Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro I/Capo II

Capo II - Poesia

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Capo II

Poesia.

I. Il secolo d’Augusto era stato il secolo de’ poeti, come a suo luogo abbiam veduto. Quindi mantenendosi ancora nel secolo susseguente, di cui scriviamo, quell’ardor per gli studi clie [p. 88 modifica]allora crasi acceso, in esso ancora la poesia sopra ogni altro genere di letteratura fu coltivata. Ma come l’eloquenza giunta a’ tempi di Tullio alla sua perfezione, decadde poi a’ tempi di Augusto, perchè gli oratori in vece di seguire le tracce segnate da que’ che gli aveano preceduti, vollero per amore di novità mettersi su un diverso sentiero, e condui f eloquenza a una perfezion maggiore di quella che le conveniva; così avvenne alla poesia ancora dopo il regno di Augusto. Il carattere de’ poeti di quest’età, che dovremo svolgere ed esaminare, ci farà conoscere chiaramente che essi furon viziosi, perchè vollero essere più perfetti di \ irgilio, di Orazio, e degli altri poeti delf età precedente. Ma prima di favellare di questi , ci convien parlare di uno che non sol per età, ma per nascita, per virtù, e forse ancor per sapere deesi a tutti antiporre, benchè poche delle sue poesie siano a noi pervenute. II. Questi è il celebre Germanico figliuol di quel Druso che da Augusto era stato adottato per suo figliuolo. Era egli perciò nipote di Tiberio, fratel di Claudio padre di Caligola, avolo di Nerone, tutti imperadori, ma tutti tanto indegni di salire a quel trono a cui pure pervennero, quanto degno ne era egli che non vi giunse. Gli autori della Storia Letteraria di Francia gli han dato luogo tra1 loro scrittori; perchè, dicono essi (Ili st. Litér. de la France t. 1, §. 2, p. 152), non si trova presso gli antichi autori, ove egli nascesse; ma il seguito della storia fa credere che. ei nascesse a Lione, come r imperador Claudio suo minor Jrateilo+ [p. 89 modifica]verso l’anno 740 di Roma, mentir, Antonia ¡or madre vi avea stanza, e il padre Druso era occupato nel soggettare i Grigioni e i Germani. Che Claudio nascesse in Lione, chiaramente lo affermano Svetonio (in Claud. c. 1), e Seneca (Lud in morte Claud.). Ma che Antonia vi soggiornasse sì lungamente, che amendue i fratelli vi partorisse, o che le accadesse di trovarsi passeggiera nella città medesima, quando l’uno e poi l’altro mise alla luce, non vi ha ragione alcuna a conghietturarlo, non che a provarlo. Checchè sia di ciò, io spero che i suddetti chiarissimi autori ci permetteranno di porre tra gl’illustri letterati italiani anche Germanico, il quale, ancorchè a caso fosse venuto allo luce in Lione, non vorranno perciò negare ch’ei fosse italiano. Il carattere che di Germanico ci hanno lasciato gli antichi scrittori, è tale che non si può senza un dolce sentimento di tenerezza ricordarne il nome. Dopo la morte d’Augusto ei non fu imperadore, perchè nol volle; e a grave rischio della vita si espose, perchè fosse riconosciuto Tiberio (Tac. Annal. l. 1, c. 33). Le guerre da lui guerreggiate in Germania e nell’Oriente gli acquistaron nome di valoroso capitano; e dalle prime ebbe F onore del solenne trionfo. Ad ognuno è noto, dice Svetonio (in Calig. c. 3, ec.), ch’egli ebbe tutte le doti d’animo e di corpo, quante niuno per avventura ne ebbe giammai; bellezza insieme e coraggio non ordinario; ingegno eccellente nel coltivamento della greca non meno che della latina eloquenza; affabilità singolare e somma premura di acquistarsi [p. 90 modifica]fautore e la benevolenza di tutti.... Perorò più volte nel foro... e fra gli altri monumenti del suo sapere lasciò ancora alcune commedie greche.... Ovunque trovasse sepolcri d uomini illustri, offeriva lor sagri fidi. Volendo dare comun sepoltura alle disperse ossa di quelli che molto tempo prima nella sconfitta di Varo erano stati uccisi, prese egli il primo a raccoglierle e a trasportarle di sua mano. Verso i suoi detrattori e nimici, chiunque essi si fossero, era piacevole e mansueto per modo, che a Pisone il quale ardì perfino di la emme i decreti, e di maltrattarne i clienti, non mai mostrossi sdegnato, finchè non riseppe che con incantesimi ancora esso gli tendeva insidie, ed anche allora altro non fece che rinunziarne colle usate formole l’amicizia, e raccomandare a’ suoi domestici che , ove alcun sinistro gl’incorresse, ne facesser vendetta. Per le quali virtù ei fu sì caro a l Augusto, che stette lungamente dubbioso se avesse a nominarlo suo successore; e finalmente comandò a Tiberio di adottarlo. Alla moltitudine ei fu sì accetto, che molti raccontano che al giugnere, o al partir da alcun luogo tal era la folla di que’ che venivangli incontro, o l’accompagnavano, che talvolta ei ne fu in pericol di vita. Nè punto minori sono le lodi di cui lo onora Tacito (l. 2 Ann. c. 72). Velleio Patercolo è il solo che sembri parlarne con biasimo e con disprezzo (l. 2, c. 125); ma il Boeclero pretende che diversamente si abbia a leggere quel passo (in notis ad hunc loc. ed. Lugd. Bat. 1719); e ancorchè Patercolo poco [p. 91 modifica]favorevolmente sentisse di Germanico, non sarebbe a stupire che uno storico adulator vilissimo di Tiberio, ai cui tempi scriveva, cercasse di oscurar la fama di un eroe il cui nome e le cui virtù erano un troppo spiacevol rimprovero a quel tiranno. Di fatto fu comune opinione che la morte, da cui nella fresca età di soli trentaquattro anni ei fu rapito in Antiochia l’anno dell’era volgare xx, fosse effetto di gelosia nell1 invidioso Tiberio, che dell’opera di Gneo Pisone si valesse per avvelenarlo (Svet. l.C.). Ma se di tal delitto fu egli reo, ebbe certo a vergognarsene nel vedere il dolore e la costernazion generale de’ Romani al risaperne la morte 3 poiché essa fu tale che forse non ve ne ha esempio in tutte le antiche storie. Era questo un oggetto che spiaceva troppo a Tiberio; ed egli ebbe o la crudeltà, o l1 impudenza di pubblicare un editto con cui vietava il dar più oltre dimostrazion di dolore per la morte di Germanico; ma ebbe anche la confusione di vedere i Romani ridersi alteramente del suo editto, e continuare il lutto sulla morte dell’ottimo principe. III Delle orazioni e delle commedie greche da Germanico scritte nulla ci è rimasto; ma eh1 ei fosse creduto eccellente oratore, raccogliesi da ciò che x acconta Tacito (l. 2 Ann. c. 83), cioè che erasi determinato, poichè se ne riseppe la morte, di collocarne un’immagine più grande dell’ordinario e fregiata d’oro tra quelle degli oratori più illustri; ma che l’invidioso Tiberio a ciò si oppose, dicendo che avrebbegliela fatta collocare egli stesso, ma uguale alle altre, ili. Sue operr pjelicbe. [p. 92 modifica]poiché non dovessi il merito estimar dallanascita, e bastar poteva a Germanico l’esser posto nel numero degli antichi oratori. Qualche greco epigramma a lui vedesi attribuito nell’Antho lo già, e alcuni altri latini ne veggiamo col nome di Germanico pubblicati nelle raccolte de’ poeti latini antichi, e in quella singolarmente del Piteo. E ch’egli fosse protettore non meno che coltivatore della poesia , ne abbiamo un chiarissimo testimonio nell’elogio che gli fa Ovidio, a lui dedicando i suoi libri de’ Fasti: Excipe pacato, Caesar Germanice, vultu Hoc opus, et timidae dirige navis iter. Da mihi te placidum: dederis in carmina \ ire«. Ingemmo vultu statque , caditque tuo. I’ugtua judicitim dodi subi tura movelur Principi«, ut Clario missa legendo deo. Quae sit enim culti facundia sensimus oris, Civica prò trepidis cum tulit arma reis. Scimus et ad nostras cum se tulit impetus artes, ingemi currant Humiiia quanta tui. Si licet, et fas est, vates rege vatis habenas; Auspice te, felix totus ut annus eat. E altronde scrivendo dal suo esilio a Suilio, perchè la protezion gli procuri di Germanico, e a lui stesso volgendo poi il parlare, così’ gli dice: Quod nisi te nomen tantum ad majora vocasset, Gloria Pieridum summa futurus eras. Sed dare materiam nobis , quam carmina mavis; Nec tamen ex toto deserere illa potes. Nam modo bella geris , numeris modo verba cœrces Quodque aliis opus est , hoc tibi ludus erit. L. 4 de Ponto el. g. [p. 93 modifica]La migliore e più ampia fatica di Germanico che a noi sia rimasta, benchè guasta non poco e tronca, si è la traduzione da lui fatta in versi latini de’ Fenomeni di Arato, e dei Pronostici , tratti dallo stesso autore e da altri poeti greci; della qual ultima traduzione però appena qualche frammento ci è pervenuto (7). Io so che queste traduzioni da alcuni si attribuiscono a Domiziano (V. Fabric. Bibl. lat. l. 1, c. 19). Fondano essi la loro opinione su tre argomenti singolarmente: sul nome di Germanico , che a Domiziano ancora fu dato, e col qual solo il veggiamo nominato talvolta dagli autori che scrissero mentre ei regnava (Mart. l. 8, epigr. 65; Sil. Ital. l. 3, v. 607); sul nome di padre, che Germanico dà a quell’Augusto a cui offre la sua traduzione, nome che potea ben dare Domiziano a Vespasiano suo padre, non già Germanico ad Augusto di cui non era pur figlio adottivo non che natu-. rale; finalmente su ciò che narrano Svetonio (in Domit c. 2) e Tacito (l. 4- Hist. c. 86). cioè che Domiziano coltivò la poesia: nel che Quintiliano singolarmente lo esalta con somme lodi (l. 10, c. 1). Ma, a dir vero, le lor ragioni (a) Un nuovo frammento di 5i versi della traduzione de’ Fenomeni di Arato latta da Germanico La felicemente trovato il sig. 11. Giovanni Iriarte, e lo ha pubblicalo prima così scorretto, come gli è avvenuto di rinvenirlo, poscia avvedutamente emendato , eome gli è sembrato doversi fare, e con erudite annotazioni illustralo (li. Maini. Liibl. Codices Orate: voi. i, pag. 2o5, ec.). [p. 94 modifica]non mi sembrali forti abbastanza. Il nome di padre si dà frequentemente a’ sovrani, e a quelli singolarmente che colla benevolenza si acquistano il figliale amore de’ sudditi loro; e molto più potea darlo Germanico ad Augusto di cui era pronipote. Domiziano ebbe il soprannome di Germanico, e con esso fu talvolta appellato da quelli che a lui scrivendo, o di lui ancora vivente, voleano adularlo; ma non veggiamo che gli sia poi rimasto così proprio un tal nome che con esso ei si distingua dagli altri, il che non conviene che al nostro Germanico. Ciò che di cesi finalmente de’ poetici studj di Domiziano, è a mio parere il più forte argomento a combattere questa opinione. Perciocchè, se se ne tragga Quintiliano adulator troppo sfrontato di questo imperadore, Svetonio e Tacito ci assicurano che questo studio altro non fu che una finzione da lui usata per acquistarsi fama uguale a quella dell’ottimo suo fratello Tito, e ugual grazia presso il padre; ma che egli fu e prima e poscia nemico sempre de’ poetici studj. Or io intenderò facilmente come a tal fine potesse Domiziano scrivere all’occasione alcuni brevi componimenti per aver nome di valoroso poeta, ma che egli a due penose e difficili traduzioni di due non brevi poemi greci si accingesse solo per sostenere il personaggio, cui volea fingere, di poeta, non potrò certo pensarlo. Aggiungasi, che lo stile n’è più colto assai di quello ch’esser potesse a’ tempi di Domiziano, e in un poeta che non curandosi punto di poesia, volea nondimeno esserne creduto studioso coltivatore. [p. 95 modifica]Alla traduzion de’ Fenomeni aggiungesi comunemente una dichiarazione latina in prosa, che da alcuni è attribuita allo stesso Germanico; ma l’incontrarvisi cose tratte da autori a Germanico posteriori rende troppo evidente l’opinione ch’essa sia di autor più recente (V.Fab. l. c. e Hadr. Junium Animad. l. 6, c. 20). IV. Nelle poesie di Germanico non vedesi ancora quella vota gonfiezza e quel sottile raffinamento che comincia poscia a scoprirsi ne’ seguenti poeti; e perciò da molti egli è posto tra gli scrittori dell’età d’oro, benchè toccasse ancora il regno di Tiberio. Lucano è il primo che noi veggiamo distogliersi dal buon sentiero, e lusingarsi di andare innanzi ancora a Virgilio (8). Fu egli veramente spagnuolo di patria, (*) Il sig. ab. Lauipillas si sdegna meco (p. 317, ec.) perchè io qui ho scrino: Lucano è il primo clic noi vergiamo distogliersi dal buon sentiero , e lusingarsi d’andare innanzi ancora a Virgilio. Io debbo qui prima rinnovare le mie doglianze che ho già falle nella mia lettera contro l’ab. Lampillas che con poco buona fede cita (ivi p. a 19) come da me scritte queste precise parole: Lucano e Marziale , come chiaramente si vede da’ loro versi, vogliono andare innanzi a Catullo e a Virgilio, e H loro esempio fu ciecamente seguito; con che egli vuol provare la mia rea intenzione di screditar la Spagna. Or leggasi ciò ch’io veramente ho scritto nella mia Dissertazione preliminare: Lucano , Seneca il tragico, Marziale, Stazio , Persio e Giovenale vogliono , come chiaramente si vede da’ loro versi, andare innanzi a Virgilio , a Catullo , ad Orazio. Così egli per sua gentilezza mi fa attribuire a due soli Spagnuoli ciò eh’io attribuisco indistintamente agli Spagnuoli insieme e agl’Italiani. \ enendo ora a Lucano, egli dice che studiosamente io [p. 96 modifica]e nato in Cordova da M. Anneo Mela fratello di Seneca il filosofo) ma, come abbiamo da un incerto scrittore della Vita di lui (V. praef ad Lucani, ed. Lugd. Bat. 1728), in età di soli otto mesi fu trasportato a Roma, e vi ho fallo un gran »allo da Virgilio a Lucano per incolpare il poeLa spaglinolo della corruzion del buon gusto, mentre è pur certo che tanti altri poeti furon di mezzo a que’ due, i quali furono molto inferiori a Virgilio, e da’ quali perciò prima che da Lucano fu corrotta la poesia. L’ho io forse negalo? Non ho io detto, parlando di Manilio (e. i, p. ao5) , che lo siile da lui usato non può cerio venire a confronto con quello de’ migliori poeti dell’età di Augusto 9 Non ho io detto (ivi p. 20?) che due difetti si oppongono con ragione ad Ovidio, la poca coltura nell’espressione , e il soverchiti raf/inamento? Non ho io annoverali (ivi p. 188) C. Pedone Albinovano e Cornelio Severo tra’ meno illustri poeti? Con qual giustizia dunque mi fa questo rimprovero l’ah. Larnplillas? Ho detto , e ripeto che Lucano fu il primo a distogliersi dal buon sentiero, e a lusingarsi di andare innanzi a Virgilio; e ciò conforme alla massima da me stabilita, che la corruzione nasce singolarmente dal voler superare 1 più Perfetti modelli che ci bau preceduto. Trovi dunque ab. Lampillas un altro poeta a cui si possa opporre la taccia di aver voluto autlare innanzi a Virgilio, e di aver perciò sostituito allo stile grave e magnifico da Virgilio usato uno stile tronfio e ampolloso -, e allora mi confesserò vinto; ma lo trovi tra’ poeti di cui ci rimangon poemi, acciocché possiamo esaminarli, e vedere se si possa loro a ragione rimproverare questo difetto; e avverta ancora eh’io qui parlo di poemi epici, da’ quali poi io passo ad altri scrittori di minori poesie. Riguardo poi alla difesa che l’ab. Lampillas fa dello stil di Lucano, io ne rimetto il giudizio a’ saggi di scerò (ori del buon gusto, e son pronto a. sottomettermi ali« lor decisioni. [p. 97 modifica]condusse tutti i suoi giorni; nè dee però vietarcisi che ad uno scrittore vissuto sempre in Italia tra gli italiani scrittori noi diamo luogo. Io non tratterrommi a esaminare le più minute circostanze de’ fatti a lui appartenenti, di che puossi vedere ciò che assai lungamente e diligentemente ne ha scritto il celebre Niccolò Antonio (Bibl. hisp. Vet. l, 1, c. 10). Lucano cominciò a rendersi celebre in Roma pel suo poetico valore, mentre regnava Nerone. E una onorevole via a rendersi immortale aveva questi aperta a lui e agli altri poeti coll’istituire che fatto avea solenni letterarj combattimenti da celebrarsi ogni cinque anni, ne’ quali gli oratori e i poeti recitando a gara nel pubblico teatro le orazioni e i poemi loro, da’ giudici a ciò prescelti si decideva a chi di essi si dovesse l’onore della corona. Il suddetto scrittore della Vita di Lucano racconta che in tale occasione fu data a Lucano sopra Nerone la preferenza, e che quindi ne venne lo sdegno di Nerone contro il nostro poeta. Ma io temo che un tal fatto non possa reggere contro il testimonio di tre celebri storici, Svetonio, Tacito e Dione, che e più antichi sembrano e più degni di fede che il mentovato scrittore, il cui stile troppo sa de’ secoli bassi. Questi concordemente raccontano che i giudici corrotti anche essi da quel vile spirito di adulazione che allora era universale in Roma, concederono f onor della corona a Nerone (Svet. in Ner. c. 12; Tac. l 14 Ann. c. 21; Dio. l. 11). Ed è ad avvertire che queste letterarie contese istituite furono da Nerone l’anno stesso del suo impero Tiraboschi, Voi. II.. 7 [p. 98 modifica](Tac. I. 6.4, C. ao), che ogni quinto anno doveansi celebrare, e dette furono perciò quinquennale certamen (ib.), e che la seconda volta si celebrarono un anno più tardi, cioè nel dodicesimo anno di Nerone (id. l. 16, c. 2), essendo Lucano morto fin dall’anno precedente (id. l. 15, c. 70); e perciò una volta sola potè Lucano aver parte a tali contese. Sembra dunque più verisimile che Lucano a questa occasione avesse il dispiacere di vedersi posposto a Nerone, e che quindi si cominciasse in lui ad accendere quello sdegno che poscia il trasse in rovina. In fatti nella Vita più antica dello stesso poeta, attribuita non senza qualche fondamento a Svetonio, nulla si dice di quest’onore a lui conceduto; anzi al contrario si narra che recitando egli pubblicamente i suoi versi. Nerone acceso d’invidia interruppe sotto legger pretesto quell’assemblea, e andossene: di che tanto sdegnossi Lucano, che d’indi in poi non cessò mai con mordaci detti di pungere l’imperadore. Ma questi, benchè avesse ottenuto a preferenza di Lucano l’onore della corona , conosceva nondimeno che esso era di troppo a lui superiore. La fama di valoroso poeta era a Nerone più cara assai di qualunque provincia del suo impero; e perciò sdegnato che vi fosse in Roma chi volesse in valore poetico gareggiar seco, fe’ divieto a Lucano di render pubbliche in avvenire le sue poesie (id. l. 15, c. 49)• Il fervido e impetuoso poeta non si potè contenere, e si unì a Pisone che una congiura stava allora formando contro l’imperadore. Questi n’ebbe contezza, ei congiurati [p. 99 modifica]furono arrestati, convinti e dannati a morte. Lucano affettò per alcun tempo una virile fermezza nel tacere i nomi de’ complici, ma tradito da una finta promessa d’impunità giunse a sì crudele bassezza, che la sua stessa madre nominò tra gli autori della congiura (ib. c. 56). Ma in vano cercò egli con sì detestabile mezzo di ottenere il perdono. Ebbe solo in sua mano lo scegliere qual morte più gli piacesse; e scelse quella che allora era più in uso, singolarmente presso coloro che alla fama aspiravano di saggi filosofi, cioè di aprirsi le vene. Nel qual atto volle pure mostrarsi ancora intrepido e coraggioso, poichè sentendosi venir meno, prese a recitare alcuni suoi versi con cui descritto avea un soldato nell’atto di morire in somigliante maniera (ib. c. 70). Così finì di vivere Lucano nell’età di soli ventisette anni nell’anno LXV dell’era volgare. V. Molti sono i componimenti poetici che a Lucano si attribuiscono, tutti periti, trattane la Farsalia. Lasciando dunque di parlare degli altri, intorno a’ quali si può vedere singolarmente il già mentovato Niccolò Antonio (l. c.)} ci tratterremo soltanto su questo poema. Se intorno al pregio di un’opera si avesse a prestar fede all’autore di essa , niun poema dovrebbe anteporsi a quel di Lucano. Egli certo si vanta che finchè Omero sarà in onore, egli ancor sarà letto; che la sua Farsalia vivrà, e che non sarà in alcun tempo dimenticata (l. 9, v. 983). Ma a’ poeti è permesso il sentir altamenti di lor medesimi, purchè lascino agli altri la libertà di sentire anch’essi come lor v. Diversi giudizi de*» dui ti intorno jl’a un FereaU». [p. 100 modifica]piace. Or intorno a Lucano non è mancato chi ne abbia dette le più gran lodi del mondo. Stazio, che visse al tempo medesimo, ne ha celebrata la memoria con un componimento (l. 2, sil. 7) in cui parla di Lucano come di un poeta non inferiore ad alcuno, e superiore a pressochè tutti i poeti; e non teme di dire che dall’Eneide ancora sarà la Farsalia venerata. E veramente essendo Stazio nel suo poetare somigliante molto a Lucano, non è maraviglia che ne facesse sì grande elogio. Marziale ancora ne parla con molta lode, benchè accenni insieme che fin da quel tempo alcuni non volean concedergli il nome di poeta (l. 7, epigr. 20, 21, 22; l. 14, epigr. 168). Nè tra i moderni sono mancati a Lucano lodatori e protettori per sapere e per autorità ragguardevoli. Del celebre Ugone Grozio si dice (L’Esprit de Guy Patin, p. 28; Acta Lips. 1710, p. 417) che lo avesse in pregio e in amore sì grande, che sempre il volesse seco, e talvolta ancora per trasporto di tenerezza il baciasse. Jacopo Palmerio da Grentemesnil una lunga apologia di Lucano scrisse fin dall’anno 1629, in cui rispondendo a tutte la accuse date alla Farsalia , e esaminandone i pregi, lusingossi di parlarne modestamente, dicendo che essa era quasi uguale all’Eneide. Quest’apologia però non fu stampata che l’anno 1704 a Leyden (Journ. des Sav. 1704, p 609 e 1708; Suppl, p. 414 Acta Lips. 1708, p. 186), ed ivi pur ristampata l’anno 1728 nella bella edizione di Lucano fatta dall’Oudendorp. Molti altri ancora hanno annoverato Lucano tra’ valorosi poeti. [p. 101 modifica]Ma troppo lungi mi condurrebbe il far parola di tutti. Veggansi i lor pareri raccolti dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 246, éd. D’Amst. 1725). Non vuolsi però tacere di due tra essi, cui troppo è onorevole a Lucano l1 aver avuti a lodatori e apologisti, il primo è il gran Pietro Cornelio, di cui racconta monsig. Huet (Origines de Caen, p. 366) che confessò a lui medesimo non senza qualche rossore ch’egli anteponeva Lucano a Virgilio. Di questa opinione del Cornelio si vale monsig. Huet a provare che gli ottimi giudici di poesia più rari sono a trovarsi che gli ottimi poeti. Ma non potrebbe aggiungersi ancora che il troppo favorevole sentimento che il Cornelio avea di Lucano, fu per avventura f origine del difetto che in lui singolarmente dispiace, cioè di uno stile tronfio talvolta più che sublime, e di pensieri raffinati troppo e più ingegnosi che a personaggi ancor di tragedia non si convenga? L’altro è il celebre Marmontel che non ha sdegnato d’impiegare il colto ed elegante suo stile in una traduzion di Lucano. Omero e Virgilio, se potessero tornar tra’ vivi, farebbono, io credo, un amorevol lamento con questo illustre scrittore che, anzichè ad essi, abbia un tal onore conceduto ad un poeta di cui eglino forse ignoravano ancora il nome. Ma ha egli forse creduto che sopra tutti i poeti si dovesse la preferenza a Lucano? No certamente; poichè confessa egli medesimo che questo poeta ha de’ grandi difetti; che la Farsalia non è che un primo abbozzo di poema; che non vi si vede nè l’eleganza nè il colorito nè? l’armonia di Virgilio; [p. 102 modifica]VI. E’ .amc d«*i |»r«*gi che in ••ssa rasvua M. tfannouIcl. t che vi si scorge la fretta con cui fu scritta; che Lucano felice talvolta nella scelta dell espressione, altre volte accenna solo il suo pensiero con termini così confusi, che difficilmente se ne rileva il senso; che i versi sono tratto tratto armoniosi, ma per lo più duri e tronchi; che il colorito è tetro e unisono, e che l’arte maravigliosa del chiaroscuro a Lucano è affatto ignota; ch’egli entra in minutezze tali che snervando il racconto ne indeboliscon la forza; che dopo esser giunto ad esprimere il grande e il vero, trasportato dall impeto ei passa oltre, e cade spesso in quella gonfiezza di cui viene ripreso; che il poema manca di unione e di tessitura; che l’azione n’è dispersa, sconnessi gli avvenimenti, isolate tutte le scene; e ch’egli finalmente ha seguito il filo della storia, ed ha rinunciato quasi interamente alla gloria dell’invenzione. Tutti questi difetti riconosce sinceramente M. Marmontel in Lucano; e io non so se alcuno de’ più dichiarati nimici di questo poeta ne abbia fatta una critica più severa e più giusta. VI. E nondimeno M. Marmontel trova sì gran pregi in Lucano , ch’egli reputa ben impiegata la sua fatica in tradurlo. Sembra difficile che a tanti difetti possano essere ancor congiunti pregi sì grandi. E quai son eglino questi pregi? Versi di una bellezza sublime. Ma se essi sono per lo più duri e tronchi, come egli ha confessato, questa sublime bellezza si vedrà ben di raro. Pitture, la cui forza non è indebolita che da minutezze che si cancellano con un tratto di penna; cioè pitture [p. 103 modifica]che saia» belle, quando sian fatte diversamente; perciocchè se, oltre le puerili minutezze , il colorito ancora è tetro e unisono, come M. Marmontel ne conviene, e non ha punto della grazia del chiaroscuro, egli è evidente che a render belle e lodevoli cotai pitture, converrà ritoccarle di tal maniera che appena sembrin più desse. Passi drammatici di rara eloquenza, quando se ne tolgano alcuni luoghi di declamazione; che è quanto dire, quando a un’eloquenza importuna e puerile una se ne sostituisca virile e soda. Caratteri disegnati con ardire uguale a quello d’Omero e di Cornelio , pensieri di una profondità e di una elevatezza marnai gl iosa, un fondo di filosofia a cui non si trova l’uguale in alcun altro degli antichi poemi; ma caratteri e pensieri e sentimenti ne’ quali, come sopra ha detto m. Marmontel, Lucano dopo esser giunto ad esprimere il vero e il grande, cade in quella vota gonfiezza che tanto in lui ne dispiace; ed espressi più volte con termini così confusi che appena se ne rileva il senso, coni’ egli stesso concede. Il merito di aver fatto parlare degnamente Pompeo, Cesare, Bruto, Catone, i consoli di Roma e la figlia degli Scipioni. Ma se queste parlate hanno i difetti che nel poema di Lucano riconosce M. Marmontel, non sembra che egli abbia fatto parlare i detti personaggi con quella dignità che loro si conveniva. In una parola, conchiude, il più grande de’ politici avvenimenti rappresentato da un giovane con una maestà che impone, e con un coraggio che confonde. Altri forse direbbe: con una gonfiezza [p. 104 modifica]che annoia, e con una presunzion che ributta. E certo all’esaminare i.gran cambiamenti che questo traduttor valoroso ha pensato di dover fare e nelle narrazioni e nelle orazioni e in quasi tutti i passi di Lucano, raccogliesi chiaramente ch’egli stesso ha conosciuto (ed uomo come egli è di ottimo gusto e di finissimo discernimento in poesia non poteva a meno di non conoscerlo) che questo poema, perchè potesse piacere, dovea esser corretto e mutato in gran parte. Ed io penso che ciò non ostante non vorrebbe M. Marmontel esser creduto autore, anzichè traduttore di un tal poema. VII. Anche M. de Voltaire parla di Lucano in maniera che gli apologisti di questo poeta potranno per avventura esserne a primo aspetto contenti. Egli confessa (Essai sur le poeme epique) che Lucano non ha alcuna delle belle descrizioni che trovansi in Omero, che non ha V arte di raccontare, e di non andare tropp’oltre, la quale è propria di Virgilio; che non ne ha nè l’eleganza ne I’ armonia; ma aggiugne che vi ha ancor nella Farsalia bellezze tali che non veggonsi nè nell’Iliade nè nell’Eneide. E quali sono esse? Nel mezzo delle sue ampollose declamazioni vi sono di que’ pensieri sublimi e arditi, e di quelle massime politiche di cui è pieno il Cornelio. Alcune delle sue parlate hanno la maestà di quelle di Livio e la forza di Tacito: ei dipinge come. Sallustio. Io credo che lo stesso M. de Voltaire siasi avveduto che tal confronto era troppo onorevole a Lucano, e troppo ingiurioso a’ tre [p. 105 modifica]nominati autori; perchè egli soggiugne cosa che interamente distrugge le lodi finora date a questo poeta. In una parola, egli è grande, ovunque non vuole esser poeta. Or egli è certo che Lucano sempre ha voluto esser poeta; e perciò, secondo il sentimento di M. de Voltaire, dovrassi dire ch’egli non è mai grande. E veramente io pregherei volentieri M. de Voltaire ad additarci quali siano le parlate presso Lucano, e quali le descrizioni che a quelle de’ tre scrittori mentovati si posson paragonare. E in ciò singolarmente che è descrizione, come mai la precisione e la forza di Sallustio può venire a confronto colla vota e slombata prolissità di Lucano? VIII. Nè voglio io già negare che Lucano fosse poeta di grande ingegno; che anzi ne’ , difetti che noi veggiamo in lui, non cade se non chi abbia ingegno vivace e fervida fantasia. Ma oltrechè egli era in età giovanile troppo e immatura per ordire e condurre felicemente un poema, avvenne a lui prima che ad ogni altro (in ciò che è poema epico) quella che avvenir suole a’ poeti che hanno, non so se dica, la sorte, o la sventura, di venir dietro a quelli che han condotta a perfezione la poesia; e ciò appunto che era avv enuto ancora agli oratori dopo la morte di Cicerone, come nel precedente volume si è dimostrato. Virgilio avea composto un poema epico il più perfetto che fra’ Latini si fosse ancora veduto. Lucano dalla vivacità dell’ingegno e dal brio della gioventù si sente spronato a intraprendere egli pure un poema, e si lusinga di lasciarsi [p. 106 modifica]addietro l’Eneide. Ma come farlo? A me par di vedere un giovane ed inesperto scultore che ha innanzi gli occhi una statua greca di bellezza mai avigliosa , e stoltamente si confida di farne un’altra che possa vincerla al paragone. Ma il modello che gli sta innanzi, ha una proporzione di membra , una forza di espressione, una grazia di atteggiamento che non si può andare più oltre. Che fa egli dunque? Ricorre allo sforzato ed al gigantesco. Eccovi un colosso che ha tutte le membra stragrandi, ma senza quella esatta proporzione tra loro, senza cui non può esser bellezza; atteggiamento energico, ma contro natura*, espression viva, ma violenta e forzata. L’uom rozzo che tanto più ammira le cose, quanto più esse gli empiono gli occhi, lo contempla con maraviglia; ma l’uom colto appena lo degna di un guardo, e passa. Tale appunto mi sembra la Farsalia in paragon coll’Eneide. Presso Virgilio i caratteri, le descrizioni, le parlate, i racconti, tutto è secondo natura: in Lucano tutto è gigantesco; ma in Virgilio la natura è espressa con tutta la grazia, la forza, la leggiadria, di cui essa è adorna; in Lucano quasi ogni cosa è mostruosa e sformata; non sa parlare, se non declama; non sa descrivere, se non esagera; detto perciò ottimamente da Quintiliano poeta ardente e impetuoso (l. 10, c. i),- ma che non sa contenersi, e va ovunque l’impeto il porta. Quintiliano aggiugne eli’ egli è da annoverarsi tra gli oratori anziché tra p eti; ma forse meglio avrebbe detto tra’ declamatori. La lode che lo stesso autor gli concede, di grande nd [p. 107 modifica]pentimenti, non gli si può certo negare; ma (questi sentimenti medesimi sono per lo più guasti da uno stile ampolloso. Di Lucano in somma si può dire con più ragione ancora ciò che di Ovidio si disse , che sarebbe stato miglior poeta di assai, se avesse voluto frenare il suo ingegno anzichè secondarlo; e aggiugneremo ancora, se avesse cercato d’imitare anzichè di superare l’Eneide. IX. Io non vo’ qui trattenermi a esaminare partitamente le cose inverisimili di cui per voglia di grandeggiare ha riempito Lucano il suo poema; nè rilevare alcuni errori che secondo Giuseppe Scaligero egli ha commessi nella geografia e nell’astronomia. Veggasi di ciò la prefazione che alla magnifica sua edizion di Lucano fatta in Leyden l’anno 174° l,a premessa il Burmanno, il qual pare che nella prefazione medesima e nelle note abbia usato ogni sforzo per farci intendere che un tal poema non era degno di quella magnificenza con cui egli f ha pubblicato. Nemmeno parlerò io qui dell1 edizioni e delle versioni diverse che ne abbiamo (. seguendo il piano abbracciato nel precedente volume. Aggiugnerò solamente che con Lucano vuole essere rammentata Polla Argentaria di lui moglie; perciocchè, se vogliam credere a Sidonio Apollinare (l. 2, ep. 10 ad Hesperium), ella fu donna valorosa in poetare, e al suo marito nel comporre il poema recò aiuto. Di lei certo parlano con molta lode Marziale (l. 7. epigr. 21, 23; l. 10, epigr. 64) e Stazio (l. 2. sil. 7). Alcuni hanno scritto ch’ella, morto Lucano. fosse presa a moglie da Stazio: ma IX Polla Argentana d» lui moglie e poete»>a. [p. 108 modifica]X. Valigia «ìi Volerti» Fiacri» eri ri suo poema.

Gian Cristiano Wolfio ha mostrato non esservi argomento valevole a provarlo (Catal. Faemin. Illustr.). X. A Lucano succedono ora tre altri poeti epici di questa età, Valerio Flacco, Stazio e Silio Italico. Intorno a C. Valerio Flacco vi è contesa tra’ que’ di Sezze, che il voglion lor cittadino, appoggiati al cognome di Setino che a lui vedesi attribuito, e i Padovani che il voglion loro, fondati sull1 autorità di Marziale che speranza e alunno della città di s.Interiore lo appella (l. 1, epigr. 77). Noi lasceremo, secondo il nostro costume, eh1 essi contendali tra loro, rimettendo chi sia vago di saperne più oltre alla prefazione premessa da Pietro Burmanno alla magnifica edizione eli1 egli ci ha data di questo poeta l’an 1724 in Leyden, ove riferisce ed esamina le ragioni che dà amendue le parti si arrecano. Assai poche son le notizie che di lui ci son pervenute. Sembra ch’ei fosse povero, poichè Marziale nell1 accennato epigramma lo esorta a lasciar da parie l1 inutile poesia, e a volgersi al foro troppo più vantaggioso. Quintiliano ne parla in modo che pare che molta stima ne avesse, o, a meglio dire, molta espettazione, dicendo: molto abbiam di fresco perduto in Valerio Fiacco (l. 1 o, c. 1); colle quali parole sembra accennare che se fosse più lungamente vissuto , sarebbe ei pur divenuto valoroso poeta; e insieme ce ne addita a un dipresso il tempo della morte cioè l1 impero di Domiziano, in cui Quintiliano scriveva. Di lui abbiamo un poema intorno alla celebre spedizione degli Argonauti; ma non [p. 109 modifica]intero, o perchè il poeta non potesse condurlo a fine, o perchè ne sia perita l’estrema parte; al qual difetto cercò di supplire Giambattista Pio bolognese compiendo il libro ottavo, e aggiugnendone due altri. In questo poema prese Valerio Flacco a imitare in parte , e in parte a trasportare dal greco in latino il poema che sull’argomento medesimo avea già scritto Apollonio da Rodi. Se volessimo seguire il parere di Gasparo Bartio, dovremmo avere Valerio Flacco in conto di uno de’ migliori poeti di tutta l’antichità; sì grandi sono le lodi ch’egli ne dice (Adversar. l. 1, c. 17,- /. 18, c. 15; l. 26, c. 3, ec.). Ma questo autore, quanto si mostra diligente ricercatore de’ tempi e de’ costumi antichi, altrettanto poco felice giudice si dà a vedere comunemente del merito degli antichi scrittori. E certo a chiunque dalla lettura di Virgilio passa a quella di Valerio Flacco , sembra di passare da un colto e ameno giardino a uno sterile ed arenoso deserto. Nè io penso che questo poeta debba aver luogo tra quelli che per volersi spinger troppo oltre abusarono del loro ingegno, come Lucano, ma sì tra quelli che a dispetto della natura vollero esser poeti; e a me par di vedere in Valerio Flacco un uccello che avendo tarpate le ali è costretto ad andarsene terra terra; e se talvolta osa levarsi in alto, non può reggersi sulle penne e cade. E forse nel sopraccitato epigramma che Marziale gli scrisse, non solo volle distoglierlo dal poetare come da mestiere di poco frutto, ma ancora come da arte a cui [p. 110 modifica]dalla natura non era fatto. Il che pare ch’egli intendesse singolarmente con quelle parole: Quid tibi cum Cyrrha? quid cum Permessidos unda? XI. Più felice disposizione alla poesia avea dalla natura sortito Publio Papinio Stazio napoletano di patria. Egli ebbe a padre un valoroso poeta, di cui niun cosa ci è rimasta; ma che era tale, se dobbiam crederne al figlio, il qual ne pianse co’ suoi versi la morte (l. 5, sil. 3), che poteva per avventura andar del pari con Omero e con Virgilio: Fors et magniloquo non posthabuisset Homero, Tenderet et torvo pietas aequare Maroni. Egli è però verisimile che il figliale affetto esagerasse alquanto le paterne lodi. Egli certo cel rappresenta come uomo in tutte le scienze versato , ed elegante scrittore in prosa non men che in verso: Omnia namque animo complexus , et omnibus auctor, Qua tàndi v;s lata patet, sive orsa libebat Aoniis vinci re modis , seu voce soluta Spargere, et affraeno nimbos aequare profatu. E quindi aggiugne che più volte ei riportò la corona ne’ poetici combattimenti che ogni quinto anno celebravansi in Napoli; perciocchè di lui parlando alla sua patria , così dice: Ille tuis toties praestrinxit tempora sertis , Cum stata laudato caneret quinquennia versu. Di questi combattimenti dovrem trattare più a lungo, quando ragioneremo della letteratura delle altre provincie d’Italia. Per ora basti il [p. 111 modifica]riflettere che non poteva il padre di Stazio non essere elegante poeta, se in sì solenne cimento più volte agli altri tutti fu preferito. Anzi non in Napoli solamente, ma in Grecia ancora in somiglianti contese ottenne l’onore della corona: Sit pronum vicisse domi. Quid Achaea mereri Proemia nunc ramis Phoebi, none germini; Lernue , A uno A tliamantaea proteetum tempora pinu? Da questo medesimo epicedio noi ricaviamo che il padre di Stazio tenne in Napoli pubblica scuola, e fu tra quelli che si dicean gramatici, de’ quali nel precedente volume si è ragionato; e che per la fama a cui era salito, da ogni luogo si accorreva ad udirlo. Aggiugne che i Romani ancora da lui furono ammaestrati; ma non dice se essi da Roma venissero ad ascoltarlo, o se egli trasportatosi a Roma vi aprisse scuola. Accenna per ultimo alcuni poetici componimenti da lui scritti, ed uno tra gli altri sull’incendio del Vesuvio , a cui accingevasi, quando morì. XII. Il figlio di un tal padre doveva naturalmente aver egli pure inclinazione a’ poetici studj. Ed ebbela in fatti Stazio, e dotato di vivace ingegno fece in età ancor giovanile concepire di sè non ordinarie speranze. Mentre era ancor vivo il padre, fu egli pure coronato ne’ poetici combattimenti in Napoli, e questa fu la sola corona che lui presente ei riportasse: Heu mihi quod tantum patrias ego vertice frondes, Solaque Chalcidicae cerealia dona coronae, Te sub teste tuli. - Ibid. [p. 112 modifica]Poscia tre volte un somigliante onore egli ebbe ne’ giuochi che presso Alba facevansi, e perciò detti erano Albani, de’ quali abbiam parlato più sopra. Di questo suo vanto ci fa menzione in una delle sue Selve indirizzata a Claudia sua moglie: Ter me vidisti Albana ferentem Dona , comes, sanctoque indutum Caesaris auro , Visceribus complexa tuis, sertisque dedisti Oscula anhela meis. L. 3, sii. 5. Ne1 giuochi ancora che per istituzion di Nerone, rinnovata poscia da Domiziano, celebravansi in Roma ogni quinto anno, giunse egli co’ suoi versi ad ottener la corona e l’onore insieme di assidersi alla mensa del medesimo Domiziano; di che egli rendendo grazie all’imperadore, così dice: Saepe coronatis iteres quinquennia lustris , Qua mihi felices epulas, mensaeque dedisti Sacra tuae. Talis longo post tempore venll J.ux inihi, Troianis qualis sub collibus Albae , Cum modo Germanas acies , modo Daca sonantem Praelia Palladio tua me manus induit auro. L. 4> 2. Ma il piacere che da questi onori ei traeva, vennegli amareggiato assai dal rossore che una Volta ebbe a soffrire di vedersi vinto ne’ giuochi romani. Arrigo Dodwello, che colla consueta sua erudizione ed esattezza ha esaminato l’epoche principali della Vita di Stazio (in Annalibus Statianis), conghiettura che ciò avvenisse l’anno dell’era cristiana xc ch’era il decimo dell’impero di Domiziano. Egli accenna [p. 113 modifica]questa sua sventura ne’ versi sopraccitati a Claudia sua moglie, ove a que’ che abbiam già recati, soggiugne questi: Tu cum Capitolia nostrae inficiata lyrae , saevum ingratumque dolebas Mecum victa Jovem. E nel già mentovato epicedio di suo padre dichiara che parte della sua Tebaide era quella che in tal occasione aveva ei recitata: Nam quod me mixta quercus non pressit oliva, Et fugit speratus honos, cum dulce, parentis Invida Tarpeji, caneret te nostra magistro Thebais, ec. Il P. Petavio (De Doctr. Temp. l. 2, c. 21) in tutt’altro senso vuole che spiegare si debbano questi ultimi versi di Stazio, e impugna lo Scaligero che avea recata la spiegazione da noi pure adottata; ma parmi che solo sforzatamente si possano essi rivolgere ad altro senso. Questa Tebaide nondimeno udivasi comunemente in Roma con sì grande piacere, che allor quando Stazio invitava i Romani ad udirne parte, vi si accorreva in gran folla. Così ci assicura Giovenale che ancor viveva (sat. 7, v. 82, ec.): Curri tur ad vocem jucundam , et carmen amicae Thebaidos, laetam fecit cum Statius urbem , Promisitque diem: tantaque libidine vulgi Audi tur. Ma soggiugne insieme che, poichè colla bellezza de’ suoi versi avea riempiuto di clamori Tiraboschi. Voi. II. 8 [p. 114 modifica]c di applausi il luogo in cui recitava, il povero Stazio si ritrovava affamato, e se volea pur vivere, gli conveniva comporre qualche nuova azion teatrale, e venderla a un celebre attore chiamato Paride: tanto era allor mancato ne’ grandi di Roma il nobile impegno di fomentare colla loro munificenza le scienze e le arti: Sed cum fregit subsellia versu , Esurit, intactam Paridi nisi vendat! Agaven. Alla stima di cui godeva in Roma Stazio, anche per la singolare sua facilità in verseggiare all’improvviso , come raccogliesi dalle lettere da lui premesse a’ cinque libri delle sue Selve, si attribuisce non senza probabile fondamento f invidia onde pare che a riguardo di lui ardesse Marziale; poichè questi nominando ne’ suoi versi alcuni amici di Stazio, di lui non ha mai fatto motto. Morì egli secondo il Dodwello l’anno di Cristo xcvi in età di soli trentacinque anni, essendo nato, come conghiettura il medesimo autore, l’anno LXI. XIII. Di lui abbiamo cinque libri di Selve ossia di varj componimenti in varie occasioni, e alcuni di essi improvvisamente da lui composti; la Tebaide, poema epico; e i primi tre libri di un altro poema intitolato Achilleide, ch’ei non potè condurre a fine. Intorno a questo poeta ancora varj e discordi sono i giudizj dei dotti. Veggansi le due opere altre volte citate del Pope-Blount (Censura Celebr. A urlar.) e del Baillet (Jug. des Sav.), e vedrassi con quanta stima di lui favellino Giulio Cesare Scaligero, Giusto Lipsio, Ugone Grozio, ed altri. [p. 115 modifica]Il P. Rapili al contrario lo dice (Réfl, sur la Poet. par. II, § j5) stravagante nelle sue idee non meno che nelle sue espressioni; e aggiugne eli’ egli cerca la grandezza più nelle parole che nelle cose; e che ne’ due poemi da lui composti tutto è fuori di proporzione , e senza regola alcuna; al qual sentimento è conforme ancora quello del P. le Bissu (Du Poème Epique l. 2, c. 7). E io certo a questo secondo parere mi appiglio più volentieri che al primo. Stazio era poeta di grande ingegno e di uguale felicità; ma ebbe egli ancora il vizio, direi quasi, del) secolo di voler grandeggiare. Di lui disse il sopraccitato Scaligero (Poem. l. 6) che sarebbe stato più vicino a Virgilio, se non avesse voluto essergli vicino di troppo: etiam propinquior futurus, si tam prope esse noluisset: (parole che ridicolamente sono state così tradotte dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 270, éd. ilAmst 17 2:1): sarebbe stato più vicino a Virgilio, se non avesse temuto d’incomodarlo troppo); ma meglio forse avrebbe detto lo Scaligero, che Stazio sarebbe stato più vicino a Virgilio, se non avesse voluto vincerlo e superarlo. In fatti, benchè ei si protesti umile adorator dell’Eneide, e indegno di starle a paro, vedesi nondimeno eli’ ei si lusinga di andarle innanzi; e perciò giganteggia egli pure , e di ogni piccola arena forma, per così dire, un altissimo monte. Affetto, soavità, dolcezza son pregi a lui ignoti; tutto è stragrande presso di lui e mostruoso, oltre il difetto di aver seguito il metodo di narratore anzichè di poeta. L’incomparabil traduzione [p. 116 modifica]clic della Tebaide ci ha data il card. Bentivoglio sotto il nome di Selvaggio Porpora , ci ha renduto questo poema più dilettevole a leggersi, perchè coll’eleganza e colla chiarezza dell’espressione italiana ha corretto il tronfio e P oscuro della latina; ma ciò non ostante leggendola a me par di vedere un disegno cattivo colorito da mano maestra. Le Selve da lui composte più presto, e perciò più secondo natura, sono a parer di tutti le migliori poesie di Stazio; e alcune singolarmente, se fossero state da lui composte al tempo d’Augusto , quando la lingua latina non ancora avea cominciato a perdere la sua chiara e semplice eleganza, come nella Dissertazion preliminare si è veduto, meriterebbon a Stazio il luogo tra’ più eccellenti poeti. Riflettasi per ultimo che il grande applauso che riscuoteva in Roma colla sua Tebaide , ci fa conoscere chiaramente che il gusto era allora universalmente corrotto nella maniera che nella citata Dissertazione si è dimostrato. Certamente a’ tempi di Virgilio e di Orazio egli non sarebbe stato sì universalmente applaudito. XIV. L’ultimo de’ poeti epici di questa età è Silio Italico, a.cui da alcuni dassi il prenome di Publio, da altri, e più comunemente, quello di Caio. Gli Spagnuoli ugualmente e gl’Italiani il voglion loro, amendue fondati sul soprannome d’Italico, perchè e in Ispagna e in Italia vi avea una città detta Italica. Niccolò Antonio nondimeno (Bibl Hisp. Vet. l. 1, c. 18), benchè naturalmente inclinato ad accrescer la gloria de’ suoi, confessa esser probabile che [p. 117 modifica]Silio fosse spagnuolo, ma non potersi ciò affermare con certezza. Ma, come osserva l’erudito Cellario (Diss. de C. Sil. Ital!, ante Silii, ed. Traject. 1717), se da alcuna delle due città dette Italica avesse Silio preso il cognome, pare che italicensis e non italicus avrebbe dovuto appellarsi. Innoltre a provare ch’ei non fosse spagnuolo , non è leggero argomento il silenzio di Marziale, che frequentemente parlando o di Silio, o con Silio, non mai il chiama suo nazionale. Checchè ne sia, egli è certo che Silio visse per lo più in Italia, che vi avea poderi e ville, che fu console in Roma, e questo perciò ne dee bastare perchè nella Storia della Letteratura Italiana egli abbia luogo. Delle notizie che di lui abbiamo, noi siam debitori a Plinio il Giovane, il quale avendone udita la morte, ne scrisse una lettera a Caninio Rufo (l. 3, ep. 7). Da essa noi raccogliamo singolarmente ch’egli era stato console l’anno stesso in cui Nerone morì; ch’era stato con molta sua gloria proconsole in Asia; che amicissimo era degli studj d’ogni maniera; e che in eruditi discorsi godeva di passare le intere giornate insiem cogli amici che da ogni parte venivano a visitarlo; che molte ville ei possedeva , e tutte fornite di libri, di statue, di pitture; che grande venerazione egli avea per Virgilio, il cui dì natalizio con più pompa soleva ancor celebrare che il suo proprio, e che a guisa di un tempio ne visitava in Napoli il sepolcro; e che finalmente giunto all’età di settantacinque anni compiti, travagliato da insanabile malattia, lasciossi spontaneamente morir [p. 118 modifica]di filine in una sua villa presso Napoli ne’ primi anni dell’impero di Traiano, ossia, come Giovanni Masson dimostra (Vita Plin. Jun. n 11), non prima dell’anno xcix. Di lui, come già si è detto, parla sovente anche Marziale (l. 4i epigr. 14; l. 7, epigr. 63; l. 7, epigr. 66), dai cui versi ricavasi che di Cicerone ancora era Silio grande veneratore; e che a tal fine avea comprato un podere stato già di quel famoso oratore; e che avea egli pure trattate le cause nel foro. Ma intorno alla vita di Silio veggasi singolarmente P accennala dissertazione di Cristoforo Cellario.

XV. Di lui abbiamo il poema sulla seconda Guerra Cartaginese; poema che , benchè non sia a mio parere peggiore di quei di Lucano e di Stazio, pur non ha avuta la sorte di trovar alcuno di que’ magnifici lodatori che agli altri non son mancati. Nè è difficile P arrecarne la ragion vera. Gli altri due hanno difetti tali che son coperti sotto un’ingannevole apparenza di maestà, di grandezza e di entusiasmo; difetti perciò, che ad uomini di non troppo fino discernimento sembran! virtù: Silio al contrario, uomo di grande studio, ma di mediocre ingegno , ci ha lasciato un poema in cui non vedesi alcuno di tai difetti; ma solo una languidezza spossata, e un continuo ma impotente sforzo a levarsi in alto. Quindi io penso che niuno meglio di Plinio ci abbia espresso il carattere vero di Silio , dicendo che egli scribebat carmina maiore cura quam ingenio (ep. cit). Noi abbiam dunque in Silio l’idea di uno che, non essendo fatto dalla natura per [p. 119 modifica]esser poeta, a dispetto nondimeno della natura vuol poetare, e si lusinga di poter giungere collo studio e coll’arte ove non può coll’ingegno. Quindi, oltrechè lo stile in lui ancora si vede, come negli altri scrittori di questa età, aver già alquanto d’incolto, e privo della facile eleganza di Virgilio , e degli altri più eccellenti poeti, nulla in lui si scorge di grande, d’immaginoso, di patetico; ma ogni cosa è mediocre; e ove si vede arte e studio, vedesi al medesimo tempo difficoltà e stento; difetto che sempre è stato, e sarà sempre propio di di tutti quelli che pensano che ad esser poeta basti il volerlo.

XVI. Da’ poeti epici passiamo omai agli altri; e per uscir presto da un intralciato spinaio , diamo il primo luogo a Petronio Arbitro di cui abbiamo una cotal Satira Menippea. cioè 1 scritta in prosa mista a quando a quando con versi di varj metri. Non vi è forse autore su cui tanto siasi scritto, singolarmente da’ Francesi e da’ Tedeschi. Ma benchè tanto siasi scritto, sappiam noi ancora di certo chi fossequesto scrittore?. a qual età ei vivesse? chi prendesse di mira co’ nomi finti ed allegorici nella sua Satira usati? Fu egli romano, ovvero di Marsilia? È egli quel desso di cui parla Tacito, o è un altro? I frammenti nello scorso secolo ritrovati son eglino veramente dell’autor medesimo della Satira , o son supposti? Ecco quante quistioni ci si fanno innanzi intorno a Petronio, esaminate da molti dotti scrittori, eppure non ancora decise, per tal maniera che molti non si rimangano tuttor dubbiosi n qual [p. 120 modifica]partilo appigliarsi. Ma prima di entrare in alcuna di tai quistioni, mi sia lecito il proporne un’altra. È egli oggetto di sì grande importanza il sapere ciò che appartiene all autor di quest’opera? Un componimento di cui, per quanto sembra, appena una piccola parte ci è pervenuta, e questa ancor così tronca e malconcia, che spesso si trova rotto a mezzo il racconto, e invano si cerca in molti luoghi di coglierne il sentimento; un componimento scritto (io non temerò dirlo, sicuro di aver seguace della mia opinione chiunque ha gusto di buona latinità), scritto, dico, in uno stile che benchè da alcuni si dica terso e grazioso, e il sia veramente talvolta, certo è nondimeno che ossia per difetto dell’autore, o per trascuraggine de’ copisti, è spesso oscuro, barbaro ed intralciato, e pieno di parole e di espressioni che nè sono conformi allo stile de’ buoni autori, nè, per quanto vi abbian sudato intorno i laboriosi comentatori, si possono acconciamente spiegare; un componimento in cui comunque abbiano alcuni preteso di scoprire i personaggi sotto nomi finti da Petronio adombrati , ci è forza nondimeno di confessare che non si sa, nè s’intende per alcun modo che cosa abbia egli mai preteso in particolare di rappresentarci; un componimento per ultimo, che non è quasi altro che un immondo quadro di bassezze, di sozzure, d’oscenità, meritava egli che tanti uomini dotti vi si adoperasser!attorno cotanto studiosamente? Io credo certo che se l’opera di Petronio, quale ci è giunta, avesse trattato di un argomento [p. 121 modifica]modesto e serio, ella sarebbe stata affatto dimenticata. Ma certe dipinture piacciono ad alcuni per ciò solo che sono laide ed oscene. Ciò che in questo vi ha di più leggiadro, si è che il celebre Pietro Burmanno, il quale ha giudicato d’impiegar bene le sue fatiche in darci la più splendida edizion di Petronio, che ancor si fosse veduta, si scaglia con malignee, dirò ancora , immodeste invettive contro gli antichi monaci, i quali, egli dice, per soddisfare alla furiosa loro libidine si occuparono di estrarre i più sozzi passi del libro di Petronio, che sono appunto, soggiugne egli, i frammenti di questo scrittore a noi pervenuti. Ma poscia non molto dopo egli chiama Petronio uomo santissimo, zelantissimo deli onestà degli antichi Romani, e che a spiegare il libertinaggio de’ suoi tempi usa di espressioni allegoriche ed onestissime. Or se Petronio è uno scrittor sì pudico, perchè rimproverare a’ monaci l’averne moltiplicati gli esemplari l E se il Burmanno forma un sì reo giudizio di questi, perchè si occuparono in copiare Petronio, che dovrà dirsi di lui che con una splendida edizione e con ampj comenti lo ha messo in sì gran luce?

XVII. Io penso dunque che non sia pregio dell’opera il disputar tanto su questo argomento. Nondimeno perchè il passar oltre, senza trattenermi punto su di esso, potrebbe parere ingiurioso disprezzo delle fatiche di tanti valentuomini che ne hanno scritto, accennerò in breve ciò che appartiene alle quistioni di sopra accennate. Esse dipendono in gran parte [p. 122 modifica]chi un passo di Tacito. Questi parla di un C. Petronio (l. 16 Ann. c. 18, ec.) di cui forma il carattere come d’uomo dato interamente a’ piaceri 7 ma di una maniera più fina e più dilicata che la più parte de’ Romani a quel tempo: Illi dies per somnum, non officiis et oblectamentis vitae transigebatur. Utque alios industria, ita hunc ignavia ad famam protulerat; habebaturque non ganeo et profligator , ut. plerique sua haurientium, sed erudito lu.ru. l)i lui prosiegue a dire, che fatto proconsole della Bitinia, e poscia console, mostrò vigore e abilità neir amministrazion degli affari che gittatosi poscia di nuovo a’ vizj e all’imitazione de’ costumi della corte, fu da Nerone ricevuto tra’ pochi suoi famigliari., e fatto soprintendente a’ piaceri, poichè Nerone ni una cosa riputava dilettevole e dolce , se non l avesse approvala Petronio. Questo è il carattere che di Petronio ci ha lasciato Tacito, a cui veggasi quanto sia conforme quello che a suo talento ne ha formato l’altre volte mentovato ab. Longchamps (Tabl. hist des gens de lettr. t. 1, p. 75), il quale fondato su questo’ stesso passo di Tacito ci rappresenta Petronio come uomo che sapesse unire lo studio a’ piaceri, e che in questi non oltrepassasse mai i confini della grazia e della delicatezza. Il favore di cui godeva Petronio presso Nerone, risvegliò l’invidia di Tigellino. come siegue a narrare Tacito, da cui fu accusato come complice di congiura. Petronio, avutane contezza, prese la risoluzione frequente allor tra’ Romani di uccidersi} e segossi le vene, ma per modo che fermando [p. 123 modifica]di tanto in tanto il sangue, ed affettando fermezza d’animo inalterabile, dava ordini a’ suoi servi, passeggiava, dormiva, prolungandosi a suo piacere la vita, cui poteva ad ogni momento dir fine. Anzi in quell’estremo, conchiude Tacito, ei descrisse i delitti dell’imperadore co’ nomi de’ giovani e delle donne infami, e colle nuove maniere et oscenità introdotte, e sigillato lo scritto mandollo a Nerone. Questo passo di Tacito ha fatto credere ad alcuni che il Petronio di cui qui si ragiona, sia l’autor della Satira di cui noi favelliamo; che questo fosse lo scritto ch’ei morendo compose e mandò all’imperadore; che sotto il nome di Trimalcione s’intenda Nerone, Seneca sotto quello del pedante Agamennone, e così altri cortigiani sotto altri nomi. Egli è però falso ciò che francamente asserisce M. de Voltaire (Des Mensong. Imprim. c. 2) che tale sia stata sempre e tal sia ancora l’opinione di tutti. Lo stesso Burmanno, e assai prima di lui il celebre Ottavio Ferrari (l. 1 Elect. c. 7) ed altri pensarono diversamente, e vollero che il Petronio autor della Satira vivesse a’ tempi di Claudio, e che questi venisse da lui adombrato e deriso sotto il nome di Trimalcione. E certo le cose che a questo si attribuiscono, assai meglio convengono a Claudio vecchio, imbecille , affettatore di erudizione, attorniato da schiavi, che non a Nerone giovane e di un carattere totalmente diverso. Innoltre come mai può credersi che un uomo vicino a morte, e già indebolito dalla perdita di qualche parte di sangue, potesse scrivere un sì lungo [p. 124 modifica]XVIII. A qual tempo vivesse. componimento , qual è questa Satira, e qual sarebbe assai più, se l’avessimo intera? Aggiungasi che il libro che, secondo Tacito, Petronio inviò a Nerone, spiegava i nomi dei complici dei suoi delitti; e nella Satira di cui parliamo, i nomi son tutti finti. Per queste ragioni che ampiamente si svolgono dal Burmanno, credesi da molti che il Petronio di Tacito sia diverso dall’autore di questa Satira, e che questi vivesse a’ tempi di Claudio (9). XVIII. Nè queste sono le sole sentenze intorno all’età di Petronio. Adriano Valesio pensa clf ei vivesse a’ tempi degli Antonini (Diss. de Coena Trimalc. ec.), e accenna insieme che Arrigo Valesio suo fratello stimava che questo autore fosse fiorito al tempo medesimo di Gallieno. Non molto diverso è il parere del Bourdelot (praef. ad Petron. ed. Paris. 1677) che fissa l’età di Petronio non molto innanzi a Costantino , certo assai dopo Severo: del qual sentimento è ancor Mai-ino Slatilio (Jpolog. (a) Mi spiace di non aver potuto vedere 1" opera dell’erudito sig. Ignarra Della Palestra Napoli tana, in cui, come accenna il sig. Pietro Napoli-Signorelli (Vicende della Coltura delle Due Sicilie, t. i,p. 190, ec.), ei conferma l’opinione che Petronio Arbitro fiorisse a’ tempi degli Antonini; e inbllre abbracciando 1"opinion del Burmanno, che finto sia il nome di questo scrittore per la vergogna eli’ ebbe il vero autore di un sì licenzioso scritto a farsi conoscere, e osservando alcune formole e idiotismi napoletani die vi sono sparsi per entro, ne congettura che, chiunque ne fosse l’autore, egli o avesse per patria Napoli, o vi fosse lungamente vissuto. [p. 125 modifica]prò fragm. Tragur.), di cui fra poco ragioneremo y e Giovanni le Clerc che con molte ragioni il comprova (lì ibi. chois. t. 14, p 351), e con uno stile pungente assai e satirico rigel la la contraria opinione del Burmanno, poichè tra questi due letterati fu per lungo tempo implacabile guerra, come dalle loro opere si raccoglie, nelle quali comunemente l’un contro l’altro si scaglia con ingiurie e motteggi troppo più che ad onesti e saggi scrittori non si convenga. Or tutti questi sostenitori di sì contrarj pareri hanno le lor ragioni a cui appoggiarsi, e a ciascheduno sembran) chiare e convincenti le sue, improbabili le altrui. A me non pare possibile l’accertar cosa alcuna, e solo osservo che il silenzio degli antichi autori, niun de’ quali prima del terzo secolo ha fatta menzion di quest’opera, e lo stile stesso di Petronio, rendono, a mio parere, più probabile l’opinion di coloro che ritardan di molto l’età di questo scrittore. Ciò non ostante io l’ ho posto tra gli scrittori di questa età, perchè tra essi comunemente egli suole aver luogo. XIX. Questionasi ancora di qual patria egli fosse , se romano o francese. I Maurini (Hi st. Litt. de la France, t. 1, §. 1 , p. 186) e il fedel lor seguace l’ab. Longchamps (loc. cit) con alcuni altri il vogliono fraucese y fondati sull’autorità di Sidonio Apollinare, il quale di lui parlando così dice, secondochè questo passo si legge da Enrico Valesio: Et te Massilensium per hortos Graii cespitis, Arbiter, colonum Hellespontiaco parem Priapo. Carm. 23. [p. 126 modifica]Francese parimenti il vuole lo Spon (Miscell. Erud. p. 208); ma sull’autorità di una lapide scoperta l’anno 1560 crede che ei fosse nativo di un villaggio della diocesi di Sisteron detto Petruis, latinamente Vicus Petronis. Io penso che l’una e l’altra sentenza non sia così facile a provarsi, come sembra a’ sostenitori di essa; e, non ostante l’autorità di Sidonio e la lapida dello Spon, molti vogliono che Petronio fosse romano. Romana certamente era la famiglia de’ Petronj; e se il nostro scrittore nacque nelle Gallie, ciò dovett’essere o a caso, o per alcuno de’ suoi maggiori colà trasportato (10). XX. Rimane a dir qualche cosa de’ frammenti di Petronio. L’opera di questo scrittore era tronca, imperfetta e ad ogni passo mancante. Marino Statilio trovò a Traw in Dalmazia sua patria un assai lungo frammento in cui tutta descrivesi la cena di Trimalcione, e alle preghiere di molti pubblicollo in Padova l’anno 1664, e nell’anno stesso fu ristampato in Parigi. Ed ecco levarsi subito un furioso contrasto sull’autenticità di tale (frammento. Adriano Valesio, Gian. Cristoforo Wagenseil, ed altri di minor nome gridarono all’impostura, o all’errore. Lo Statilio valorosamente sostenne (<7) Il oh. co. Giovio ricorda una lapida trovala presso Como, in cui si fa menzione di un Petronio, e vuol perciò che qualche diritto abbiano ancora i Comaschi ad annoverar tra loro questo scrittore (Gli Uomini 111. Comaschi, p. i"5). Qualunque sia questo diritto, esso sarà forse di ugual peso a quello che altre città posson recare in lor favore. [p. 127 modifica]la sua causa. Il manoscritto fu esaminato da molti eruditi e in Roma e in Francia, e fu riconosciuto per antico e sincero, e il Montfaucon che, coni’ egli stesso racconta (Bibl. Bibliothecar. t 2, p. 758), ne fece acquisto per la biblioteca del Re di Francia, afferma non potersi di ciò dubitare. In fatti l’opinion comune al presente è favorevole al parere dello Statilio. Io non so ove abbian trovato i Maurini (loc. cit. p. 199) (i quali per altro diligentemente assai hanno trattato di tutto ciò che a Petronio appartiene) che il ritrovatore di questo frammento fu M. Petit, il quale sotto il nome si ascose di Marino Satilio. Io trovo bensì nel Fabricio (Bibl. lat. t. 1 , p. 463) che l’apologia pubblicata da Marino Statilio da alcuni si crede pure di Stefano Gradi, da altri di Pietro Petit; il che pure si accenna dal Placcio (Bibl. Pseudonym. p. 57 \). Ma che il Petit e non lo Statilio ritrovasse il detto frammento, nè i due or mentovati autori, nè il Montfaucon (loc.ciL), nè M. Clement (Journ. des Sav. 1703, p. 534), nè il Burmanno (praef. in Petron.), nè alcun altro scrittore, ch’io sappia, non lo ha asserito. Le operette scritte contro e a favore di questo frammento sono state unite insieme e pubblicate nella sua edizione dal sopraccitato Burmanno. XXI. Non ugualmente felice fu la scoperta di Francesco Nodot. Questi credette, o mostrò di credere che un certo Dupin nella espugnazion di Belgrado l’anno 1688 avesse trovato un codice manoscritto intero e perfetto dell’opera di Petronio, ed avutolo nelle mani, col [p. 128 modifica]XXII. Notule Persio. consiglio di alcuni amici affrettossi a pubblicarlo; nè di ciò contento, il tradusse in francese e col testo latino a canto il die’ alle stampe l’anno 1694 colla data di Colonia, che fu poi seguita da altre edizioni. Ma questo nuovo codice fu poco favorevolmente accolto, e appena vi ebbe chi nol credesse supposto. M. Breugiere de Barante pubblicò, senza palesare il suo nome, alcune osservazioni contro di esso5 e il Nodot con molto calore scrisse in sua difesa. Ma egli non potè persuadere alcuno} e non vi ha al presente chi non pensi il ritrovamento del codice di Belgrado essere stato una pura finzione. Chi bramasse intorno a tutto ciò più esatte notizie, potrà vedere gli autori poc’anzi da noi citati, e inoltre la Biblioteca Francese dell’ab. Goujet (t. 6, p. 196), e le Memorie dell’ab. d’Artigny, che di ciò che accadde intorno a’ frammenti di M. Nodot, parla assai diligentemente (t. 1,. p. 346). A me pare di essermi su questo autor trattenuto più ancora che non facea di mestieri. XXII. Più brevemente avremo a favellare di Aulo Persio Flacco, perchè più certe son le notizie’ che di lui abbiamo. Una Vita di questo poeta leggesi tra f opere di Svetonio: da altri nondimeno ad altri si attribuisce; e Gian Giorgio Schelhornio ha pubblicata (Amoen. Liter. t. 10, p. 1103) un’erudita dissertazione di Gian-Jacopo Breitingero, il quale sostiene e con assai buone ragioni dimostra l’autore di questa vita essere un antico interprete di Persio , che da altri si dice Cornuto , da altri Probo. Il presidente Bouhier nelle note [p. 129 modifica]aggiunte alla citata dissertazione sospetta ch’ella possa essere di Acrone, a cui l’antico comento di Persio si attribuisce da alcuni. Cecchè sia di ciò, da essa noi ricaviamo ch’ei nacque in Volterra d’illustre famiglia; che visse congiunto in amicizia co’ più celebri uomini de’ suoi giorni; che Lucano singolarmente tanto lo ammirava, che udendone i versi appena potea contenersi dall’esclamar per applauso; che Seneca solamente negli ultimi anni da Persio fu conosciuto, ma che questi non ne era, come la più parte degli altri, troppo passionato ammiratore; che fu giovane di soavi costumi, di leggiadro aspetto, di verginale modestia, e fornito di tutte le più amabili doti; e che finalmente morì in età di soli treni’ anni. Ma in questa epoca, come hanno osservato i mentovati scrittori, e più lungamente il Ba^le (DicL ari. u Perse »), lo scrittor della Vita si contradice; perchè egli narra che Persio nacque a’ 4 di dicembre nel consolato di Fulvio Persico e di Lucio Vitellio, che fu l amio dell’era nostra volgare 34, e morì a’ novembre nel consolato di Rubrio ossia Publio Mario e di Asinio Gallo, che fu l’anno 62, e perciò alcuni giorni ancora mancavangli a compire il ventottesimo anno. Oltre alcuni altri componimenti che dallo scrittor della Vita son rammentati, esercitossi singolarmente nello scrivere satire, le quali sole ci son pervenute. Tutto ciò abbiamo dallo scrittore antico della Vita di Persio. Io so che altri danno altra patria a Persio, e il voglion nativo della Liguria; su che è a vedersi singolarmente una dissertazione Tiraboschi, Voi. IL 9 [p. 130 modifica]del P. Angelico Aprosio, stampata in Genova nel 1664, oltre le opere di Rafaello Soprani e del P. Oldoini intorno agli scrittori della Liguria. Ma una opinione che non sia sostenuta se non da coloro a’ quali è onorevole e vantaggioso il sostenerla, raro è che abbia in suo favore valevoli argomenti. Intorno ad altre particolarità della vita di Persio veggasi il citato articolo del Bayle, che ne ragiona, secondo suo costume, ingegnosamente non meno che lungamente. XXIII. L’amicizia de’ più dotti uomini di cui Persio godeva, e la stima in cui l’avea Lucano, ci fa conoscere agevolmente che Persio aveasi in conto di valoroso poeta. Quintiliano ancora ne parla con molta lode. Molto di vera gloria, dic’egli (l. 10, c. 1), si acquistò Persio, benchè con un libro solo. Marziale ancora ne parla come di poeta assai rinomato (l. 4, epigr. 29); e l’antico gramatico Valerio Probo racconta che appena le Satire di Persio si fecer pubbliche, furono ammirate e cercate a gara. Ma tra’ moderni pochi son quelli che lodin Persio, e i due Scaligeri singolarmente ne han detto il più gran male del mondo (V. Baillet Jug. des Sav. t. 3, p. 245). Par veramente che agli antichi dovrebbesi in ciò maggior fede che non a’ moderni. E cogli antichi di fatto si son congiunti, e gli han forse ancor superati nel lodar Persio, Isacco Casaubono, il quale afferma ch’ei può contendere il primo onor della satira non solo a Giovenale, ma anche ad Orazio, e tanto più eli’ ei mori in età assai giovanile (Prolegom. in Persiuin); [p. 131 modifica]e il P. Tarterou, clic nella prefazione premessa alla sua bella traduzione di Persio in prosa francese, benchè non lasci di riprenderne l’oscurità, lo dice nondimeno poeta colto, vivace, energico, e che in pochi motti dice assai. Più oltre ancora è andato M. le Noble, che traducendo Persio in versi francesi si è sforzato di mostrarlo superiore di molto a Orazio non che a Giovenale (V. Ouvres de M. le Noble, t. 14). Or in sì diversi giudicii a qual partito ci appiglierem noi? Persio è certamente oscuro , come confessano que’ medesimi che l’esaltano sopra Orazio. Vuolsi da alcuni che il facesse con arte per mordere occultamente Nerone senza incorrerne lo sdegno. Ma quanto poco è ciò che nelle Satire di Persio si può creder detto in biasimo di Nerone? In tutto il rimanente perchè è Persio ugualmente oscuro? Noi forse non intendiamo ora la forza delle parole e delle espressioni latine, come allor s’intendeva. Ma la lingua di Orazio e degli altri poeti che tanto più facilmente s’intendono, non era ella latina l Convien dunque confessarlo che Persio è viziosamente oscuro. E per qual ragione? Io non vorrei cader nel difetto di coloro che avendo sposato un sistema, ad esso voglion ridurre ogni cosa. Ma penso di non andar lungi dal vero affermando che Persio fu inferiore ad Orazio perchè volle esser migliore. È vero che, come il Casaubono ha mostrato (De persiana Horatii imitatione post comment. in Pers.), Persio ha studiato di imitarlo, ma nell’imitarlo si vede che egli si sforza di essere più preciso e più vibrato, e per ciò appunto [p. 132 modifica]divien troppo oscuro; difetto in cui Orazio si avvedeva di cader egli stesso talvolta: Brevis esse laboro: obscurus fio (De Arte Poet.): ma difetto in cui cadde assai più gravemente Persio. Egli è certo nondimeno che le Satire di Persio son ripiene di ottimi sentimenti, ed espressi sovente con molta forza; e a questo attribuir si dee la stima di cui egli godeva; stima a tanto maggior ragione dovutagli, quanto più nel riprendere i vizj de’ suoi tempi era Persio, se se ne traggono pochi versi, ritenuto e modesto nell’espressione; nel che egli è certo superiore e ad Orazio e a Giovenale. Forse ancora la sua oscurità giovò a Persio per essere più avidamente ricercato e letto; poichè veggiamo che il piacer che si trova nell indovinare fantasticando ciò che uno scrittor voglia dire, quando singolarmente si crede eh ei tocchi persone a noi conosciute, ci rende tanto più dilettevole la lettura di un libro, quanto più sono oscuri gli enigmi tra cui si avvolge, e quanto più ci lusinghiamo di aver talento a scoprirli. Pare che i Francesi abbiano in molta stima questo poeta, poichè oltre le due versioni sopraccitate, due ne sono uscite alla luce in prosa francese in quest’anno medesimo 1771 in cui io scrivo, una di M. Carron de Gibert, l’altra dell’ab. le Monnier. XXIV. A Persio vuolsi congiungere Decimo Giunio Giovenale più pel genere di poesia in cui esercitossi, che per l’età a cui visse. Alcuni l’han detto spagnuolo di nascita, ma senza alcun fondamento, come confessa il medesimo Niccolò Antonio (Bibl. hisp. Vet. l. 1, c. 18). [p. 133 modifica]E certo eli’ ei fu d’Aquino, da lui stesso riconosciuto per sua patria (sat. 3, v. 319). Un’antica Vita di Giovenale , che da alcuni si attribuisce a Svetonio, da altri a Probo, non bene intesa, e non ben confrontata co’ versi dello stesso poeta, ha dato occasione a parecchi errori. Ecco in breve ciò ch’ella contiene. Giovenale, o figlio o allievo (che non è ben sicuro) di un ricco liberto , fino alla metà di sua vita esercitossi in declamare per suo trattenimento piuttosto, che per desiderio di volgersi al foro. Quindi scritto avendo una breve e non infelice satira contro di Paride pantomimo e poeta di Claudio Nerone , coltivò in avvenire questo genere di poesia. E nondimeno per lungo tempo non si ardì a recitar cosa alcuna neppure a scelto numero di amici. Finalmente due o tre volte recitò le sue satire a numerosa assemblea con grande applauso, e ne’ componimenti allor fatti inserì ancora que’ primi versi. Era a quel tempo un comico assai accetto alla Corte; e Giovenale cadde in sospetto di aver voluto sotto figura adombrare i tempi presenti, e quindi col pretesto onorevole di militar dignità, benchè già ottogenario, fu dalla città allontanato, e inviato a comandare una coorte nell’estremità dell’Egitto, dove in pochissimo tempo di disagio e di tedio finì i suoi giorni. Fin qui f antica Vita di Giovenale. Sulla quale non ben fondati alcuni pensarono che il Paride da lui oltraggiato fosse quegli che visse sotto Nerone, e che da lui fu ucciso (Svet. in Ner. c.); altri che fosse colui che visse a’ tempi di Domiziano (Svet. in Domit. c. 3): e che. [p. 134 modifica]perciò da uno di questi due imperadori fosse Giovenale relegato in Egitto. E strana singolarmente è P opinione del Quadrio , il quale dopo aver narrato che Giovenale sino alla metà de’ suoi anni si tenne sul declamare, aggiugne (Stor. della Poes. t. 2, p. 542) che da Nerone fu rilegato per la satira da lui scritta contro di Paride (il che perciò dovette accadere al più tardi l’anno 68 in cui Nerone fu ucciso), essendo il poeta in età di circa 40 anni; che poscia fu richiamato a Roma, e vi visse fino al duodecimo anno di Adriano, il quale cadde nell’anno 128; secondo il qual computo converrebbe dire che Giovenale vivesse oltre a cent’anni. Claudio Salmasio (Comm. in Soliti. Poìj ìiist.), Giusto Lipsio (l. 4 Epist. Quaest. Ep. 20), e più diligentemente di tutti Enrico Dodwello (Ann. Quint. n. 37 , ec.) hanno con più esattezza esaminate le diverse epoche della vita di Giovenale, benchè in qualche cosa non siano interamente tra lor concordi. Io non farommi a ritessere tutti i loro ragionamenti; e mi basterà l’accennare alcune delle principali prove della loro opinione tratte dalla Vita medesima di Giovenale di sopra allegata. XXV. Giovenale non prese a scrivere satire che verso la metà di sua vita, cioè a 40 anni in circa di età; e nella prima di pochi versi ch’egli compose, prese di mira il pantomimo Paride che vivea al principio dell’impero di Domiziano, cioè l’anno 81 , poichè di questo Paride, e non dell’altro stato a’ tempi di Nerone, debbonsi intendere i versi di Giovenale, come dimostra il Dodwello, benché lo scrittor [p. 135 modifica]¿ella Vita il dica poeta di Nerone. Ma per lungo tempo , cioè per circa alil i \o anni, ei non fece pubblica alcuna delle sue Satire, poichè il medesimo scrittor della Vita racconta che quando egli recitolle pubblicamente, fu mandato in esilio, e che avea allora ottant’anni. Ciò dunque dovette accadere verso l’anno 120 che era il quarto di Adriano. Paride non era certo allor vivo) e in fatti lo scrittor della Vita non dice che Giovenale per aver motteggiato Paride fosse rilegato, come da’ posteriori scrittori si è comunemente pensato; ma perchè si credè che sotto la figura e il nome di Paride avesse adombrati i tempi allora correnti: quasi tempora figurate notasset Molti passi delle Satire di Giovenale ci rendono evidente questa opinione. Egli parla di Domiziano come d’imperadore stato ne’ tempi addietro; Cum jam semianimum laceraret Flavius orbem Ultimus, et calvo serviter Roma Neroni. sat. 4 -, v- 37. E al fine della satira stessa parlando del medesimo Domiziano: Sed periit, postquam cerdonibus esse timendus Coepit. ib. v. 155. Aggiungansi i tremuoti de’ quali egli fa menzione (sat. 6, v. 410), che sembrano que’ medesimi che nelle storie si leggono seguiti a’ tempi di Traiano. Ma sopratutto a dimostrare la verità di questa opinione è chiarissimo il passo ove Giovenale dice che sessant’anni eran già corsi dopo il consolato di Fouleio: [p. 136 modifica]XXVI. Paragone delle sue Salire «on quel le di Orn ¡m. Slupel linee, qui jam post terga reliquit Sciabili la annos Foutejo con su le natus. Sai. 13 , v. 16. Or Fonteio Capitone fu console l’anno 59, ed è perciò evidente che Giovenale scriveva l’anno 119, terzo dell’impero di Adriano. Che se nelle Satire medesime s’incontran cose assai prima avvenute, e che nondimeno si narran da Giovenale come presenti, quali sono la menzione ch’ei fa di Stazio, e dell’applauso con cui udivasi in Roma la Tebaide da lui composta, le amare invettive contro di Paride, ed altre somiglianti, vuolsi avvertire ciò che dallo stesso scrittor della Vita fu pure avvertito, che Giovenale quando rendette pubbliche le Satire da lui scritte, v’inserì que’ versi ancora che molti anni addietro egli avea composti a’ tempi di Domiziano. Così ogni cosa si spiega probabilmente, e all’anno 119, o 120 si fissa l’onorato esilio di Giovenale. In fatti nella satira xv, da lui composta in Egitto nel tempo della sua rilegazione, egli narra un fatto ivi accaduto di fresco , ei dice, essendo console Giunio: nuper Consule Junio gesta. Or Q. Giunio Rustico fu appunto consoleranno 119. La satira xvi, che è l’ultima, credesi comunemente che sia di altro autore. Checchè sia di ciò, poco tempo visse Giovenale in Egitto, poichè alla vecchiezza aggiugnendosi i disagi, come il più volte citato scrittor della Vita racconta, vi morì presto. XXVI. Fissate in tal maniera l’epoche principali della vita di Giovenale, cessar dee la maraviglia che fanno alcuni scrittori, del non [p. 137 modifica]vedere da Quintiliano fatto alcun cenno di questo poeta5 nè ci è più di mestieri d’immaginare o invidia, o altro qualunque motivo per cui ei ne tacesse. Quintiliano scriveva sotto il regno di Domiziano; nè poteva perciò favellare di Giovenale che solo regnando Adriano fece pubbliche le sue Satire. Tra’ moderni non è mancato chi antiponesse Giovenale non a Persio solamente, ma anche ad Orazio; e grandi ammiratori ne furono singolarmente Giulio Cesare Scaligero (Poet. l. 6, c. 6) e Giusto Lipsio (Epist Quaest. l. 2, ep. 9; l. 4? ep. 15), il sentimento de’ quali se debba aversi in gran pregio, in ciò che a valore poetico appartiene, lascio che ognuno giudichi per se stesso. Assai diversamente ne pensa il P. Rapin che preferisce di molto (Réflex, sur la Poet. par. 2, § 28) la grazia e la delicatezza d’Orazio alla impetuosa e rabbiosa declamazione di Giovenale. E molto prima di lui il Giraldi avea asserito (De Poetar. Hist. dial. 4) che non dovevasi leggere Giovenale, se non dopo aver formato lo stile su’ migliori autori. Par bensì verisimile che Giovenale si lusingasse di andar innanzi ad Orazio; e potè ancor persuaderlo a chi nelle satire non ricerca che versi armonici, parole sonanti, amare invettive. Ma chiunque pensa, come han pensato i più saggi scrittori, che la satira debba naturalmente e graziosamente deridere i vizi, e che ella richieda perciò un tal verseggiare, che a una apparente semplicità congiunga una tanto più pregevole quanto men ricercata eleganza, non temerà mai di anteporre Orazio a tutti gli altri antichi scrittori di satire. [p. 138 modifica]Una matrona ancora vuolsi per ultimo qui rara, mentare tra gli scrittori di satire , cioè Sulpizia moglie di Caleno, che più altre poesie ancora aveva composte; ma sola ci è rimasta la Satira da lei scritta contro Domiziano, allor quando egli cacciò di Roma i filosofi. Di lei e de’ suoi verbi parla con molta lode Marziale (l. 10, epigr. 35). , XXVII. A’ poeti epici e a’ satirici, de’ quali d> abbiain finora parlato, succeda ora l’unico che di questa età ci sia rimasto, scrittor d’epigrammi, M. Valerio Marziale. Questi a ragione si novera dagli Spagnuoli tra’ loro autori, perciocchè egli fu nativo di Bilbili, città ora distrutta della Spagna Tarragonese. Ma il soggiorno da lui fatto per trentacinque anni in Italia basta perchè a noi ancora sia lecito il riporlo tra’ nostri. Del soprannome di Cuoco, che da Lampridio gli viene dato (in Alex. Severo), veggansi le diverse opinioni degl’interpreti presso Niccolò Antonio (Bibl. Hisp. vet. l. 1, c. 13) , poichè non sembrami nè necessario nè utile il disputarne. Il P. Matteo Radero della Compagnia di Gesù, che dagli epigrammi medesimi di Marziale ne ha diligentemente raccolte le principali epoche della vita, osserva che in età di ventun anni ei venne a Roma , che per trentacinque anni vi soggiornò , e che, essendo nel cinquantesimo anno di sua vita , fece alla patria ritorno sul principio dell’impero di Traiano, e vi morì nel quarto o quinto anno del medesimo imperadore. Di queste epoche, quelle che appartengono agli anni di Marziale, sono certissime, [p. 139 modifica]perché appoggiate a’ suoi versi medesimi. Ma clf ei partisse di Roma, come il P. Radero afferma, sul cominciare del regno di Trajano, da altri si nega. Il Dodwello (Ann. Quint. n. 38) vuole che ciò avvenisse nel terzo consolato di questo imperadore, che corrisponde al terzo anno del suo impero. Giovanni Masson al contrario sostiene (Vit. Plinii Jun. ad an. Ch. C. n. 12) che Marziale, vivendo ancor Nerva, cioè l’anno 97, partisse di Roma. La diversità di (queste opinioni non è sì grande , che sia pregio dell’opera l’esaminare qual sia meglio fondata. E ancorchè volessimo entrarne ali’ csame, io penso che non sarebbe sì agevole a diffinire. Perciocchè come è certo che il libro xii degli Epigrammi fu da Marziale pubblicato tre anni dopo il suo ritorno alla patria, il che egli attesta nella prefazione ad esso premessa, così non è ugualmente certo che tutti gli Epigrammi nel libro medesimo contenuti fossero da lui scritti dopo il suo ritorno, e non è pure ugualmente certo che ne’ libri precedenti da lui pubblicati in Roma non sia stato poscia intruso qualche altro da lui composto, poichè n’era partito. In Roma egli ebbe applausi ed onori 5 ma non per modo che, quando ei ne partì, non si trovasse in povero stato; talchè Plinio il Giovane per amicizia e per gratitudine ad alcuni versi in sua lode composti il soccorse di denaro pel viaggio, come egli stesso racconta nella lettera che, udita la morte di Marziale, egli scrisse a Prisco (l 3, ep. ult.). [p. 140 modifica]XXVIII. In questa lettera Plinio parla con grandi encomj di questo poeta: Egli era, dice. uomo ingegnoso e sottile; e che nello scrivere molto avea di sale insieme e di fiele, e nulla men di candore. E certo che Marziale avesse dalla natura sortito talento non ordinario alla poesia, e che egli avesse un ingegno di quelle doti fornito, che Plinio in lui riconosce, niuno, io credo, vorrà negarlo. Ma è a cercare se bene o male egli usasse del suo ingegno. Qui ancora ognun giudica secondo il suo gusto; e non vi ha cosa più inutile, quanto il voler persuadere che non merita stima un autore a chi ne ha già formato favorevol giudicio. Io rifletterò solamente che nel secolo xvi, quando a comun parere regnava in Italia il buon gusto, poco conto facevasi di Marziale, a appena giudicavasi degno di venire a paragon con Catullo (11). È celebre f annual sagrilìzio che di (*) 11 giudizio da lue dato delle poesie di Marziale ha eccitato il sig. ab. Tommaso Serrano a prenderne vigorosamente la difesa. Si posson vedere le lettere da lui pubblicate in Ferrara nel 1776, la risposta alla prima di esse fatta dal eh. sig. cav. dementino A anueLli, 1" estratto che della seconda voluminosa lettera dell’ab. Serrano si è dato nel tomo Xll di questo Giornale di Modena, il quale estratto è lavoro dell’ab. Alessandro Znrzi, la cui troppo immatura morte sarà sempre di dolorosa memoria a chiunque ne ha conosciuto 11 raro indegno , le amabili maniere e la singolare onestà de’ costumi, lo non voglio gitlarc il tempo in grazia di Marziale. Ognun giudichi dello stile di esso, come gli sembra meglio, il giudizio ch’io ne ho dato, era ed è tuttora il mio; ma io non posso , nè debbo impedire che altri pensi diversamente. [p. 141 modifica]alcuni esemplari di questo poeta soleva fare a Vulcano in un giorno determinato il celebre Andrea Navagero (Jovius in ejus Elog.). E più generalmente il Giraldi afferma (De Poetar. Hist. dial. 10) che nè tutti nè molti degli Epigrammi di Marziale piacevano agli uomini dotti di quell’età; e che egli avrebbene scelti alcuni pochi degni, a suo parere, d’essere letti, eche itegli altri ne avrebbe fatto carta pe’ pizzicagnoli. Nel secolo scorso, quando l’amor dei concetti e delle sottigliezze era, per così dire, il carattere de’ begl’ingegni, Marziale aveasi in altissimo pregio, e guai a chi avesse fatto un epigramma, o un sonetto che non terminasse in una acutezza; egli era pure un freddo e trivial poeta. Al risorgere del buon gusto cadde di nuovo Marziale; e io penso che un poeta dei nostri giorni si vergognerebbe per avventura, se fosse sorpreso con questo autor fra le mani. Non vuolsi però negare che Marziale non abbia alcuni epigrammi di singolare bellezza, e senza alcuno di que’ raffinati concetti e di que’ giuochi freddissimi di parole che troppo spesso in lui s’incontrano, oltre le oscenità di cui egli spesso troppo imprudentemente ha riempiuti i suoi versi. Quindi intorno agli Epigrammi di Marziale niuno forse ha deciso meglio di Marziale medesimo con quel celebre verso: Sunt bona, sunt quaedam mediocri a, sunt mala plura. L. 1, epigr. 17. XXIX. Questi (lasciando stare per ora Seneca il Tragico, di cui fra poco insieme agli ¡ [p. 142 modifica]altri poeti drammatici ragioneremo, e il poemetto de Cultu Hortorum di Columella, che forma il x de’ suoi libri d1 Agricoltura, di cui parleremo nel capo V), questi furono i poeti dell’epoca di cui parliamo, le cui opere sono a noi pervenute. Altri assai più ve li’ ebbe al medesimo tempo, delle poesie de’ quali o nulla, o solo una menoma parte ancor ci rimane. Sarebbe cosa di troppo lunga, e, ciò die è peggio, troppo inutil fatica, il voler ragionare di tutti. Il Giraldi, il Vossio, il Quadrio ed altri ne han già tessuti ampj catalogi; e io comunemente altro non potrei fare che ripetere ciò eh’essi han detto; maniera assai usata al presente, ma non perciò lodevole, d’ingrossare i libri, Mi basterà dunque l’accennare alcuna cosa di quelli che sembrano essere stati in pregio maggiore. Poeta di gran nome dicesi da Dione (l. 57) C. Lutorio ib isco cavalier romano a’ tempi di Tiberio; e celebre chiamasi da lui e da Tacito (Ann. l. 3, c. •t>o) un componimento da lui fatto nella morte di Germanico; il qual però fu al suo autore troppo fatale; perciocchè, come narrano i medesimi storici, accusato, secondo il costume di que’ pessimi tempi, al senato di aver composto que’ versi in occasione della malattia di Druso, quasi sperandone la morte, per ordine del senato fu tratto in carcere ed ucciso. Celebre ancora fu a’ tempi di Tiberio e di Claudio non meno per gl’infami suoi vizj, che per la sua facilità in verseggiare, il gramatico Remmio Palemone vicentino. Di lui narra Svetonio (De Clar Gram, c. 23) che anche all’improvviso scriveva poemi; [p. 143 modifica]e che altre poesie ancora avea egli composte in diversi e difficili metri. Sembra però che questa facilità di poetare fosse l’unico pregio di Palemone, perciocchè Marziale il chiama poeta di piazza e di circolo: Scribat carmina circulis Palaemon; Me raris juvat auribus placere. L. 2, epigr. 86. Di Cesio Basso poeta lirico parla con lode Quintiliano (l. 10, c. 1), il quale dopo aver detto che Orazio è pressochè il solo tra’ latini lirici degno d’essere letto, soggiugne: che se alcun altro tu vuoi aggi ugnagli, e’ sarà Cesio Basso cui di fresco veduto abbiamo. A’ tempi di Quintiliano altri lirici dovean esservi di merito assai maggiore: perciocchè egli segue dicendo: ma di molto gli vanno innanzi que’ che ora vivono. Ma chi essi fossero, egli nol dice, nè noi possiamo conghietturarlo. Uomo di forte e poetico ingegno dallo stesso Quintiliano si dice Salcio Basso (ib.), benchè aggiunga che neppure in vecchiezza non fu abbastanza maturo. Dall’autor del Dialogo sul decadimento dell’eloquenza egli è appellato perfettissimo poeta (Dial. de Caus. corr.Eloq. n. 5 e 9), ma insieme poco felice, poichè ei narra che Basso dopo avere per un anno intero sudato a comporre un libro di poesie, era cosi rei io a pregare chi volesse compiacersi di udirle; e che anzi gli conveniva chiedere a pigione la casa, e farvi costruire il luogo onde recitarle, e prendere a prestanza le scranne, e dopo tanti disagi e tante spese esser pago di uno sterile applauso. [p. 144 modifica]Solo una volta l’imperador Vespasiano gli fe’ un dono di cinquecento mila sesterni ossia di circa dodici mila cinquecento scudi romani; il che, aggiugne lo stesso scrittore, fu a ragion celebrato come atto di maravigliosa e singolare liberalità. Se volessimo dar fede a Marziale, noi dovremmo dolerci assai della perdita che fatta abbiamo delle poesie di Arunzio Stella che oltre altri componimenti lodata avea co’ suoi versi la colomba della sua Violantilla; perciocchè Marziale dice (l. 1, epigr. 8) che i versi di Arunzio tanto eran migliori di que’ di Catullo, quanto più grande di un passero è un colombo. Ma di questi elogi noi faremo il conto medesimo che di quelli ch’egli e Stazio danno a Lucano, antiponendolo per poco a Virgilio. A’ tempi di Plinio il Giovane ebbevi un Passieno Paolo cavalier romano, uomo assai erudito, di cui egli dice che quasi per dritto di nascita si era dato a scrivere elegie (l. 6, ep. 15), perciocchè egli era della patria stessa e della stessa famiglia di cui Properzio. Molti altri poeti dallo stesso autore si rammentano con grandi enco’ mii, come Pompeo Saturnino, di cui dice che facea versi al par di Catullo e di Calvo (l. 2, ep. 16); Ottavio, cui egli caldamente esorta (l. 2, ep. 10) a pubblicare una volta i suoi versi; M. Arrio Antonino avolo materno dell’imperadore Antonino, di cui sommamente loda le greche non meno che le latine poesie (.l. 4) eP- de 18; l. 5, ep. 11); C. Fannio (l. 5, ep. 5), ed altri molti ch’io tralascio per non annoiare chi legge con una inutil serie di nomi. E basti l’aver favellato di questi [p. 145 modifica]per saggio eli tanti altri poeti di questa età, le cui poesie son perite, e intorno a’ quali si posson vedere i sopraccitati autori. XXX. Prima però d" inoltrarmi, mi sia lecito l’aggiugnere qualche cosa intorno a due altri poeti che dagli eruditi Maurini autori della Storia Letteraria di Francia (t. 1, p. 160), e quindi dall’altre volte citato ab. Longchamps (Tabl hist., ec. t 1, p. 56), si pongono tra i loro scrittori. Il primo è Giulio Montano I Maurini saggiamente riflettono che non vi è prova certa eh ei tósse fratello di Vozieno Montano narbonese oratore; e che la s tuiglianza del nome non è bastevole argomento ad asserirlo; ma che nondimeno essendo amendue vissuti al tempo medesimo e alla medesima corte di Tiberio, e che avendo amendue incorsa la disgrazia del medesimo imperadore, convien confessare che potevano essere fratelli. La prova non ha gran forza; nondimeno egli è certo che potevano esser fratelli, benchè non vi sia indicio bastevole a conghietturare che così fosse, e si possa perciò da noi sostenere che Giulio Montano non fu fratello di Vozieno, nè fu Gallo di nascita , finchè non se ne adduca un probabile argomento. Ma l’ab. Longchamps che non vuol conghietture o dubbj che lo ritardino, francamente asserisce che furon fratelli; e persuaso che niuno ardirà di contrastarglielo , passa oltre , e ci assicura eli’ egli disputava, la palma poetica a’ Virgilii della sua età. Converrà crederlo, poichè egli il dice; ma io non trovo tra gli antichi chi gli dia tal lode. I due versi di Ovidio in lode di Montano da lui addotti Tiraboschi. Voi II. 10 [p. 146 modifica]provano solo eli1 egli avea fama di buon poeta e ne’ versi elegiaci e negli eroici: Quique vel imp u’ibus numeris, Montane , vel aequis Sufficis, et gemino carmine nomen habes. L. 4 de Ponto , el. Ult Seneca il padre ossia il retore, continua lo stesso scrittore, non teme di pareggiarlo a’ più grandi poeti che i aveano preceduto. Sì certo: Seneca dice in fatti (Controv. 16): Montanus Julius qui comis fuit, qui que egre gius poeta. Ognun vede che la traduzione non può essere più fedele. Ma S.tieca il filosofo nol chiama che col nome di poeta tollerabile (ep. 122). E veramente i versi che lo stesso Seneca a questo luogo ne adduce, e che anche f ab. Longchamps ci mette innanzi, come degni di sì gran poeta, sono poi finalmente una descrizione del Sol nascente in quattro versi, a’ quali egli ne aggiugne di seguito, come se fossero dello stesso poeta, due altri che Seneca pone in bocca di Varo, sul Sol che tramonta. Finalmente aggiugne l’ab. Longchamps, che Giulio Montano morì anch’egli, come suo fratello Vozieno, vittima degl’ingiusti sospetti di Tiberio. Su qual fondamento lo afferma egli? Su quel medesimo di cui troppo spesso egli usa: la sua autorità. I Maurini confessano che nulla sappiamo della sua morte; e realmente altro di lui non troviamo, se non che l’amicizia di cui godea presso Tiberio , coll’andar del tempo si raffreddò (Sen. ep cit.); ma quando e come egli morisse, non si ritrova. L’altro poeta è Senzio Augurino; del cui poetico valore grandi cose ci narra in [p. 147 modifica]una sua lettera Plinio il Giovane (l. 4, ep. 27), e ne dà in saggio alcuni versi che quegli in lode di lui avea composti. I Maurini dicono che egli era figlio di Gneo Senzio, Gallo di nazione, che avea il soprannome d’illustre (l. 1, p. 253); e l ab. Longchamps, secondo suo costume , ne segue fedelmente il parere. Ma io temo che i detti autori siansi qui lasciati abbagliare alquanto dall’amor della patria. Essi a conferma del loro detto non recano che una nota al detto passo di Plinio, cioè quella, io credo, del Cattaneo che così ha appunto: Filium Cn. Sentii Galli viri illustris. Ma il Cattaneo, che visse al principio del xvi secolo, è egli autore alla cui semplice asserzione si debba fede? Pur gli si creda. Il dire Gneo Senzio Gallo, è egli lo stesso veramente che dire ch’ei fu Gallo di nascita? Già abbiam mostrato altrove che un tal nome non prova punto. Finalmente il dire che Gneo Senzio fu uomo illustre , è egli lo stesso che dire ch’egli ebbe il soprannome d’illustre? Ma usciam da queste contese, in cui io entro sempre malvolentieri, e sol quando il dovere di sincero storico mi costringe a rendere all’Italia un vanto ingiustamente rapitole. XXXI. Finalmente non vuolsi omettere il nome di un altro poeta , di cui nè troviamo memoria alcuna negli antichi scrittori, nè sappiamo che lasciasse dopo di sè alcun saggio del poetico suo valore, ma che nondimeno esser doveva eccellente , anzi tale ei si die’ a vedere nell’età ancor fresca di tredici anni. Ne dobbiam la notizia a un’antica iscrizione xxxt. Valerio P*diDte porla gioriuelto. [p. 148 modifica]XXXII. Gran numero di poeti che era allora in Roma. e ragione di ciò. che dopo il Grutero ed altri più correttamente è stata pubblicata dal Muratori, anzi per inavvertenza ripetuta due volte nel medesimo tomo (Nov. Thes. Inscr. t. 2, p. 653 e 10109). Eccola quale ancor si conserva in (Guasto città dell1 Abbruzzo, detta anticamente Histonium: L. VALERIO L. F. PVDF.NTI. UIC CVM F.SSET ANNORVM XIII. ROMAE CERTAMINE SACRO IOVIS CAPITOLINI LUSTRO SEXTO CLARI TATE INGENII CORONATUS EST INTER POETAS LATINOS OMNIBUS.SENTENTIIS SENTENTIISIVDICVAI HUIC PLEBS VNIVERSA MVNICIPIVM HISTONIENSIUM STATUAM AERE COLLATO DECREVIT CVRAT. REI. P. AESERNIOR. DATO AB i.MP. OPTI.MO ANTONINO AUG. PIO Dalla qual iscrizione noi raccogliamo che questo valoroso fanciullo ne’ letterarj combattimenti che narrammo di sopra essere stati istituiti da Nerone, e poscia rinnovati ila Domizianoessendo egli in età di soli tredici anni, fu a tutti gli altri poeti antiposto. Il lustro sesto cadde nell1 anno 10G sotto il regno di Traiano 5 poiché essi furono la prima volta fatti celebrare da Domiziano l’an 86, nel qual anno si numerò il primo lustro; e quindi rinnovandosi essi dopo quattro anni, nell1 anno 106 appunto viene a cadere il sesto lustro. La statua però non gli fu innalzata che a’ tempi di Antonino, quand1 egli era protettore della città d1 Isernia. XXXII. Da tutto ciò che intorno a’ poeti abbiam detto finora, egli è evidente che il secolo di cui parliamo, fu Certo inferiore di molto in ciò che è valore poetico al secolo d1 Augusto} [p. 149 modifica]ma non molto gli fu inferiore in ciò che è numero di poeti. Anzi alcuni degli scrittori di questa età ci parlano in tal maniera, che sembra non mai esservi stati tanti poeti, quanti a questa medesima. Giovenale scherza più volte sull insoffribile noia che era quella di dovere continuamente udir de’ versi; e, ciò che era peggio , pressochè tutti su’ medesimi triviali argomenti. Ninno , die’ egli (sai. 1, v. q), onosce vi glio la sua propria casa di quel ch’io conosca il bosco di Marte , e la spelonca de’ Ciclopi, e la forza de’ venti, e le ombre da Eaco tormentate. Così spesso udivasi egli ricantar queste fole da’ molesti poeti. E altrove (sat. 3, v. 9) tra gl’incomodi e i pericoli della città rammenta l’importunità de’ poeti che anche fra lo smanioso caldo d’agosto volevan pure costringere gli amici ad ascoltare i lor versi. Plinio il Giovane ancora ci descrive in una sua lettera il gran numero de’ poeti ch’era a’ suoi tempi in Roma; ma insieme si duole che il popolo cominciava ad annoiarsi di tanti versi. Gran copia di poeti, dic’egli (l.1, ep. 13), ci ha dato quest’anno. In tutto il mese et aprile appena vi è stato giorno in cui non siasi recitato da alcuno. Io ne godo , perchè si col(ivan gli studj, si esercitano e si producono gli ingegni; benchè, a dir vero, difficilmente raccolgansi ad udirli. I più si stanno sedendo a’ ridotti pubblici, e passano il tempo udendo novelle; e chieggon poscia se il recitante già sia entrato , se detta abbia! l’introduzione, se abbia già recitata gran parte del libro , e allor finalmente, benchè a lenti e stentati passi; [p. 150 modifica]ci vengono; nè però ci si fermano; ma innanzi al fine altri di nascosto e segretamente, altri apertamente e francamente sen vanno. Così Plinio si duole del poco conto in che aveansi allora i poeti; del che però io non so se i Romani se n’abbino ad incolpare, o i poeti medesimi; perciocchè, come dagli addotti passi di Giovenale si raccoglie, questi per la più parte eran tali, che chi ricusava di udirli , di lode poteva parer degno anzichè di biasimo. Ma o buoni, o cattivi fossero i poeti, la stagion loro era passata. Anche quelli tra essi che godevano di miglior fama, da’ loro versi invano avrebbono atteso di che campare. Già abbiam veduto che Stazio , benchè riscotesse gran plausi, era nondimeno costretto a comporre azioni teatrali, e a venderle agli attori, se volea trovar di che vivere. Dove è ora , esclama Giovenale (sat. 7, v. 94), un Mecenate, o un altro uom liberale inverso i poeti? A que’ tempi gli uomini avean premio uguale all’ingegno loro; ma ora essi si rimangon digiuni , e anche nelle più liete feste de’ Saturnali costretti sono a starsene senza vino. Ma come tanti poeti, se la poesia giacevasi così sprezzata? Già ne abbiam recata poc1 anzi la vera ragione. La liberalità di Augusto e di Mecenate verso i poeti avea persuaso i Romani che un de’ mezzi più sicuri a viver felice era il poetare. Quindi da ogni palmo di terra, per così dire, spicciavan poeti. Il non vedersi sulle prime ben ricevuti non bastava a scoraggiarli: si lusingavano che il loro merito sarebbe un giorno riconosciuto e premiato. Continuarono [p. 151 modifica]perciò a verseggiare e a sperare. Qualche ricompensa data talvolta ad alcuno mantenne viva per alcun tempo una sì dolce fiducia. Ma finalmente la sperienza di molti anni convinse i Romani che la poesia non era più, come una volta, sicura strada agli onori e alle ricchezze; e la poesia perciò fu quasi del tutto abbandonata , come a suo luogo vedremo. XXXIII. Rimane or solo che veggiamo in quale stato si fosse in Roma a quest1 epoca la poesia teatrale. Anche allor quando la romana letteratura era giunta nel secolo precedente alla sua perfezione, il teatro romano ciò non ostante era restato sempre assai inferiore al greco; e ne abbiamo a suo luogo esaminate le cagioni. Quindi molto meno era a sperarsi che esso si perfezionasse a questi tempi, in cui ogni altro genere di poesia andava decadendo miseramente. Se i compagni di Virgilio e di Orazio non eran giunti a comporre tragedie e commedie eccellenti, come poteva ciò aspettarsi dai compagni di Lucano e di Stazio? Le circostanze stesse de’ tempi non poco dovettero contribuire all’infelice stato del teatro romano. Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, imperadori sospettosi al par che crudeli, aveano in conto di capitale delitto qualunque parola si fosse dagli attori proferita che sembrasse occultamente ferirli; e il poeta poteva a ragion temerne la morte, come dalle cose nel primo Capo riferite si può raccogliere. Qual maraviglia dunque se i poeti fatti schiavi, per così dir, dal timore, e scrivendo con animo sollecito e pauroso, rimanessero sempre in quella [p. 152 modifica]mediocrità da cui non esce se non chi può liberamente secondare il suo talento ì XXXIV. Come nondimeno frequenti erano in Roma i teatrali spettacoli, furonvi ancora molti scrittori di commedie e di tragedie. Tra questi il solo che da Quintiliano si nomina con elogio (l. 10, c. 1) e che da lui si dice superiore d’assai a tutti gli altri da lui conosciuti, è Pomponio Secondo, di cui narra che i vecchi accusavanlo come non troppo tragico, ma. confessavano nondimeno che in erudizione e in eleganza superava tutti. Plinio il Vecchio, di cui era stato amicissimo, aveane in due libri scritta la Vita (Plin. jun. l. 3, ep. 5); e più volte si fa menzione di lui presso Tacito (l. 5 Ann. c. 8; l. 11, c. 13 , ec.) L’autor del Dialogo sul decadimento dell’eloquenza il dice uomo in gloria non inferiore ad alcuno (n. 13). E questa gloria dalle sue tragedie singolarmente gli fu acquistata. Plinio il Giovane di lui racconta (l. 7, ep. 17) che allor quando alcuno dei suoi amici esortar alo a far qualche cambiamento nelle sue tragedie, e che egli noi giudicava opportuno, soleva provocare al giudizio del popolo, e ritenere ciò che esso col suo applauso approvasse. Il march. Maffei vuole che ei fosse veronese di patria (Verona illustr. par. 2). A me non pare ch’egli ne rechi prova valevole ad affermarlo; ma non vi ha neppure ragion bastevole a negarlo. Veggansi le notizie che intorno a questo poeta egli ha diligentemente raccolte, e con lui si avverta che da questo Pomponio Secondo vuolsi distinguere un altro Pomponio bolognese scrittore di quelle favule [p. 153 modifica]che diceansi Atellane (a). Materno, uno degl’interlocutori del poc’anzi mentovato Dialogo , viene in esso detto valoroso scrittor di tragedie, e tre singolarmente ivi se ne rammentano intitolate Catone, Medea e Tieste (n. 2 e 3). Di un Virginio romano scrittor di commedie parla con grandissimi encomj Plinio il Giovane (l. 6, ep. 21), dicendo ch’esse potevan esser proposte per esemplare, ed aver luogo fra quelle di Plauto e di Terenzio; e che a lui non mancava nè forza, nè maestà, nè sottigliezza, nè sale, nè dolcezza, nè grazia. Elogio grande per vero dire; ma parmi che Plinio ne fosse liberale assai, singolarmente verso coloro a’ quali con sincera amicizia egli era congiunto. Lascio di parlare di altri men celebri, i cui nomi e i titoli delle azioni da essi composte si potranno vedere nelle spesso accennate opere del Giraldi, del Vossio e del Quadrio; e passo a quello che solo ci è rimasto tra gli scrittori tragici di questo tempo, cioè a Seneca. XXXV. Ed eccoci ad una delle più intralciate quislioni che in luti a la storia letteraria s’incontrino, anzi a più quistioni su un argomento solo, Chi è il Seneca autor di queste tragedie? Chiunque egli sia, è egli l’autor di tutte le tragedie che gli vengono attribuite? (a) Per la slessa ragione per cui il march. MafTei , credendo veronese Plinio secondo, crede ancor veronese Pomponio Secondo, il co. Ciovio che dà Con o per patria a Plinio, la dà ancora a Pomponio (Gli Uomini ILI. Comaschi, pag. 435). [p. 154 modifica]Ciiiunque finalmente ne sia l’autore , in qual pregio debbon esse aversi? Io mi spedirò brevemente, recando ciò che vi ha di più probabile su ciascheduna parte. E primieramente non è nemmeno a far parola di quelli che ammettono un solo Seneca autore di tutte l’opere che sotto tal nome ci sono rimaste. Non v’ha or chi non sappia che due di tal nome vi sono stati, padre e figlio, retore il primo, filosofo il secondo. Ma se ad alcuno di questi due, o ad un terzo Seneca appartengano queste tragedie, non è si agevole a diffinire. Gli antichi che talvolta ne han citata alcuna, pare che abbian voluto lasciarci nell’incertezza, poichè non mai ne nominan l’autore altrimenti che col semplice nome di Seneca. Del filosofo noi sappiamo che di versi ancor si compiacque, e Quintiliano fra gli altri nomina i poemi da lui composti (l. 10, c. 1). Ma che egli scrivesse tragedie, espressamente nol dice. Sidonio Apollinare distingue (Carm, 9) Seneca il filosofo da Seneca il tragico; con che sembra accennare che l’autor delle tragedie fosse o il retore, o un altro Seneca da amendue distinto. Quest’ultima opinione è stata da alcuni adottata, da’ quali si vuole che il Seneca autor delle tragedie sia diverso e dal retore e dal filosofo; benchè poi non convenga tra loro chi esso sia, ed altri il dicano figliuol del filosofo, altri nipote, altri un altro qualunque Seneca vissuto sotto Traiano. Ma niuno può addurre alcun probabile fondamento della sua opinione; e questo terzo Seneca, come fra gli altri lungamente dimostra il dotto Niccolò Antonio [p. 155 modifica](Bib. hisp. vet l. i , c. g), sembra finto a capriccio. Convien dunque ricorrere ad uno de’ due Seneca altronde noti. Ma a qual de’ due? Alcuni, per non mostrarsi favorevoli più all’uno che all’altro, dividono amichevolmente le tragedie tra amendue. Ma il sapersi che Seneca il filosofo fu amante di poesia, ha indotta la più parte de’ moderni scrittori ad attribuirgli con più certezza almeno alcune di queste tragedie. Il prenome di Lucio proprio del filosofo, con cui comunemente ne’ codici antichi si appella l’autor di esse, conferma alquanto questa opinione. Ma ci conviene confessar nondimeno che il silenzio e la precisione degli antichi scrittori non ci permette di abbracciarla se non con timore. XXXVI. Nulla meno difficile a diffinire è l’altra quistione, se quel qualunque Seneca che si voglia scrittor di tragedie, sia veramente autore di tutte quelle che vanno sotto tal nome. Il Quadrio (l. p. 46) e il conte. di S. Rafaele (Sec. d’Aug. p. 181) han troppo facilmente adottata l’opinion di coloro i quali pretendono che f Ottavia non possa essere opera del filosofo Seneca, perchè questi prima di essa fu ucciso. Egli è certo che Ottavia fu uccisa l’anno 62, e Seneca l’anno 65 (V. Tillemont Mém. des Emper. t. 1 , Ner. art. 15 e 20); e che questi perciò ebbe agio, se il volle, a comporre una tragedia su tale argomento. La diversità dello stile, che da alcuni in esso si osserva, è la principale anzi l’unica ragione a credere che non tutte sian opera dello stesso autore} e per ciò che appartiene all1 Ottavia, [p. 156 modifica]convengono tutti comunemente eli’ ella sia d’altra mano. Ma questo argomento tratto dalla diversità dello stile, ha esso quella forza che da alcuni gli si attribuisce? Non potrebbesi dire per avventura che alcune da Seneca furon composte, mentre se ne stava esule nella Corsica, e ch’esse per perciò si risentono della tristezza e dell’abbattimento in cui era il loro autore? Oltre di che, leggansi di grazia i pareri de’ diversi autori sulle diverse tragedie di Seneca raccolti dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 254) e dal Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 9), e vedrassi come essi sieno di gusto tra lor concordi. La Tebaide da Giusto Lipsio si antipone a tutte l’altre, per tal maniera ch’ei pensa che ella appartenga al secol d’Augusto. Giuseppe Scaligero e Daniele Einsio non la reputan degna neppur di Seneca. Al contrario l’Einsio loda altamente le Troadi, e non teme di antiporre questa tragedia a quella da Euripide scritta sull’argomento medesimo, e lo Scaligero ancora le dà il primo luogo tra le tragedie latine. Ma Giusto Lipsio con altri la voglion opera di un poeta da nulla. L’Ottavia ancora sembra allo Scaligero degna di Seneca; a Giusto Lipsio pare la più vil cosa del mondo. Così tutti lusingansi di aver palato a ben decider del gusto; ma appena è mai che il lor gusto sia conforme all’altrui. Quindi su questo punto ancor io penso che nulla si possa decidere francamente, e che ognun possa sentirne come meglio gli piace. Ciò che di certo si può solo affermare, si è clic f Ercole Furioso, il T’leste, 1 Ippolito, le Troadi, la [p. 157 modifica]Medea, YAgamemnone da alcuni antichi scrittori, singolarmente gramatici, sono citate sotto il nome di Seneca, come dimostra il mentovato fabricio. XXXVII. Più francamente ragionerò io sulla terza quistione, cioè sul merito delle tragedie di Seneca; poichè son certo di aver seguaci del mio parere tutti coloro che nella diligente lettura de’ tragici più famosi si sono esercitati, Io sto per dire che eresia letteraria non si è mai udita peggiore di quella che uscì dalla penna di Giulio Cesare Scaligero, quando affermò (Poet. l. 5, c. 6) che le Tragedie di Seneca non erano in maestà inferiori a quelle de’ Greci, e che anzi per ornamento e per grazia superavan quelle di’ Euripide. Ma per buona ventura ei non ha avuti molti seguaci del suo errore. E certo chi da Sofocle e da Euripide passa a legger Seneca, non può a meno di non conoscere quanto andasse lo Scaligero lontano dal vero. Naturalezza, verisimiglianza, uniformità di carattere, tenerezza di affetto, contrasto di passioni, intreccio di accidenti sono cose tutte, si può dire, a Seneca sconosciute. Sentenze e declamazioni, ecco il forte maraviglioso di questo scrittore. I suoi versi, come dice leggiadramente il p. Brumoy (Théâtre des Grecs t. 1, p. 344» e^- d!Amst. 1732), sono pieni d1 una cotale idropisia poetica che ributta. Egli è vero che ha spesso sentimenti grandi, ma il più delle volte essi son fuor di luogo. Le leggi poi che per universal consentimento fondato sulla natura medesima delle cose sono prescritte a somiglianti [p. 158 modifica]componimenti, pare che a Seneca fossero ap, pena note. Ma troppo oltre mi condurrebbe il farne un accurato esame, il quale anche per ciò sarebbe inutile, che già lo abbiamo nell’io, comparabile Teatro de’ Greci del mentovato P. Brumoy. Tutte le tragedie nelle quali Seneca ha preso f argomento da1 Greci, sono state da lui paragonate co’ loro originali j e basta leggere le giustissime riflessioni che su ciascheduna egli ha fatte, per conoscere se il dispregio in cui ora comunemente si hanno le tragedie di Seneca , sia ragionevole (13). Più cose intorno al parere di diversi scrittori sull autore delle tragedie medesime si potranno vedere negli scrittori che abbiam mentovati, e singolarmente nel P. Martin del Rio e in Niccolò Antonio. Noi frattanto dalla poesia che lungamente ancor questa volta ci ha trattenuti, ma in cui nelle seguenti epoche dovremo essere assai più brevi, passiamo a vedere in quale stato fossero in loma gli altri studi. (<7) Il sig. ab. Lampillas ha impiegate più di quindici pagine a difender le Tragedie di Seneca contro l’accusa ch’io qui ne ho fatta (Saggio Apolog par. 2, t. 1 p 29. 40. E il più leggiadro di questa difesa si è ch’ei molto in essa si vale dell’autorità del f*. Brumoy a cui pure io ho rimessi i miei lettori. Ognuno legga quest’eloquente apologia, e volentieri mi darà vinto, se parrà a’ più saggi eh’ 10 abbia errato.