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aveva destato da lontano quando ella sognava davanti alla muraglia delle montagne natie. Tutto era sparito. Ella si guardava attorno, come per cercare almeno una traccia della città che aveva sognato; ma dal suo posto non vedeva che aiuole coperte di giacinti d’ogni colore, e gli alberi dei viali appena rivestiti di una peluria giallognola. Il cielo era argenteo, qua luminoso, là vaporoso, solcato da striscie azzurrognole e da nuvole così tenui, rosee e bianchiccie, che davano l’idea di chiome di peschi fioriti staccatesi dalle praterie lontane e vaganti per l’aria. Tutto era pace e dolcezza sotto quel cielo fiorito: le ruote delle vetture, i finimenti dei cavalli, i bottoni delle divise delle guardie scintillavano d’una luce argentea, come al riflesso della luna. In fondo al viale le figurine dei bimbi si delineavano nitide, quasi tutte rosse, come su uno sfondo metallico. Il mondo intero pareva composto d’un metallo puro e luminoso: gli alberi erano d’oro, e il canto degli usignuoli aveva lunghe vibrazioni come di verghe di argento battute su lastre d’argento.
Quando lo sfondo del viale rimaneva deserto Gavina vedeva una balaustrata che le pareva il limite fra il giardino e una immensità invisibile; e le sembrava che i vapori luminosi che inondavano l’orizzonte salissero dalla città come da un mare agitato. Laggiù era Roma, non la città santa ch’ella aveva sognato, ma