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Ed ella se ne andava a Villa Borghese o al Pincio, seguendo la fila delle bambinaie, degli stranieri, dei teppisti, di tutte le persone oziose o malaticcie che nei bei mattini primaverili invadono i giardini di Roma. Seduta sull’erba, nei prati di Villa Borghese, o sulle panchine della terrazza del Pincio, si abbandonava ai suoi ricordi. Il presente e l’avvenire non la preoccupavano: tutta la sua vita era nel passato. Quella mattina di Pasqua, però, ella si guardava attorno con occhi inquieti, ancora turbata per ciò che aveva fatto durante quella settimana. Per la prima volta in vita sua non aveva compiuto il precetto pasquale! Le sembrava ancora di sentire l’eco nostalgica delle voci bianche e il canto delle tenebre nella penombra di San Pietro; di star seduta ancora sullo scalino d’un altare della basilica, ascoltando la musica sacra come una schiava che sente all’improvviso un canto della patria lontana. Addio, addio! La fede moriva in lei, ma ella ne sentiva ancora la nostalgia.

Dove questo primo passo decisivo l’avrebbe condotta ella non sapeva; le sembrava di agire coscientemente, ma aveva paura di far male, e sentiva che l’antica vita la teneva ancora, che l’avvolgeva tutta coi suoi ricordi. Ricordava il fascino che Roma, la città santa, coi suoi conventi, le chiese, le basiliche, le funzioni per cui gli stranieri accorrono in pellegrinaggio come un tempo a Gerusalemme, le