Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro I/Capo I

Capo I - Idea generale dello stato civile e letterario dal principio di Tiberio fino alla morte di Adriano

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Capo I - Idea generale dello stato civile e letterario dal principio di Tiberio fino alla morte di Adriano
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Capo I.

Idea generale dello stato civile e letterario dal principio

di Tiberio fino alla morte di Adriano.



Principii dell'impero di Tiberio felici allo Stato e alla letteratura. I. Tiberio figlio di C. Claudio Tiberio Ne- rone e di Livia Drusilla che poscia fu moglie d’Augusto, e manto prima di Agrippina nipote del celebre Attico, da lui poscia ripudiata suo malgrado per voler di Augusto che volle dargli in moglie Giulia sua figlia, dopo la morte di Augusto, salì in vigore del testamento da lui fatto all1 impero Fanno di Roma 766, che corrisponde all1 anno 14 dell1 era cristiana, essendo in età di 55 anni. Non vi fu mai per avventura imperadore alcuno che nel principio del suo regno facesse concepire di se stesso maggiori speranze. L1 affettata sua ritrosia nell1 accettare il deferitogli impero, la modestia nel ricusare il nome di Signore, di Padre della patria, e di Imperadore ancora, che sofferiva sol di ricevere da’ soldati, la libertà conceduta al senato e a’ giudici di decidere le contese e di terminare i più rilevanti affari, tutte le sue maniere in somma spiranti amore de’ sudditi, compassione verso gli infelici, e odio del dispotismo, promettevano un principe che o pareggiasse, o fors1 anche superasse Augusto. Anche gli studi parve che rallegrar si dovessero dell’elevazion di Tiberio. Aveagli egli in sua [p. 59 modifica]gioventù coltivati attentamente, e nella greca ugualmente che nella latina favella erasi esercitato con molta lode (Svet. in Tib. c. 80). Nell’eloquenza avea preso a imitare singolarmente Valerio Corvino Messala orator celebre a’ tempi di Augusto, e già molti saggi aveane egli dato con non ordinario applauso innanzi ad Augusto medesimo e innanzi ai giudici (id c. 7) in varie cause da lui intraprese (2). Affettava grande esattezza nel non usar parola che non fosse latina 3 e celebre è il fatto che narra Dione (l. 57), cioè che avendo egli usata un giorno in un editto certa parola nuova , ricordatosene di notte tempo, chiamò a se tutti quelli che di lingua latina erano più intendenti, e ne chiese loro parere. Atteio Capitone, un di essi, disse che benchè niuno finallora f avesse usata, doveasi nondimeno in grazia di Tiberio riporre tra le parole latine; e rispondendo un Marcello che Tiberio poteva bensì agli uomini, ma non alle parole dare la cittadinanza, Tiberio non perciò mostrò di offendersene. Egli però secondando il gusto allora introdotto, usava di uno stile affettato e ricercato troppo, e perciò oscuro non poche volte (Svet. in Tib. c. 70), di che anche da Augusto fu talvolta deriso (idem in Aug. c. 86); (a) Avea Tiberio avuto per suo maesU’O , come narra Snida, un Sofista per nome Teodoro da Gadara , il quale ebbe poscia nella sua arte a rivali Polentone ed Ariti patio , e un figlio di cui setto Adriano tir fatto senatore. Ei fu autore di molte opere che si annoverauo dallo stesso scrittore. [p. 60 modifica]se pure non era una delle arti dell’astuto Tiberio a dissimulare i veri suoj sentimenti. Certo pareva ch’egli meglio ragionasse, quando non avea tempo a disporvisi, che quando vi premetteva apparecchio. Ma sopra ogni cosa lo studio della mitologia gli era caro fino a stancare con continue e minute interrogazioni i grammatici per risaperne le più piccole circostanze (id. in Tib. c. 70). Una lirica poesia da lui fatta in morte di Lucio Cesare rammentasi da Svetonio (l. c.), e alcuni poemi greci ancora da lui composti (3). In fatti in questa lingua ancora egli esprimevasi elegantemente e facilmente, benchè in senato per decoro del latino impero se ne astenesse (Svet. c. 71). Nel lungo soggiorno ch’ei fece in Rodi, vivendo Augusto, godeva di frequentare le scuole de’ filosofi, di cui quell’isola era piena, e di trattenersi disputando con loro (id. c. 11). Tutto ciò poteva destare una ragionevole speranza che il regno di Tiberio, come alla repubblica tutta, così alle lettere ancora riuscir dovesse felice e glorioso. II Ma sì liete speranze svaniron presto; e Roma si avvide di avere in Tiberio un principe formato dalla natura all’impero, e da’ suoi vizj condotto alla tirannia, sospettoso e (<7) L’imperadrice Eudosia , altrove da noi citata, ricorda alcuni epigrammi di Tiberio, e un’Arte Retiopica da lui scritta, come sembra, in greco (Viiloison /Inerd. Orare, t. i , p. 270). Di quest’opera di Tiberio niun altro antico scrittore ci ha lasciata menzione. [p. 61 modifica]diffidente all’estremo, fingitore finissimo dei falsi, e dissimulatore accorto de’ veri suoi sentimenti, crudele contro chiunque gli cadesse in sospetto, e contro i più stretti parenti, abbandonato a’ più infami piaceri, al cui libero sfogo ritirossi per gli ultimi dieci anni del suo regno da Roma, e li passò per lo più nella solitaria isola di Capri, fatta dal suo soggiorno infame. Non si posson leggere senza orrore le vergognose disonestà e le crudeli esecuzioni di cui furono allora testimonj i Romani. Ciò che è più strano, si è che questi caduti nel più misero avvilimento presero a secondare vilmente quelle passioni medesime che rivolgeansi a loro danno e sterminio. Quel popolo stesso che per l’addietro avea mostrato sì grande orrore per un giusto dominio non che per una illegittima oppressione, or pareva che di ogni arte usasse per rendere sempre più crudele il nuovo sovrano e più gravi le sue proprie catene. Era Tiberio crudele e sanguinoso, e una folla di maligni e perfidi delatori ne attizzava continuamente lo sdegno. Le nimicizie private si coprivano sotto l’apparenza di delitti di Stato; e presso il sospettoso Tiberio essere accusato era il medesimo che esser reo. Niuno potea tenersi sicuro sulla sua innocenza, o sull’amore degli amici e de’ più stretti parenti. Videsi perfino un padre, cioè Q. Vibio Sereno, costretto a difendersi contro il proprio suo figlio che a Tiberio accusollo di fellonia (Tac. Ann. l. 4, c. 28). In tale stato di cose è facile a immaginare qual fosse il dolore de’ buoni, quale il terrore di tutta la città, anzi di tutto l’impero. [p. 62 modifica]Le false massime della stoica filosofia a questa occasione presero piede sempre maggiore; e l’esempio di Catone ebbe a questo secolo molti seguaci; che dolce cosa poteva certamente riuscire, e credeva si ancor onesta e gloriosa, l’uscir con volontaria morte da tanti guai. III. La letteratura e la scienza non furono un bastevole scudo contro la crudeltà di Tiberio..Molti funesti esempj avremo a vederne quando prenderemo a parlare degli scrittori di questo tempo; e qui basterà l’arrecarne qualche piccolo saggio. Un cotal Zenone filosofo che innanzi a Tiberio si tratteneva parlando in greco di filosofiche quistioni con uno stil ricercato e studiato, richiesto da Tiberio di qual dialetto usasse egli, risposegli che del dorico; e questo bastò perchè l’imperadore il rilegasse in una deserta isoletta, credendo che rinfacciar gli volesse il suo lungo soggiorno in Rodi, ove un tal dialetto si usava (Svet. c. 56). Soleva egli cenando proporre a’ Greci eruditi, di cui dilettavasi, alcune quistioni tratte da’ libri che in quel dì avea letti. Giuntogli all1 orecchie che Seleuco gramatico soleva, per esser pronto a rispondere, chiedere a’ cortigiani qual libro avesse egli avuto tra le mani quel giorno, allontanollo da se, e poscia ancora sforzollo a darsi la morte (ib.). Elio Saturnino, perchè alcuni versi avea sparsi contro di lui, fu da lui stesso accusato al senato, e poscia per suo ordine precipitato dal Campidoglio (Dio. l. 57). Un altro poeta , perchè in una tragedia avea posti alcuni versi contro di [p. 63 modifica]Agamennone, sotto il cui nome pensò Tiberio di essere preso di mira; altri scrittori ancora perchè di alcune espressioni aveano usato che Tiberio credette ingiuriose a se stesso, furon tratti in carcere, tolto loro ogni mezzo a studiare, e vietato perfino il favellare insieme; condotti poscia in giudizio, altri si ferirono per se medesimi , altri in mezzo al senato beverono il veleno; e nondimeno così coni’ erano forili e spiranti ricondotti furono in carcere, perchè ivi finisser la vita, e poscia furon gittati per ignominia dalle scale Gemonie (Svet. c. 61). Parve perfino talvolta che l’essere eccellente in qualche arte fosse presso Tiberio delitto degno di morte. Così narra Dione (l. 57) che un architetto avendo con maraviglioso artifizio raddrizzato e rassodato un ampio portico che già incurvatosi minacciava rovina, Tiberio n’ebbe maraviglia insieme ed invidia, e perciò pagatolo di sua fatica il cacciò da Roma. Questi ardì di bel nuovo di venirgli innanzi, e sperando di mostrargli un’opera di tale industria che gli rendesse benevole l’imperadore, gittata a terra una tazza di vetro, e infrantala, ne ricompose subito e ne riunì sodamente i pezzi; ma invece di calmare con ciò lo sdegno dell’invidioso Tiberio, acceselo maggiormente, ed in premio di sua industria ebbe la morte. Su questo fatto ragioneremo più a lungo, ove tratteremo del fiorire dell’arti nel presente secolo; qui basti averlo accennato ad intendere a qual segno di crudeltà arrivasse Tiberio. IV. A Tiberio morto l’anno di Cristo 37 , dopo 23 anni d’impero , succedette Caio ,, [p. 64 modifica]soprannomato Caligola , creduto da molti reo di avere affrettata al moribondo imperadore la morte. Avea egli avuto per padre il celebre Germanico nipote di Tiberio, e per madre Agrippina figliuola di Agrippa e di Giulia figlia di Augusto. Giovine di a5 anni, educato fin dalla fanciullezza tra l’armi, e salito a stima di valoroso guerriero, addestratosi ad esempio di Tiberio a nascondere accortamente i suoi vizj, e a dissimulare i suoi sentimenti, salì al trono fra gli applausi di tutto l’impero, e parve dal ciel mandato a ristorare i danni del regno di Tiberio colui che dovea, superandolo in crudeltà e in laidezze, renderlo desiderabile. E il primo anno fu tale, che confermò le speranze che se n’erano concepite. Onorata la memoria di quelli che da Tiberio erano stati crudelmente uccisi, liberati coloro che da Tiberio eran già stati dannati a morte, ricusati gli onori soliti rendersi a’ Cesari, cacciati in esilio gli uomini infami per le loro disonestà, Caligola era rimirato come ristorator della patria e dell’impero, talchè caduto egli malato nell’ottavo mese del suo regno, tale fu il commovimento del popolo e per dolore nel suo pericolo, e per l’allegrezza nella sua guarigione, che pochi esempj se ne han nelle storie. Ma ben presto mutò costume, of a dir meglio, scoprì finalmente quell’animo atroce, sanguinoso, e crudele che avea finallora dissimulato. Non si può legger senza orrore la prima brutal sentenza da lui fatta eseguire contro il giovinetto Tiberio Nerone, nipote dell’imperadore Tiberio per mezzo di Druso di lui figliuolo, fui [p. 65 modifica]eondannò a uccidersi da se medesimo; poichè il giovane infelice dopo aver dolentemente pregato alcun degli astanti ad ucciderlo, ricusandolo essi, si vide costretto a chieder loro in grazia, che almeno per pietà gli additassero ove potesse ferirsi per avere più presta morte; di che istruito si die’ il fatal colpo (Philo de Legat. ad Cajum). D’allora in poi non tenne misura alcuna. Rei e innocenti, patrizj e plebei senza sorta alcuna di processo barbaramente uccisi; e adoperati perciò i più crudeli e più lunghi tormenti per compiacersi più lungamente delle loro sofferenze; giacchè pareva che il più dolce spettacolo per Caligola fosse l’udire le lamentevoli grida, e veder gli smaniosi»contorcimenti di coloro eli’ erano tormentati. Abbandonato alle più brutali disonestà, voleva nondimeno essere adorato qual dio , e in tutti i tempj, e perfino in quello di Gerosolima, voleva che gli fossero innalzate statue ed altari; degno al certo di tali onori al pari del suo cavallo cui pazzamente meditava di far suo collega nel consolato. E frattanto la maestà del senato romano ordinava annui sacrifizj alla clemenza di questo dio, e co’ nomi di veracissimo e di piissimo onorava questo orrido mostro (Dio. l. 59).

V. Sotto un tale impero qual doveva esser lo stato della romana letteratura? Aveva egli veramente, lasciato ogni altro studio da parte, coltivata assai l’eloquenza, per cui sortito avea dalla natura e copiosa facondia e memoria felice e voce alta e canora (Svet. in Calig. c. 23). Nemico di una ricercata eleganza, e solito Tuuboschi, Voi. II. 5 [p. 66 modifica]perciò a deridere l’eloquenza di Seneca, che allora era in gran pregio, amava un dir rapido e veemente; e talvolta all’improvviso ancora rispondeva alle altrui orazioni che ad accusare, o a difendere qualche reo recitavansi da altri in senato (Svet. ib. Joseph. Antiq. Jud. l. 19? c- 2)« Anzi un trattato di eloquenza scritto latinamente da Caligola rammenta Snida ». Al principio del suo impero per conciliarsi l’amor de’ sudditi coll’annullare gli ordini di Tiberio, avea permesso che si leggessero e si pubblicassero di nuovo i libri di Tito Labieno, di Cremuzio Cordo, e di Cassio Severo, che quegli avea dannati alle fiamme. Ma ciò non ostante il regno di Caligola non fu men funesto alle lettere che quel di Tiberio; e l’eloquenza di cui egli vantavasi, per poco non fu fatale a Domizio Afro orator celebre a quel tempo, di cui vedremo a suo luogo che perciò solo che pareva più di lui eloquente, sarebbe stato ucciso, se non avesse egli avuto ricorso al mezzo eli’ era il solo efficace, di una vilissima adulazione. Un altro oratore detto per nome Carinna Secondo fu da lui mandato in esilio, solo perchè una declamazione avea per suo esercizio recitata contro la tirannia. Contro i professori delle altre scienze in cui non era egli istruito, molto più mostrossi crudele. Poco mancò che dalle biblioteche, in cui a onorevol memoria erano state locate, non togliesse le statue di Virgilio e di Livio, dicendo scioccamente che quegli era stato uomo di niuno ingegno e di assai leggera dottrina, e che questi era una storico verboso e negligente, Pensò ancora di sopprimere [p. 67 modifica]interamente le poesie d’Omero, per folle vanto d’imitare Platone che nell’imaginaria sua repubblica aveane proibita la lettura Svet. c. 34) Vantavasi ancora di voler toglier totalmente di mezzo la scienza de’ giureconsulti e tutti i loro libri, dicendo che avrebbe fatto in modo che altro parere non si potesse seguire fuorchè il suo (ib.). Queste nondimeno non furono che pazzie meditate. Un certo Apelle che da Dione dicesi il più valente tra gli attori di tragedia che allora fosse (l. 19), e carissimo a Caligola, interrogato da lui, mentre stava innanzi a una statua di Giove, chi di lor due gli paresse migliore, perchè si rimaneva dubbioso qual risposta avesse a fargli, fu crudelmente fatto flagellare; e mentre l’infelice dolentemente implorava pietà e perdono, il barbaro compiacendosene lodava la dolcezza e soavità di quella flebile voce (Svet c. 33). Più infelice fu un poeta scrittore di quelle favole che dicevansi Atellane; perciocchè per un sol verso che poteva aver senso ambiguo, e credersi forse indirizzato contro di lui, per ordine di Caligola fu in mezzo all’anfiteatro arso vivo Svet. c. 27). Io non parlo qui delle letterarie sfide di eloquenza da lui istituite in Lione, perciocchè esse non appartengono al mio argomento, ma sì alla storia letteraria delle Gallie, che da’ dotti Maurini è stata diligentemente illustrata. VI. La crudeltà di Caligola giunse a tal segno che, stanchi finalmente alcuni di più oltre soffrirla, nel quarto anno del suo impero congiurarono contro di lui, e per mano di Cherea tribuno delle guardie pretoriane lo [p. 68 modifica]uccisero all’uscir del teatro l’anno di Cristo 41. Claudio zio di Caligola, perchè fratel di Germanico di lui padre, uomo per la sua viltà e stupidezza avuto in niun conto sino a quel tempo, mentre dopo la morte di Caligola il senato stava deliberando se ritornar si dovesse all’antica libertà, veduto a caso da soldati che scorrevano saccheggiando il palazzo, nascosto e tremante in un angolo, fu da essi in quel tumulto gridato imperadore, e il senato si vide suo malgrado costretto a riconoscerlo ed approvarlo. Gli autori della Storia Letteraria di Francia gli hanno dato luogo tra’ loro scrittori (t. 1, p. 166, ec.), perchè nacque in Lione ove era allora suo padre Druso. Ma se il nascere a caso in una più che in altra città bastasse a determinare la patria di alcuno, quanti Francesi dovrebbero aver luogo tra gli scrittori italiani, e così dicasi d’altre nazioni! Incapace di regolare l’impero per se medesimo, era necessario che ne lasciasse ad altri la cura; e la disgrazia di Roma si fu che ciò toccasse ai peggiori uomini che allor ci vivessero; Messalina prima, e poscia Agrippina sue mogli, e una truppa di liberti tanto più crudeli nell’abusarsi del loro potere, quanto erano più vili di condizione. Debole e vile fino a soffrire indolentemente l’atroce insulto di veder Messalina sua moglie stringersi solennemente in nozze con un altro cavaliere, fu nondimeno per altrui suggestione così crudele , che trentacinque senatori e oltre a trecento cavalieri romani furono a suo tempo uccisi (Svet. in Cl. c. 29). Le belle lettere furono l’unico [p. 69 modifica]oggetto a cui egli mostrasse qualche favorevole disposizione; applicato perciò ad esse da’ suoi parenti, poichè di ogni altro esercizio sembrava incapace. Egli attentamente le coltivò , e die’ vari saggi del suo profitto (id. c. 3). Una commedia greca, essendo già imperadore, compose egli, e rappresentar fece in Napoli , e in competenza di altre che si recitarono, per sentenza di giudici a ciò deputati riportò l’onore della corona; nel che però è facile che 1 adulazione più che il retto giudizio conducesse que’ giudici. Amantissimo del giuoco, di esso pure scrisse e divulgò un libro (id. c. 33). Prese ancora a scrivere la storia romana, e due libri compose delle cose avvenute dopo la morte di Cesare; ma poi veggendo che cosa troppo pericolosa era lo scrivere di tal materia, lasciati que’ tempi, la cominciò dalla pace seguita dopo la battaglia d’Azzio, e ne scrisse xli libri. Otto libri ancora egli scrisse della propria Vita con più eleganza che senno, dice Svetonio. Inoltre 111 fapologia, che lo stesso Svetonio dice assai erudita , di Cicerone contro i libri di Asinio Gallo , il quale avendo fatto un confronto tra lui e Asinio Pollione suo padre, aveva a questo data la preferenza. VII. Era egli ancora nella lingua greca versato assai, e ne usava non rade volte anche in senato (Svet. c. 42)j anzi due altre storie in tal lingua egli scrisse, una degli Etruschi (e non di Tiro, come hanno scritto gli autori della Storia Letteraria di Francia (t. 1, c. 174), troppo male interpretando la parola T/rrenicon [p. 70 modifica]da Svetonio (ib.) adoperata) divisa in venti libri; l’altra, divisa in otto, de’ Cartaginesi. In grazia de’ quali libri, come siegue a narrare Svetonio, all’antico museo che era già in Alessandria, ove radunar si solevano ad erudite assemblee gli uomini dotti, un altro ne fu aggiunto che dal nome stesso di Claudio prese l’appellazione, e si comandò che ogni anno in un di essi si leggesse nelle pubbliche adunanze di certi giorni determinati la storia de’ Tirreni, nell’altro quella de’ Cartaginesi; e che tutte si recitassero a vicenda da ciascheduno degli astanti. Questo passo ancora di Svetonio non è stato fedelmente spiegato da’ suddetti autori della Storia Letteraria di Francia; perciocchè essi dicono che Claudio stesso ordinò e la fabbrica del secondo museo e la solenne lettura de’ suoi libri; il che da Svetonio non si dice. Aggiungono i medesimi autori che Tacito ci ha conservato il discorso fatto da Claudio in senato per ottenere che i popoli della Gallia comata, i quali già avevano il diritto della romana cittadinanza , potessero ancora esser posti nel ruolo de’ senatori, e che questo è l’unico saggio che ci sia rimasto dello stile di Claudio. Ma dice egli forse Tacito che quelle fossero appunto le parole, o almeno i sentimenti di Claudio? O non è anzi noto ad ognuno che così egli, come tutti gli altri storici introducono a ragionare i lor personaggi con que’ pensieri e con quelle espressioni che loro piacciono? Ma più leggiadro si è ciò ch’essi soggiungono , cioè che nel secolo xvi furono trovate (come veramente accadde l’auno [p. 71 modifica]1528) sul colle di San Sebastiano presso Lione due lastre di bronzo, che or si conservano nel palazzo della città, in cui, dicono, è scolpita E arte di questo discorso, ma in uno stile men bello di quel che è presso Tacito. Come mai sì dotti autori hanno potuto scriver così? Si confronti di grazia il discorso di Claudio, che è presso Tacito (l. 11 Ann. c. 4); con quello che è stato trovato scolpito in bronzo, e ch’è stato pubblicato da Giusto Lipsio (Excurs. ad l. 10 Annal.), e dal P. Decolonia (Hist. Littér. de Lyon t.1,p. 136), e veggasi se vi ha tra l’uno e l’altro la menoma somiglianza, sicchè si possa dire che solo n’ è men colto lo stile. Egli è anzi probabile che quello che fu scolpito in bronzo, fosse il vero discorso di Claudio, qual fu da esso tenuto in senato; e che quel che è presso Tacito , fosse interamente dallo stesso storico immaginato e disteso, come è costume degli scrittori di storie. Vili. Svetonio aggiugne delle tre lettere (c. 41) che Claudio volle introdurre nel latino alfabeto. Quali esse fossero, nol dice. Ma dal testimonio di Quintiliano (l. 1 , c. 7), e da qualche iscrizione di questi tempi (V. Pitisci Comm. in. Svet. Cl. c. 41) 7 è chiaro che una di esse era così scritta r.j a spiegare la forza della V consonante; l’altra per testimonio di Prisciano (l. 1, p. 558 ed. Putsch.) era destinata a falle veci della Ψ greca, e scriveasi per oc. Qual fosse la terza, nol sappiamo precisamente, nè penso che sia ben impiegata la fatica a disputarne. Esse però, finchè Claudio visse, furono o per rispetto , o per adulazion ricevute; [p. 72 modifica]IX. Carattere e condotta di Nerone: suoi studj giovanili. 72 tlBRO ma lui morto, caddero in dimenticanza. Pare finalmente che qualche cosa ei toccasse de’ filosofici studj; perciocchè narra Dione (l. 60) che avendo egli preveduto che nel giorno suo natalizio sarebbesi ecclissato il sole, e temendo che qualche tumulto non ne seguisse, non solo ne die’ avviso al popolo con un libro intorno a ciò pubblicato, segnandone precisamente l’ora e la durata, ma ne spiegò ancora la vera ragione. Questa letteratura di Claudio fu derisa dal filosofo Seneca nella satira che sulla morte di lui egli scrisse, di cui ragioneremo a suo luogo; e non è maraviglia, perchè, essendo egli poco meno che scimunito, dovea naturalmente comparire ridicoloso quel qualunque suo sapere. Ma se egli all’erudizione congiunto avesse il senno, sarebbe stato certamente uno de’ principi più benemeriti delle lettere e delle scienze. IX. Ma se il regno di Claudio non fu per la sua dappocaggine favorevole agli studj, non fu almeno loro fatale; poichè avendo in pregio le lettere, qualche rispetto usava a’ loro coltivatori. Non così Nerone figliuolo di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina, che fu poi moglie di Claudio, a cui ella il fece adottare per suo figliuolo. Nerone salì al trono l’anno 54j poichè Claudio morì per veleno, come si crede, datogli dalla stessa Agrippina. L’idea che il comun consenso degli uomini ha unita al nome di Nerone , basta a farci conoscere chi egli fosse. Trattene alcune lodevoli azioni eli’ ei fece al principio del suo regno, non vi fu esempio di crudeltà e di barbarie che allora non [p. 73 modifica]si vedesse. Seneca suo maestro, Britannico e Antonia figliuoli di Claudio, e quindi suoi fratelli adottivi, Domizia sua zia, Ottavia e Poppea sue mogli, finalmente la stessa Agrippina sua madre perdettero per comando di questo mostro la vita. Gli altri vizj non furono in lui punto minori della sua crudeltà; e a dir tutto in breve, pare, come riflette un moderno autore, (Richer Abrégé de l’Hist. des Emper. p.137) che Nerone non arrivasse all’impero, che per mostrare quanti delitti può commettere un uomo che si abbandoni alla pessima sua natura. A renderne sempre più esecrabile il nome mancava solo eh’ ci fosse , come fu veramente, il primo persecutore de’ Cristiani. Qual protezione sperar potevano da tal sovrano gli studj? Egli, come dice Svetonio (in Ner. c. 52), aveva da fanciullo appreso gli elementi di quasi tutte le scienze, ma della filosofia aveagli ispirata avversione Agrippina sua madre, dicendo che nocevole essa era a chi dovea regnare: e Seneca , per essere più lungamente da Nerone ammirato, distolto lo ave a dal leggere gli antichi oratori. Alcune orazioni in età giovanile da lui fatte, altre in greco , altre in latino , rammentano Svetonio e Tacito (Svet. ib. c. 7; Tac. Ann. l. 12, c. 58), e Svetonio dice che anche imperadore declamò spesso pubblicamente (ib. c. 10). Ma se egli si applicò per alcun tempo agli studj, ben presto se ne distolse, occupato unicamente ne’ suoi piaceri; e quando al principio del suo impero egli volle fare l’orazion funebre di Claudio. si valse dell’opera di Seneca suo maestro. Vuolsi qui [p. 74 modifica]riferire un passo di Tacito che il carattere ci forma degli studj di Nerone, e ci muove ancora qualche sospetto che le orazioni da Nerone talvolta dette fossero esse ancora di Seneca , o di altri che per lui le scrivesse. Ne’ funerali di Claudio , die’ egli (l. 13, c. 3)f Nerone ne fece l’encomio: finchè lodonne l’antichità della famiglia, i consolati e i trionfi de’ suoi maggiori, fu udito con attenzione; volentieri ancora si ascoltò la menzione degli studj da lui fatti, e della felicità che per parte de’ popoli stranieri avea goduto V impero nel suo regno: ma poichè venne alla prudenza e al senno di Claudio, niuno potè frenare le risa, benché V orazione composta da Seneca fosse colta assai, essendo quegli uomo di leggiadro ingegno} e al gusto di que’ tempi adattato. Osservarono i più vecchi, che possono le cose recenti confrontar colle antiche , che tra gli imperadori Nerone fu il primo che abbisognasse deli eloquenza altrui; perciocchè il dittator Giulio Cesare avea cogli oratori più celebri gareggiato; Augusto avea una facile ed ubertosa facondia, quale a principe si conveniva; Tiberio ancora sapeva i arte di ben pesar le parole, e di usare ora un parlare eloquente e focoso, ora a bella posta oscuro ed ambiguo. Anche Caligola tra le sue pazzie mantenne la forza nel favellare; nè Claudio finalmente era privo di eleganza, quando egli diceva cose premeditate. Ma Nerone fin da’ più teneri anni volse ad altre cose il pensiero. Scolpire e dipingere e cantare e regolare i cavalli, erano le sue più care occupazioni; talvolta però [p. 75 modifica]recitando suoi versi mostrava di aver appresi gli elementi delle scienze. Fin qui Tacito. La sola poesia adunque fu quella a cui Nerone mostrò qualche inclinazione. Nel che però, s’egli stesso veramente componesse i versi, o se si usurpasse gli altrui, non è facile a diffinire, e discordano su questo punto Tacito e Svetonio. Perciocchè quegli racconta (l. 14, c. 16) che Nerone radunar soleva quelli tra’ giovani che sapessero alquanto di poesia; e che essi insieme con lui sedendo acconciavano i versi eli’ ei lor mostrava; e alle parole qualunque fossero da lui usate davano il suono e la cadenza poetica; il che, aggiugne Tacito, chiaro si vede dagli stessi suoi versi che non hanno estro nè brio alcuno, nè sono di uno stile uguale e seguito. Svetonio al contrario (c. 52) rigetta apertamente questa opinione, e dice essere falso ciò che altri asseriscono, che Nerone spacciasse gli altrui versi per suoi; e eli’ egli avea veramente facilità e prontezza in poetare; e ne reca in prova alcuni libri di versi, ch’egli stesso avea veduti, scritti per man di Nerone medesimo, e pieni di correzioni e di cancellature, talchè era chiaro eh* erano da lui stesso stati composti e ritoccati. Ma checchessia di ciò, questo qualunque studio di poesia ad altro non giovò che a render Nerone sempre più vile e abominevole al mondo. Spettacolo veramente degno della grandezza e della maestà romana! Vedere un imperadore vantarsi più che di un solenne trionfo della sua creduta eccellenza in verseggiare, in sonare la cetra , in recitar dal teatro; comandare[p. 76 modifica]che i suoi versi letti fossero e dettati a modello di perfetta poesia nelle pubbliche scuole (Persius sat. i, v. 29; V. Interpretes); mandare qua e là per Roma uomini prezzolati a recitarli, e riputare rei di lesa maestà coloro che non gli approvavano (Philostr. in Vita Apollonii l. (4, c. 13); salire egli stesso sul teatro a sonarvi la cetra, e a rappresentar commedie e tragedie; e non contento di far ciò in Roma, andarsene anche a mostrare ai Greci sì disonorevole oggetto (Dio. l. 61, c. 63). Ma io non so se fosse spettacolo più mostruoso vedere un imperador romano divenuto attore di scena, o vedere la città tutta con vergognosa adulazione applaudirgli. Potrebbe parere vantaggiosa alle lettere l’istituzion da lui fatta dei combattimenti di eloquenza e di poesia, che ogni quinto anno si celebravano nel Campidoglio, e detti erano Capitolini. Ma qual pro, se l’unico frutto che se ne vide, fu f impiegarsi gli oratori tutti e i poeti in adulare Nerone, e in dare a lui sopra tutti la preferenza (Tac. l. 14, c. 21; l. 16, c. 2)? Quindi questo impegno di Nerone per la poesia, non che essere ad essa giovevole, fu anzi a molti dotti fatale, come vedremo a suo luogo (4). Qui basti accennare per saggio ciò che narra Dione (l. 62), cioè che Nerone avendo in idea di scrivere un (a) A qualche uomo erudito mostrossi Nerone splendido e liberale, perciocché, se crediamo a Suida, fu presso lui un Didimo figliuol di Eraclide, poeta insieme e gr.unatico e musico valoroso, e vi raccolse motte ricchezze. [p. 77 modifica]lungo poema sulla storia romana, richiese a molti, e fra gli altri ad Anneo Cornuto, uomo a quel tempo per dottrina e per erudizione chiarissimo, quanti libri avesse a scriverne; e avendo alcuni adulatori asserito che un Nerone nulla meno di quattrocento libri dovea scrivere, Anneo disse ch’era troppo grande tal numero; al che replicando un altro, che il filosofo Crisippo assai più aveane composti; ma questi, rispose Anneo, al genere umano son vantaggiosi. Del qual detto sdegnato Nerone, poco mancò che nol togliesse di vita, e parvegli di mostrarsi clemente col rilegarlo in un1 isola. Finalmente dopo 13 anni di regno questo crudel mostro, udendo che Galba erasi sollevato contro di lui, e che era stato riconosciuto imperador nelle Gallie, e che egli al contrario dal senato stesso di Roma era stato dichiarato nimico pubblico e dannato a morte, fuggito vilmente da Roma, si diè da se stesso la morte, in età di 32 anni, l’anno di Cristo 68; e con lui finì la famiglia de’ Cesari. X. I tre seguenti imperadori poco, o nulla poteron recare o di vantaggio, o di danno alle lettere, che troppo breve fu il loro impero; e vidersi allora per la prima volta sorgere, per così dire, da ogni parte uomini avidi di regnare , e combattersi gli uni gli altri. Galba, Ottone, Vitellio giunsero ad ottenere il trono, ma nol poteron conservare; Galba ucciso in Roma per ordine di Ottone; Ottone uccisosi de se stesso in Brescello, poichè seppe il suo esercito essere stato sconfitto da quel di Vitellio; questi finalmente da’ partigiani di [p. 78 modifica]Vespasiano, dopo essere stato trascinato ignudo per Roma, ucciso a colpi di bastone. Così due anni di sanguinosissime guerre civili finirono di gittar Roma in una totale desolazione. Ma finalmente parve giunto il tempo di respirare e rimettersi da’ sofferti strazj. Vespasiano, uomo di bassa stirpe, e, finchè fu in condizione privata, malvagio e vizioso, e solo valoroso generale d’armata, non parve degno di essere imperadore, se non poichè fu salito sul trono. Intento a riparare i disordini che dopo la morte d’Augusto eransi in Roma e in tutto l’impero introdotti, non tralasciò mezzo alcuno per ottenerlo; e si può dire a ragione che Vespasiano, postisi innanzi gli occhi gli enormi vizj de’ suoi antecessori, diede in se stesso l’esempio di tutte le opposte virtù. Due cose sole gli si rinfacciano, la disonestà, benchè ben lungi dall’imitare la sfrontata impudenza di Tiberio, di Caligola e di Nerone; e l’avarizia nell’imporre e nel riscuotere troppo gran numero di tributi, della quale però molti lo discolpavano, affermando ch’egli era costretto a così fare dalla Necessità di rimettere l’esausto erario (Svet. in Vespas. c. 16). In fatti egli è certo che a tutti e a’ poveri singolarmente ei mostrossi assai liberale (id. c. 17). Le arti e gli studj furon da lui con sommo impegno fomentati (id. c. 17), ed egli fu il primo, come vedremo,- che a’ retori assegnò sull’erario onorevole annuo stipendio. Niente meno favorevole alle lettere fu il breve impero di Tito suo figliuolo che l’an 79 gli succedette nel trono. Questi, uno de’ più amabili [p. 79 modifica]principi che mai regnassero, e detto perciò amore e delicie dell1 uman genere Svet. in Tito c. 1), avea dalla natura sortito eccellente ingegno, da lui coltivato con un diligente studio della greca e della latina favella. Scriveva elegantemente assai in prosa non meno che in versi; e in questi ancora con tanta facilità, che talvolta componevali all’improvviso (id. c. 3). Nel foro ancora si esercitò egli talvolta, ma sol nelle cause più nobili e grandi (id c. 4)Da un tal uomo che salito all’impero nulla si lasciò abbagliare dalla luce del trono, ma parve di esservi collocato sol per rendere felici gli altri, doveano le lettere ancora aspettare protezione e favore. Ma Roma per sua sventura troppo poco tempo potè goderne, e Tito dopo due anni d’impero perdè fra il comun pianto la vita, non senza colpa, come da molti fu creduto, di Domiziano suo fratello , ma troppo da lui diverso , che gli succedè nell’impero. XI. Domiziano, dice il celebre presidente Montesquieu (Grand, et dèe ad. des Rom. c. 15), fece in se stesso vedere un nuovo mostro più crudele, o almen più implacabil di quelli che aveanlo preceduto, perchè di essi più timido. In fatti i delatori, quella malnata genia che sotto Tiberio avea cominciato a far tanta strage in Roma, ritornarono a mostrarsi sotto Domiziano , e furono volentieri ascoltati; gli esilj, le confische de’ beni, i più crudeli supplicj contro ogni genere di persone per qualunque pretesto furono rinnovati; e rinnovata fu ancora la persecuzione contro de’ Cristiani. Questo bastava a fare che gli studj ancora giacessero [p. 80 modifica]negletti. Ma a ciò si aggiugne l’avversione che Domiziano ne avea. Al tempo di Vespasiano, per uguagliarsi nell’amore del popolo al suo fratello Tito, finse di essere amante degli studj, e della poesia singolarmente, e facevasi talvolta udire a recitare pubblicamente suoi versi (Svet. in Domit. c. 2; Tacit. l. 4 hist c. 86). Ma passato il tempo di fingere, egli non impiegò più alcun momento allo studio della poesia, o della storia, o di altra scienza; e al bisogno di scrivere lettere, orazioni ed editti, valevasi dell’opera altrui; e il solo libro ch’egli leggesse, erano gli atti e la vita di Tiberio, quasi modello su cui formarsi all’impero (Svet. c. 20). Due sole cose troviamo da lui fatte a vantaggio delle scienze, l’una il rinnovare i letterarj combattimenti in Roma ogni cinque anni, istituiti già da Nerone (Svet. c. 4 e 13; Quint. l. 3, c. 7), e insieme stabilire somiglianti giuochi da celebrarsi in Alba ogni anno, i quali latinamente diceansi quinquatria (Svet. c. 4; Dio. l. 67); l’altra il rifabbricare le incendiate biblioteche, e raccoglier per ciò gran quantità di libri, come a suo luogo vedremo. Ma poco potevan giovare tali aiuti, se la crudeltà e la tirannia del suo governo teneva, per così dire, schiavi gl’ingegni. lutale stalo duraron le cose fino all’anno di Cristo 96, in cui Domiziano fu ucciso per man di un liberto di Domitilla sua madre. E dopo un secolo quasi continuo di orrori, di brutalità, di stragi, un nuovo ordin di cose si vide finalmente in Roma , che per qualche tempo le fece dimenticare i sofferti danni. [p. 81 modifica]XII. Nerva successore di Domiziano, e principe ornato delle più belle doti che a riparare i danni dell’Impero romano fossero necessarie, e a cui il solo difetto che si opponesse , fu quello di aver portata tropp’oltre la più amabile tra le virtù, cioè la clemenza, ebbe troppo breve impero, perchè potesse operar grandi cose, morto sedici mesi soli dacchè era salito.al trono. Traiano, da lui adottato, gli succedette l’an 98 (5). A me non appartiene il fare a questo luogo f encomio di questo gran principe, in cui si videro uniti tutti que’ pregi che formano un gran sovrano e un gran generale d’armata. Non vi ha storico che non ne ragioni; e alcuni tra’ moderni singolaimente che piacci onsi di porre a confronto gli eroi idolatri co’ cristiani, formano di Traiano poco (*) lo debbo qui chieder perdono all’ab. Lampillas, perchè I10 dimenticato di dire che Traiano e A ariano furono spagnuoli. Ei me ne fa un grave rimprovero (t. 2 , p. 77 , ec.), e si duole, ch’io dissimulando che detti principi fossero spagnuoli, privo la lor nazione di quella stima che ispirerebbe ne’ miei leggitori il sapere che fu la Spagna madre di così illustri sovrani. Io potrei veramente dire con verità e giurare ch’io lio taciuto la patria loro per la stessa ragione per cui ho taciuto quella de’ due ottimi imperadori italiani Vespasiano e Tito, cioè perchè non vi I10 pensato , e se pur vi avessi pensato, 1" avrei forse credula cosa inutile a dirsi, perchè a tutti notissima. Ma io potrei protestare quanto volessi, che le mie proteste a nulla mi gioverebbono. Quanto poi alla difesa che fa qui di Adriano l’ ab. Lampillas, 10 lascio che ognun ne giudichi a causa conosciuta, come gli sembra meglio. TlRABOSCHI, Voi. IL [p. 82 modifica]meno die un dio, per abbassar quindi al paragone Costantino e Teodosio. Sarebbe però a bramare eli’ essi usassero di quella sincerità che tanto pregiano in altri, e che dopo avere esaltate le virtù guerriere e politiche di Traiano, che certo furon grandissime, non ne tacessero i vizj privati che non furono punto minori (V. Tillemont Mém, des Emper. Hist, de Trajan). Ma lasciando in disparte ciò che non è proprio del mio argomento, io debbo solo riflettere che Traiano della romana letteratura fu benemerito assai. Quegli che fissano l’età di Giovenale ai tempi di Traiano e di Adriano, come dimostreremo farsi da alcuni probabilmente, vogliono, e non senza ragione, che di Traiano egli intendesse quando scrisse: Et spes et ratio studiorum in Caesare tantum: Solus enim tristes hac tempestate Canioenas K esperii, ec. Sat. 7 , v. 1, ec. E poco appresso: ¡Verno Inni: n studiis indignum ferre laborem Cogetur posthac, nectit quicumque canoris Eloquium vocale modis, laurumque momordit. Nè era già Traiano uomo colto nelle belle arti e negli studj, poichè più che ad essi avea egli rivolti i suoi pensieri alla guerra, e non ha alcun fondamento l’opinione d’alcuni ch’egli avesse a suo maestro Plutarco (V. Tillemonlffist, dAdrien art. 21). Ma ciò non ostante ei riputava dovere di saggio monarca il favorire in ogni maniera le lettere e i loro coltivatori (Dio. l. 68) Di ciò lodalo altamente [p. 83 modifica]Plinio nel suo Panegirico (c. 47); e commenda la degnazione e la bontà di cui egli onorava i dotti, la protezione che accordava alle scienze che sotto di lui finalmente sembravano aver ripigliato spirito e vita, e la facilità con cui egli riceveva coloro che celebri erano per sapere. E una illustre prova ei ne diede, secondo Filostrato (Vit. Sophist l. 1, c. 7) , quando trionfando de’ Daci prese sul suo medesimo cocchio il sofista Dione Grisostomo, e più altri segni continuò poscia a dargli di benevolenza e d’amore. Nondimeno le continue guerre in cui fu avvolto Traiano, non gli permiser di fare a pro delle lettere quanto in più pacifici tempi avrebbe probabilmente fatto. XIII. Adriano, che succedette a Traiano l’anno 117, maggior giovamento ancora avrebbe potuto recare alle lettere, se i suoi vizj non glielo avessero impedito. Dotato di prodigiosa memoria, appena avea letto un libro, recitavalo fedelmente, e a somiglianza di Cesare scriveva, dettava, ascoltava e conversava al tempo medesimo cogli amici (Spart. Vita Hadrian. c. 20). La greca letteratura eragli singolarmente cara, e ne ebbe quindi da alcuni il soprannome di Grecolo (ibi c. 50). E forse questa sua inclinazione diede origine a quel grecheggiare affettato che s’introdusse in Roma, e che leggiadramente deridesi da Giovenale (sat. 6, v. 184, ec.). Ma anche nella lingua latina avea egli fatto diligente studio, dacchè singolarmente, essendo questore sotto Traiano, e recitando un’orazione in senato a nome dell’imperadore, per la rozza pronunzia di che egli usava, fu xui. Carattere i Adriano. [p. 84 modifica]pubblicamente beffalo; il die talmente lo punse, che voltosi con grand’ardore alla studio di "questa lingua, non si ristette, finchè in essa ancora ei non divenne facondo ed eloquente oratore (Spar. c. 3). Non vi ebbe quasi genere alcuno di scienza cui egli non coltivasse, e nello scrivere in prosa ugualmente che in versi, e nell’aritmetica e nella geometria, e anche in dipingere, in danzare, in sonare egli acquistossi gran lode (ib. c. 14; Dio. l. 69). Nel tempo ancor de’ conviti faceva rappresentare azioni teatrali, e leggere poesie, o altri eruditi componimenti (Spart. c. 26). Alcuni libri in prosa avea egli scritti, e tra essi la sua Vita medesima, benchè da lui pubblicata sotto i nomi de’ suoi liberti, come narra Sparziano (c. 1 e 16); ma assai più in versi (Dio. l. c.), tra’ quali son noti quelli che diconsi da lui fatti vicino a morte, e che si recano dallo stesso Sparziano (c. 25). Questo suo ardore nel coltivare gli studj faceva concepire speranza che il suo impero sarebbe stato lor favorevole. E nondimeno fu ad essi sommamente fatale. Adriano gonfio del suo sapere, mal volentieri soffriva chi potesse esser creduto a lui superiore. Quindi solea superbamente deridere i professori tutti delle belle arti, e godeva di venir con essi a contesa; ma era cosa troppo pericolosa il non confessarsi vinto; e celebre è il detto di Favorino, che essendo stato da Adriano ripreso di una cotal parola da lui usata, nè difendendosi egli, come agevolmente poteva, ripresone dagli amici: Oh voi, disse, mi consigliate pur male a non creder più dotto di me un nomo [p. 85 modifica]che ha a suoi cenai trenta legioni (id. c. 15). Questa sua alterigia medesima cagione era ch’egli, opponendosi al comun sentimento, antiponesse Catone il vecchio a Cicerone, ed Ennio a Virgilio (id. c. 16), e che dichiarandosi nemico ad Omero cercasse quasi di distruggerne la memoria, e di esaltare in vece un cotale Antimaco poeta quasi interamente sconosciuto (Dio. l. c.). Anzi questa vil gelosia lo condusse tant’oltre, che dannò a morte un celebre architetto detto Apollodoro (6); perchè da lui richiesto del suo parere su un tempio di Venere , ch’egli aveva disegnato, vi trovò alcuni non leggeri difetti; e poco mancò che per somigliante ragione non facesse uccidere ancora il suddetto Favorino, e Dionigi esso pure sofista; e molti in fatti per tal motivo perseguitò ed uccise (ib.). Nondimeno egli affettava di onorare della sua protezione i filosofi, e tra essi singolarmente Epitteto (ib.) ed Eliodoro, i gramatici, i retori, i geometri, i musici, i pittori, e gli astrologi ancora (Spart. c. i(i); e perciò Filostrato vorrebbe persuaderci (Vit. Sophist l. 1, c. 24) che egli più che alcun altro de’ suoi predecessori sapesse fomentare la virtù e le scienze. Ma da ciò che si è detto, raccogliesi chiaramente che il favor d’Adriano non hi) Di Apollodoro , e delle magnifiche fabbriche ila lui innalzate in Rama, e singolarmente del inaraviglioso ponte che labbrioò sopra il Danubio nella Bassa Ungheria, veggansi più distinte notizie nelle Memorie degli si echi tetti del sig. Francesco Milizia (f. t , p. fit, odtT. Massari.). [p. 86 modifica]XIV. Per qual ragione in tempi si oluoii* tosi si continuasse nondimeno a coltivar cr.n fervore gli stu era opportuno che ad allettare i vili ed ignobili adulatori. E inoltre i continui viaggi che ei fece, pe’ quali pochissimo tempo soggiornò in Roma e in Italia, non gli avrebber permesso, quando pur l1 avesse voluto sinceramente, di recar molto giovamento alle lettere. Morì egli l’anno 138, esecrabile a tutti per la sua crudeltà non meno che per le sue dissolutezze: e degno solo di lode, perchè coli’ adottare Tito Antonino die’ all’impero uno de’ migliori principi che mai salisser sul trono. Ma di lui avremo a parlare nel libro seguente. XIV. Tali furono gl’imperatori che a questi tempi signoreggiarono in Roma; uomini per la più parte che niun pensiero si diedero di fomentare gli studj, e la cui crudeltà fu a molti dotti fatale. E certo il fervore nel coltivare le scienze, che a’ tempi di Augusto erasi acceso in Roma, sotto i seguenti imperadori rallentossi alquanto. Il danno nondimeno non fu sì grande, quanto pareva doversene aspettare; e ne abbiamo accennata già la ragione nella Dissertazione preliminare. Que’ che vivevano a (questa età, erano per lo più nati a’ lieti tempi d’Augusto; avean ricevute le prime istruzioni da’ grandi uomini che allor fiorivano, erasi ad essi ancora comunicato quel nobile ardor per gli studj di cui Roma era compresa. Era in somma a guisa di un vasto incendio che non poteva estinguersi così facilmente. Vi ebbe dunque a questo tempo ancora gran numero d’uomini coltivatori delli ameni non meno che de’ serj studj. Ma ciò non ostante questi decaddero dall’antico loro splendore, per le ragioni che [p. 87 modifica]già si sono toccate, e che di mano in mano andremo svolgendo. Qui solo piacemi di riflettere in generale che quel vile spirito di adulazione che il tirannico impero de’ primi Cesari sparse in tutti gli ordini di Roma, comunicossi ancora a quasi tutti anche i migliori scrittori di questa età. Non si posson leggere senza sdegno le bugiarde lodi con cui Valerio Massimo (in proœm.) e Velleio Patercolo (l. 2 sub fin.) esaltan Tiberio; gli elogi che Lucano fa di Nerone (Pharsal. I. 1, v, 44 > ec-)? a c,,i il grave Seneca ancora, che già adulato avea bassamente Claudio (De Cons. ad Polyb. c. 21), non ebbe rossore di tessere un panegirico (De Clem. l. 1 e 2), e quelli finalmente che Stazio (Sil. l. 4, ec.) e Marziale (Epigrammi. l. 1, ec.) e perfino il saggio Quintiliano (l. 10, c. 1) rendono a Domiziano. Così il timore reggeva vilmente le penne degli scrittori, e li conduceva ae’esser prodighi di encomii verso coloro cui internamente aveano in abbominio e in orrore. Ma entriamo omai a ragionare di ciaschedun genere partitamente secondo l’ordine che nelle precedenti epoche abbiam tenuto.