Sino al confine/Parte IV/Capitolo I
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I.
La mattina del giorno di Pasqua Gavina andò al Pincio, sola. Neppure in quel giorno Francesco si concedeva riposo, poichè la stagione, (c’è anche la stagione per i medici) non glielo permetteva. In aprile e maggio le cliniche e gli ambulatori sono ancora pieni di malati; più tardi molti medici se ne vanno in vacanza: la stagione è finita. — Resta a sapere se anche per i malati c’è riposo — pensava Gavina, che era stata parecchie volte all’ambulatorio, ed a poco a poco aveva sentito la ripugnanza fisica e la diffidenza che i malati le destavano, non solo cessare, ma cedere il posto ad una pietà sincera.
Ella osservava che i medici, compreso Francesco, trattavano i malati con indifferenza, con sgarbatezza. Sopratutto le dispiacevano gli scherzi spesso di un’ironia crudele che qualche vecchio medico rivolgeva ai malati; e osservava che i giovani medici, per non essere da meno dei vecchi, li imitavano.
I malati umili sorridevano servilmente, piegati davanti alla potenza di quegli uomini che coi loro speculi pareva scrutassero entro i più cupi misteri della natura; ma il viso di qualche malato fiero e disperato assumeva un’espressione di amarezza e quasi di odio. E quando erano soli quasi tutti i malati a loro volta si beffavano dei medici e si confortavano a vicenda raccontando la storia della loro malattia.
Mentre aspettava Francesco, Gavina li ascoltava con curiosità. Seduta accanto a loro sulle panche melanconiche dell’ambulatorio qualche volta prendeva anche parte alla loro conversazione. Le donne specialmente chiacchieravano volentieri. Così ella venne a sapere che la malattia, da lei fino a quel tempo considerata come un semplice accidente fisico, è il più delle volte il risultato di molte miserie morali.
Gavina riferiva a Francesco i discorsi dei malati, le loro bugie, i lamenti; e gli rinfacciava la durezza dei modi con cui egli e i suoi colleghi trattavano quei disgraziati; egli però non solo dava poca importanza ai discorsi di lei, ma la pregava di non frequentare l’ambulatorio. Un giorno le disse:
— Ma non potresti andar meglio a Villa Borghese o al Pincio in queste belle mattine?
Ed ella se ne andava a Villa Borghese o al Pincio, seguendo la fila delle bambinaie, degli stranieri, dei teppisti, di tutte le persone oziose o malaticcie che nei bei mattini primaverili invadono i giardini di Roma. Seduta sull’erba, nei prati di Villa Borghese, o sulle panchine della terrazza del Pincio, si abbandonava ai suoi ricordi. Il presente e l’avvenire non la preoccupavano: tutta la sua vita era nel passato. Quella mattina di Pasqua, però, ella si guardava attorno con occhi inquieti, ancora turbata per ciò che aveva fatto durante quella settimana. Per la prima volta in vita sua non aveva compiuto il precetto pasquale! Le sembrava ancora di sentire l’eco nostalgica delle voci bianche e il canto delle tenebre nella penombra di San Pietro; di star seduta ancora sullo scalino d’un altare della basilica, ascoltando la musica sacra come una schiava che sente all’improvviso un canto della patria lontana. Addio, addio! La fede moriva in lei, ma ella ne sentiva ancora la nostalgia.
Dove questo primo passo decisivo l’avrebbe condotta ella non sapeva; le sembrava di agire coscientemente, ma aveva paura di far male, e sentiva che l’antica vita la teneva ancora, che l’avvolgeva tutta coi suoi ricordi. Ricordava il fascino che Roma, la città santa, coi suoi conventi, le chiese, le basiliche, le funzioni per cui gli stranieri accorrono in pellegrinaggio come un tempo a Gerusalemme, le aveva destato da lontano quando ella sognava davanti alla muraglia delle montagne natie. Tutto era sparito. Ella si guardava attorno, come per cercare almeno una traccia della città che aveva sognato; ma dal suo posto non vedeva che aiuole coperte di giacinti d’ogni colore, e gli alberi dei viali appena rivestiti di una peluria giallognola. Il cielo era argenteo, qua luminoso, là vaporoso, solcato da striscie azzurrognole e da nuvole così tenui, rosee e bianchiccie, che davano l’idea di chiome di peschi fioriti staccatesi dalle praterie lontane e vaganti per l’aria. Tutto era pace e dolcezza sotto quel cielo fiorito: le ruote delle vetture, i finimenti dei cavalli, i bottoni delle divise delle guardie scintillavano d’una luce argentea, come al riflesso della luna. In fondo al viale le figurine dei bimbi si delineavano nitide, quasi tutte rosse, come su uno sfondo metallico. Il mondo intero pareva composto d’un metallo puro e luminoso: gli alberi erano d’oro, e il canto degli usignuoli aveva lunghe vibrazioni come di verghe di argento battute su lastre d’argento.
Quando lo sfondo del viale rimaneva deserto Gavina vedeva una balaustrata che le pareva il limite fra il giardino e una immensità invisibile; e le sembrava che i vapori luminosi che inondavano l’orizzonte salissero dalla città come da un mare agitato. Laggiù era Roma, non la città santa ch’ella aveva sognato, ma un luogo di vita dove tutto si muoveva e palpitava. E come davanti al mare ella provava un senso di ammirazione e di paura.
Il passo fatto l’avrebbe forse condotta laggiù. Ella non aveva niente da fare, ora che non andava in chiesa. E Francesco non la voleva fra i malati: che fare? Aveva denari, tempo, libertà: qualunque altra donna si sarebbe rallegrata di tanta fortuna; ella ricordava ancora, suo malgrado, le prediche dello zio canonico.
Il suo desiderio d’aver un figlio ingrandiva a misura che il tempo passava; ma anche questo sogno scaturiva in lei da una sorgente oscura, non dal bisogno di veder la sua vita prolungata in quella di un altro essere. Sotto il gran cielo di Roma ella respirava ancora l’aria chiusa della casa paterna; e spesso le sembrava di rivedere sua madre e Paska intente a pulire il grano, poichè s’avvicinava la Pasqua e bisognava preparare il pane bianco, il pane dolce, come al tempo degli Ebrei. La signora Zoseppa, senza accorgersi che viveva ancora in un’epoca biblica, si lamentava perchè i tempi erano cambiati e raccontava lo sue impressioni di giovinetta, poi di fidanzata, poi di sposa.
— Posso ben dire che quelli erano tempi. Mio marito non mi ha baciato prima del giorno delle nozze, e dopo non ha mai veduto il colore della mia sottoveste. Il marito, in quei tempi, era il fratello, era il padre della moglie. Così Dio comanda. Ora.... ora viviamo in un mondo bestiale. Si trovan persino degli sposi che desiderano di non aver figli! E allora perchè vi siete sposati, buona gente?
Dopo questa domanda, nella quale metteva tutto il sarcasmo di cui era capace, la signora Zoseppa taceva un momento, quasi aspettando risposta. Ma chi poteva risponderle? Paska una volta si era azzardata a osservare, scherzando:
— Si sposano per interesse; per fabbricare palazzi con balconi di ferro....
Ma la padrona l’aveva guardata in modo così triste e severo che Paska non aveva più ripetuto lo scherzo. Però aveva domandato:
— E se il Signore non manda i figli?
— Se io non avessi avuto figli ne avrei adottato uno, orfano o figlio di povera gente. Le mogli cristiane devono fare così. Io mi disperavo fin dal primo mese. Ora invece nessuno desidera i figli...
E Gavina pensava a Michela e al bambino che doveva nascere in quei giorni. L’ex-fidanzato di Michela s’era sposato con un’altra, e dopo questo fatto la sventurata aveva avuto lunghi deliqui e sbocchi di sangue; e di giorno in giorno Gavina, che considerava la figlia del contadino come una sua vittima, aspettava la notizia della sua morte, e sognava di adottare il bambino, se questo sopravviveva alla madre.
Giusto in quel giorno di Pasqua, Luca, che scriveva sempre a nome della signora Zoseppa, fra le altre notizie che riempivano la sua lettera diceva: «Michela ha avuto una bella bambina bionda, grossa e ben fatta: la madrina è stata la zia Itria!»
Gavina diede la notizia a Francesco, e verso sera mentre uscivano gli disse:
— Che Pasqua banale! La Pasqua a Roma! La settimana santa a Roma! Io immaginavo qualche cosa di fantastico, di medioevale. Vedevo pellegrini colla bisaccia sulle spalle, e quasi mi figuravo la città immersa nelle tenebre, come Gerusalemme durante l’agonia di Gesù. Ricordi la processione della settimana santa, quando mi volsi e ti dissi che eri uno stupido?
— Lo ricordo, altro!...
Ed entrambi, mentre attraversavano piazza Barberini inondata dalla luce violetta del crepuscolo e vibrante di rumori, si abbandonarono ai ricordi semplici del passato. Dopo aver ricordato i discorsi di sua madre intenta a pulire il grano per il pane della Pasqua, Gavina disse:
— Se Michela muore pregherò mia madre di prendere in casa la bambina.
Francesco si volse, la fissò e rise. Ella continuò a guardare davanti a sè, e il suo viso prese un’espressione dura.
— Gavina, penso a quel che ti risponderebbe tua madre!
— È vero! Direbbe che son pazza! Un pochino lo pensi anche tu, in questo momento. Di’ la verità, su!
— Michela non morrà.... Non dubitare: si conforterà, e forse darà qualche fratellino bruno a questa sorellina bionda....
Gavina capì che egli aveva indovinato il suo pensiero, ma che non lo approvava.
— Dimmi la verità, Francesco! È stravagante, il mio pensiero?
— Ma, certo, per tua madre sarebbe stravagante.
— Mia madre? Ah, no, tu hai capito bene quel che pensavo.
— Tu, insomma, prenderesti la bambina con te?
— Con noi.... se tu, naturalmente, volessi.
Egli tacque un momento. Poi domandò:
— Tu parli sul serio? Non farai come tua madre, che si disperava fin dal primo mese! E se avremo figli?
— Ma tu credi che io pensi come pensava mia madre? Non indovini il mio pensiero? Se tu avessi un bambino, della cui nascita tu fossi in qualche modo responsabile, non lo prenderesti con te? Adesso tu ridi ancora! Ecco! Tu prima mi metti le idee in testa, poi te ne ridi! lo sapevo!
— Come, son io che ti ho messo in testa l’idea che Michela abbia fatto un figlio per colpa tua? Di’ la verità, a tua volta, sono stato io?
— Tu non mi hai detto precisamente questo, ma... me lo hai lasciato capire!
— Mai più! Tu stessa eri irresponsabile. Del resto, perchè vuoi togliere un figlio alla madre? Michela può benissimo allevarselo: è più morale.
— Ma io dico s’ella morrà.
— E lasciala morire, prima! Dopo, vedremo.
Michela non morì, e Gavina non parlò più del suo progetto. Ma a misura che il tempo passava e la speranza di avere un figlio si dileguava, ella si sentiva presa da un senso di noia e di vuoto. Ricominciò l’antica vita. Stava ore ed ore a lavorare accanto alla finestra e spesso si sorprendeva a pregare! Tranne il signor Zanche e qualche altro compaesano, non riceveva nessuno, e le lunghe giornate primaverili le davano un senso di melanconia; non desiderava nulla perchè le pareva di aver tutto, o meglio perchè tutto ciò che avrebbe potuto desiderare le sembrava illecito e vano nel medesimo tempo. Le pareva che il lusso, i divertimenti, i viaggi, la gloria, le passioni, tutto fosse inutile. Si muore: tutto finisce, tutto è vano.
Seduta davanti a una delle fontane di Villa Borghese passava ore ed ore ad annoiarsi, come negli interminabili crepuscoli estivi del suo paese! Aveva il sentimento della natura, e distingueva i colori del paesaggio e sentiva le voci delle cose, ma il senso del piacere era talmente depresso in lei che neppure il riflesso della bellezza arrivava ad eccitarlo. Ma come era già lontano il tempo in cui ella si compiaceva della sua poca sensibilità! Ora sentiva la stessa noia, la stessa tristezza d’un tempo, ma capiva benissimo che l’una e l’altra erano in lei, non nelle cose circostanti. La vita le palpitava intorno, ma la sua anima non poteva rifletterla se non come l’acqua scura e verdastra della fontana riflette il paesaggio e il cielo: in modo confuso e fosco. Sì, la vita le fremeva intorno, era nella natura, negli uomini, nelle cose; gli alberi stessi, persino le foglie secche e l’acqua della fontana rabbrividivano al suo soffio: persino i piccoli ciechi e i sordomuti che giocavano nel prato s’abbandonavano alla sua carezza: essi vivevano e godevano. Gavina li guardava e li invidiava, e sentiva che tra lei e la vita esisteva una profonda inimicizia: ma se un tempo se ne compiaceva, ora ne provava dolore.
*
In giugno, dopo un lungo silenzio di Luca, arrivò una lettera del canonico Sulis, e ancora prima d’aprirla Gavina sentì che conteneva brutte notizie. «Col sopraggiungere del caldo, Luca s’è di nuovo ammalato, — scriveva il canonico. — Da qualche tempo egli menava una vita regolare, ma un fatto stranissimo, di cui ti voglio scrivere solo a titolo di curiosità, lo ha di nuovo sconvolto. Te lo do a indovinare fra mille. Egli vuole ammogliarsi! Prima di ammalarsi frequentava la casa di Sebastiano Murru. Che cosa egli facesse lì, dalla mattina alla sera, non si sa: fatto sta ed è che dieci o dodici giorni or sono egli pregò tua madre di andare a domandargli in moglie la figlia di Sebastiano, la disgraziata Michela, di cui tu conosci le peripezie! Naturalmente tua madre accolse male la proposta. Per dispetto Luca ricominciò a bere, e mercoledì fu di nuovo preso dal suo malanno: ora le convulsioni son cessate; ma egli si trova in uno stato di grande prostrazione, ed ha formalmente promesso di non bere più. Questa promessa, che per conto mio ritengo simile al voto dei marinai durante la tempesta, conforta assai tua madre. Ella sta bene in salute ed ha una forza d’animo quale soltanto le donne virtuose possono avere: tuttavia ella avrebbe bisogno della vostra presenza per rincorarsi. Sento che tu e Francesco avete stabilito di fare un viaggio nella Svizzera e nella Germania. I viaggi sono molto istruttivi, ed io approvo la buona idea di Francesco di farti conoscere il mondo, ma prima del divertimento è il dovere, ecc., ecc.».
— Luca innamorato! Te lo figuri? Qui sotto c’è una vendetta di Michela! — disse Gavina: e non sapeva se ridere o piangere, perchè in quel fatto in apparenza ridicolo intravedeva qualche cosa di losco e di tragico. — Relativamente a lei, mio fratello è ricco. Se ella riesce a farsi sposare non farà poi un cattivo affare!
Ma Francesco domandò:
— Perchè Luca e Michela, uniti forse dal sentimento della loro disgrazia, lei disonorata, lui malato e screditato, non potrebbero amarsi?
Il canonico Sulis scrisse ancora. Luca stava meglio e non parlava più di matrimonio. Egli stesso ricominciò a scrivere, a nome di sua madre, e dava notizie della raccolta, della stagione, della salute di Paska, dei fatti del vicinato, ma non parlava più di Michela. Rassicurati, Francesco e Gavina decisero di non ritornare per quell’anno al paese natìo.
*
Essi viaggiarono. Gavina vide montagne beni più alte dei suoi monti natii, e conobbe le sere melanconiche e le notti nostalgiche in riva al mare. A poco a poco il passato si allontanò da lei e qualche volta ella sentì la nostalgia del suo paese, di tutto ciò che le era parso piccolo e odioso: come le montagne vedute da lontano ora tutto le appariva coperto da un vapore azzurro.
Ma nel settembre dell’anno seguente, quando tornarono nell’isola, ella si accorse che nulla era mutato. Paska piangeva: Luca arrossì quando la sorella per la prima volta in vita sua lo baciò, ma dopo il primo incontro ricominciò a guardarla con diffidenza ed a sfuggirla.
Gavina però non si offese: guardava i suoi parenti come se li vedesse la prima volta, e le sembrava di vederli finalmente nel loro vero aspetto di povere creature oppresse da un melanconico destino.
Il canonico Sulis trovò che ella aveva i capelli pettinati come usano «le donne di mondo» e tentò di scompigliarglieli.
— Io vorrei sapere una cosa, — le domandò appena si trovarono soli. — Perchè venne qui Francesco, pochi giorni dopo la vostra partenza?
Ella finse di non ricordare.
— Ma, credo.... mi sembra fosse citato come testimonio. Mi pare.
— Come, come, voi non ricordate?
— È passato tanto tempo!
— Beata voi che dimenticate così presto! — egli disse, pestando i piedi. — Io ricordo fatti di cinquantanni fa.
— Io no!
— E voi siete un’insolente!
— Ma, zio, ditemi una cosa. Perchè, se vi preme tanto sapere un fatto che a me non interessa molto, perchè non vi rivolgete a Francesco?
— Egli risponde con delle burlette. Del resto le cose si vengono a sapere lo stesso. Sì, vi dico! Si vengono a sapere dagli estranei. Nessuno ignora che egli venne per depositare presso il pretore una lettera del disgraziatissimo Priamo Felix: a chi era diretta questa lettera?
— Voi siete meglio informato di me! — disse Gavina, dirigendosi verso l’uscio.
Egli le corse addietro, l’afferrò, la strinse contro la sua pancia ansante.
— Tutti dicono che la lettera era diretta a voi. Capite? Ed io, vostro zio, io non ho saputo mai decifrare questo enigma.
— E non lo decifrerete mai! Lasciatemi. Lasciate in pace i miei capelli.
— Anche i vostri capelli, adesso, sono indiavolati! Va, io prevedevo questo! — egli gridò, spingendola lontano da sè.
Gavina voleva scherzare, ma si sentiva triste, e allontanandosi disse:
— Tutto cambia al mondo!
Uscì nell’orto e andò a mettersi sotto l’elce: la luna nuova calava sull’orizzonte glauco, le stelle brillavano al disopra della montagna; no, nulla era mutato, intorno, ma ella pensava alle parole dette allo zio, e quando sentì suonare l’avemaria non si fece neppure il segno della croce.
Dopo cena Luca e Francesco uscirono assieme; e sebbene molto stanca, Gavina attese che sua madre fosse andata a letto per farsi raccontare da Paska tutti gli avvenimenti accaduti dopo la sua partenza.
— Una volta mi scrissero che Luca voleva sposare Michela. Raccontami tutto. No, prima dimmi che cosa pensaste quando Francesco venne qui, pochi giorni dopo la nostra partenza.
— Eh, ci siamo spaventate! Egli disse, appena arrivato, che lo richiamava il giudice istruttore, come testimonio. Nessuno di noi credette. La mia padrona pianse tutta la notte. Ella credeva che tu e Francesco aveste litigato. Ma quando egli ripartì, allegro com’era venuto, ci rimettemmo il cuore in pace.
— E la gente che disse?
— Quasi nessuno seppe del suo arrivo. Dopo, quando si seppe che Priamo, disgraziato, s’era ucciso, tutti dissero che Francesco aveva depositato una lettera presso il pretore: una lettera che Priamo, disgraziato, aveva scritto a te. Nessuno mai seppe il contenuto di questa lettera.
— Ma perchè a me e non ad altri?
— Ma è questo che non si sa! Ho avuto molte questioni, a proposito, alla fontana. Dicevano che ti aveva scritto perchè eri l’amica di Michela, disgraziata.
Gavina chinò la testa, pensierosa: poi la scosse, col suo gesto fiero, come per scacciar via lontano da sè le immagini del passato, e vinta, da un’idea fastidiosa domandò:
— Ma, e la mamma, cosa diceva?
— Ha molto sofferto per le chiacchiere della gente. Ha questionato anche con Luca e col canonico. Essi dicevano: Gavina e Francesco dovevano confidarsi con noi. Dicevano questo, dicevano quest’altro. La mia padrona rispondeva: oramai essi son liberi di fare quello che vogliono, e se non si confidano con noi vuol dire che hanno le loro brave ragioni. Ma, per dirti la verità, qualche volta si è lamentata con me. Ed anch’io, per dirti la verità, vorrei... non pretendo di sapere i tuoi segreti, ma, per dirti la verità....
— Per dirti la verità, io non so nulla! — interruppe Gavina. — Raccontami ora il fatto di Luca.
Paska, alquanto offesa per la poca confidenza di Gavina, cominciò a raccontare, passandosi di tanto in tanto un dito sugli occhi. Il romanzo di Luca era un po’ complicato. Poco tempo dopo la partenza della sorella egli era stato in casa del contadino per farsi indicare un metodo d’innesto. Voleva innestare in un tronco di mandorlo le marze del pesco, in modo che le pesche, invece del solito nocciuolo, producessero mandorle dolci. Il padre di Michela sapeva di questi misteri agricoli: fatto l’innesto (che però non gli era ben riuscito) Luca aveva continuato a frequentare la casa del Murru, ora con la scusa di vedere un cinghialetto allevato dal contadino, ora con la scusa di farsi prestare delle sementi. Un giorno era tornato a casa con la bimba di Michela fra le braccia.
— Com’è? È bella? — domandò Gavina.
— Come vuoi che sia il frutto del peccato mortale? È brutta.
— Ma se mi avete scritto che era bella!
— Ma chi te l’ha detto? Lui, rimbambito. Del resto, sarà bella, anche, ma per me è brutta come la figlia del diavolo. Ora senti. La prima volta tua madre fece buon viso alla bambina. Dopo tutto è una piccola cristiana, una creatura di Dio. Le diede anche un biscotto. Ed ecco, il giorno dopo Luca ritorna ancora con la bastarda. Poco male, passi una volta, due, anche tre! Ma l’affare diventò un po’ seccante quando Luca pretese che io tenessi la bimba in braccio per delle ore. A momenti pretendeva che le dessi il latte! La mia padrona, certo, trovò da ridire: io gli domandai se impazziva. Allora egli si adirò. Sulle prime disse che voleva adottare la bambina, che voleva nominarla sua erede. Egli diceva: nessuno vuol bene a questa creaturina; tutti, persino il nonno, persino la madre, tutti la disprezzano e la respingono come un’appestata. Non c’è che la zia Itria, che le voglia un po’ di bene; ma la zia Itria ha da pensare ad altri. Ed io voglio raccogliere questa bambina, appunto perchè nessuno la vuole. Io m’infischio di tutti voi. Nessuno mi vuol bene; avrò almeno una figlia! — Io gli dicevo: e ti diranno che è tua figlia davvero, e che dovresti sposarne la madre! — Io scherzavo, s’intende: cioè ero arrabbiata, ma scherzavo. — Ebbene, e allora Luca dichiarò che voleva sposare Michela. E come si arrabbiava, quando io gli dimostravo che era pazzo! Un giorno lo chiamai cornuto, con licenza parlando.... egli fu preso dalle convulsioni.
Gavina ascoltava, ed a momenti rideva, ma subito dopo ridiventava pensierosa. Luca dunque aveva avuto lo stesso desiderio di lei: adottare la bambina, frutto del peccato mortale. Ecco che si rassomigliavano davvero, come qualche volta ella pensava: impotenti davanti alla realtà della vita, entrambi avevano bisogno di cose insolite, e sognavano un mondo irreale. Ed ella si era creduta diversa da lui!
— Ed ora? — domandò.
— Vuoi che ti dica la verità?
— Certo!
— Ebbene, senti. Dopo la sua malattia egli non ha parlato più di matrimonio, e non ha portato più qui la bimba; però egli è sempre là, in quella casa: egli è sempre là.... pare che una malìa lo attiri. Ma....
— Continua, Paska. Perchè piangi? Che hai?
— Che ho? Tu me lo domandi? Ho paura di farti dispiacere.
— A me? Perchè? Perchè Luca va tutti i giorni da una donna?
— Ah, — disse con ironia la vecchia — è vero, tu ritorni da una grande città, e il canonico dice che nelle grandi città tutti vivono in peccato mortale. Ecco perchè non ti meravigli di nulla, tu!
— Ma, insomma, cosa va a fare Luca da Michela? Questo vorrei sapere.
— Egli dice che va solo per veder la bambina. È possibile questo? Vuoi che un uomo vada innocentemente tutti i giorni da una donna, la quale non ha avuto scrupoli neppure davanti a un sacerdote?
La questione era grave e Gavina non osò risolverla. Ma mentre si ritirava nella sua camera continuava a domandarsi fino a qual punto Paska avesse ragione, e quali sentimenti spingevano Michela. I fantasmi del passato risorgevano intorno a lei in quella camera vasta e nuda. Ella si coricò, ma non spense il lume: il soffitto, basso, ineguale, tinto d’un grigio azzurrognolo, ricordava il colore delle nuvole d’autunno; sul canterano il vecchio orologio segnava sempre la stessa ora, e le mosche iridate non si erano mai mosse dalle piccole rose del giardinetto di cristallo. Quando Francesco rientrò, a Gavina parve strano veder un uomo nella sua camera di fanciulla.
— Siamo andati con Luca da un uomo dell’Ogliastra che ha del vino forte! — egli disse con voce velata. — Troppo forte! Mi sono quasi preso una piccola sbornia. Andava bene, per scacciare la stanchezza del viaggio.
— Bravo! Ora non ti resta che seguire l’esempio di Luca! Ma che fai, adesso?
Dopo aver girovagato scalzo per la camera egli apriva la finestra.
— La luna è tramontata, Gavina. Ti ricordi la notte che io venni a visitare Luca? Povero diavolo! Sai che vuol prender moglie?
— Michela?
— No: la figlia dell’Ogliastrino!
— Quello del vino forte? L’hai veduta.
— Io no! Sta al suo paese. Non la conosce neppure Luca, ma ne ha sentito parlare e vuol farle fare la parte di Melisenda!
— Domani gli verrà in mente di sposare Paska! Ora che ha cominciato!...
— Sai che cosa gli ho detto, per convincerlo al celibato? Che avrà presto un nipote.
— Sì, domani!
— Perchè ti disperi? Ciò che non è accaduto finora può accadere domani. Però, pensa davvero, che dispiacere se nostro figlio morisse! Tu morresti dal dolore, ne son certo. Potrebbe vivere però. Sarebbe un bel ragazzo, con gli occhi azzurri come i tuoi, ma di carattere allegro, come il mio. Andrebbe a scuola.... alle scuole pubbliche. Oh, io lo manderò alle scuole pubbliche, sai.... Non ammetto l’istruzione privata. Il più delle volte gli istitutori sono uomini di carattere debole, umili, servili, corrotti.... Mio figlio....
Egli continuò, e parlava sul serio, lievemente commosso.
— Il vino forte dell’Ogliastrino t’ha reso sentimentale! — ella disse; ma intanto lo ascoltava, addormentandosi, con la speranza che egli predicesse il vero.
L’indomani fin dalla mattina presto cominciarono le visite dei parenti, dei vicini, di malati di tracoma desiderosi di farsi visitare da Francesco.
Mentre Gavina riceveva le visite, egli trasformò una camera del primo piano in gabinetto medico, e lì per lì ricevette qualche malato. Soltanto verso sera uscirono, e passando davanti alla casa della zia Itria videro la vecchia obesa seduta sulla panchina di pietra e si fermarono.
— Voi state bene? Verrò presto a trovarvi, — le disse Gavina carezzandole il viso gonfio.
La vecchia s’alzò, sbalordita se non commossa, e disse francamente che trovava sua nipote molto cambiata.
— In bene, vero? — domandò Francesco, accarezzando le spalle di Gavina.
— In bene, — affermò la zia Itria.
Attraversato il rione dei poveri i due sposi scesero per lo stradale, e Gavina si volse a guardare la casa di Michela, la finestra dove per la prima volta le era apparso il viso scuro di Francesco. Quanti ricordi! Risorgevano ad ogni passo, continuavano lungo lo stradale, di qua e di là, come pietre miliari.
Calava la sera, una sera già autunnale, e grandi nuvole biancastre, dorate dalla luna, coprivano quasi tutto il cielo, immobili sullo sfondo azzurro. La montagna era scura d’ombra, ma a destra e a sinistra, nella valle, si scorgevano grandi estensioni di paesaggio vivamente illuminate dalla luna. Le macchie verdastre e le ombre nere delle roccie si delineavano nitidamente sul terreno giallognolo; i campi di stoppia, in lontananza, avevano come un riflesso d’acqua, e tutto il paesaggio, dai monti lontani coperti di vapori argentei, fino al profilo nero della piccola città disegnato sulle nuvole chiare e immobili come blocchi di metallo, pareva assopito in un sogno fantastico.
Gavina ricordava le sere in cui scendeva con Michela alla fontana, i fuochi lontani delle brughiere, tutta la triste poesia del suo passato, che come quei fuochi melanconici mandava il suo riflesso in lontananza, fino al presente, fino all’avvenire. E benchè Francesco la tenesse per la vita come un fidanzato, parlandole di cose liete, ella si sentiva triste.
Al ritorno vide un’ombra attraversare il vano della finestruola illuminata di Michela, e udì un pianto infantile; si fermò, guardò a lungo in su ed ebbe il desiderio di entrare e veder la bambina. Ma Francesco la trascinò via.
La straducola si era animata. Di solito, durante la giornata, quel viottolo serpeggiante fra le casupole in rovina sembrava un avanzo di strada in un angolo di paese abbandonato: non vi si vedevano neppure galline, neppure cani; la gente era così povera che tranne qualche bue e qualche gatto non possedeva altri animali. Di sera soltanto apparivano qua e là figure scarne, s’udiva il roteare dei carri, il passo lento e grave dei buoi melanconici. Gavina aveva come l’impressione di passare per la prima volta in quel luogo di miseria. Nel chiaro-scuro della notte incerta la straducola pareva un torrente d’ombra, fra roccie desolate: donne e uomini, accovacciati per terra, nella penombra tratto tratto rischiarata dalla luna, chiacchieravano con voce stanca. Nel sentire il fruscio delle sottane di Gavina tutti tacquero, ma Francesco salutò a voce alta, chiamando a nome qualche donna. Allora dall’alto d’una scaletta in rovina una voce rauca e stanca disse:
— Dottore! Ho i bimbi tutti ammalati: il più piccolo muore. Me lo guardi!
— Nicolosa! Lascia la gente passar tranquilla per la strada — disse una voce d’uomo, dall’ombra del sottoscala.
— Ora vado e torno, accompagno Gavina, — rispose Francesco guardando in su.
Ma Gavina si fermò di nuovo e gli disse:
— Va su adesso, va su; ti aspetto qui, — e mentre egli si arrampicava su per la scaletta, ella sedette sulle pietre che formavano i primi scalini. In un attimo una diecina di figure balzarono attorno a lei come fantasmi uscenti dall’ombra: erano donne lacere, ragazze anemiche, bambini febbricitanti; piccola rappresentanza di un popolo denutrito, infantile, abbandonato a sè stesso come un fanciullo in un deserto. La curiosità, la meraviglia, la speranza di un soccorso, e forse anche il desiderio di notizie di un mondo lontano, per loro ignoto, spingeva quei fantasmi verso la creatura tanto superiore a loro e che tuttavia si era seduta in mezzo alle loro rovine. E furono domande dapprima timide e rispettose, poi sempre più ardite, argute e anche beffarde, ma d’una beffa che ricadeva su chi interrogava e non su chi era interrogato. Com’era Roma? Grande? Com’erano lo case? Com’era la casa del Re? Rassomigliava alla casa di Gattulinu? (Grandi risate, anche da parte degli uomini rimasti sdrajati per terra. La casa di Gattulinu era la più misera del vicinato). E le strade? Come quel vicolo? E il Papa com’era? Mangiava pane d’orzo? C’erano pere selvatiche a Roma? E la Regina andava a mietere?
Poi cominciarono domande più intime:
— Come ha fatto ad ingrassare così, signora Gavina? Si vede che ha pane a sufficienza. Perchè non pensa a far dei figli? Se non ha mezzi per allevarli, ebbene, li mandi a casa nostra!
Gavina rispondeva, senza offendersi, ma anche senza divertirsi; l’umorismo di quella gente, che conosceva la propria miseria e l’accettava come un’ironia della sorte, era più contristante di qualsiasi lamento.
Dalla porticina aperta sull’alto della scaletta usciva un pianto rabbioso e disperato di bambino, ma nessuno tranne che lei ci badava. A che serviva? Francesco riapparve sul ballatoio senza balaustrata, e mentre la donna, alle sue spalle, faceva luce con un lanternino, egli si curvò come sull’orlo di un abisso, e gridò:
— Ohè, donne! Badate che questi bimbi hanno la tonsillite acuta. Badate di tenere gli altri bimbi lontani.
Gavina si alzò, e le figure grigie e nere sotto il tenue barlume che pioveva dalla scaletta, si scostarono, tornarono ad accovacciarsi nell’ombra.
— Stanno molto male, quei bambini? — ella domandò riprendendo il braccio di Francesco. — Quanti sono?
Egli fece un gesto come per buttar via qualche cosa, e disse a voce alta:
— Miseria, miseria!
Quando arrivarono nella piazzetta rischiarata da un fanale, il circolo degli amici della zia Itria era già al completo. S’udiva la voce da basso del reduce, la voce feminea del nano. Francesco salutò, e tutti risposero con accento rispettoso; ma appena la coppia fu passata qualcuno rise sconciamente e s’udì come un rumore di trombetta, subito soffocato da uno scoppio di risate, di voci, di grida. Infine risuonò la voce irritata della zia Itria, poi il rumore di uno schiaffo e come un pianto di bimbo bastonato.
L’indomani mattina Luca disse a Francesco che il nano desiderava ottenere un’udienza da Gavina.
— Un’udienza particolare o circolare? — disse Francesco, e andò a riferire la domanda a sua moglie.
L’udienza accordata, il nano, che passava quasi tutta la giornata in casa della zia Itria, si mosse con una certa diffidenza, e prima di picchiare alla porta della signora Zoseppa si fermò davanti alla finestra della stanza da pranzo, guardandovi dentro con curiosità come usavano i bambini della strada.
Gavina lo vide ed andò ad aprirgli la porta, sorridendogli appunto come ad un bambino. Questa accoglienza finì di turbarlo: egli cadde in ginocchio e giunse le manine; piccole mani, magre e nodose, che rivelavano l’età matura dell’omettino.
— Sono stato io.... sì, ieri notte.... sono stato io. Le domando perdono....
— Ma che cosa hai fatto? Che c’è? Alzati.
— Io.... io, sì, quel rumore....
— Ebbene? Cos’era quel rumore?
— Quel rumore.... come, non l’ha sentito?
— Io non ho sentito niente!
— Gli altri han detto che io l’ho fatto per burlarmi di lei! Mi hanno imposto di venire a domandarle scusa in ginocchio: altrimenti non mi accettano più in loro compagnia! Ed hanno ragione. Sono un maleducato, io! Non debbo permettermi di scherzare, io! Io, proprio io! Io che sono uno scherzo di natura!...
Egli piangeva. Gavina si chinò, gli prese le manine, lo costrinse ad alzarsi.
— Ma se non mi sono accorta di nulla! Alzati, finiscila, non piangere: ora ti darò da bere.
Il nano si asciugò gli occhi con la manica della camicia e stette alcuni momenti col viso nascosto sul braccio.
— Che cosa bevi? Liquore o vino?
Egli bevette il vino ed il liquore; e da vergognoso e triste si fece allegro e sfacciato, ed i suoi occhioni neri fissarono arditamente quelli di Gavina.
— Tutti mi rinfacciano la mia allegria, signora Gavì! Che cosa devo fare? devo impiccarmi? Giacchè Dio mi ha fatto così, debbo contentarmi: altrimenti sarebbe come dire al Creatore: «Tu hai fatto male!» Non si deve criticare Iddio. La vita è corta, dobbiamo tutti morire: se non rido ora, potrò ridere quando sarò morto?
Gavina dovette dargli ragione. Prima di andarsene egli le domandò se conosceva qualche «impresario» a cui raccomandarlo come «un fenomeno vivente» e le disse che la speranza di potersi un giorno esporre al pubblico, in una sala piena di lumi, al ritmo d’una musica da circo, lo rendeva ebbro di gioia: la notte non poteva dormire pensando a questo avvenire luminoso!
Gavina promise di raccomandarlo al signor Zanche; e prima di congedarlo gli fece dare da Paska un canestrino di fichi. In un attimo tutto il vicinato seppe della buona accoglienza ch’ella aveva fatto al nano; e nei giorni seguenti gli amici della zia Itria, i contadini poveri, le donne che l’avevano attorniata mentre sedeva, sulla scaletta, vennero a battere alla sua porta e a domandarle qualche favore. Ella veniva da Roma; era dunque grande e possente, e poteva ottenere tutto quello che voleva.
La vedova maldicente le si inginocchiò davanti e le disse che aveva sognato il Re, vestito di rosso, con la corona in testa, che le diceva benignamente:
— Se Gavina Sulis domanda la grazia di tuo figlio gliela concedo.
Francesco a sua volta riceveva qualche malato. La stanza da pranzo si trasformò in un ambulatorio; ma i malati, quasi tutti paesani poveri, afflitti dal tracoma e dalla congiuntivite doppia, avevano un aspetto ben diverso da quello dei malati che Gavina aveva conosciuto a Roma. Non aprivano bocca se non interrogati; e mentre le donne, col capo avvolto da bende nere, si accovacciavano per terra, melanconiche e taciturne come schiave cieche, gli uomini anche i più miseri conservavano un aspetto dignitoso e fiero; alcuni ricordavano Sansone dagli occhi forati, e come lui pareva meditassero una vendetta grandiosa.
Paska e la signora Zoseppa non vedevano di buon occhio questa invasione, e anche Gavina avrebbe desiderato che Francesco si riposasse. Ma egli era spinto verso i malati da una forza superiore alla sua stessa volontà; e la loro vista gli dava una specie di ebbrezza che talvolta si esplicava in modo quasi selvaggio: egli s’impossessava dell’infermo come d’una preda, lo afferrava, lo scuoteva, lo esaminava, lo interrogava, quasi dipendesse dal malato stesso la rivelazione del male e del conseguente rimedio. E fuori del suo gabinetto egli non parlava più di malati nè di malattie, corno uno che nutre una passione profonda ma non la partecipa a nessuno.