liberat Brix. pars 2, p. 69, ec.),
di Antonio e di Bartolommeo Partenio (ib.p. 61,
pars 1, p. 66, ec.) e di Paolo Soardi ib.pars 2,
p. 31), de’ quali io lascio che ognun vegga ciò
che ha scritto il suddetto dottissimo porporato,
il quale altrove ragiona (Diatr. ad Bpi.sì. Barb.
p. 97, ec.); di Gabriello Concorreggio milanese
maestro pure in Brescia, di cui però non abbiamo cosa alcuna alle stampe, e che si rendette solo famoso per le continue sue doglianze
presso i Bresciani, perchè non pagavangli il
pattuito stipendio. Di due soli mi ristringo a
dir brevemente, cioè di Boccardo Pilade e di
Giovanni Brittannico. Il primo, benchè comunemente si chiami solo Pilade Bresciano, o
Boccardo Pilade, avea ancora il nome di Gianfrancesco, com’egli s’intitola nella lettera a Piccinello Dosso arciprete di Salò nell’inviargli la
sua Gramatica. Anzi l'eruditiss Apostolo Zeno
crede che solo per affettazion di grecismo ei
prendesse il soprannome di Pilade, e ch’ ei
veramente si chiamasse Gianfrancesco Boccardo
(Lettere, t 3, p. 246, ec.). Il cardiual Qucrini i5r)o libro
all’orma eli1 ei tenne scuola in Brescia; ma, a
dir vero, di ciò non trovo indizio di sorta alcuna. La suddetta Gramatica ei dice di averla
composta per Nestore suo figliuolo; di altri scolari non dice molto. Ma ciò che mi sembra più
degno di riflessione, si è che gli eredi di Jacopo Britannico stampatore in Brescia, in una
supplica che l'an 1506 porsero a rettori della
città per ottenere il privilegio alla stampa che
aveano intrapreso dei Comenti del Pilade sopra
le Commedie di Plauto, lo chiamano il qu.
Pilades Academico, olim professor de studii de
humanità a Salò (Quirin. l. c. pars 1, p. 2 3);
e della scuola tenuta in Brescia, che a tanto
miglior ragione dovea nominarsi, non fan parola. Ovunque però tenesse egli scuola, ei fu
assai benemerito degli studj di questa età coll opere che diede a luce. Perciocchè oltre la
sopraccennata gramatica, e alcuni altri opuscoli
ad essa appartenenti, che di lui abbiamo alle
stampe, egli scrisse ancora un picciol Vocabolario in versi, annessavi la spiegazione in prosa.
Coltivò ancora la poesia, e abbiamo la Genealogia degl Iddii da lui esposta in versi elegiaci
e divisa in cinque libri, che non son già, come
sembra credere il card Querini (ib), p. 296),
una traduzione di Esiodo, ma opera in tutto
diversa. Ei comentò per ultimo le Commedie
di Plauto; nel che però per esaltare le sue fatiche malmenò oltre modo e depresse quelle
che Giorgio Merula, Giambattista Pio e Bernardo Saraceno avean sostenute nel comentare
il medesimo autore. Ma egli ancora trovò chi
gliene rendè la pariglia. Perciocchè Taddeo TERZO I I
Ugoletti parmigiano in una nuova edizione che
di questo poeta fu fatta in Venezia nel 1518,
rispose alle invettive. del Pilade, e mostrò quanti
errori avesse egli pure commessi (*).
XLIX. Contemporaneo e amico del Pilade fu
Giovanni Britannico, natio, come afferma F. Filippo da Bergamo (Suppl. delle Cron. p. 328),
della terra di Palazzuolo nel territorio di Brescia. Il Papadopoli afferma di averne trovato
il nome ne’ registri degli scolari in Padova negli anni 1470 e 1471 (Hist Gymn. pat t 2,
p. 185), ove però non si sa di certo ch’egli
ottenesse la laurea. Quindi passato a Brescia,
prese a tenervi scuola, e in questo esercizio
continuò lungamente. Abbiam di fatti una supplica da lui presentata al Consiglio di questa
città a’ 26 di novembre del 1518, in cui chiede
per sè e per tutta la sua famiglia non già ampli
stipendj, poichè dice che ben conosce essere
allora per le trascorse guerre troppo esausta
quella città per poterli sperare, ma che lor si
concedano gli onori e gl impieghi che conceder soleansi a’ cittadini, e ad impetrarli rammenta che già da 56 anni essi abitavano in Brescia, occupati sempre ne’ buoni
studj, e che già da 44 anni ottenuto aveano il diritto della cittadinanza. Annovera ivi ancora le opere da sè composte,
cioè i Comenti sopra Giovenale, sopra Orazio,
sopra l’Achilleide di Stazio e sopra Persio;
(*') La prima edizione degli Scolli di Taddeo Cgolelti sulle Commedie di Plauto fu fatta in Parma nel i5io
(V. Affo, Man. di TatUlto Ugol. p. 4*, ec.). i5ga libho
i quali Conienti aggiugne modestamente che da
tutta l’Europa venivano ricercati, e ch’egli allora stava scrivendo comenti sulla Storia naturale di Plinio. La supplica del Britannico fu
favorevolmente accolta, e con decreto de’ 31
di marzo dell’ anno seguente gli fu conceduto
ciò ch’ei bramava; dopo il qual tempo non
trovo più di esso memoria alcuna; ed è probabile che non molto sopravvivesse. I Comenti
sui quattro mentovati poeti han veduta la luce,
e se ne hanno più edizioni. Ma quei che’egli
scriveva su Plinio, non sono mai usciti al pubblico; ed è verisimile che sopraggiunto da
morte non potesse compirli. Di alcune sue orazioni e di altre operette da lui composte veggasi
il co. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 4, p 2106, ec.)
che diligentemente ha trattato di questo scrittore, presso cui ancora si potran vedere le
pruove di ciò ch’ io ho finora asserito. Egli
ebbe ancora un fratello detto Gregorio dell’Ordine de’ Predicatori, il quale 1’ anno i49^
pubblicò una Raccolta di Sermoni funebri e nuziali parte latini e parte italiani, oltre qualche
altra operetta rammentata dallo stesso co. Mazzucchelli (ivi, p. 2116, ec.), che parla innoltre
di altri di questa stessa famiglia che coltivarono verso lo stesso tempo le lettere, e ce ne
lasciarono pruove nei’ libri dati alla luce. Anzi
mentre essi giovavano al pubblico colle loro fatiche, altri della stessa famiglia si esercitavano
nello stampar le opere de’ lor parenti e d’altri, cioè Jacopo e Angiolo Britannici, da’quali
veggiam fatte in Brescia molte edizioni sul fin
di questo e sul principio del secolo susseguente; TERZO l5o3
onde a ragione diceva Giovanni nella supplica
da noi poc’anzi accennata, che tutta la famiglia era intenta a promovere i buoni sludi.
L. La fama che alle scuole fiorentine conciliata aveano ne’ primi anni di questo secolo
Guarino da Verona, Giovanni Aurispa e Francesco Filelfo, fu sostenuta da altri che lor succederono negli anni seguenti. E primo tra essi
deesi annoverare Carlo Aretino, illustre non men
per sapere che per nobiltà di sangue, perciocchè
fu figliuolo di Gregorio Marsuppini nobile aretino
dottor di leggi e secretario del re di Francia Carlo VI, e per lui governatore di Genova.
Il co. Mazzucchelli ci ha dato intorno alla vita
e alle opere di questo erudito scrittore un assai esatto articolo (Scritt, it. t. 1, par 2,
p. 1001, ec.), tratto in parte dalla V ita che
ne scrisse Vespasiano fiorentino, la qual conservasi manoscritta nella Vaticana. Da essa
adunque trarrò in breve le più importanti notizie, aggiungendo solo, ove sia d’uopo, ciò
che mi è avvenuto di ritrovare altrove. Ei nacque verso il 1399, ed ebbe a suoi maestri
Giovanni da Ravenna e, secondo il Volterrano
(Comm. Urbana, l. 21, ec.), Manuello Crisolora; il che però non ci si rende credibile riflettendo all’ epoche della vita di Manuello da
noi altrove fissate (a). Sotto la direzione de’
(a) Che Carlo Aretino fosse scolaro del Grisolora in
Firenze, affermasi ancora da Costantino Lascari nel
passo che ne abbiamo di sopra recato. Ma ciò non
ostante non veggo come ciò possa conciliarsi coll epoche
della lor vita, (quando non vogliamo anticipare di molti
anni la nascita di Carlo.
h.
Prof***oe*
in Firma*;
Carlo Arenilo.
Tiuaboschi, Voi. IX. i.'5y4 Licno
suoi maestri fece sì lieti progressi, che venne
in fama di uno de’ più dotti uomini del suo
tempo. Egli era in Firenze, quando il Filelfo
vi fu chiamato alla cattedra d’eloquenza; e
questi veggendo Carlo che veniva spesso alla
sua scuola, e vi assisteva taciturno e pensieroso, ebbelo tosto in conto d’uomo malvagio,
e che cercava di muovergli guerra e di screditarlo. Quindi ne venne l’ostinata discordia tra
essi due, di cui si hanno più pruove nelle
Lettere del Filelfo </. a, cp. a, n, 17, ec.),
e molto più si accese questi di sdegno contro
del Marsuppini, quando scelto egli ancora a
sostenere la medesima cattedra, il Filelfo si vide
abbandonato da molti tra’ suoi scolari che più
volentieri recavansi a udire il suo rivale. La
lor nimicizia allora innoltrossi per modo, che,
come narra Vespasiano, il Filelfo fu rilegato
a’ confini come ribelle, o certamente dovette
egli medesimo partir da Firenze sulla fine
del 1434. Così continuò il Marsuppini libero
da un fastidioso rivale a tener la sua scuola e
a conciliarsi la stima di tutti i dotti. Alcuni
dicono che ei fosse ancor professor di filosofia
in Pisa; ma il co. Mazzucchelli avverte che di
ciò non trovarsi cenno in veruno degli scrittori
di que’ tempi. Era allora in Firenze il pontef
Eugenio IV con tutta la sua corte, e ivi si
trattenne dal 1434 fino al 1436; il che diede
occasione di nuova gloria a Carlo; perciocchè
alcuni fra’ cardinali, e gli stessi nipoti del
papa, oltre più altri forestieri, andavano a
udirlo e ad ammirarne l’erudizione e l’eleganza;
e questa fu probabilmente l’origine dell’ onore TERZO l5l)5
ch'ebbe per l'impiego conferitogli di segretario
apostolico circa il 1441 cioè in quel tempo
in cui Eugenio ivi~cra di nuovo a cagion del
concilio che in quella città celebravasi. Questo impiego però non lo strinse per modo al
pontefice, ch’ei non accettasse nel 1444 quello
di segretario della Repubblica di Firenze vacante per la morte di Leonardo Bruni. Egli il
tenne per nove anni, cioè finchè finì di vivere
ai' 24 d’aprile del 1453, onorato di solennissime esequie e coronato pubblicamente d'alloro
per mano di Matteo Palmieri statogli già discepolo. Si posson leggere presso il co. Mazzucchelli le onorevoli testimonianze che a lui
hanno renduto gli scrittori di que’ tempi, che
ne ragionano come di uno de’ più dotti uomini
che allor vivessero (a). Francesco Sforza duca di
Milano volle annoverarlo tra’ suoi domestici,
come raccogliam dalla lettera che Carlo gli
scrisse, pubblicata dall’ ab. Lazzeri (Misceli.
Colicirom. t. 1, p. 160); il che però a mio
credere fu un semplice onore a lui conceduto,
senza che perciò ei dovesse abbandonare la
sua Repubblica. Ei nondimeno perdette alquanto
della fama ottenuta, quando, venuto a Firenze
l’anno i45a 1’imperador Federigo III, egli ottenne per opera di Cosmo de’ Medici di essere scelto a preferenza di Giannozzo Mannetti
a complimentarlo pubblicamente. Perciocchè
avendo egli dapprima soddisfatto con lode alfimpegno addossatogli, e avendo per P impeto) Intorno a lui veggasi ancor la Vi la di Cosino de’
Siedici scritta da monsignor Fabroni (t. 1, p. 219, ca). l5l)C> LIBRO
radure risposto Enea Silvio Piccolomini, ch
erane segretario, il quale nella sua orazione
richiese alla Repubblica alcune cose, a cui facea d’uopo di pronta risposta, Carlo non ebbe
animo a farla, e convenne sostituirgli il Mannetti. Vespasiano fa ancora elogio dell’ onestà
de’ costumi del Marsuppini; ma assai diversamente ne parla Niccolò Ridolfi scrittore egli
pure contemporaneo citato dal co. Mazzucchelli, il quale, dopo averne narrata la morte e i
funerali. aggiunge: Dio l abbia onorato in Cielo, se l' ha meritato, che non si stima; perchè morì senza confessione, e comunione, e
non come buon Cristiano. Molte poesie latine
se ne conservano manoscritte, che si annoverano dal co. Mazzucchelli; ma poco più ne
abbiamo alle stampe che la traduzione in versi
latini della Batrachomyomachia di Omero, del
qual poeta avea egli pure tradotta in parte, secondo alcuni, l Iliade, secondo altri, l’Odissea. Di esso ha parlato ancora il ch. Apostolo Zeno (Diss. voss. t. 1, p. 129, ec.). Vuolsi
avvertire per ultimo, che quel Carlo Aretino
di cui parla spesso Marsilio Ficino nelle sue
opere, non fu già quegli di cui scriviamo, ma
un figlio di esso che ottenne egli pure gran
nome tra gli uomini dotti di quell’ età.
LI. Più vasta ancora e più varia fu l’ erudizion di Cristoforo Landino oriondo da Pratovecchio, e nato in Firenze nell’anno i424 (*)•
(*) L’ anno della nascita del Landino, da me sull'autorità degli scrittori fiorentini (fissato al 14*4? Pnr cl,e
debba differirsi all’an 1434 perciocchè nella lettera TERZO 1597
Noi avremmo potuto con ugual ragione favellare di lui tra filosofi e tra coltivatori della
lingua greca e tra’ poeti latini, poichè in tutti
questi generi di letteratura fu un de più illustri. Il ch. sig. can Bandini ne ha scritta
assai diffusamente non meno che eruditamente
la Vita, arricchendola insieme di più monumenti
ad illustrare la storia della letteratura fiorentina
di questo secolo (Specimen Letterat. fiorent.
saec. xv, Florentiae 1747), e a me perciò
sarà lecito il dirne in breve. Fatti i primi studj
in Volterra sotto Angiolo da Todi, a cui si
rendette sì caro, che non solo il mantenne
lungo tempo a sue spese, ma obbligò ancora
morendo gli eredi a mantenerlo per tre anni,
dovette per comando di Bartolommeo suo padre volgersi, benchè suo malgrado, alle leggi.
Ma il favore e la munificenza di Cosimo e di
Pietro dei Medici il richiamaron presto a’ diletti suoi studj, tra’ quali quello della filosofia
platonica gli fu caro singolarmente; e fu perciò uno de’ principali ornamenti dell’accademia
altrove da noi mentovata, e si strinse in grande
amicizia col Poliziano, col Ficino e con altri
valorosi filosofi. Destinato l’an 1457 a tener
pubblica scuola di belle lettere in Firenze, accrebbe molto la fama di quello Studio, e fu
un di quelli a cui si dovette il fiorir ch’esso
fece di questi tempi. Ebbe ancora sul fin della
ila lui scritta nel 1475 a Lorenzo de Medici, in cui
gli chiede l’impiego di cancelliere del PuhLlico, che allor però non ottenne, dice che conta quarantun anni
di età: Allevimi et quadragesimum annuiti duro (Hauti.
Colteci, vet. Mommi, p. 3). l598 LIBRO
vita l’impiego di segretario della Signoria, e pel
suo sapere non meno che per la sua probità
n’ebbe in dono un palazzo nel Casentino. L’an 1497 ottenne dalla Repubblica di essere sollevato dal suo gravoso impiego, rimanendogli
però intatto lo stipendio assegnatogli, e ritiratosi poscia a Pratovecchio, ivi tranquillamente
tra gli amati suoi studj passò gli ultimi anni
di sua vita fino al 1504, in cui diede fine a
suoi giorni. La moltitudine e la varietà delle
opere che ce ne sono rimaste, basta a farne
l’elogio. Tre libri di Poesie latine se ne conservano manoscritti nella Laurenziana in Firenze, e molte di esse ancora han veduta la
luce (Carm. ill. Ital. t 5). Dal nome di un’ Alessandra da lui amata, diè loro il nome di
Xandra, comecchè molte appartengano a tutt’altro argomento. Benchè il loro stile non sia
sempre coltissimo, esse possono nondimeno
stare al confronto della maggior parte delle
poesie di questi tempi. Non pago di coltivare
la poesia, volle ancora illustrare i poeti; e ne
abbiamo in pruova i Comenti da lui scritti sopra Virgilio, sopra Orazio e sopra Dante, i
quali furono allora stampati più volte, benchè
poscia il miglior gusto introdotto gli abbia renduti inutili. Ei tradusse ancora in lingua italiana la Storia naturale di Plinio e la Sforziade
di Giovanni Simonetta, le quali versioni parimente si hanno alle stampe. Abbiamo ancora
alcune orazioni latine, e altre italiane da lui
dette in diverse occasioni, oltre alcune altre
che non han mai veduta la luce. Dello studio
da lui fatto sulle quistioni della morale filosofia TERZO *5iW
ci fanno testimonianza i Dialogi della nobiltà
dell animo, i quattro libri delle Quistioni Camaldolesi ed altri opuscoli, parte stampati, parte
inediti, intorno a’ quali e ad altre opere del
Landino io rimetto chi legge alla suddetta Vita,
ove potrà vedersi ampiamente disteso ciò ch’io
qui non ho che leggermente adombrato (a).
T.1T Nell1 impiego medesimo della pubblica
scuola di amena letteratura sottentrò al Filelfo i
Barlolommeo Fonte, di cui prima d’ ogn altro
ha illustrata la memoria il ch. ab. Mehus (praef.'
ad Epist. Ambr. camald, p. 55), traendone le
notizie dalle Lettere di lui medesimo, che non
sono mai venute alla luce. Egli era figlio di
Gianpietro Fonte, e nacque nel 1445 Istruito
prima in Firenze alla scuola di Bernardo Nuzzi
professor di’eloquenza, passò in età ancor giovanile a Roma, ov era nel 1461, donde venuto a Ferrara vi si trattenne, non sappiamo
a qual titolo. parecchi anni, e sperimentò in
se stesso gli effetti della liberalità del duca
Borso, da cui ebbe distinzioni ed onori. Dopo
la morte di Borso, tornato a Firenze, pensava di andarsene in Ungheria alla corte del
re Mattia grande protettore de’ letterati; ma
mancandogli il denaro perciò necessario, gli
fu d’uopo trattenersi in patria, ove, morto
l’an 1481 Francesco Filelfo, fu destinato a
(a) Il sig. canonico Bandini ha pubblicata una lunghissima lettera latina del Landini diretta a Pietro de’
Medici, in cui ribatte l’accusa che da alcuni venivagli
data, di esser detrattore e nimico della memoria di Cario
Aretino, a cui anzi protestasi di dovere ogni cosa (Cut.
Codd. lai. Bibl. Lattr. t. 3, p. Gt(», ec. J. |600 LIBRO
succedergli nella cattedra d’eloquenza. Ma poichè l’ ebbe tenuta poca oltre a due anni, annojato dalle molestie che i suoi nimici recavangli continuamente, andossene a Roma, e
da Sisto IV ottenne di essere destinato pubblico professore in Roma. Ivi però ancora fece
assai breve soggiorno, forse per la morte di
quel pontefice avvenuta l’ anno seguente. Tornato perciò a Firenze l’anno, fu due anni
appresso caldamente invitato dalla Repubblica
di Ragusa a recarsi colà ad istruire la gioventù
nelle lettere umane. Ma la tenerezza pe’ suoi
parenti che da lui ricevevano il loro sostentamento, non gli permise di secondare cotai preghiere. Frattanto avendo egli prestata l’ opera
sua nel copiare e correggere i codici che il re
Mattia facea in Firenze raccogliere per la sua
biblioteca, fu da quel re invitato alla sua corte;
ed egli recatovisi nel 1488 recitò innanzi a
lui una sua orazione. Tornato poscia nel seguente anno a Firenze, di nuovo vi si occupò nel copiare i codici per quel sovrano, e
formonne ancora un catalogo, mostrando come
dovessero esser disposti. Finalmente nel i4{)3,
fatto piovano di S. Giambattista di Monte Murlo
nella diocesi di Pistoia, ivi passò gli ultimi vent’ anni di vita, e vi morì nel 1513. Egli era
assai dilettante di monumenti antichi, e una
raccoltane fece, cui inviò l’an 1489 a Guglielmo di Roccaforte cancelliere del regno di
Francia. Fin da quando egli vivea ne furono
stampate sei orazioni in Firenze circa il 1477
le quali poi insieme con più altri opuscoli di
diverso argomento dello stesso Fonte venner TERZO iGol
di nuovo a luce in Francfort nel iGji; di clw
veggasi il Ciucili (lì ibi volante, t. a, /». 3 29,
ed. Ven. 1735). Ne abbiamo oltre ciò certi
brevi Annali, i quali sono stati inseriti dal dott Lami nel suo Catalogo della. Libreria riccardiana, il quale ancora annovera alcune altre
operette da lui composte, che ivi conservansi
p. 193) O O(*) Una lettera di Bartolommeo Fonte scritta a Battista Guarino per consolarlo nella morte della moglie
Bittina, ha pubblicata il sig. can Bandini (Colteci,
rei. JUonum. p. 6q), e alenile inss. se ne conservano
in un codice della libreria di S. Salvadore in Bologna.
(’175). Fra’professori di gramatica che a questi tempi
furoDO in Fi reme più rinomati, benchè ora appena ne
rimanga memoria, deesi anche annoverare Taddeo da
Pescia, di cui per altro non parmi di aver trovata menzione nè presso l'ab. Mehus, nè presso altri scrittori
fiorentini, o toscani. In un codice della libreria di s
Salvadore in Bologna conservansi molte lettere latine
di questo gramatico, e insieme con esse si ha una lettera da’ Fiorentini a lui scritta al’ 17 di giugno del,
in cui l’invitano ad andarsene a star tra loro, e per
due anni tenervi scuola di gramatica collo stipendio di
200 scudi d’oro, stipendio per vero dire assai ragguardevole per un professor di gramatica, e che suppone
non volgar merito in colui a cui veniva offerto. Siegue
ad essa la risposta di Taddeo, con cui accetta l invito
fattogli; ed essa è scritta da S. Miniato, ove egli teneva scuola, a’ 23 di giugno dell’ anno stesso. Viene in
seguito una lettera del Comune di S. Miniato allo stesso
Taddeo scritta due giorni appresso, in cui il conferma
per quattro anni nell'impiego d’insegnare, e ne fa insieme un magnifico elogio, dicendo fra le altre cose;
Quare, vir eruditissime, cum idem jampridem Senatus
(cioè quello di S. Miniato) le liberorum in erudii ione
rímelos ludi publici magistrOs Etruriam habitantes intellexerit facile superare, le, cttjus ex dotti ina infiniti I Gl)2 LIBRO
LIII. Ma niuno arrecò alle scuole fiorentine
gloria maggiore di quella che ad esse venne dal
celebre Angiolo Poliziano. Tra gli altri professori che in questo secolo insegnarono con gran
nome in Italia, molti vi ebbe che additaron
le vie a divenir colto ed eloquente scrittore,
molti ancora ci discostaron non poco da quella
rozzezza ch era stata comune agli scrittori
precedenti; ma niuno forse si può tra essi indicare, a cui veramente convenga la lode di
avere nelle sue opere cominciato a richiamare
la nobile eleganza degli antichi autori. I Guarini, i Filelfi, i Valla ed altri professori lor
somiglianti sapean correggere chi scrivendo cadeva in falli, e sapeano prescrivere i precetti
a scrivere correttamente. Ma essi medesimi non
sepper giugnere a quel termine a cui conducevano altri; e ne’ loro libri non si vede ancora
uno stile che si possa dir con ragione fatto sul
modello de’ classici ed originali scrittori. Il Poliziano fu uno dei’ primi, a mio credere, che insiem coi’ precetti desse a’ suoi scolari gli esempj
di stile comunemente colto in prosa non meno
che in versi; tanto più ancora degno di lode,
quanti più furono gli oggetti a cui egli rivolse
l’ingegno. Non solo nella latina e nell’italiana,
pene numero viri eruditissimi evasene, nani non modo
Etruriam, veruni et omnem ltaliam, atipie mediterranei marii ínsulas midiendo peragratus es, ec. Ma
questi elogi non ebber forza bastevole a trattenervi Taddeo, il quale a’ 17 di giugno risponde a quel Pubblico,
rii’egli ne’ due prossimi anni era già impegnato co’ Fiorentini, ma clic ne’ due seguenti sarebbe tornato ¡1 tenere scuola tra essi. TERZO tG<>3
ijja nella greca ancora e nell'ebraica lingua esercitossi felicemente; nè fu solo l'amena letteratura di cui egli si dilettasse, ma i più serj
studj della platonica e dell’aristotelica filosofia,
e quegli ancora della giurisprudenza furono da
lui coltivati; la qual moltiplicità d’oggetti, che
furon dal Poliziano con sì gran lode abbracciati,
è ancor più degna di maraviglia pel breve spazio di tempo che visse, essendo morto in età
di soli 40’ anni. Ei merita perciò di rimanere immortale nei’ fasti dell’italiana letteratura,
e di avere distinto luogo in questa Storia. Oltre
molti scrittori che quai più quai meno ampiamente di lui hanno trattato, ne ha scritta con
somma diligenza, e forse ancora più lungamente che non facea d’uopo, la Vita Federico
Ottone Menckenio (Lipsiae, 1736, in!4). Più
breve, ma erudita ed esatta è quella che ne
ha scritta il sig. ab. Serassi, e che va innanzi
alle Stanze del Poliziano dell’ edizion del Comino dell’anno i"65. Di queste io qui mi varrò,
aggiugnendo però e, ove bisogni, emendando
ciò che mi sembri degno di riflessione. Di ciò
ch’ io seguendo questi scrittori affermerò semplicemente, lascerò che ognun vegga presso
essi le pruove, e lascerò pure che ognun cerchi presso i medesimi la confutazione de’ molti
errori che nel ragionare del Poliziano han commessi il Varillas, il Bailler, il Bayle e più altri.
Solo accennerò i documenti a’ quali appoggiato
dovrò da lor distaccarmi (a).
(a) Alcune lettere del Poliziano e alcuni monumenti
che ne illustrano la Vita, si posson vedere nella Vita
di Lorenzo de' Medici ieri ita da monsignor Fabbroni
(t. 2, p. 98, ec., 288, ec., 2g{). lGi>4 LIBRO
L1V. Angiolo nato in Monte Pulciano, da
cui egli prese il soprannome di Poliziano, a’ 24
di luglio del 1454, ebbe a suo padre Benedetto Ambrogini, detto più brevemente Cini,
dottor di legge, ma assai povero di sostanze,
come lo stesso Angiolo sinceramente confessa (al.
(a) Ilo scritto senza punto esitare che il Poliziano
fu della famiglia degli Ambrogini, detta anche talvolta
per abbreviamento de’ Cini, perchè i documenti che
il Menckenio ne arreca (Vita Polit, p. 13, ec.) rendono indubitabile che questo ne fu il cognome, e non
quello de’ Bassi, come altri avean creduto. Essi sono il
testamento di Giovanni Pico dalla Mirandola fatto il
1 di settembre del 1493, a’ cui egli tra’ testimonj si sottoscrive: Ego Angelus Politianus filius Domini Benedicti! de Cinis Dei retorum Doctor et Canonicus Florentinus; e l'atto rogato, quando gli fu conferita la
laurea a’ 23 di dicembre del (1485, in cui egli è detto
D. Angelus fil. egregii Doctoris D. Benedicti de Ambroginis de Monte Politiano Prior saecularis Collegiatae Ecclesiae Sancti Pauli Florentini. Nondimeno il
p. Lagomarsini (in Not. ad Gratian, de Scriptis invita
Minerva, t. 1, p. 45) fa menzione in una copia ch
egli avea del primo tomo delle Opere del Poliziano
stampate in Lione nel (1533, nella prima pagina della
quale leggevasi una nota d’incerta ma non fresca mano, in cui lo scrittore riportava parte di una lettera
del Poliziano da lui trovata al fin di un Catullo dal Poliziano medesimo postillato, cioè le seguenti parole:
Tu, lector, boni consule.... meminerisque Angelum
Bassum Politianum, quo tempore huic emendationi extremam imposuit manum, annos decem et octo natum
fuisse. P ale facondissime lector. Florentiae MCCCCLXXIII
pridie Idus Sextiles. Tuus Angelus Bassus Politianus.
Se non avessimo i due documenti accennati. questa
nota per certo sarebbe assai autorevole a provarci che
la famiglia del Poliziano fu de’ Bassi. Ma in confronto
di quelli la nota perde ogni forza; anche perchè non TERZO »6o5
In ni» quasi ancor fanciullesca venuto a Firenze, fu ivi nel suo medesimo palazzo amorevolmente accolto da Lorenzo de1 Medici, che
dovette fin d’ allora scorgere in lui que’ primi
semi d’ingegno che produssero poi si gran
frutti. Jnnulritus pene a puero siun, dice egli
stesso (l. io, ep. i) caslissimis illis penetralibus magni viri, et in Ime sua Jlorcntiss'una República Principis Laurcntii Medicis. Lorenzo
cominciò a godere di grande autorità in Firenze l’anno 1469? i» cui morì Pietro suo padre; c perciò circa questo tempo si dee fissare
T ingresso ilei Poliziano in casa dello stesso
Lorenzo. Il Menckenio afferma (p. 3i) eli’ci
fu ricevuto in casa da Cosimo avolo di Lorenzo
morto nel e l’unico autore ch’egli allega
a difesa della sua opinione, è il Boissard (Icori.
Viror. doctor, p. 31). Ma può egli questo scrittore bastare a persuaderci una cosa clic si
rende inverisimile e dall’ età di soli dieci anni
che avea Angiolo, quando Cosimo morì, e dal
silenzio eli’ ei tiene nelle sue opere intorno a
questo beneficio di Cosimo, di cui egli mai
non ragiona, attribuendo ogni sua fortuna a
Lorenzo? Per altra parte, se Angiolo avea
quindici o sedici anni di età, quando fu da
Lorenzo ricevuto in sua casa, poteva ben dire
sappiamo chi la scrivesse e qual fede egli meriti. Potrebbe essere nondimeno che il Poliziano prendesse talvolta per vezzo di antichità il soprannome di Basso alla
stessa maniera che il soprannome medesimo poco appresso prese il celebre poeta Angelo Colucci; e che da
ciò venisse l’opinione una volta comune, ch’ei fosse
della famiglia de’ Bassi. l6o6 LIBUO
ch’egli eia quasi ancor fanciullo, anzi ei non
si sarebbe chiamato così, se fosse stato chiamato da Cosimo, mentre non contava che al più
10 anni, ed era perciò veramente fanciullo.
Ebbe a suoi maestri in Firenze Marsilio Ficino
nella filosofia platonica, e. Giovanni Argiropulo
nella peripatetica, nella lingua greca Andronico
da Tessalonica, e nella latina Cristoforo Landino,
sotto i quali maestri ei diede pruove di pronto
e vivace ingegno, e ottenne perciò presso loro
non ordinaria stima. Alcuni epigrammi latini
da lui pubblicati in età di 13 anni, e alcuni greci composti, mentre non aveane che
17, il renderono oggetto di maraviglia
a’ professori non meno che a’ suoi condiscepoli.
Nuovo onore ancora gli accrebbero le Stanze
per la Giostra di Giuliano de' Medici, uno de’
migliori componimenti in poesia che in questo secolo si vedesse, diviso in due libri, ma
dal suo autore non condotto a fine, delle quali
altrove si è detto (c. 3, n. 7). La fama che
co’ suoi studi e colle sue opere conseguì Angiolo, gli conciliò vie maggiormente la stima
e l’all'etto di Lorenzo de’ Medici, di cui in
fatti ei loda continuamente nelle sue lettere e
in altri suoi libri la bontà e la munificenza.
LV. Non è perciò a stupire se a un uomo
rendutosi così famoso venisse assegnata la cattedra di greca e di latina eloquenza in Firenze,
mentr ei non contava che 29 anni di
età. Con qual plauso egli la sostenesse, io nol
mostrerò nè colla testimonianza di lui medesimo, che ne parla non troppo modestamente
(lgfcp. 1), nè con quella del francese Varillas terzo iCoscrittoi- favoloso, come a tutti è noto, che ne
dice le più gran maraviglie del mondo (A.iec,lot. de Florence, l. 4, p 195). Nè mi tratterrò
parimente in esaminar le contese ch’egli ebbe
per la cattedra di lingua greca con Demetrio
Calcondila, delle quali parla assai lungamente
il Menckenio (p. 65, ec.); perciocchè non ne
abbiamo notizia che presso scrittori vissuti molti
anni dopo, i quali ancora non son troppo concordi gli uni cogli altri, anzi essi medesimi
non sempre sono coerenti a’ loro stessi racconti, come pruova il sopraccitato Menckenio.
Perciò ancora non so quanta fede debbiasi al
racconto del Dna reno citato dall’ab Serassi,
c l'ondato sull’autorità di Giovanni Lascari, il
quale narrò al Budeo di aver una volta pubblicamente scoperta la impostura del Poliziano,
che spacciava qual sua un’ opera di Erodoto
sopra Omero. Perciocchè non parmi che un
accusatore debba ottener fede sì tosto, finchè
altra pruova non reca della sua accusa che la
sua medesima autorità, e la reca in tempo in
cui l’accusato non può difendersi. Gli scolari
ch’ egli ebbe, formano il miglior elogio del Poliziano, e ci pruovano abbastanza in quale
stima egli fosse. Molti ne annovera il Menckenio, che dalle opere stesse di Angiolo e di
altri contemporanei scrittori ha raccolte le notizie che ad essi appartengono (p. 75, ec.).
Tra essi veggiamo Bernardo Ricci, di cui il
Poliziano medesimo loda sommamente le poesie, Jacopo Modesto da Prato, dal quale egli
confessa di avere avuto ne’ suoi studj non poco
ajuto, Francesco Pucci che dopo essergli stato itx:8 imito
scolaro gli divenne collega nella medesima professione, e passò poscia a tenere scuola di
eloquenza in Napoli, Scipione Carteromaco già
da noi nominato; Varino Favorino di cui diremo nel secolo susseguente, come pure di
Rafaello Volterrano, Pietro Ricci detto Crinito,
da noi già mentovato nel parlar degli storici,
Carlo Antinori, da cui fu molto ajutato il Favorino nel compilare il suo Dizionario greco.
Anzi lo stesso Giovanni Pico della Mirandola
non sdegnò di onorare talvolta la scuola di
Angiolo, e di sedere tra’ suoi discepoli. Maggior onore ancora ei ricevette da alcuni stranieri, che di lontani paesi vennero a udirlo.
Tali furono Guglielmo Grecino inglese che fu
poi professore di greca e di latina eloquenza
in Oxford, e Tommaso Linacrio parimente inglese, e natio di Cantorberi, di cui abbiamo
alle stampe non poche opere, Dionigi fratello
del celebre Giovanni Reuclin, due figliuoli di
Giovanni Tessira cancelliere del re di Portogallo, de’ quali scrive il Poliziano grandissimi.
encomj in due sue lettere, una al re stesso,
l'altra al padre de due giovani (l. 10, ep. 1, 3)j
e finalmente Ermico Caiado portoghese esso
pure, che venne in Italia tratto singolarmente
dalla fama del Poliziano (Cajad. Eleg. l. 2), e
che alla scuola di lui e di altri professori italiani fece sì lieti progressi, che l’an 1501 ne
fu stampato in Bologna un volume di Poesie
latine, alle quali non manca eleganza e buon
gusto. Quindi non è meraviglia che Lorenzo
de’ Medici a lui pur confidasse l’educazion
de suoi figli. E quanto a Pietro il maggiore ii,n/.u ÌOOCJ
di tutti, troppo chiare ne sono le pruove in
mille passi dell opere del Poliziano. Il Menckenio si sforza pur di provare (p., ec.)
che anche Giovanni, che fu poi papa Leone X,
e Giuliano fratelli minori di Pietro fossero scolari del Poliziano. E quanto a Giovanni, egli
adduce, a dir vero, la testimonianza di molti
scrittori vicini a que’ tempi; ma per altra parte
il non trovarsene un sol cenno nell’ Opere del
Poliziano non molto riserbato in riferire ciò
che tornagli in lode, non lascia di tenerci alquanto dubbiosi. Quanto poi a Giuliano, confessa lo stesso Menckenio, ch’egli era troppo
ancora fanciullo, perchè potesse dal Poliziano
ricevere se non qualche tenue principio di educazione.
LVt Uguali alla stima in cui era il Poliziano, furono gli onori che gli vennero conferiti.
Perciocchè egli fu dapprima ascritto nel ruolo
de’ cittadini fiorentini, quindi fatto prior secolare della collegiata di S. Paolo, e finalmente
canonico della cattedral di Firenze, confusa dal
Menckenio (p. 107) colla collegiata suddetta;
e ad ottenere cotai dignità non solo prese gli
ordini sacri, ma la laurea ancora nel Diritto
canonico. Nè furono unicamente gli ecclesiastici
onori a’ quali il Poliziano fu sollevato. Ei fu
uno degli ambasciadori mandati da’ Fiorentini
a fare omaggio al pontefice Innocenzo VIII,
eletto nel 1485; nella quale occasione tanto
egli insinuossi nella grazia di quel pontefice,
che avendogli poi dedicata la sua traduzione
d’ Erodiano, n’ ebbe tosto il dono di 200
scudi, accompagnato da un Breve pieno «li
Tiraboschi, Voi. IX. 25 1G10 Lii.no
sentimenti di stima e d’ affetto. Noi il veggiamo
innoltre in commercio di lettere co’ più potenti
monarchi e co’ più ragguardevoli signori d’Europa, quai furono il suddetto Giovanni re di
Portogallo, Mattia Corvino re d’Ungheria, Lodovico Sforza duca di Milano, i cardinali Jacopo Ammanati e Francesco Piccolomini, e tutti
i più dotti uomini di quell età, i quali sembrano gareggiare tra loro nell’esaltare con somme
lodi il sapere del Poliziano. Ed egli veramente
fu uomo che poteva dirsi a ragione uno de’ più
eruditi dell’età sua; poichè oltre le lingue greca, latina e italiana, in cui scriveva con eleganza, era versato ancor nell’ebraica, come da
un epigramma della poetessa Alessandra Scala
pruova il Menckenio. Riguardo alla greca, le
sole traduzioni ch’egli ci ha date, ci mostrano
abbastanza quanto l’avesse ei coltivata. La Storia d’Erodiano, l’Enchiridio d’Epitetto, i Problemi fisici di Alessandro di Afrodisia, i Racconti amorosi di Plutarco, il Dialogo di Platone
intitolato Carmide, l’opuscolo di S. Atanasio
sopra i Salmi, da lui tradotti in prosa, alcune
poesie di Mosco, di Callimaco, e di altri poeti
greci da lui recate in versi latini, la traduzione
parimente che in versi latini egli intraprese, e
almeno in parte eseguì, dell’Iliade di Omero,
benchè ora nulla ce ne rimanga, e innoltre l’epistole in prosa e gli epigrammi in versi che in
questa lingua egli scrisse, saranno un perpetuo
monumento dell’indefessa applicazione con cui
il Poliziano la coltivò. Che se non mancarono
allora e non mancano anche al presente alcuni
che nelle traduzioni e nelle cose scritte in greco TE11ZO l6l I
dal Poliziano trovano errori e difetti, molti ancora vi furono e tuttora vi sono che ne sentono altrimenti) e se non altro, convien confessare, esser cosa per certo maravigliosa che
in un tempo in cui appena si cominciava a intendere e a scrivere il greco, e in cui tanti
ajuti mancavano per possederlo perfettamente,
ei potesse nondimeno giunger tant oltre, e rendersi oggetto di stupore alla maggior parte degli uomini dotti della sua età. Per ciò poi che
appartiene alla lingua latina, a conoscere con
quale studio il Poliziano la coltivasse, basta leggere i libri da lui pubblicati col titolo di Miscellanee, ne’ quali esamina, rischiara, corregge
infiniti passi di scrittori latini j opera di vastissima erudizione, in cui se egli ha commessi
più falli (e come era possibile il non commetterne in una tal opera, e scritta a que’ tempi?) ha ancor dato a vedere quanto egli fosse
profondamente versato in ogni genere di letteratura. In questa parte però erano già stati molti
che l aveano preceduto. Ma nella sceltezza dell espressioni e nell’ eleganza dello stile ei fu uno
de’ primi che si accostasse colà ove tan’ altri avean pur cercato in addietro, ma con inutili sforzi, di giugnere. Le Lettere, le Orazioni
e le altre opere scritte in prosa, e le Poesie
latine del Poliziano si leggono con qualche piacere, e ci par finalmente di vedere in esse cominciare a rivivere l’ antica e maestosa semplicità de’ Romani. Nè minor fama egli ottenne,
come si è detto altrove, nella poesia italiana,
di cui fu uno dei’ primi ristoratori. A questi
piacevoli studj congiunse, come si è accennato, 1612 libro
i più scrii; e la scuola di Marsiglio Ficino da
lui frequentata, e l’amicizia da lui contratta
con Giovanni Pico, il fecero ancor rivolgere alla
filosofia; e quindi oltre alcuni opuscoli di tal
argomento da lui composti, egli soleva nelle sue
lezioni medesime valersi spesso degli antichi
filosofi, e coinentare e spiegarle loro opinioni.
Abbiamo veduto altrove quanto a lui debba ancor la civile giurisprudenza. A tutto ciò aggiungasi l emendare ch’ ei fece e postillar di sua
mano molti codici di antichi scrittori, che ancor conservansi in Firenze e altrove, e de’ quali
ragiona l’eruditiss can. Bandini (Rag. sopra le Collaz. delle Pandette, p. 43, ec.). Le
quali tante e sì varie fatiche del Poliziano se
si considerino attentamente, e se riflettasi alla
breve vita che egli ebbe, non si potrà a meno
di non confessare che pochi sono quegli scrittori che in ampiezza d’erudizione e in applicazione di studio gli si possano paragonare.
LVII. Fra tanti onori però e fra tanti ben
meritati encomj non mancarono al Poliziano
nemici che cercarono di oscurarne la fama, e
ne diede egli stesso qualche occasione col parlare di se medesimo meno modestamente che
a saggio uomo non si convenga, e col mostrarsi
persuaso di meritar quelle lodi che gli venivano
tributate; difetto che in tutti spiace, e che suole
singolarmente eccitare ad invidia e a gelosia coloro che ne sono essi pure compresi. Grandi
contese ebbe il Poliziano con Giorgio Merula,
perchè questi veggendo da lui rigettate nelle Miscellanee alcune sue opinioni, benchè senza mai
nominarlo, se ne accese a sdegno per modo, TERZO 1 Gl 3
che minacciava di continuo di fulminarlo colle
sue risposte. Queste però non venner giammai
in luce, perchè la morte del Merula pose fine
alla guerra; e il Poliziano, che non temeva il
suo avversario, cercò istantemente, ma non ottenne che fosse pubblicato ciò che quegli avea
scritto per impugnarlo; intorno a che veggasi
il libro xi delle Lettere del medesimo Poliziano, che sono presso che tutte di questo argomento, e la Vita del Poliziano scritta dall’ ab Serassi, ch esattamente spone la serie di
questa contesa. Grandi brighe egli ebbe non
meno con Bartolommeo Scala, di cui abbiam
favellato nel trattar degli storici, ove ancora
accennate abbiam le contese ch’ ei sostenne col
Poliziano. Così pure egli ebbe a nimici Michele
Marullo Tarcagnota; alla qual nimicizia sospetta
il Menckenio (p. 381) che desse origine la vicendevole lor gelosia nell’amore di Alessandra
Scala, che di fatti fu poi dal Marullo presa in
moglie; e Jacopo Sannazzaro, che alcuni mordenti epigrammi pubblicò contro di lui forse
per soccorrere il Tarcagnota e lo Scala suoi
amici, benchè il Poliziano nè il provocasse mai,
nè mai rispondessegli; intorno alle quali e ad
altre somiglianti contese ognun può vedere ciò
che assai lungamente ne ha scritto il Menckenio, il quale, comecchè cerchi ogni mezzo per
iscansare e difendere il Poliziano, confessa nondimeno ch’ ei lasciossi trasportare più d’una
volta oltre i confini d’ una saggia moderazione.
Effetto di queste inimicizie furono le accuse di
furto letterario date al Poliziano, a cui fu da
alcuni rimproverato che le Miscellanee fossero 1 Gl 4 LIBRO
ila lui siale involate alla Cornucopia del Perot •
li, allora non ancor divolgata; che la traduzione di Erodiano fosse opera di Ognibene da
Vicenza, e non sua che un’orazione da lui
detta in lode di Omero fosse interamente tolta
dall' Opere di Plutarco; dalle quali accuse egregiamente lo difende il Menckenio, che soltanto confessa che la traduzione dataci dal Poliziano dello storico Erodiano è veramente quella
di Ognibene da Vicenza, ma da lui migliorata
e corretta, di che però, come dice lo stesso
Menkenio, sarebbe stato opportuno che il Poliziano avesse fatto nella prefazion qualche cenno. Da questa sorgente medesima derivarono
probabilmente due più gravi accuse, con cui i
nemici del Poliziano cercarono di oscurarne la
fama, tacciandolo d’infami sozzure e di ateismo. E quanto alle prime, esse gli furono rinfacciate mentr’ ei vivea; e non si può negare
che qualche occasione a crederle ne abbia egli
data con alcuni suoi epigrammi greci. Come
però cotai mostruosi delitti non si debbono attribuite ad alcuno, se non dopo certissime pruove, ed essi non vengono al Poliziano apposti
se non dai’ suoi dichiarati nemici, e i sopraccitati versi non son tali che il convincano reo,
così dobbiam crederlo incolpato senza ragione,
finchè non si adducano monumenti più certi.
Meno fondata ancora è la taccia di ateo, la
qual gli vien data o per racconti tratti da non
molto antichi scrittori, o per qualche detto che
dicesi uscito di sua bocca; il che al più proverebbelo non troppo cauto nel favellare di
cose sacre. Io accenno in breve tai cose, clie terzo iGi5
si posson vedere più ampiamente svolte presso
il Menckenio; di cui però io non consiglierò
alcuno a seguir l opinione, ch’ egli a questo
proposito come buon Protestante ci spaccia,
intorno all udire la Messa. Finalmente non sol
la vita, ma la morte ancora del Poliziano si è
voluta da alcuni descrivere come obbrobriosa
ed infame, cagionata cioè da disonesta fiamma
di amore, ond egli ardeva per un fanciullo. Ella
è piacevol! cosa a leggere presso il Menckenio
le favole e le sciocchezze che molti scrittori
singolarmente francesi ci narrano su questo punto, allegando l’autorità di altri scrittori, i quali
pu’e dicon tutt' altro. Paolo Giovio, che del
Po'iziano ha fatto un elogio (Elog. c. 28) che
dovrebbesi anzi chiamare un libello infamatorio è stato il principal disseminatore di tal
calunnia, smentita a lungo dal Menckenio colla
test inonianza di altri scrittori assai più degni
di fede Alle quali un altra se ne può aggiugnere pubblicata dall’ ab. Mehus (Praef. ad Vit.
Ambr camald, p. 88), tratta da una Cronaca
manoscritta di Pietro Parenti, che conservasi
in Firenze nella libreria del march Gabriello
Riccardi, e da cui ricavasi, che ancorchè il
Poliziano non fosse in troppo onorevol concetto pe suoi costumi, la morte nondimeno
gli fu cagionata da natural malattia insieme e
da dolore per l’infelice stato delle cose de’ Medici: Me&er Angiolo Poliziano venuto in subita malattia di febbre, in capo di giorni circa
quindici passò di questa vita con tanta infamia
e pubblica vituperazione, quanta homo sostener potessi, et per ben mostrare sue forse, la » Gl G LIBRO
fortuna, scudo in lui tante lettere Greche e
Latine, tanta cognizione di istorie, vite, e costumi, tanta notizia di Dial'ltica e di Folosofii,
insano e fuor di mente nella malattia e al t
morte finì, Aggiugnesi a questo, che il disc ■
polo suo Piero de’ Medici stretta pratica col
Pontefice teneva di farlo Cardinale, e già impetrato haveva tra i primi, i quali in breve pubblicare si dovevano, alla predetta dignità promoverlo. La vituperazione, sua non tanto dai'
suoi vizi procedeva, quanto dalla invidia, in
cui venuto era Piero de’ Medici nella nostra
Città. Imperocchè el popolo più sostenere non
poteva la in fatto sua tirannide, ec. Lo stc$o
ab. Mehus ha prodotta una memoria intorno alla
morte e alla sepoltura del Poliziano (ib. p..87),
scritta da Roberto Ubaldini domenicano, da;cui
si raccoglie ch’ei morì con sentimenti d’uomo
piamente cristiano; perciocchè dice ch’egli insieme con f Domenico da Pescia dello stesso
Ordine avea assistito nell’ultima sua infermità
il Poliziano, e che avendo questi desiderato
di esser vestito dell’ abito de’ predicatori, egli
per comando del celebre F. Girolamo Savonarola vicario generale nel vestì di sua mano,
poichè fu morto; che il corpo ne fu quindi
portato alla chiesa di S. Marco e posto nel comun cimiterio de’ secolari presso la detta chiesa, finchè quelli che ne avean concepito il pensiero, gli ergessero un onorevol sepolcro; ma
che non avendolo essi mai eseguito, ne fu posto il cadavero nel sepolcro comune a quelli
che bramavan di averlo nella chiesa medesima. Convien però dire che poscia gli venisse TERZO 1G17
assegnato sepolcro particolare, che ancor si vede
colle iscrizioni riferite dal Menckenio. Morì il
Poliziano a’ 24 di settembre del 14y4 > ^uc
mesi dopo la morte del suo amicissimo Giovanni Pico. Lo stesso Menckenio, dopo aver
ragionato diffusamente della vita di Angiolo,
tratta ancora a lungo di ciascheduna delle opere
da lui pubblicate, e ne rammenta le diverse
edizioni, e tutto ciò che ad esse appartiene. A
me basta di averne dato un breve cenno in
ciò che ne ho detto poc’ anzi, perchè si vegga
quanto la letteratura italiana debba a questo
grand’uomo, da cui ella in ogni sua parte ricevette onore e vantaggio grandissimo.
LVHI. Io potrei ragionar qui ancora di molti
celebri professori di belle lettere ch’ ebbe in
questo secolo l università di Bologna, alcuni
de’ quali sono stati già nominati nel principio
di questo capo. Ma per isfuggire lunghezza,
di due soli farò qui breve menzione, cioè di
Antonio Urceo soprannomato Codro, e di Filippo Beroaldo detto il vecchio a distinguerlo
da un altro più giovane dello stesso nome.
Di amendue possiamo facilmente spedirci, perchè non mancano autori che ne abbiano scritto
con esattezza. Del Codro scrisse la Vita Bartolommeo Bianchini, che gli era stato scolaro;
ed è annessa comunemente all edizione dell’Opere del medesimo Codro. Due altre Vite
ne abbiamo recentemente scritte, una dal dottor Antonio Righetti ferrarese, e inserita nel
III tomo degli Annali letterarj di’Italia (p. 667)
con una lettera del ch. ab Zaccaria sull edizione delle Opere dello stesso autore; 1’ ultra l6l8 LIBRO
dal sig. Giambatista Comiani nel suo Saggio
di Storia letteraria degli Orzi Nuovi (Nuova
Racc. ifOpusc.t. 21). Amendue questi scrittori
hanno esattamente provata ogni cosa da essi
asserita colle testimonianze tratte dalla suddetta più antica Vita, dalle Opere stesse del
Codro e di altri contemporanei scrittori, e ad
essi perciò io rimetto chi brami di veder le
pruove di ciò ch’ io verrò in breve accennando (a). Antonio Urceo nacque in Robiera,
terra posta fra Modena e Reggio, alla qual seconda città appartiene, a’ 17 d’agosto del 1446,
e fu figliuol di Cortese Urceo e di Gherardina.
Questa famiglia però era anticamente venuta
dagli Orzi Nuovi, piccola fortezza del territorio
bresciano, da cui probabilmente teneva il nome
di Urceo. Il soprannome di Codro gli venne,
come narra il Bianchini, dal risponder ch’egli
fece un giorno ridendo a Pino degli Ordelaffi
signor di Forlì, il quale gli disse che a lui si
raccomandava: Dii boni! quam bene se res
habeat, v'uletis: Jupiter Codro se commendat.
Due famosi maestri ebbe ne’ primi suoi anni;
Tribraco da noi ricordato tra’ poeti in Modena, e in Ferrara Battista Guarini, di cui in
questo capo medesimo si è ragionato, e innoltre Luca Riva reggiano da noi pur rammentato. In questa seconda città si trattenne
sino all’ età di 23 anni, e, secondo alcuni,
(a) Assai piti copiose notizie abbiam poi date del Codro nella Biblioteca Modenese ((. 5, p. 21, ec.; /. 6,
p. 208) anche dopo aver veduta l’opera ijui accennata
di M. Themiseul de S. Hyacinthe. TERZO 1619
per qualche tempo vi tenne scuola. Indi passò
a Forlì, chiamato ad insegnarvi pubblicamente
lettere umane con ampio stipendio forse non
mai conceduto ad altri. Ivi egli ebbe fra molti
altri a suo scolaro Sinibaldo degli Ordelaffi
figliuol di Pino signore di quella città, e da
questo perciò ebbe agiate stanze nel suo palazzo medesimo. Ma abbisognando egli sul far
del mattino del lume della lucerna, avvenne
un giorno, che uscito assai per tempo, e lasciatala accesa, una scintilla caduta a caso
sulle carte diede lor fuoco, e tutte le arse;
e fra esse un’ opera intitolata Pastor. Il povero
Codro accorso al funesto spettacolo, ne infuriò per modo, che proruppe in orrende bestemmie, e uscito dalla città rintanossi in un
bosco, e vi stette tutto quel giorno senza cibo
di sorta alcuna. Cacciatone al fin dalla fame,
avviossi sul cominciar della notte alla città,
ma trovatene le porte chiuse, fu costretto a
giacersi tutta la notte su un letamaio. Entrato
poscia sul far del giorno in città, corse ad
appiattarsi in casa di un falegname, ove per
sei mesi continui si rimase quasi sepolto e in
preda al suo nero umore. Finalmente calmato
alquanto lo spirito, tornò fra gli uomini, e
riprese l' usato impiego fino alla morte di Pino.
Allora veggendo la città tutta sconvolta dalle
fazioni, dopo aver aspettato per dieci mesi
tempo migliore, se ne partì quasi tredici anni
poi che vi era venuto, e recossi a Bologna,
ove sino al termine de’ suoi giorni fu con
sommo applauso professor di gramatica e di
eloquenza, nel qual impiego quanto egli era l()20 LIBRO
sollecito e industrioso nell’animare i suoi scolari allo studio e nell’ eccitargli a una lodevole
gara, altrettanto era impaziente delle puerili
loro vivezze, e lasciavasi trasportare a qualunque eccesso contro coloro che gli eran di
noja. Ebbe molti ingegnosi discepoli che furono poi celebri pel lor sapere; e godè della
protezione di molti de’ più ragguardevoli cittadini, finchè giunto all’ età di 54 anni, sorpreso l an 1500 da mortal malattia, dopo
aver fatto il testamento, che abbiamo alle
stampe, e dopo aver dati più segni di cristiana pietà, opportuni a cancellare la taccia
che non senza ragione gli si apponeva d’uomo
di religione non troppa sicura, morì fra le lagrime de’ suoi discepoli che ne circondavano
il letto, e fu sulle loro spalle portato, com’egli
avea ordinato, alla chiesa di S. Salvadore.
Pierio Valeriano assai diversamente racconta la
morte del Codro, dicendo (De infelicit. Literat. p. 21, ec.) ch’ ei fu trucidato da’suoi
nimici. Ma questo scrittore come non ben informato si mostra intorno alla patria del Codro
chiamandolo ravegnano, così può aver facilmente errato intorno alla morte. E certo il
Bianchini stato scolaro del medesimo Codro,
e allor presente in Bologna, merita assai più
fede. Ei fu uomo che a non ordinarie virtù
congiunse vizj non ordinarj, come da ciò che
si è detto, è chiaro abbastanza. Ma in ciò che
appartiene a sapere e ad erudizione nelle lingue greca e latina, fu uno de’ più dotti della
sua età, e ne son pruova non solo le testimonianze di molti che allor viveano, ma il
- TERZO »Gai
giudizio, per tacer di altri, d’ Angiolo Poliziano il quale gli scrisse, pregandolo a esaminare gli epigrammi greci ed altre opere da sè composte. Aldo Manuzio ancora avealo in molta stima, e dedicogli perciò i due volumi di Lettere greche di diversi antichi scrittori da lui pubblicate l’anno i4ì)9- L’Opere del Codro vennero a luce in Bologna nel 1502, e se ne fecero poscia altre edizioni. Esse contengono le Orazioni e le Lettere scritte in prosa latina, indi le Poesie parimente latine divise in selve, in egloghe e in epigrammi, delle quali Poesie parlando il Giraldi dice ottimamente: carmina illa quidem citra labem, sed, ut mihi quidem videtur, absque venere (Diai. i de Poet suor. temp.). Abbiamo innoltre alle stampe un supplemento da lui fatto all’Aulularia di Plauto. Convien però confessare che cotali opere non corrispondono abbastanza alla stima in che aveasi il Codro mentre vivea, e che la prosa e la poesia di esso è ben lungi dal poter esser proposta come esemplar d’eleganza (*). (*)■ Un diligente estratto dell’Opere di L'rcco Codro colle notizie della vita di questo autore da esse raccolto leggesi nel t. 1, par. 2, p. 259-336 delle Me moire i Litléraires de Themiseul de S. Hyacinthe stampate all’Aia nel 1716. Vuolsi qui ricordare un piacevole aneddoto e un grave errore in cui è caduto M. de Voltaire, di cui io debbo la notizia all’ eruditiss M. Mercier da me altre volte lodato. Nel 1760 alla tavola del duca de la Valiere disputavasi tra alcuni eruditi, se fosse possibile il dire modestamente in francese, e in modo che anche le più oneste dame non se ne potessero offendere, qualunque cosa per se stessa indecente; e sostenendosi questa opinione dal duca, un di essi recogli il 1633 libro LIX. Il sopraccitato Bianchini scrisse ancora la \ ita del Beroaldo, di cui pure era stato scolaro, e prima ancor di lui aveala scritta Giovanni Pins tolosano statogli parimenti. digionio seguente un racconto latino a cui avea posto per titolo: Exceptum ex Sermone sexto Urcei Codri, affinchè tentasse se poteva riuscirgli di tradurlo decentemente in francese. Il duca promise di farne la traduzione non solo in prosa, ma anche in verso francese, e poscia non ne fece più motto. M. de Voltaire ebbe nelle mani quel racconto; e veggendolo intitolato ex Sermone, credette che il sermone non potesse essere che una predica, e che la predica non potesse essere che di un frate. Ed ecco Urceo Codro da lui trasfor- maio nel R. P. Codret. Nel 1761 ei pubblicò un li. In etto senza data di città nè di stampatore col titolo: Appel à toutes les Nations de l Europa des jugemens d’un Ecrivain Anglois; ou Manifeste au sujet des honneurs du pavillon entre les théàtres de Londres et de Paris. E in esso a pag. 75 si legge: Il s’en falloit beaucoup, que les Sermons fussent allors aussi décens t que ces pièces de Theatre. Si on veut s’en convaincre, on n’a qu’à lire les Sermons du Rev. P. Codret, et sur tout aux feuillets 60 et 61 edit. in 4 de Paris 1515. Quindi siegue il sopraccennato racconto, ch è di fatti oscenissimo; ma M. de Voltaire lo riporta parte in latino, parte in francese, e tutto in corsivo, come se tutte fos'sr parole del suo rev. P. Codret. Il duca de la Valiere avvertito del ridicolo errore di M. de Voltaire, nel fece avvisato con una sua lettera che questi insieme con una sua risposta fece inserire nel Giornale enciclopedico. Quindi nel t. 2 della nuova edizione delle sue Opere fatta in Ginevra in-4 nel 1771, avendo egli fatto ristampare quel suo opuscolo, ma con diverso titolo, cioè, du Theatre Anglois par Jerome Carré, ei ne tolse quel grosso sbaglio sostituendo invece queste parole: si on vent s’en convaincre, ou n’a qu à lire les Sermons de Menot et de tous ses contemporains. TEIIZO i6a3 scepolo (*). Di araendue queste Vite, e delle opere del Beroaldo, e di altri scrittori di questi tempi si è giovato il co. Mazzucchelli nell’ ampio ed esatto articolo che intorno a questo professore ci ha dato (Scritt. it t. 2, par. 2, 1003, ec.), di cui io non farò qui che scegliere e compendiare le cose più degne d’ essere risapute. Filippo figliuol di Giovanni Beroaldo, di antica e nobil famiglia bolognese, e di Giovanna Casto, e nato in grumaticali fu ammaestrato nella lingua greca e nella latina da Francesco Puteolano da noi mentovato in questo capo medesimo; e poscia da se medesimo fece tali progressi, che in età di soli 19 anni fu destinato a pubblico professore nella sua patria. Di là passò a leggere in Parma, ed indi a Milano, e poscia a Parigi, ove pure per alcuni mesi tenne con non ordinario plauso e concorso scuola pubblica d’ eloquenza; e vi sarebbe durato più oltre, se la sua patria non l’avesse con sommo onor richiamato. Alcuni scrittori moderni non parlano del suo viaggio a Parigi, e il fanno in vece professore in Perugia..Ma poichè i due antichi scrittori non ci nominan che Parigi, è facile che sia nato equivoco per difetto di qualche copista tra l’ una e l’ altra città. Nel tornare di Francia, avvenutosi a passar per Milano, ov’ era fresca ancor la memoria della di novembre del i453, dopo (*) Giovanni Pins scritlor della Vita del Beroaldo era consigliere del parlamento di Tolosa e vescovo di Rieux io Liuguadocca. 1624 LIBRO scuola da lui tenuta, vi fu ricevuto con incredibile allegrezza, e per soddisfare al desiderio de’ Milanesi, dovette recitare innanzi a un ragguardevole consesso una delle sue lezioni. In Bologna ripigliò gli esercizj scolastici, e alzò in essi tal grido, che giunse ad avere fino a seicento scolari. Agli studj delle lettere umane congiunse i più serj ancora della filosofia, della medicina e della giurisprudenza; nè si sottrasse dagli onorevoli impieghi che dalla patria gli furono confidati, e da qualche illustre ambasciata a cui fu trascelto. Ma fra le continue fatiche di un indefesso studio e dell’ adempimento de’ suoi doveri, egli era uomo piacevole e lieto, e più ancora che non bisognava amante del giuoco e di altri solazzi; finchè per secondare i • desiderii della madre, presa nell’an 1498 a moglie Cammilla di Vincenzo Paleotti, cambiò allora costumi, e visse come ad onesto e saggio uom si conviene. Ei fu ancora nimico comunemente di contese e di brighe, e mantennesi perciò amico di quasi tutti i letterati di quell’ età. Quindi Matteo Bosso ne loda molto la cortesia e la facilità con cui senza alcun sentimento d’invidia solea lodar le altrui opere (Epist. sec. XCVII). Convien però eccettuarne Rafaello Regio e Giorgio Merula, de’ quali fu non troppo mite avversario. La debolezza di sua complessione il condusse a immatura morte nel 1505, a’ 17 di luglio in età di poco oltre a’ 51 anni, e fu con magnifica pompa sepolto nella chiesa della Nunziata, donde poi per rumori di guerra fu trasferito a quella di S. Martino. Io non farò qui il TERZO l6a5 catalogo di tutte l’opere dei Beroaldo, che si può \ edere esattissimo e diviso in xt. articoli presso il co. Mazzucchelli (a). Dirò solo, che appena vi è scrittore latino su cui egli non abbia esercitata la penna e l’ingegno con comenti e con note; perciocchè oltre i Comenti sulla Storia naturale di Plinio da lui composti in età giovanile in Parma (sul qual autore avea poi apparecchiata un’ opera più ampia che sinistramente gli venne smarrita), e oltre quelli co’ quali illustrò le opere di Virgilio, di Properzio, di Columella e degli altri scrittori delle cose rustiche, di Frontino, di Cicerone, di Plinio il giovane, di Svetonio, di Apuleio, di Solino, di Filostrato, di Senofonte, di Plauto, di Cesare, di Cellio, di Floro, di Lucano, di Giovenale, egli scrisse ancora una Selva di annotazioni sopra molti autori. Molte ancor sono le orazioni, gli opuscoli, le lettere e le poesie latine che di lui si hanno a luce; talchè egli può a ragione essere considerato come uno de’ più laboriosi scrittori. Egli è vero però, che non se ne può lodare egualmente nè la critica nè l’ eleganza; perciocchè egli ne’ suoi comenti unisce insieme ogni cosa, come gli viene alla penna, e non è molto colto nel suo scrivere sì in prosa che in verso. Nè è maraviglia che un uomo vissuto soli 5i anni, e che non fu sempre occupato nel solo studio, (<;) Assai più esatto è 1’ artìcolo che intorno alla vita e alle opere del Beroaldo ci ha poi dato il sig. conte Fantuzzi (Scritt. bologn. t. 2, p. m, ec.). TlllAliOSCHl, Voi IX. 26 i626 unno non potesse limar meglio le cose sue, e toglierne i difetti che la fretta e gli altri pensieri gli facean commettere. LX. Il Piemonte e il Monferrato ebbero pa■ rimenti alcuni celebri professori di grammatica e d’eloquenza; ma io dirò solamente della città di Alba nel Monferrato, perchè intorno ad essa mi è stato liberale di varie notizie il sig bar Giuseppe Vernazza da me altrove rammentato con lode. Negli Statuti di quella città. compilati alla metà del secolo xv, abbiamo indizio del favore di cui ivi godevano i buoni studj; perciocchè vi si ordina che i giureconsulti, i medici e tutti i professori delle arti liberali, sì cittadini che forestieri, trattone il fodro pe’beni immobili, sieno esenti di qualunque gravezza. In quelle scuole ebbe nome tra gli altri Venturino de’Priori, di cui nella biblioteca de PP. Domenicani di quella città conservasi un codice a penna col titolo: Venturini (de Prioribus Albensis Accademiae Rectoris eximi i opera; e vi si contengono fra le altre cose cinque orazioni miste di prosa e di versi in vari metri da lui dette in diverse occasioni tra’1 1^82 e’1 i485. Si aggiungono nello stesso codice alcune poesie e alcune epistole latine di Antonio Calderati nobile cittadino di Alba e scolaro di Venturino, scritte prima del 1490)Da una di queste lettere noi raccogliamo ch’ egli avrebbe bramato di recarsi all’università di Torino; ma che la grave spesa che dovea farsi perciò, lo tratteneva, e che frattanto attendeva allo studio della giurisprudenza in Alba, ove Bernardo Braida nella chiesa cattedrale spiegava I
TFRZO 1627 le Istituzioni di Giustiniano: Quod autem scribis, me hoc in anno viginti ducatos pro sumptu ponendo vix evasurum (cioè, riducendo la moneta d allora a quella del Piemonte de’ nostri tempi, circa lire 189), per haec aedepol legum incunabula, ninium esse videtur. Quare profectionem nostram ad annum venturum protrahimus, dum Taurinensis Academia, (quae contagione conticuit, resonet. Et nimirurn hicAlbae Dominus Bernardus de Brayda alias collega noster in Cathedrali Ecclesia in dies nobis sacra Imperatoris lectital institutioncs (*). Così {*) Io non credeva che di Venturino de’ Priori si avesse cosa veruna alle stampe. Ma il Meerman accenna un' antica edizione senza data di sorta alcuna (Orig. Typogr. t. 1. p. 95) del Doctrinale ossia della Gramatica di Alessandro Villadei, al cui fine si legge: Emendavit autem hoc ipsum opus Venturinus Prior Grammaticus eximius, ita diligenter, ec. Crede il Meerman che questo Venturino sia quel medesimo di cui si ha alle stampe una Gramatica pubblicata in Firenze nel i /JS?,. Ma questi, come raccogliesi dal titolo del libro riferito dal Maittaire (Annal. typogr. t. 1, p. 435, ed. Amstel.p. 1733), fu Francesco Venturini, diverso perciò da Venturin de’ Priori. Nè parmi verisimile ciò che si afferma dal Meerman, che la detta edizione del Villadei si facesse in Firenze; perchè innanzi alle parole da me poc’ anzi citate, lo stampatore si scusa della tardanza di essa cagionata dalla peste che infieriva in Genova, in Asti e altrove, scusa che sarebbe ridicola per un libro stampato in Firenze, ma che sarebbe migliore per un libro stampato o in Alba, ove era Venturino, o in altra città di que’ contorni. Un’ elegia di Venturino a Giannandrea Incisa ha pubblicata di fresco il ch. sig. bar Vernazza (Osservaz. sopra un Sigillo, p. 37). u AJcune Elegie se ne conservano nella Laurenziana; e il sig. can Bandini ce ne ha lGa8 LI DUO pure abbiatu già accennati, e accenneremo ancora fra poco alcuni professori in Torino e in Asti; ed è troppo probabile elio ugualmente ne fossero provvedute le altre città (*). LXI. Così tutte le università e le altre pubblice scuole italiane faceano a gara nell’invitare i più celebri professori d'eloquenza greca e latina. li quanti altri potrei io qui nominare, se non temessi di troppo abusare del tempo e della sofferenza de’ leggitori? Lasciamo dunque in disparte Giovanni Bondi d’Aquileia, Lorenzo pur d’Aquileia e Giovanni di Spilimbergo professori di belle lettere nel Friuli, e autori di alcune opere di tale argomento, de’ quali parla coll’usata sua diligenza il signor Litui ti (De’Lctler. del Friuli, t 1, p. 335, 33y, 3.|5}, e Giovanni Sulpizio da Veroli, che verso la fin di questo secolo tenne scuola di belle lettere in Roma, e pubblicò più opuscoli gramaticali, oltre un poemetto latino su’ costumi da usarsi a mensa (Fabr. Bill. ined. et inf. Latin, t. 6, dato un saggio (Cat. Codd. lat. Bibl. Laur. t. 3, p. 804, ec.). Vi ha tra esse un’elegia a Giammario Filelfo, al fin della quale ei si sottoscrive: ex Sanila Ucccclv!t die xXVII Aprilis: Tuus ad votum M. Venturinus de Prioribus: e dall’elegia stessa raccoglie che ivi allora teneva scuola a’ fanciulli. (*) Tra i professori che in questo secolo ebbero molta fama, deesi annoverare ancora Francesco Maturanzio, o), come ancor leggesi scritto, Matarazzo perugino, che in patria tenne per molti anni scuola di lettere greche e latine, di cui abbiamo un opuscolo sul verso esametro, sul pentametro, stampato in Venezia nel 1478, ma per errore segnato coll’an 1468, e un Comento sulle Filippiche di Cicerone stampato in Vicenza nel 1488. TERZO ] 629 p. 216), 0 Barlolommco da Pratovecchio, Lorenzo di ser Giampiero de Lippi, amendue professori nell’università di Pisa, de quali ragiona eruditamente il sig Fabbrucci (Calog. Bacc. 1r Ofinse, t. 34) 5 e quel Bartolommeo Guasco professore di belle lettere in Genova (’), e quel Simone Tronzano maestro di grammatica e di logica in Torino, i quali esalta con somme lodi il poeta Antonio d’Asti stato loro scolaro (Script. Ber. itaL t. 14, p■ tot 2, 1017), e Domenico Maccagni professore di belle lettere nella stessa città di Torino (Sax. Iiiat. tjpogr.viciliol. p. 325) (a), e quel Niccolò Lucaro celebre professor d’eloquenza in Cremona, di cui il Sassi rammenta due orazioni che trovansi manoscritte (ib. p. 238,307,397) (**), c Pietro Leone vercellese professsor d’eloquenza in Milano, di cui a lungo ragiona lo stesso Sassi (ib. p. 4°°? «c.), c quel Gasparo veronese maestro in Roma assai lodato da Aldo Manuzio (V. Ver. illustr. par. 2, p. a36) (b)} e Bonifazio (*) Bartoloimueo Guasco non solo in Genova, mn anche in Chicri nel Piemonte fu professor di rettorien, come raccogfiam da una lettera a lui scritta da Antonio Panormita, la qual non ha data, ma sembra scritta verso il 1420 (Panorm. Epist. p. 7, ed. Tren. 1 />'53). (a) Del Maccagni ci dà anche notiria il eh. sig. Vincenzo Malacarne nella sua oi*cra più volte lodata intorno a’ Medici e a’ Chirurghi degli Stati del re di Sardegna (t. 1, p. 224 1 ec-)• (**) In questa edizione (l. 6, par. t, p. 5q3) già abbiamo avvertito che l’orazion funebre del Lucaro in lode di Batista Piasio si ha alle stampe. (h) Alcune belle notizie di Gasparo veronese ci ha date il ch. sig. ab. Marini (Degli Archiatri pontif. t. 1, I iG3o rumo Bembo cittadino bresciano, ma orionito da Cremona e professore in Pavia e in Roma, di cui a luogo ragiona il conte Mazzucchelli (Scritt ital. t. 2. par. 2, p. 728), e Jacopo Publicio di cui abbiamo le Istituzioni oratorie stampate in Firenze nel 1482, e Benedetto Colncci da Pistoia, che verso la fine del secolo tenne scuola in Colle nella Toscana, e intorno al quale e a diverse opere da esso composte si può vedere il canonico Bandini e più altri autori da lui citati (Cut. Coild. lai. Bibl. Laur. t. 2, p. G4 *, eo.), e singolarmente l’abate Zaccaria che ne ha dato in luce un opuscolo sulla Storia di Pistoia (fìibl. Pistor. p. 182, 287), e l’abate Melius che n’ha pubblicato un altro intitolato De discordiis Florentinorum; e più altri che qui potrebbon aver luogo, e diciam solo di uno ancora di cui fu grande allora la fama, e di cui ci rimangou tuttora non poche opere, cioè di Domizio Cab derino. Il marchese Maffei ne ha raccolte diligentemente le più esatte notizie (Ver. ittustr. p. 137, ec.), tratte principalmente da alcuni codici a penna, in cui si contengono alcune opere inedite di Domizio. Colf autorità di Fra Filippo da Bergamo confuta la volgare opinione seguita da molti, ch’ei fosse detto Calderino, perchè nato in Caldiero terra del Veronese, e pruova eh’ ei fu natio di Torri nel territorio di detta città. Giovinetto ancora di ventiquattro anni giunse a sì gran nome negli studi della p. i~7-, t. a, p. 207), il quale ha anche pubblicato (ivi, t. 2, p. 178, ec.) ciò che mancava alla Vita ch egli scrisse di Paolo II, data in luce dal Muratori. TERZO |G31 amena letteratura, che dal pontefice Paolo II fu , chiamato a Roma pubblico professore, nel qual impiego continuò ancora sotto Sisto IV, onorato del titolo di segretario apostolico, e da lui innoltre inviato insieme col card della Rovere suo nipote ad Avignone per acchetare quel popolo che si era levato a rumore, nel qual viaggio, dic egli stesso nella lettera dedicatoria di Tolommeo, andò povero e più povero fece ritorno. Il march Maffei non parla di dimora alcuna ch’ ei facesse in Milano ed è certo nondimeno ch’ ei ve la fece, e ne abbiamo un indubitabile testimonianza presso Jacopo Antiquario, che di lui scrivendo al Poliziano dice (Polit. Epist. l. 3, ep. 18): Fuit inter nos Domitius, et monumenta reliquit'fama non pœnitendae. Ma mentre egli era nel fior dell’età e nel miglior dei’ suoi studj, giovine di soli 32 anni morì di peste in Roma nel 1478, come racconta Bartolommeo Fonte ne suoi Annali mss. citati dal can Bandini (Specimen Hist. liter. t. 2, p. 47)• Sembra quasi impossibile che un uomo morto in sì fresca età, e occupato, com’era, nella lettura e ne’ viaggi, potesse nondimeno scrivere tanto, com’egli fece. Marziale, Giovenale, Virgilio, Stazio, Properzio furon da lui illustrati co’ suoi Comentj che si hanno alle stampe. Egli avea scritto innoltre sopra le Metamorfosi (a) e sopra la Elegia d’ibi (a) La Spiegazione delle favole; indicate nelle Metamorfosi d’Ovidio, scritta dal Calderini, vedesi stampata nella magnifica edizione delle Opere di quel poeta fatta in Parma da Stefano Corallo nel 14? 7, come mi ha avvertito l’altre volte da me lodalo sig. 1). llaldassar i633 unno attribuita ad Ovidio, sopra Persio, sopra Svetonio, sopra Silio Italico e sopra le Epistole di Cicerone ad Attico, le quali opere or sono in parte perite e in parte si conservano manoscritte, come pure tre libri d’osservazioni sopra diversi antichi scrittori. Si hanno ancora alle stampe i primi due libri di Pausania da lui recati di; greco in latino. Nè ei si restrinse alla sola amena letteratura. Ei si vanta in una lettera a un suo nipote, citata dal march Maffei, di aver coltivata ancor la giurisprudenza, la filosofia e la mattematica. E ch’ egli non se ne vantasse senza ragione, ce ne fa fede la confutazione, che si ha manoscritta, del libro di Giorgio da Trabisonda contro Platone, e l’emendazione da lui fatta delle Tavole geografiche di Tolommeo, di cui ragiona ancora il card Querini (Vita Paulli II, p. 271), le quali due opere parimente non si hanno che manoscritte (a). Finalmente Papadia, il quale aggiugne che nella copia di questa edizione da lui veduta trovansi ancora alcune note marginali mss. di Pomponio Leto sui Fasti, le quali da niuno, ch’io sappia, sono state finor rammentate. (a) La Cosmografia di Tolomeo corretta dal Calderini non è rimasta inedita, ma fu pubblicata in Roma poco dopo la morte di esso, e nell’ anno medesimo in cui essa seguì, cioè nel 14.78; e questa edizione è stata diligentemente descritta dal P. M. Audifredi (Cat. rom. Edit. saec. XV,p. 229). Ciò ch è degno di osservazione, si è che dove il Calderini nella lettera riferita dal card Querini e da me accennata, e nella prefazione a un codice ms. dell’ opera stessa riportata dal march Maffei nel luogo citato, afferma di aver non solo consultati più codici greci, ma esaminate ancora e corrette con somma diligenza le Tavole geografiche; al contrario nella prefazione d’incerto autore premessa all’ opera TF.tlZO lGj3 lrov.ansi in alcuni codici non poche poesie Ialine da lui composte su diversi argomenti. I u uomo che in età giovanile coll’ indefesso suo studio minacciava di lasciare addietro gran parte de più dotti uomini del suo tempo, non è a stupire che avesse non pochi nimici; fra quali però non so come il march Maffei conti l Aurispa morto nel 1460, quattro anni innanzi al pontificato di Paolo II, cioè prima che il Calderini fosse pubblico professore, e mentre ei non contava che al più 20 anni di età. Giorgio Merula scrisse impugnando i Comenti da lui pubblicati sopra Marziale (V. Diss. voss. t. 2, p. 69), a cui con non minore vivezza rispose Domizio. Grandi inimicizie egli ebbe ancor col Perotti, come vedremo. Ma Angiolo Poliziano fu quegli per avventura che più acremente il pungesse nelle sue Miscellanee, benchè scritte più anni dacchè Domizio era morto. In esse ei lo dipinge (Miscell. c. 9) come uomo di molto ingegno e di uguale studio, ma pronto per sostenere il gran nome, di cui godeva, a scrivere e a difendere qualunque cosa gli venisse in pensiero. Jacopo Antiquario ne fece un amichevol rimprovero al Poliziano (Polit. Epist. l. c.), il quale rispondendogli confessa che il Calderini era uomo di molto ingegno. E forse per compensare ciò che aveane scritto in biasimo, compose i due olestessa stampata, non si dà al Caldelino altra lode die di averne confrontati i codiri Ialini con un antichissimo greco. Ma non è cosa nuova che quando un autor più non vive, altri si faccia gloria delle fatiche da lui sostenute. 1634 unno ganti epitaffi ili onor di esso, clic si rapportano dal march Maffei. Ma se egli ebbe nimici, ebbe ancor non pochi ammiratori del suo sapere; e Lucio Fosforo vescovo di Segni tra' gli altri, scrivendo ad Alessandro Cortese (ib. cp. io), 11011 teme di affermare che i soli tre scrittori veramente eleganti di quell’età erano Lorenzo Valla, il Calderini e il Poliziano. Nel che però è certo che il Fosforo ha esagerato alquanto; poichè le opere del Calderini son ben lungi da quella eleganza che allora ad alcuni altri scrittori cominciava ad essere famigliare. Ma a qualche scusa de’ difetti non men dello stile, che degli altri errori ne’ quali il Calderini possa esser caduto, convien valersi dell’opportuna riflessione del sopraddetto Antiquario, che di lui dice: mors illum immatnra praeripuit emendaturum fortasse si quid inconsideratius exciderat. E similmente Giglio Gregorio Giraldi, parlando di alcuni versi da Domizio composti, afferma (De Poet. suor. temp. dial. 1) ch essi ci scuoprono il raro ingegno di cui egli era dotato, e che, benchè molti ne invidiasser la gloria, avrebbe nondimeno, se fosse vissuto più lungamente, recati segnalati vantaggi alle lettere. LXII. Nè solo le popolose città, ma i villaggi ancora vedeansi talvolta onorati da qualche celebre professore che ivi apriva pubblica scuola (*). (*) A provare sempre più chiaramente che anche i villaggi aveano di questi tempi i suoi maestri di grammatica, mi ha il ch. sig. barone Vera a zza additato un certo Gabriel Carlo maestro in Govone villaggio presso Alba, a cui scrive una lettera quell Antonio Calderai! TERZO | (ìj"> Tal fu Piattino de’ Piatti, di cui ragiona coll’usata sua esattezza il ch. Sassi (Hist. typogr. mediol. p. 2(38, ec.). Egli nato di nobil famiglia in Milano, e per quindici anni allevato in corte del giovine Galeazzo Maria Sforza, di cui era paggio > ne incorse poscia lo sdegno per avergli importunamente richiesto non so qual beneficio j e per ordin di lui chiuso in prigione nel castello di Monza, dovette giacersi fra lo squallor della carcere per ben quindici mesi. Trattone finalmente l’anno i47°> rilirossi a Ferrara, ove dal duca Ercole fu amorevolmente accolto, ed egli vi diede pruove del suo valore in un solenne torneo, da cui tornò vincitore. Ivi egli si strinse in amicizia con Tito Vespasiano Strozza valoroso poeta da noi già mentovato, il quale gli scrisse alcune elegie lodandolo sommamente, perchè al valor guerriero congiungesse sì bene il poetico (Poem. p. 91, 92, 95$). Arrolatosi poscia prima nelle truppe del duca d’Urbino, poscia in quelle di Gian Jacopo Trivulzi, stette per più anni tra Tarmi; nel qual tempo'però non ommise di coltivare ancora le Muse, e ne diede più saggi in alcuni libri di Poesie latine da lui dati allora alle stampe. Egli sperava di ottenere poimezzo <lel Trivulzi e premj ed onori grandi da Carlo VIII re di Francia, a cui voloa detta noi nominato poc’anzi, e Leonardo Aloa dii Morello, maestro di »cuoia in V’irle, picciola terra nell» provincia di Pinerolo, di cui si Im stampata in Torino nel i5i 1 una lettera Clarinimo Iterai Joanni Phtlippo Solario ex Dominis Monasterolii, colla dola: Ex nostra Acadcmia Virlarnm, ec. Lxnr. Professori italiani c|»iani.it i in Franfia. i G3(» Linno dicare una raccolta de1 suoi versi. Ma la morte di quel monarca troncò le sue speranze, Ei tentò la sorte medesima presso il re Lodovico XII ma convien dire che non fosse in ciò troppo fel ce, perche finalmente si ridusse in Garlasco terra del Pavese, ed ivi aprì scuola pubblica d'eloquenza; e non altrimente che se ella fosse la più solenne università d’Europa, recitò nell’aprirla innanzi ai’ principali del luogo una sua orazione che colle altre sue opere si ha alle stampe. E certo ei dovea essere in istima di colto ed elegante scrittore, poichè egli stesso in una sua lettera narra che certe sue poesie erano state ricevute con sommo applauso dall’università di Pavia, e giudicate degne d’esser lette pubblicamente e stampate, e che molte copie ne andavano in Francia. Egli vivea ancora nel 1508; ma non sappiamo fin quando ancora vivesse. Le poesie, le lettere ed altre opere ch’ ei ci ha lasciate, delle quali si può vedere il catalogo presso il suddetto Sassi e presso l’Argelati, sono scritte con molta facilità, ma non con uguale eleganza; e le lodi di cui il veggiamo onorato, ci pruovano che pochissimi eran per anco i colti scrittori, e che non era perciò difficile l’ ottenere tal lode. Di due libri di suoi Epigrammi da lui dedicati a Lorenzo de’ Medici si può vedere un più distinto ragguaglio presso il ch. can Bandini (Cat. Cod. mss. Bibl. Laur. t. 2, p. iq3). LXIII. Così l’Italia era da ogni parte per tal modo innondata da egregi professori di grammatica.e d’eloquenza, che gliene rimanevano ancora onde esserne liberale alle straniere TERZO |637 nazioni. Abbiara veduto nel decorso di questa Storia, che nel risorgimento delle lettere e delle scienze tentato bensì, ma poco felicemente riuscito, a’ tempi di Carlo Magno, questo sovrano chiamò dall’Italia maestri che istruissero i suoi Francesi. E non altrimente avvenne nel secolo che ora abbiam per le mani, in cui gli sforzi usati a richiamare a nuova vita il buon gusto ebbero assai più felice successo. Dall’Italia chiamati furono in Francia coloro che dovevano aprire un non più tentato sentiero, e additare la via per giungere all’ arte di scrivere e di parlare con eleganza in prosa non men che in verso. Già si è notato che Filippo Beroaldo il vecchio fu per qualche tempo professor d’eloquenza in Parigi; ma breve fu il soggiorno ch’egli vi fece; ed esso nondimeno è bastato perchè il du Boulay gli desse luogo nella Storia di quella università (t. 5, p-Qi 4)• Ma tre altri Italiani ebbe quella università, e tutti nominati nel medesimo giorno professori d’eloquenza, che per più lungo tempo occuparono quella cattedra, Publio Fausto Andrelini, Girolamo Balbi e Cornelio Vitelli. Ed io ben so che i Francesi ci potranno obbiettare che noi abbiam dati loro cattivi maestri, come le opere che di essi ci son rimaste, provano chiaramente. Ma questi che or ci sembran cattivi, sembravano allora, e, in confronto al comune degli eruditi, erano ottimi; e qualunque finalmente essi fossero, furono i primi che diradarono le folte tenebre ond’era avvolta ogni cosa. Nè a provare in quanta stima essi fossero allora, io produrrò la testimonianza degli scrittori iGJ8 li uno italiani clic si potrebbono creder sospetti, ma de’ Francesi, e di que’ che visser con loro, e che confessarono di dover molto a questi professori italiani. LXIV. Intorno all’Andrelini abbiamo un assai esatto articolo e ben corredato di pruove e di monumenti presso il co Mazzucchelli, e io perciò non dovrò comunemente far altro che raccogliere in, breve ciò ch’egli scrive più ampiamente (Scritt it. t. 1, par. 2, p. ” 14 » ec.). Publio Fausto Andrelini, nato in Forlì verso la metà del sec xv, fece in breve sì felici progressi nelle lettere umane, e singolarmente nella latina poesia, che avendo composti e div olgati i quattro libri di Amori, questi furono con sì grande applauso accolti, ch’ egli giovinetto di non ancor 22 anni fu solennemente coronato in Roma. Così afferma il Cordigero scrittor’ di que’tempi, che nomineremo ancora fra poco. Ma Jacopo da Volterra, ch era allora in Roma, racconta, come si è detto altrove (l. 1, c. 3, n. 26), che 1’ anno i/j83 (nel qual tempo pare che l’Andrelini dovesse aver passati i 22 anni di età) essendosi trattato in Roma di dargli il poetico alloro, questo non gli fu negato, ma la funzione fu ad altro tempo differita. È certo però, ch’ei l’ebbe, e da ciò che lo stesso Jacopo narra, raccogliesi che di questo onore ei fu debitore all’Accademia romana e a Pomponio Leto fondatore di essa, di cui in fatti egli parla con somma lode ne’ suddetti libri de’ suoi Amori. Giovanni Biffi, poeta milanese di questi tempi, confessa di essere stato in Roma scolaro dell’Andrelini, I TERZO 163lJ c ili avere da lui ricevuti non pochi opportuni precetti a ben poetare (Saxius Hist typogr. p. 363). In Roma fu conosciuto da monsig Lodovico Gonzaga, tra le cui Lettere inedite altrove da noi mentovate alcune se ne conservano scritte all’Andrelini. Tornando egli nel 1484 a Mantova, seco il condusse e gli diè il titolo di suo poeta, e seco probabilmente il tenne fino al 1488. Passò allora l’Andrelini in Francia, e il Gonzaga l’accompagnò con sua lettera de’ 22 di settembre del detto anno al Conte Delfino, così scrivendogli: occorre al presente a M. Fausto mio presente ostensore Laureato Poeta facondissimo et Oratore disertissimo per faciende sue trasferirse in quelle parte, ec. Fattosi l’ Andrelini conoscere in Parigi, l’ an 1489 a’ 5 di settembre fu nominato pubblico professore di belle lettere insieme con gli altri due da noi poc’anzi accennati, Girolamo Baldi e Cornelio Vitelli. Per lo spazio di 30’anni continuò egli in questo esercizio; nè contento delle lezioni che teneva pubblicamente, insegnava ancora in privato, e alla rettorica e alla poesia congiunse ancora la spiegazion della Sfera. Caro al re Carlo VIII non meno che a due di lui successori Lodovico XII e Francesco I, n’ ebbe onorevol pensione, ed ebbela ancora dalla regina Anna di Brettagna, onde egli con un capriccioso nome volle intitolarsi Poeta Regius ac Regineus. Oltre la qual pensione egli riceveane talvolta somme non piccole di denaro. Uguali ai premi furon le lodi di cui venne onorato. Veggansi i passi che il co Mazzucchelli ha tratti dalla dedicatoria delle i(5-{o unno Commedie di Plauto a lui l'atta da Simonc Carpcntario in Parigi, e dalla edizione del Compendio della Storia romana di Pomponio Leto pubblicato pure in Parigi nel 1501, e da varie opere di Erasmo, e gli Epigrammi in lode dell Andrelini scritti a quel tempo medesimo da Roberto Guaguino, ne’ quali l’ Andrelini vien commendato come il più elegante poeta che al mondo viva. Io recherò qui solamente il passo di Giovanni Cordigero, che in una sua lettera da lui aggiunta agli Amori di Fausto così ne dice: Nostris quoque temporibus merito gloriari potest vestra Universitas Parisiensis, quod Faitr slum Andrelinwn Foroliviensem nacta est Is enim cum omnium disciplinarum studosissimus sit, solus fuit, ut aliorum pace dixerim, qui Galliam ex jejuna saturam, ex ine ulta tersam, ex sicca viridem, ex barbara latinam fecit. Quandoquidem non solum oratoriam et poeticam facultatem, sed etiam sphaericam ipsam tanta omnium admiratione professus est, ut quid dicant alii prò fedo habeant nihil, et artem ac leporem carminis hoc in Regno antea prorsus incogniti ila pale fecit ^ ut omnes solum Faustum in quovis carminis genere imitari studeant, et integras illius sententias ac versus saepenumero pro suis accipiant. Nec id protecto injuria factum est, cum Faustus talis sit poeta, ut ab eo, ceu fonte perenni, Vatum Pieriis (ut de IIomero seri bit Ovidius) ora rigentur aquis. Convien però confessare, che poichè l’Andrelini fu morto, lo stesso Erasmo che avealo lodato vivo, e che avea con lui tenuto amichevol commercio di lettere (l. 1, ep. 65, 67, (69, 71), TERZO l6.f ■ nc riprese lo stile non meno che la condotta. Il co Mazzucchelli ha raccolti diversi passi in cui egli ne parla con biasimo, fino a dire ch’ egli ha ammirato la bontà e la dolcezza della università di Parigi, che per tanti anni ha sofferto, anzi onorato un tal uomo; che questi scagliavasi arditamente contra i teologi; che assai poco onesti n erano i costumi; che ardì ancora di spiegare pubblicamente le Priapee attribuite a Virgilio; ch era continuamente in contese con altri professori, e singolarmente col Balbi, di che diremo appresso, ed altre siffatte cose che ci dipingono l’Andrelini come un uom viziosissimo e poco meritevole della fama di cui godeva. A rigettare cotali accuse io non addurrò la testimonianza del cav Marchesi (Vit ill. Forol. p. a do) che ne forma un carattere interamente diverso, perciocchè egli non ne cita pruova di sorta alcuna. Ma a qualche difesa dell Andrelini io rifletterò ch è il solo Erasmo che ne parli con sì gran biasimo, e che avendolo egli lodato vivo e ripreso morto, rimane incerto quando abbia parlato secondo il vero; che sembra strano che l’università di Parigi soffrisse per sì gran tempo un uom sì malvagio; che per altra parte Giovanni Mauro stato già scolaro dell’Andrelini ci assicura (In Comm. ad Distich. Andr. p. 36, Lugd. 1545) ch’egli esortava spesso i suoi discepoli a tenersi lontani dalle disonestà, il che egli stesso raccomanda ne’ suoi Distici, e che perciò il testimonio di Erasmo non è tale che per sè solo possa esigere fede. Riguardo però allo stile e all’ opere dell'Andrelini noi ci uuircm Tiraboschi, Voi IX. 27 I 6/| 2 LIBRO volentieri collo stesso Erasmo, e con tutti coloro che sceman di molto le lodi dategli già dagli scrittori di que’ tempi; perciocchè, tratta una certa facilità di verso, non trovasi in esso cosa meritevole di grande encomio. Le opere di lui sono presso che tutte poesie latine in gran numero, stampate e più volte ancor ristampate mentr’ egli vivea, e ancora per alcuni anni dacchè fu morto, finchè il miglior gusto insegnò a dimenticarle. Se ne può vedere un esatto catalogo presso il co Mazzucchelli. Egli morì in Parigi a’ 25 di febbraio del 1517, secondo il computo usato allora in Francia, cioè dell’anno comune 1518; e la morte dovette esserne improvvisa, poichè Giovanni Testore Ravisio racconta (Epithet. p. 210, Paris, 1518) ch’egli il giorno innanzi veduto avealo di buon umore e con lui avea favellato. Ma Claudio Budino in una elegia sulla morte dell’Andrelini da lui composta a que’ giorni, e stampata poi in Parigi nel 1520, sembra affermare ch’ ei morisse al I di marzo: Martis enim a gravibus, quae te rapuere, Calendis, Anxia sub nostro pectore cura fuit. Questa elegia è un continuo panegirico dell’Andrelini, e il poeta dice fra l’altre cose, che se Fausto non fosse venuto in Francia, quel regno sarebbe ancora sepolto nella più profonda ignoranza. Perciocchè tale è l’ iscrizion sepolcrale ch’ ei vuole che gli s’incida: Hic situs est Faustus, qualem nisi fata dedissent, Barbarior Gallo non foret ipse Getes. Musica Daphnaeam gestarunt tempora laurum, Plus decoris sertis, quam tibi scria dabaut. terzo 1643 LXV. Non fu ugualmente felice il soggiorno in Parigi di Girolamo Balbi, un de’ colleghi dell’ Andrelini. Il P. degli Agostini è stato il primo a darcene esatte notizie, e a toglierne la memoria da quelle tenebre e da quella incertezza fra cui era giaciuta in addietro (Scritt. venez. t. 2, p. 240, ec.), e dopo lui ne ha parlato il co Mazzucchelli (Scritt. itaL t. 2, par. 1, p. 83); e perciò qui ancora potrò facilmente spedirmi recando in poche parole ciò che più importa a sapersi. Essi dalle opere di questo scrittore pruovano chiaramente ch’ei fu veneziano di patria, e che non è abbastanza provato ch’ei fosse domenicano. Dopo aver fatti in Roma i suoi studj sotto Pomponio Leto, passato a Parigi, trasse ivi in giudizio 1’ anno 1 j85 innanzi all’università la Gramatica di Guglielmo Tardivo, provocandolo a difendersi, s era possibile, dagli errori appostigli. Non sappiamo qual fosse l’esito della contesa, e solo veggiamo che l’an 1494 il Balbi pubblicò contro il Tardivo un dialogo intitolato Rhetor gloriosus, e che questi risposegli l’anno seguente con un libro detto Anti-balbica, vel Recriminatio Tardiviana. Frattanto il Balbi era salito in sì grande stima, che nel giorno medesimo in cui l’Andrelini, fu egli pure eletto a professore di belle lettere; ed egli di ciò non pago prese ancora a tener lezioni di sacri canoni e di leggi civili, di sfera e di filosofia morale. Ma uomo, com’egli dovea essere, battagliero e vivace, dopo aver combattuto contro il Tardivo, si rivolse contro l’Andrelini, e scrisse contro di lui. L’Andrelini non era uomo 1644 LIBAO a soffrir tranquillamente un tale avversario; e gli rispose con non minore asprezza, e per l’ Andrelini scrisse ancor contro il Balbi Roberto Guaguino da noi nominato poc’ anzi. Nè essi ne impugnaron sol la dottrina; ma avendogli apposti delitti tali, dice il du Boulay (l. c. p.882), che si sarebbon dovuti punir col fuoco, il costrinsero a fuggir da Parigi circa il i4i)6, e a ritirarsi in Inghilterra. Io vorrei lusingarmi che fosser calunniose cotali accuse; ma il vederlo altre volte ripreso di sì infame delitto, mi rende sospetta assai l’innocenza del Balbi. Dall Inghilterra passò il Balbi a Vienna d Austria nel 1497 a spiegarvi il Diritto cesareo, e poscia fra non molto a Praga, ove con sommo applauso prese a tenere scuola di belle lettere insieme e di leggi, 'come pruova il P. degli Agostini con una lettera di Giovanni Sclecta segretario di quel re Ladislao, che ne parla con somme lodi. Ma qui ancora i suoi guasti costumi furon cagione ch’ ei dovesse partirsene; e abbiam su ciò un epigramma prodotto dallo stesso P. degli Agostini di Bouslao d’Hassentein barone di Lobcovicz, che amava assai il Balbi, ma abbandonollo poscia, poichè scoprì i vizj onde era marchiato. Passò egli allora in Ungheria, e trattenutosi per lungo tempo presso Giorgio Sacmario vescovo di Cinque Chiese, ivi sembra che cambiasse costumi. E convien dire ch’ei cancellasse interamente l infamia contratta, poichè il re Ladislao il chiamò all’educazione di due suoi figli, e l’an 1514 il sollevò alla dignità di proposto della collegiata di Presburgo. Fu poscia adoperato in commissioni TE ri 7.0 tG4") c in ambasciale onorevoli, clic a questo luogo non appartengono, e cbe si posson vedere riferite da suddetti scrittori, finché fanno i5aa fu fatto vescovo di Gurck nella Carintia. Egli fu presente in Bologna alla coronazione dell" imp Carlo V fanno i53o, c in quel1’ occasione scrisse il suo trattato de Coronatione, e sono assai probabili le ragioni che da’ due suddetti scrittori si arrecano per pruovare ch'ei vivesse fino al 1535. Abbiam nondimeno una lettera di Erasmo (Epist pars 2, ep. 1012, p. 1155) scritta nell’an 1529 ad Antonio Hjos detto ancor Salamanca Episcopo Gurcensi electo. I due accennati scrittori dicono ch ei gli fu dato in quell’ anno coadiutore col titolo di vescovo eletto. Ma havvi egli esempio di un tal titolo dato ad un coadiutore vivente ancora il vescovo (*)? Ma è certissimo cbe almeno fino al i53o conviene stender la vita del Balbi, nel qual anno egli scrisse il suddetto trattato; e perciò è certissimo cbe il passo di Erasmo dee in qualche modo, qualunque egli sia, spiegarsi. Gli scrittori medesimi ci bau dato un esatto catalogo di tutte l’opere del Balbi, cbe sono, oltre le già accennate poesie latine (*) Ho dubitato se ad un vescovo coadiutore si possa, o si soglia dare il titolo di vescovo eletto. Ma il ch. sig. co. Avogaro canonico della cattedral di Tre* vigi, da me tante volte nominato con lode, mi ha avvertito ch’ egli ha una lettera originale scritta al vicario generale di Trevigi ai 10 di giugno del 1553 da Luigi Pisani, dato nel 1528 da Clemente VII per coadiutore nel vescovado di Padova al card Francesco suo 7.10, vissuto fino al 1570, nella quale si sottoscrive l'Eletto di Padova. T.XVI. Cmnelio ViuUi. 1G4G tiBno assai poco oneste pubblicate fin dall'anno! 4<)4, alcune orazioni e un assai pregevol trattato della civile e della militare fortezza, oltre alcune altre senza bastevol ragione a lui attribuite, e altre che ci rimangono manoscritte. I nemici del Balbi ne parlarono e ne scrissero, mentre’ egli era professore in Parigi, con gran disprezzo, rappresentandolo come uomo voto di sapere altrettanto, quanto gonfio di presunzione. Ma molti ancora di que’ che visser con lui ne parlarono con somma lode, e le loro testimonianze sono state raccolte dal più volte citato P. degli Agostini, a cui io rimetto chi sia bramoso di leggerle. LXVI. Assai più scarse notizie abbiamo del terzo degli italiani professori d’eloquenza in Parigi, cioè di Cornelio Vitelli. Si ha alle stampe un opuscolo da lui scritto contro Giorgio Merula, in cui impugna molte opinioni da lui insegnate ne’ suoi Comenti di Plinio e di Marziale, e difende il Calderini dal Merula acerbamente impugnato; il qual opuscolo è stato di nuovo dato in luce dal Grutero (Thes. critic. t. 1, p. 584). Esso è dedicato ad Ermolao Barbaro, e nella lettera ad esso premessa il Vitelli si dice Corythius, cioè nato in Cortona. Dalla stessa lettera e dal rimanente del libro raccogliesi che il Vitelli teneva scuola in Venezia ad alcuni giovani patrizj, mentre il Merula era ivi già da sedici anni professor pubblico d’eloquenza, cioè circa il 1481. È questo libro sanguinoso oltre modo, e scritto nello stile usato dalla maggior parte de’ professori di questi tempi, a’ quali non pareva d’esser dotti abbastanza se non malmenavano « TERZO lG47 villanamente i loro avversarj. Ad esso si aggiunge un assai erudito trattato dello stesso Vitelli suri giorni, su i mesi e sugli anni de’ Romani da lui indirizzato al bresciano grammatico Pilade. Di lui abbiamo ancora un opuscolo indirizzato a Partenio Lacisio professore in Verona (V. Maffei, Ver. illustr. par. 2, p. 239, ec.), in cui esamina ciò che Niccolò Perotti avea scritto intorno al proemio sulla Storia naturale di Plinio; il qual opuscolo suol andare unito alle edizioni della Cornucopia dello stesso Perotti. Pare che fosse dal Vitelli composto in Padova; perciocchè dice che Partenio aveagli dato a leggere quel trattato nella precedente state in Venezia; e ch’egli avea preso tempo ad esaminarlo, quando fosse tornato a Padova; il che sembra indicarci ch’egli allora fosse ivi professore; ma non sappiamo in qual anno ciò accadesse. Apostolo Zeno aggiugne (Diss. voss. t 2, p. 64), non so su qual fondamento, ch’ei fu uno dell’Accademia romana, e avverte ancora (ib. p. 83) che un certo Paolo Romuleo reggiano l’an 1482 stampò in Venezia un’apologia del Merula contro il Vitelli da me non veduta. Forse queste contese determinarono il Vitelli a passarsene a Parigi; ma quanto tempo vi si trattenesse, fin quando vivesse, e se altro frutto ei lasciasse de’ suoi studj, non ne trovo menzione alcuna (a). (a) Anche la città di Lione ebbe un italiano professore di belle lettere, cioè Gellio Bernardino Marmitta parmigiano, che ivi trovandosi nel 1 p)1 pubblicò i suoi Comenti sulle Tragedie attribuite a Seneca, iG.j8 tiBno LXV1L Anche in Inghilterra sappiamo che condotti furono professori italiani, acciocchè ivi spiegassero pubblicamente gli oratori e i poeti. Ne abbiamo una indubitabile testimonianza in una lettera di Pio II, scritta mentr egli era in Allemagna circa la metà di questo secolo, in cui parlando del duca di Gloucester, che l’an 1422 fu dichiarato reggente di quel regno, così dice: Huic tanta litterarum est cura, ut ex Italia Magistros asciverit Poetarum et Oratorum interpretes (ep. 1 o5). Chi fosser questi, egli nol dice, nè io trovo lume a saperne più distintamente, non avendo io notizia che di quel Livio nominato già tra gli storici. Ei certo non può favellare del Balbi testè mentovato, perchè questi non passò in Inghilterra che molti anni dopo la morte di Pio II. Ma chiunque essi fosser, ella è questa una nuova chiarissima pruova della gran fama in cui erano i professori italiani, poichè essi furon fra tutti trascelti ad andare in sì lontane provincie per tenere scuola di lettere umane. LXVIII. Chiudiamo finalmente la lunga serie de’ professori di belle lettere col ragionar di uno il quale per poco tempo ne insegnò dalla cattedra i precetti, ma giovò molto nondimeno co’ suoi libri ad agevolarne lo studio. Parlo di Niccolò Perotti arcivescovo sipontino, ossia di Manfredonia, del quale ha esattamente parlato il ch. Apostolo Zeno (l. cit. L 1, p. 256, ec.), alle cui ricerche però ci riuscirà forse d’aggiugnere qualche osservazione. Questo eruditissimo scrittore pruova con indubitabili monumenti che il Perotti nacque ili Sassofcrralo l’anno i43o, TERZO,64l) o die fu di famiglia già da lungo tempo cospicua per onori e per cariche sostenute, e convince così di errore coloro che gli han data una nascita ignobile e oscura. Ei fu scolaro in Bologna di Niccolò Volpe celebre professor vicentino, che fu maestro di belle lettere in quella università dal i44° * 4^° (V. Scritt. vicent. t 2, par. 1, p. il4? ec-) j e in lode di cui scrisse il Perotti un’ elegia, confessando di essere a lui debitore di qualunque suo progresso ne’ buoni studi (Miscell Lazzaroni, t 8, p. i83) (*). Il Zeno afferma che dal 1451 fino al 1458, in cui fu creato arcivescovo, tenne scuola in Bologna prima di eloquenza e di poesia, poscia di filosofia e di medicina. E che Niccolò fosse per qualche anno professore in Bologna, non è a dubitarne; perciocchè veggiamo che da Bologna ei mandò al pontef Niccolò V nel 1452 e nel 1453 la sua traduzione de’ primi tre libri di Polibio, a cui poi ne aggiunse due altri, e che il pontefice gliene significò il suo gradimento con due Brevi onorevoli (Georg. Vita Nic. V. p. 183, ec., 206, ec.). Ivi ancora ei recò di greco in latino l Enchiridio di Epitetto, il Comento di Simplicio sopra la Fisica di Aristotile, e POrazion di Taziano a’ Greci. Ed ivi pure a nome de’ Bolognesi complimentò l’an 1452 l’imp Federigo III, e ne riportò l’onore della corona d’alloro. Ma ch’ei dimorasse in Bologna fino al i/p8, (*) Il Perotti fu anebe scolaro di Vittorino daFeltre, come parlando di questo celebre professore si è osservalo. l65o I.IBRO non mi sembra possibile, Lo stesso Zeno accenna un Breve di Callisto III del 1456, che in parte è stato pubblicato da monsig. Buonamici (De clar. Pontif. Epist. Script, p. 179) in cui si legge: cum necesse sit Nos interdum prò nos tris, et Romanae Ecclesiae negotiis mittere ad diversas mundi partes dilectum filium nobilem virum Nicolaum Perottum Poetam laureatum, Secretarium Nostrum, et Nostri Sacri Lateranensis Palatii Comitem, ec. Le quali parole ci mostrano chiaramente che allora il Perotti era già al servigio della corte di Roma, e da essa occupato in importanti affari. Quindi ancora veggiamo le onorevoli distinzioni ch egli aveane ricevute di poeta laureato, di segretario pontificio e di conte del palazzo di Laterano, benchè non sappiamo s’ ei ne fosse debitore a Callisto, o al medesimo Niccolò, il qual forse in premio delle offertegli traduzioni così volle ricompensarlo. Il titolo però di poeta laureato egli ebbelo, come si è detto, dall imp Federigo III, allorquando essendo egli venuto a Bologna nel 1452, fu dal Perotti complimentato a nome della città con una orazione che si ha alla stampe; e Federigo dichiarollo innoltre suo consigliere, e più altri onori accordò a lui non meno, che a tutta la famiglia di esso. Vuole parimente il Zeno, citando l’autorità di Alessandro d’Alessandro, che il Perotti fosse professore in Roma insieme con Domizio Calderini; ma questi, come si è detto, fu colà chiamato da Paolo II, eletto papa nel 14^4 » quando il Perotti era già arcivescovo; e niuno crederà così di leggieri che un arcivescovo TERZO l65l volesse salir sulla cattedra e dar precetti d’eloquenza (a). È certo però, ch’egli ebbe brighe col Calderini, come affermasi ancora da Paolo Cortese (Dial. de Hominib. doct. p. 40), per le diverse spiegazioni che davano amendue ad alcuni passi di Marziale; ed ebbele parimente con Poggio per difendere Lorenzo Valla suo amico. Il Perotti scrisse perciò l’an 1454 sullo stile ordinario di questi tempi una fiera Invettiva contro Poggio, ch è stata data alla luce (Miscell. Lazzaroni, t. 8) insieme con due lettere del medesimo Poggio contro i due suoi avversarj. Il Zeno rammenta ancora un’ altra Invettiva del Perotti contro Giorgio da Trabisonda (*); le quali opere ci danno a vedere eli’ egli ancora ebbe pur troppo il difetto comune a’ letterati di questo secolo, di non voler competitori e rivali. LXIX. Convien dire però, che grandi ancora fossero le virtù del Perotti, poiché veg(rr) Non è così inverisimile. come or sembrerebbe, che un arcivescovo fosse professore in una università. Nell’ Elenco degli Atti dell'università di Pavia pubblicato dal Parodi (p. 12, i3) troviamo che l’anno 1395 erano ivi attualmente professori, ad a legentes, i vescovi di Vicenza e di Verona, e che nell’anno i3g7 eravi professore il vescovo d’Acqui Pietro dal Bosco. (*) Alcuni opuscoli mss. del Perotti, scritti indifesa del card Bessarione nella disputa che per Platone ei sostenne contro Giorgio da Trabisonda, si conservano nella libreria Nani in Venezia; e il sig. D. Jacopo Morelli, che ce ne dà un esatto Catalogo (Codd. mss. Bibl. Nani. p. 50, ec.), avverte che l’orazione in lode di quel cardinale, la qual sulla fede di Apostolo Zeno è stata da me attribuita al Perotti, fu opera veramente di Niccolò Capranica vescovo di Fermo. LXIX. Impirgbi Jj lui sostenuti; sue opere: altri lessici. iG5a LIBRO giamo clic in età di soli 28 anni fu da Pio II nominato arcivescovo Sipontino; il qual pontefice quasi al medesimo tempo lo confermò nell impiego di segretario apostolico. Da lui innoltre e da' susseguenti pontefici fu onorato di ragguardevoli cariche; perciocchè il troviamo governator dell Umbria nel 1465, di Spoleti nel 1471 e di Perugia nel 1 4t4- F'ra questi molteplici affari è cosa maravigliosa a riflettere quanto egli si occupasse studiando e scrivendo; e molto più ch ei morì nella fresca età di soli 50 anni fanno 1480. Il Zeno annovera diligentemente tutte le opere del Sipontino, e le diverse edizioni di quelle che si hanno alle stampe, e le biblioteche in cui si conservano quelle che rimaste son manoscritte. Oltre le traduzioni da noi mentovate, più altri libri di molti autori recò in lingua latina; ed è degna d’ esser letta una lettera a lui scritta da Francesco Filelfo, e citata dal medesimo Zeno, in cui quest uomo, che sì pochi stimava degni di lode, esalta alle stelle la profonda cognizione del greco che avea Niccolò, e la singolar eleganza con cui traduceva. Se ne ricordano ancora molte orazioni e molte lettere che si han manoscritte, e un orazione stampata in lode del card Bessarione, che secondo il costume d allora è in somma una breve N ita di quel dottissimo porporato. Ma la più celebre opera del Sipontino è la sua Cornucopia, ch è un diffuso erudito comento del libro degli Spettacoli, e del primo degli Epigrammi di Marziale. All occasione di questi egli fa moltissime osservazioni sulla lingua latina, e su molti TERZO 1653 punti d’erudizione; e benchè il Sipontino abbia certamente commessi non pochi falli, molti de’ quali furon rilevati singolarmente da Giano Parrasio (ep. 37), mostra nondimeno in questa sua opera una vastissima e per quel’ tempo ammirabile erudizione. A quest’opera suol andare congiunto un breve trattato dello stesso Perotti sul Proemio alla Storia naturale di Plinio, qual era stato stampato in Roma nel 1470 per opera di Giovanni Andrea vescovo d’Aleria, nella qual edizione ei trova parecchie cose a riprendere, e biasima apertamente gli abusi che fin d’allora si erano nella stampa introdotti. Delle quali e di altre opere del Perotti io lascio che ognun vegga più ampie e più esatte notizie presso il sopraccitato esattissimo Zeno. Aggiugnerò solo il giusto carattere che dello stile e del sapere di lui ci ha lasciato Paolo Cortese, uomo libero da passione e ottimo giudice in tali materie: Nicolaus Perotius, dic’ egli, (l. c. p. 39)), Literis doctus Graecis et Latinis. Hujus in orationibus sermo est non inquinatus, et multa habet oratoria ornamenta. Scripsit etiam pleraque toleranda. Al Perotti si debbono congiungere Giuniano Maggio napoletano, che l’an 1475 pubblicò in.Napoli un’ opera intitolata De priscorum proprietate verborum (V. Taf uri, ScritL del regno di Nap. t. 2, par. 2, p. 330; t 3, par. 4 5 p- 359) > clic è in somma un Vocabolario latino il più antico che colle stampe abbia veduta la luce (*); (*) Il Dizionario di Giuniano Maggio non è il più antico che abbia veduta la luce. Fin dal 1460 era stalo 1654 LIBRO e Nestore Dionigi da Novara dell’ Ordine dei’ Minori, che dal Cotta si dice della nobil fa. miglia Avogadra (Museo novar, p. 234), il quale, probabilmente senza saper del Maggio, ne pubblicò poco appresso un altro. La prima edizione ne fu fatta in Milano l’an 1483, e venne poi seguita da molte altre. Il suddetto Cotta, il co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1 par. 2, p. 1271), e più diligentemente di tutti il Sassi (Hist. Typog. mediol, p. 258) parlan di questo scrittore, e riferiscon gli elogi con cui alcuni han parlato di tal opera da lui composta; benchè poscia quella che nel secol seguente diede alla luce il celebre f Ambrogio da Calepio, abbia fatto dimenticare amendue questi scrittori. LXX. Or dopo aver esaminata fin qui la vita e le opere di tanti gramatici e retori, facciamoci a raccogliere in un punto sol di veduta il frutto che da’ loro studj ne venne alla letteratura. Due fini si erano essi prefissi singolarmente: agevolar la via all’ intelligenza degli antichi autori greci e latini, e prescriver leggi a parlare e a scrivere correttamente ed elegantemente nell' una e nell’ altra lingua. Ad ottenere il primo furono indirizzate le traduzioni che di tanti scrittori greci in questo secolo si divolgarono; perciocchè appena troverassi austampato in Magonza il Catholicon di Giovanni Balbi, "he c insieme una Gramática e un Dizionario; un altro senza nome d’autore ne ero stato stampato in Eltvvil nella diocesi di Magonza. Prima poi di quello di ¡Vestore Dionigi era stato pubblicato in Milano nel 1476 quello di Papia. TERZO l655 tore di qualche nome in quella lingua, che non si vedesse allora recato in latino; e di molti ancora si fecero da diversi interpreti traduzioni diverse. A ciò si aggiunse il cercare da ogni parte quante più poteansi aver copie degli antichi scrittori greci e latini, il confrontarle tra loro, il correggerne gli errori e il darne poi le edizioni, quanto più era possibile, esatte e corrette. Ma ciò ancor non bastava. La mitologia, la storia, le antichità ed ogni altro somigliante genere d’erudizione erano allora cose note a pochissimi. Conveniva dunque scorgere fra tante tenebre i poco esperti lettori, e spiegar loro que passi che negli autori di amendue le lingue richiedevan lume e dottrina a ben intenderli. E di qua appunto vennero que’ tanti comenti che si videro in questo secolo uscire in luce sopra i classici autori, de’ quali appena vi fu chi non ritrovasse qualche dotto commentatore, e alcuni ancora n’ ebber parecchi. L’invenzion della stampa, dopo la metà del secolo introdotta in Italia, agevolò sommamente il moltiplicar la copia de’ libri non meno che de’ lettori. Per mezzo di essa divenne più agevole l’avere gli autori antichi, su cui studiare; e per mezzo di tanti valorosi gramatici l’intelligenza di essi si rendette più facile, e perciò più comune. Io so che le traduzioni fatte in quel secolo ci sembrano ora rozze, infedeli e mancanti; che i comenti de’classici autori allora scritti son pieni d’inezie e di minutezze ridicole sì graziosamente derise in in suo dialogo da Gioviano Pontano (Charon), che ora non vi ha alcuno LXXL Leggi a parlare rnti «)ejjnnza da cui prrscriUe. IG5G LIBRO che per intender Cicerone e Virgilio legga i comenti del Regio, del Calderini e di altri interpreti di quel tempo, talchè le edizioni da essi fatte non son più che un semplice ornamento delle più splendide biblioteche. Ma non deesi perciò scemar punto di stima e di gratitudine verso que’ primi che aprirono un non più tentato sentiero. E io non so se maggior lode si debba a uno che prima di ogni altro si fa la via fra i dirupi di una scoscesa e dirupata montagna, e fra mille pericoli ci apre uno stretto e intralciato viottolo per cui valicarla, ovver chi seguendone forme ci allarga sempre più il cammino, e ce lo rende agevole e delizioso. Lasciam pur dunque in disparte i lor comenti e le loro edizioni, che hanno certamente non pochi falli, e in molte cose o ci lasciano al buio, o ci conducono in errore. Ma lodiamo insieme e ammiriamo l’indefesso loro coraggio e il faticosissimo studio, con cui cominciaron a render facile la lettura de’ buoni autori, e eccitaron coloro che vennero appresso, a sparger nuova luce su quell’opere stesse che da essi erano state dissotterrate, e, come all or potevasi, rischiarate. LXXI. Lo stesso vuol dirsi delle leggi da essi prescritte a scriver con eleganza. O si riguardino quali esse sono, o si consideri il metodo con cui si trovan disposte, non sono certo un troppo perfetto modello d’istruzione gramaticale. La forza delle parole non sempre è veramente qual da essi si spiega; i lor precetti non son talvolta conformi ai’ migliori esempj dell’ antichità, e non si vede nelle loro opere TF.I1ZO |65un colai giusto compartimento che conduca quasi per mano alla perfetta cognizione delle lingue greca e latina. Ma se esse si porranno a confronto con quelle che ne’ secoli addietro si usavano nelle scuole, non si vedrà minor differenza tra le une e le altre, di quella che ora si scorga tra le gramatiche divolgate nelle colte età susseguenti, e quelle che furono scritte nel secolo di cui trattiamo. Essi adunque aggiunser non poco alle ricerche già fatte di questo genere; essi c’ insegnarono col loro esempio a rifletter meglio sull’ opere e sullo stile degli antichi scrittori; ripreser gli abusi che nello scrivere s’erano introdotti, e in gran parte esiliarono le barbarie a la rozzezza ch era prima sì comune ne’ libri. Le stesse sì feroci contese che gli uni contro gli altri eccitarono i gramatici di questo secolo, giovaron non poco a introdurre una maggiore eleganza. Un error di lingua scoperto nell avversario era come una piena vittoria sopra lui riportata. Quindi l’impegno di non dar ansa d’insulto ai’suoi proprj nimici, e l’ attenzione perciò a sfuggire scrivendo ogni cosa che potesse sembrar degna di biasimo; e quindi ancor la premura di cogliere in fallo il rivale, e la minutezza nel rilevarne ogni minimo errore. Ciò ch è più strano, si è il vedere che in mezzo a sì gran numero di precetti e di precettori, e in mezzo a tanti libri che insegnavano a scrivere con eleganza, furon nondimeno sì pochi gli scrittori veramente eleganti; e quei medesimi che prescrivevano quali leggi si dovesser seguire a scrivere correttamente, usarono per lo più di Tiraboschi, Voi IX. 28 iG5tì LIBRO uno stile che è Len lungi da quello degli antichi scrittori. Chi può soffrire lo stile del Guarino del Filelfo, del Valla e di tanti altri gramatici dei quali abbiam parlato? Il Poliziano, come fu ad essi posteriore, così è assai più colto; ma non si può dire scrittor perfetto. E nondimeno erano tutti ammiratori di Virgilio, di Cicerone e di altri autori del buon secolo; e facendo essi pure quel continuo studio sull’opere loro, con cui poscia molti hanno ottenuto d’imitarli cotanto felicemente, essi nol poteron mai ottenere. Ma di ciò ho lungamente parlato nella Dissertazione premessa al secondo tomo di questa Storia (p. 33, ec.); e non giova qui il ripetere ciò che allora si è detto. Ben non vuolsi passare sotto silenzio una riflessione troppo gloriosa all’Italia. Come quasi tutte le opere degli antichi scrittori greci e latini che finallora erano state dimenticate, furono scoperte o in Italia, o dagl’ Italiani, così quasi tutti i primi interpreti e comentatori dell’opere stesse e di quelle ch eran già conosciute furono italiani, o almeno per lungo soggiorno divenuti quasi italiani. Ciò che ne abbiamo detto e in questo capo medesimo e altrove, il prova abbastanza. E se alcun si vorrà prender la pena di unir insieme quanti di tutte le straniere nazioni si applicarono a tali studj, vedrà quanto sia scarso il lor numero in confronto de’ nostri. Quindi era in fatti il venire che da ogni parte facevasi alle scuole italiane di belle lettere, e la comun persuasione che solo in Italia si potesse imparare a scrivere con eleganza. In questo stesso capo ne abbiam vedute le pruove; c TERZO l659 un altra ne aggiugnerò a conclusione di questo argomento tratta da un testimonio a cui non si può apporre la taccia di giudice o troppo parziale, o non abbastanza dotto a decidere. Parlo del celebre Erasmo, uno certamente de' più eruditi uomini che fiorissero al principio del secolo xvi, il quale all Italia attribuisce il risorgimento della letteratura, e confessa che da essa ne vennero all’ Allemagna i primi semi: Me puero, dic’egli (in Catal. Libror. suor.), repullulascere quidem coeperant apud Italos bonae litterae, sed ob typographorum artem aut nondum repertam, aut paucissimis cognitam, nihil ad nos librorum pervenerat, et altissima quiete regnabant ubique, qui literas docebant illiteratissimas. Rodulphus Agricola primus omnium auram quandam melioris literaturae nobis invexit ex Italia. Più onorevole ancora è all'Italia ciò ch’ ei ne dice in una sua lettera a Roberto Pescatore inglese, che qua si era recato per motivo di studio; perciocchè con lui si rallegra che trovisi in ea regione, ubi vel parietes sint tum eruditores, tum disertiores, quam nostrates sunt. homines, ut quod hic pulchre expositum, quod elegans, quod venustum habetur, isthic non rude, non sordidum, non insulsum videri non possit (l. 1, ep. 4)•