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tratto rischiarata dalla luna, chiacchieravano con voce stanca. Nel sentire il fruscio delle sottane di Gavina tutti tacquero, ma Francesco salutò a voce alta, chiamando a nome qualche donna. Allora dall’alto d’una scaletta in rovina una voce rauca e stanca disse:
— Dottore! Ho i bimbi tutti ammalati: il più piccolo muore. Me lo guardi!
— Nicolosa! Lascia la gente passar tranquilla per la strada — disse una voce d’uomo, dall’ombra del sottoscala.
— Ora vado e torno, accompagno Gavina, — rispose Francesco guardando in su.
Ma Gavina si fermò di nuovo e gli disse:
— Va su adesso, va su; ti aspetto qui, — e mentre egli si arrampicava su per la scaletta, ella sedette sulle pietre che formavano i primi scalini. In un attimo una diecina di figure balzarono attorno a lei come fantasmi uscenti dall’ombra: erano donne lacere, ragazze anemiche, bambini febbricitanti; piccola rappresentanza di un popolo denutrito, infantile, abbandonato a sè stesso come un fanciullo in un deserto. La curiosità, la meraviglia, la speranza di un soccorso, e forse anche il desiderio di notizie di un mondo lontano, per loro ignoto, spingeva quei fantasmi verso la creatura tanto superiore a loro e che tuttavia si era seduta in mezzo alle loro rovine. E furono domande dapprima timide e rispettose, poi sempre più ardite, argute e anche beffarde, ma d’una beffa