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servava che i giovani medici, per non essere da meno dei vecchi, li imitavano.
I malati umili sorridevano servilmente, piegati davanti alla potenza di quegli uomini che coi loro speculi pareva scrutassero entro i più cupi misteri della natura; ma il viso di qualche malato fiero e disperato assumeva un’espressione di amarezza e quasi di odio. E quando erano soli quasi tutti i malati a loro volta si beffavano dei medici e si confortavano a vicenda raccontando la storia della loro malattia.
Mentre aspettava Francesco, Gavina li ascoltava con curiosità. Seduta accanto a loro sulle panche melanconiche dell’ambulatorio qualche volta prendeva anche parte alla loro conversazione. Le donne specialmente chiacchieravano volentieri. Così ella venne a sapere che la malattia, da lei fino a quel tempo considerata come un semplice accidente fisico, è il più delle volte il risultato di molte miserie morali.
Gavina riferiva a Francesco i discorsi dei malati, le loro bugie, i lamenti; e gli rinfacciava la durezza dei modi con cui egli e i suoi colleghi trattavano quei disgraziati; egli però non solo dava poca importanza ai discorsi di lei, ma la pregava di non frequentare l’ambulatorio. Un giorno le disse:
— Ma non potresti andar meglio a Villa Borghese o al Pincio in queste belle mattine?