Scientia - Vol. X/Socialismo giuridico

Silvio Perozzi

Socialismo giuridico ../Biometrie ideas and methods in biology ../Dell’Attenzione IncludiIntestazione 28 giugno 2023 100% Scienze

Biometrie ideas and methods in biology Dell’Attenzione
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SOCIALISMO GIURIDICO



È un socialismo già adulto, il che torna a dire che è nato ieri. Non può essere nato l’altrieri, perchè non sarebbe un socialismo vivo, ma morto; tanto è breve il ciclo vitale di tutti i socialismi. Se i socialismi hanno brevi i giorni, la vita del socialismo occupa la storia che fa e pare destinata ad occupare quella che sarà. La caducità di quelli e la perennità di questo si spiegano facilmente. Il socialismo è una religione; i socialismi ne sono le forme; forme mortali di una religione immortale.

Religione: nient’altro. E non meramente di simiglianza; ma di essenza; essenza che già più d’uno affermò ma nessuno, ch’io sappia, dimostrò; e giova dimostrarla e giova anche meglio coglierne le più salienti manifestazioni.

L’opinione comune che presso i popoli europei e derivati la religiosità sia fiaccola, a cui manca sempre più il nutrimento, muove dal presupposto che la religione consista nella professione di un irrazionale fisico. La fede in ogni irrazionale simile va in realtà tramontando. Ma il presupposto è erroneo. Religione è una concezione irrazionale assoluta intorno all’uomo, vale a dire intorno al presente e all’avvenire dell’individuo, o di una società o di tutte le società umane, concezione atta a determinare la condotta e affermata allo scopo di determinarla. Questa concezione può essere compresa in un irrazionale fisico; e allora questo è religione, mentre non sarebbe se fosse una tesi meramente fisica, anzi [p. 144 modifica]che umana; ma essa può anche stare a sè e non è per questo meno religione. Chiamando ora mitiche le religioni che ammettono l’irrazionale fisico, naturali quelle che lo escludono, l’asserita decadenza della religiosità si riduce veramente alla decadenza delle prime. Contro questa sta il dilagare delle seconde. Per esse anche il nostro secolo è un secolo di fede. Nè può essere altrimenti. Il fenomeno religioso è frutto dell’istinto religioso. Ed essendo costante la quantità di questo, come di ogni altro istinto, è necessariamente costante anche la quantità di quello.

Delle attuali religioni naturali alcune sono sorte per una naturalizzazione delle mitiche. È ad es. certamente un irrazionale fisico il Dio cristiano ed è non meno certamente professato, se per varii razionali, anche per molteplici irrazionali umani. Tra questi uno dei più rilevanti è il seguente: affermando Dio, si assegna una ragione e una meta all’universo e anzitutto all’uomo; ragione e meta che determinano il dovere di una condotta ad esse coerente. Codesto Dio è scomparso dalla mente di molti. Ma non è scomparsa con esso anche la concezione teleologica dell’universo. Affermata la legge dell’evoluzione nel campo biologico, quasi tutta la società culta la trasportò via via in tutti campi dell’essere; da legge di trasformazione ne fece una legge di progresso; intese il progresso come avanzamento verso una meta e lo elevò quindi a norma dell’attività individuale e sociale. L’irrazionale fisico è così radiato; ma l’irrazionale umano implicito in quello rimane. Rimane come idea di un fatto naturale, che per i credenti si concilia col divino; per i miscredenti lo sostituisce. Effettivamente il fatto è immaginario. La teleologia universale non è nella sua veste naturale che quello che era nella sua veste mitica: una religione.

Altre religioni naturali sono sorte direttamente come tali, o almeno la loro derivazione dalle mitiche è così indiretta e lontana da potersi trascurare. A questa categoria appartiene l’irenismo, l’idea cioè che deva cessare ogni guerra fra gli Stati e devano gli uomini privati e pubblici uniformare la loro condotta a questo scopo. Gli Stati in questione sono organismi sociali reciprocamente autonomi, che in tanto vogliono essere tali in quanto ciascuno sa e sente che la sua unione con un altro gruppo in un aggregato maggiore sarebbe dannosa alla sua vita. Come ogni altro [p. 145 modifica]organismo, ciascuno Stato è diverso di condizioni e quindi di energie dall’altro e ciascuno vuol vivere tutta la vita, di cui è capace, nè vuole d’altra parte soffrire e tanto meno morire per l’altrui. Basta perciò che le loro vite non si svolgano in tutta la pienezza, di cui sono suscettibili, in ambiti diversi, perchè la diversità delle energie porti a volontà dell’uno che non possono essere attuate senza la sofferenza o la fine dell’altro. Questo potrà subirle al più sino a che il danno della sofferenza gli sembri inferiore al danno che gli può derivare da una resistenza. Oltre a questo punto e sempre dove avverta che il cedere è estinguersi la resistenza avverrà; si avrà cioè la guerra. L’irenismo che professa da un lato la pluralità degli Stati e dall’altro la costante possibilità di una conciliazione delle loro esigenze vitali, che, se esistesse, importerebbe la fusione di essi in un solo, si avvolge adunque in una contraddizione logica. Esso è, come altri già vide, una religione. Ed è religione il nazionalismo inteso come opinione che la composizione delle nazioni sia uguale nei secoli e che ciascuna di esse deva rimanere chiusa e rispettata entro i suoi naturali confini. Nazioni e confini sono prodotti storici e la storia, che li fa, li modifica e li distrugge. Ohi opina il contrario non ragiona, crede. E crede il libero pensatore il quale suppone che la vita sociale possa e deva tutta svolgersi in conformità ad opinioni accolte dai singoli per persuasione logica, anzi che per forza di autorità e di esempio. Pretendere ciò vale pretendere che l’uomo possa e deva camminare soltanto in seguito alla esatta conoscenza anatomica e fisiologica degli organi della locomozione. Crede chiunque opina che la sovranità sia un diritto che il fatto lascia illeso, mentre ogni sovranità non è che di fatto, le costituzioni non sono che formulazioni del fatto e quando non siano più tali cessano di essere. Crede chi consideri una qualsiasi forma di governo come la sola perfetta e giusta. Credono gli idolatri della scienza, pensando che questa sia forza atta a dirigere tutta l’attività umana e destinata a ciò nel futuro. Credono quegli idolatri della libertà che sono gli anarchici. Credono quanti professano e vogliono la parità assoluta dei sessi nel costume sociale e nelle leggi. E credono molti altri molte altre fedi congeneri.

Siamo sempre innanzi al medesimo fenomeno, di un pensiero cioè che non è mai o non continua che per poco ad essere [p. 146 modifica]dominato dalla forza centripeta dei fatti, e quindi non sta o non resta entro l’orbita tracciata dall’applicazione dei procedimenti logici atti a determinare la loro realtà e misura, le loro leggi e le previsioni che queste concedono, ma è costretto a percorrere una linea diritta che si perde negli spazii infiniti, sotto l’impulso di un’energia indisciplinabile in abile procedente dal fondo degli istinti: l’energia dell’istinto religioso.

A questo tipo di religioni appartiene anche il socialismo. Ma vince tutte quelle che abbiamo menzionate, e le altre più di cui abbiamo taciuto, di forza. Esso è la più diffusa ed intensa manifestazione attuale del sentimento religioso. Per il suo contenuto sta in una medesima linea con certe idee religiose familiari a chiunque; quali sono l’esclusiva appartenenza all’uomo di un’anima razionale, la sua immortalità, la risurrezione dei corpi, il giudizio finale ecc. In questi concetti non abbiamo che altrettante negazioni di dolorose ineluttabili realtà di esperienza. Si nega con essi rispettivamente la parità della natura dell’uomo a quella dei bruti; la morte della personalità, quella dei corpi, l’ingiustizia. Anche il socialismo è la negazione di un male indistruttibile. Esso nega la povertà.

Questo fu intuito da molti. L’intuizione si esprime in quel considerarsi volgarmente il socialismo come equivalente al comunismo. Nel comunismo infatti e solo in questo la povertà scompare. Povero non è che uno che ha meno rispetto ad uno che ha più. E conviene quindi, perchè la povertà cessi, che cessi appunto il fatto dell’avere l’uno meno e l’altro più. Vero è che molti si professano e sono socialisti mentre non professano il comunismo e talora lo rinnegano apertamente. Costoro professano però un comunismo ridotto. Esigano, ad es., che ogni uomo abbia un minimo di mezzi di sussistenza, o che sia posta in comune la terra, o siano posti in comune i mezzi di produzione, sempre vogliono un meno, che è implicito nel totale voluto dai comunisti. Ma non è tanto per questo che sono tuttavia socialisti, quanto perchè essi vogliono il meno, per la stessa causa, per cui i comunisti vogliono il più, ossia perchè anch’essi negano la povertà. E se ciò non ostante si appagano del meno, ciò deriva soltanto dal chiamare essi in soccorso contro la causa che li spinge a volere il più, qualche altro principio che limita la forza della causa stessa, ma non la distrugge. [p. 147 modifica]Soccorre un paragone. Cause estranee a quelle per le quali sorge il dominio lo limitano: ma se cessano di operare e quindi il limite vien meno, il dominio, per l’energia che è propria alle sue cause, raggiunge spontaneamente la sua massima estensione. Ugualmente il socialismo non comunista in tanto è socialismo in quanto risulta dalla negazione della povertà combinata con concetti espressi o sottintesi che limitano la forza propria di quella, che è di condurre al comunismo. In qualche singola affermazione anche importante possono quindi incontrarsi il socialista e il non socialista. Ma fra i due rimane la differenza che l’uno vuole l’affermazione perchè nega la povertà; l’altro per una diversa ragione, ad es. per un sentimento umanitario, una necessità politica, l’avversione a certi sfruttamenti ecc. L’affermazione di questo muove così da un pensiero che non lo può mai portare oltre ad essa; l’affermazione di quello muove da un pensiero che senza la costrizione esercitata da un altro lo porterebbe ad ampliarla sino all’estremo limite suo naturale costituito dal comunismo.

Che ora la negazione della povertà sia un irrazionale credo non occorra provare. Del resto qualche parola dirò in proposito verso la fine di questo scritto. È anche evidente che è un irrazionale professato come assoluto. Quel qualsiasi ordinamento economico in cui essa deve parzialmente o totalmente scomparire è presentato come ordinamento perfetto e definitivo della vita economica. Non toglie nulla al carattere assoluto della concezione il fatto che invece di considerarsi l’ordinamento stesso come un ideale immanente, sia considerato come la meta ultima dell’evoluzione. Tutti gli ideali umani terminali non sono che degli assoluti vestiti alla foggia evoluzionista. Infine neppure l’evoluzionismo ha potuto fare del socialismo un irrazionale meramente contemplativo. Esso resta eminentemente pragmatico; confessato e voluto per l’azione. L’evoluzionismo in discorso applicato al socialismo non manifestò una qualche efficacia che sui modi dell’azione.

Religioso di natura, non è a stupire che il socialismo sia anche religioso nel diportamento.

Verso la religione ancora dominante, voglio dire il cristianesimo, egli si diporta come fa ogni religione che succede ad un altra; ne assorbe più che può, e insieme lo respinge. Egli ne prende i concetti dell’unità della stirpe umana e [p. 148 modifica]della fratellanza fra gli uomini; ne prende la certezza del proprio definitivo trionfo su tutte le coscienze; ne prende l’emozione pietosa verso le sofferenze degli umili, la mal celata indifferenza, quando non è diffidenza, verso ogni forma di attività mentale che non sia in servizio della fede; la proclività ad un giudizio morale severo del ricco e benevolo del povero; il sospetto verso il potere politico e quindi la disposizione a dominarlo per i proprî fini anzi che a parteciparvi e quindi ancora l’altra a costituirsi e ad agire come chiesa che dirige lo Stato ma non si confonde con esso; ne prende gli spiriti democratici inclini piuttosto all’idea imperiale che all’idea liberale; i pacifici, gli uguaglitarî estranei all’ordine economico, ne prende insomma tutta in genere l’anima sociale più estesa e profonda. Un’anima che ha varie origini, così anteriori che posteriori al cristianesimo e ora in esso, ora fuori di esso; e ha varia storia; parte infatti vi conservò le sue radici; parte finì col separarsene per vivere di vita propria; ma che ad ogni modo solo nel cristianesimo si compone ad unità ed è in questa unità che il socialismo la deriva da quello in se, ridonandovi calore e forza nuova. Di qui la difesa naturale, che fa del cristianesimo una larga schiera di credenti in esso. Essendo tanta parte dei suoi elementi attratti a sè dal socialismo, perchè non potranno invertirsi le parti, rimanere cioè codesti elementi uniti all’antica fede e questa attrarre a sè quanto è possibile della nuova in dottrina e più che in dottrina in opere ed in fiamma?

Tutta la parte del cristianesimo non fatta propria il socialismo la respinge e la combatte. Inevitabilmente. Se non si può essere cittadini di più Stati, tanto meno si può essere cittadini di più religioni. Chi appartiene all’una è sempre in uno stato di guerra potenziale o effettiva contro tutte le altre. Il socialismo non si sottrae a questa legge. Perciò non è soltanto anticlericale, ma anticattolico ed anticristiano; più in generale è contrario a qualunque altra religione in vigore. Nè accenno con ciò alla sola sua azione politica. Accenno invece in particolar modo all’azione che esercita sull’anima dei suoi seguaci. Esso è una fede che può bastare a soddisfare lo spirito credente. Onde, dove è più intenso, chi lo professa deserta spontaneamente i templi di ogni altra fede. E se non dovunque avviene questo, se dal seno del socialismo sorgono talora voci di tolleranza verso la religione [p. 149 modifica]positiva dominante e le altre minori, ciò dipende solo da una certa sua coscienza della povertà propria in fatto di elementi immaginosi, affettivi, simbolici e rituali, dei quali codeste fedi invece abbondano, e senza dei quali l’istinto religioso comune non si sente appagato.

Perchè religione, il socialismo non è neppure scalfitto dalla critica scientifica. L’espressione più sincera della fede è nella formula: credo quia absurdum. E la scienza che dimostra l’absurdum non può a meno di lasciare intatto il credo. Ciò che uccide una fede non è che il sorgere di un’altra. Finchè questo non avvenga, la fede precedente sta e solo può modificarsi per forze ad essa interne. D’intime divisioni e battaglie il socialismo è pieno. Egli non conosce ancora un’ortodossia. Non divenne tale neppure il marxismo. Il che non significa una sua decadenza. L’affermazione sarebbe troppo in contrasto colla sua continua espansione. Nè significa una sua gioventù. Il socialismo è infatti antico. Significa soltanto che esso è una religione costretta dall’indole sua a una molteplicità e variabilità di dogmi, com’è ad es. il cristianesimo protestante. Questo vi è costretto dal principio del libero esame. Il socialismo dall’esser fede nella cessazione della povertà per circostanze ed opera umane. Ciò lo sforza infatti a disegnare e collocare le circostanze e l’opera in un avvenire vicino. Un ideale di benessere economico non può serbare virtù allettatrice sugli spiriti se il giorno del suo avvento sia fatto balenare sugli estremi orizzonti del tempo. E quindi la forma naturale del socialismo è sempre un sistema, ossia un progetto, tale, secondo il progettista, da poter essere più o meno prontamente attuato. Nè fa eccezione il socialismo evoluzionista. Anche questo è infatti meramente un progetto presentato in veste di un corso e di un risultato abbastanza prossimo di eventi naturali economici. Data ora la moltitudine degli elementi influenti sulla distribuzione della ricchezza, la loro suscettibilità di diversi apprezzamenti e mutabilità nel temilo, è inevitabile che divergano i progetti contemporanei e che ogni età ne sostituisca di nuovi agli antichi. La scienza crede di combattere il socialismo dimostrando l’inconsistenza e l’inapplicabilità dei suoi progetti, quasi che questi fossero, anzi che concezioni interessanti lo studioso di religioni, concezioni erronee di natura scientifica appartenenti specialmente all’economia. E fa perciò un lavoro inane. Codesti progetti [p. 150 modifica]cadono quando, mutati i fatti e gli apprezzamenti loro, la fede socialista si adagia in progetti diversi.

Il socialismo deve ancora di necessità usare a diffondersi il modo proprio di ogni propaganda religiosa, che è di non volgersi alle facoltà logiche, ma alle emotive. La sua parola alle turbe non è mai un’argomentazione, ma un’imprecazione o una commiserazione, dalle quali fa scaturire una fiamma di desiderio che si tramuta in fiamma di speranza. Conoscendo lo smarrimento dell’intelletto e l’esaltazione degli stati immaginosi ed affettivi che l’individuo patisce nella folla, ama dire il suo verbo alla folla, e la cerca o la forma. Non ha acquistato un adepto, che lo trae in un’associazione, perchè la fede dell’uno si riscaldi al fuoco della fede degli altri. Usa di un gergo di parole e di frasi che ripete sino allo stordimento, conscio di tutta la forza di ottenebramento del pensiero, di convinzione e di esaltazione che ha sul volgo la ripetizione uguale e continua della medesima formula. Trascura gli elementi sociali riflessivi, per contare invece sugli emotivi; coltiva quindi di preferenza le plebi, i giovani, le donne. Le quali si sentono a loro agio nel socialismo, come si sentono a loro agio in ogni fede. Nè lascia mai posare l’emozione. Perciò costringe i suoi seguaci a menare vita ecclesiastica, cioè di riunione, travolgendoli in una serie incessante d’adunanze private o pubbliche, di feste, di cortei.

E potrei continuare, se non premesse più far cenno, in quest’ordine d’idee, di un altro fatto. Ogni fede, quanto associa fortemente i partecipi, altrettanto dissocia questi dai non partecipi come da gente di diversa e inferiore condizione psichica. Se le differenze religiose spezzano l’umanità più che non la spezzino le differenze di lingua, di cultura e persino di razza ciò deriva appunto dal fatto che quelle rendono le anime assai più eterogenee tra loro che non le rendano queste. Occorre perciò il senso di necessità superiori, perchè le unità politiche comprendano genti di diversa fede, mentre una stessa fede può divenire e patria e sangue comune di genti nel resto diverse e in generale tende, ove altro non osti, a comporle anche in una unità politica. Il socialismo è in molti rispetti al socialista e patria e sangue. Esso volge ad essere chiesa, i cui membri sopperiscono a tutti i bisogni della loro vita fisica e psichica colle reciproche prestazioni, evitando così ogni contatto profano. Dov’è più fortemente sentito, esso è [p. 151 modifica]giunto persino a costituire per i socialisti un impedimento all’unione matrimoniale con asocialisti. Come questa chiesa imiti, per quanto può, nella disciplina ogni altra chiesa è notorio. Meno osservato si è che quell’offuscamento dell’idea di patria, ehe si rimprovera al socialismo, non è che una manifestazione necessaria della sua natura confessionale. Il cristianesimo avea già trovata al suo nascere nell’impero romano l’unità politica corrispondente alla sua unità religiosa. Caduto questo, si adoperò a ricostruirla nell’impero romano-franco. Il socialismo non può anch’egli che tendere ad un’unità politica corrispondente all’interpolitismo suo. Intanto il nesso unico religioso va fiaccando il senso dei vari nessi politici in cui sono ora stretti e divisi gli omocredenti. Occorre tutta la naturalità del concetto e del sentimento patrio e il carattere sacro che l’educazione umanistica quadrisecolare ha ad essi conferito, perchè la confessione socialistica non li ripudii e si limiti a non coltivarli o almeno a non coltivarli con l’ardore con che li coltivano i profani, perchè cerchi transazioni con essi e ne abbandoni all’estrema ala sua, formata di consequenziarî impavidi, il preciso e assoluto diniego.

Si è detto che pragmatica è ogni religione e quindi anche il socialismo. I confessori di ogni irrazionale umano nel comune studio che il concetto si traduca nel fatto si dividono sempre in due schiere: gli asceti e i mondani. Gli uni sono calore di fede; custodiscono e propagano questa nella sua purezza; si accostano ai profani solo per convertirli; non partecipano al moto quotidiano degli eventi per dirigerlo secondo i loro ideali, ma vagheggiano il giorno in cui per opera dei credenti sarà instaurato improvvisamente e integralmente l’ordine di cose corrispondente alla fede. Ciò importa una rinuncia al mondo ― come viene spontanea la bella frase cristiana! ― che solo pochi sanno compiere. I mondani non rinunciano al mondo; vogliono starvi; vogliono partecipare coi profani a tutta la vita, cooperare con questi nelle cose che non toccano, come in quelle che toccano la fede, e circa a queste si studiano a che vengano a disporsi sempre più in conformità ai principî e agli interessi della fede stessa. La quale trionferà così per gradi. I mondani sono folla. Siccome però l’irrazionale non può divenire fatto, così quelli attendono invano l’era novella dal separarsi dal mondo e questi la attendono invano dallo starvi. Entro la religione socialistica, così com’è attualmente, [p. 152 modifica]le due schiere sogliono distinguersi coi nomi di: rivoluzionari e riformisti. E fra esse è uno scambio di accuse: chè questi rimproverano a quelli di condannare la dottrina a rimanere priva d’azione sulla vita; e quelli rimproverano a questi di esercitare sulla vita un’azione bensì, ma estranea e contraddittoria alla dottrina e perciò annichilatrice di essa.

I due giudizi sono entrambi esatti. Evidentemente il primo; meno evidentemente il secondo per un certo inganno in cui cade facilmente il pensiero ed è di scambiare per parti costitutive di un’idea tutti quegli stati intellettuali e affettivi, che essendone distinti, sono attratti da essa e le si coagulano intorno, e in questa condizione acquistano un’unità che non aveano e un’energia molto maggiore di quella a loro propria quando stavano disgiunti da essa e tra loro. La negazione della povertà è tale concetto da attrarre a sè due ordini di stati psichici antichi nelle nostre società: quelli produttivi della volontà che le classi economicamente inferiori giungano ad un tenore di vita più alto in forza di un danno emergente o di un lucro cessante imposto alle classi economicamente superiori; e quelli produttivi della volontà che il potere politico di queste classi sia depresso e accresciuto quello delle prime. E non solo è tale da attrarli, ma da unificarli. Esso non può a meno di porre un nesso di causa ed effetto tra gli stati stessi; non può a meno cioè di far sì che in tanto si ragioni e si senta in modo favorevole ad una alterazione in senso democratico della distribuzione del potere politico in quanto si ragiona e si sente in modo favorevole ad una alterazione in senso democratico della distribuzione della ricchezza prodotta o da prodursi, perchè quella prima alterazione non può che agevolare, secondo ogni previsione, questa seconda. L’attrazione e l’unificazione in realtà avvennero. L’idea socialista diventò il nocciolo intorno a cui si raccolse l’enorme involucro degli stati accennati. Avvenne anche un altro fatto quasi inevitabile, che si estendesse cioè nell’uso all’involucro il nome di socialismo proprio del nocciolo, e che quindi generalmente si qualificasse per socialista tutto che, specialmente in riforme legislative, paresse corrispondere a codesti stati. E qui è l’errore. Tutto ciò non è socialista, poichè l’involucro non è il socialismo. Esso è formato di razionali o di irrazionali bensì ma diversi dal socialismo. E siccome nella vita non passa che il razionale cioè il possibile, così i [p. 153 modifica]socialisti mondani dovettero limitarsi, stando nel mondo, a far prevalere il razionale appartenente all’involucro, e ad accontentarsi di questo. Ma così limitandosi ed accontentandosi, essi vennero e vengono necessariamente a sconfessare nei fatti la fede, e a confondersi colla immensa schiera dei profani che accettando in tutto o in parte l’involucro e respingendo il nocciolo, poterono e possono cooperare con essi in tutte le riforme che corrispondono a quello e non corrispondono a questo.

Ho così implicitamente decisa in senso negativo una questione dibattuta; se cioè sia penetrato, per virtù del moto socialistico odierno, del socialismo nel diritto del nostro Stato e degli altri Stati affini di civiltà e quanto ne sia penetrato. La questione minaccia di perpetuarsi, perchè gli uni, considerando il socialismo come costituito da quel complesso nel quale io distinguo l’elemento religioso e le tendenze aderenti ad esso, vedono riforme socialiste in ogni innovazione legislativa che si uniformi a codeste tendenze. E gli altri invece, guardando al contenuto delle riforme stesse e trovandolo della stessa natura di molte altre norme antiche accettate senza alcun dubbio per ragioni che non hanno nulla a che fare con l’essenza, per verità piuttosto intuita che definita, del socialismo, non scorgono invece riforme socialiste in nessuna o quasi nessuna innovazione simile. Si accetterà più facilmente la soluzione da noi proposta, accostando la questione in disscorso ad un’altra non meno famosa ed affine di natura e di difficoltà a quella, se cioè e quanto di cristianesimo sia penetrato nel diritto privato romano. Il Cristianesimo rimase, dopo breve periodo di tempo dalle sue primissime origini, costituito da un nocciolo mitico, intorno al quale si raccolsero e unificarono moltiplicando perciò immensamente la propria forza, molti stati psichici già esistenti e diffusi entro il paganesimo. Questi stati influirono certo sul diritto, mentre il mito se era dal diritto protetto, non era attuato; si attuava di per sè nelle immaginazioni. E quindi gli indagatori si dividono in due schiere; di quelli che rifiutano la qualità di principî cristiani ad idee e sentimenti che trovano preesistenti al Cristo; e di quelli che la attribuiscono loro perchè rinvigoriti solo dall’aderenza e sistemazione loro intorno al mito cristiano; e quindi di quelli che non vedono riforme cristiane nell’attuazione di codesti principî, e di quelli che ve la vedono. Il dibattito si [p. 154 modifica]risolve riconoscendo da un lato la precristianità dei principî e quindi l’acristianità essenziale loro, ma insieme che se non sono cristiani d’essenza, sono già verso l’impero cristiano e più in esso cristiani di vigore. Ugualmente la questione sull’influenza legislativa del socialismo si risolve ammettendo che il nucleo religioso, l’irrazionale che lo costituisce inattuabile per la sua natura stessa d’irrazionale, non è penetrato nella legislazione, ma che in questa trovarono applicazione principî non socialisti d’essenza, ma socialisti d’energia e d’impeto.

Il difetto di essenza socialista propria delle conquiste cosidette socialiste nel campo del diritto si rivela in ciò che per esse la povertà non è tolta in nessun grado e in nessuna forma. Perchè tolta sia parzialmente o totalmente occorre infatti che il cittadino, solo perchè tale, sia necessariamente, userò termini del diritto commerciale, azionista rispetto alla ricchezza generica o a qualche ricchezza specifica, che la società cioè sia concepita come una società per azioni, il capitale della quale è formato di tutta intera la ricchezza sociale, o di una sua quota parte, o di un bene specifico. Allora solo infatti il cittadino avrebbe veramente una quota di ricchezza che non gli può essere sottratta, per lo stesso motivo per cui una società commerciale non può sopprimere ad arbitrio l’azione di nessun socio, vale a dire, perchè la società stessa si compone di un capitale azionario. Codesta concezione non è ora quinto attuata. E non essendo attuata, il cittadino può essere dopo le accennate conquiste ancora povero di una povertà che è nudità. Neanche quel diritto nel quale è più facile scorgere un’attuazione dell’idea socialista, il diritto all’assisistenza, neanch’esso è tale. Esso si riduce infatti ad un credito alimentare di natura pubblica verso lo Stato, ossia il sovrano; che non solo non sussiste che quando sorga nel singolo il bisogno dell’assistenza, ma che, esistente oggi, è sopjnesso domani dalla sovranità, rimanendo questa nella sfera d’attività consentitale da quel diritto che forma lo statuto di ogni Stato civile.

Siamo così quasi inavvertitamente venuti a dire del socialismo giuridico, inteso come il complesso delle norme vigenti di diritto, in cui sarebbero già attuate, secondo alcuni, idee di carattere socialistico. Per socialismo giuridico non s’intende però normalmente il diritto di vera o pretesa indole [p. 155 modifica]socialistica entrato nei sistemi positivi di diritto, ma un indirizzo del pensiero socialista. Un certo numero di credenti osservò che mentre il socialismo consisteva nell’idea di una nuova organizzazione sociale, questa veniva raccomandata soltanto dimostrandone i vantaggi e contrapponendoli ai danni dell’attuale, nel presupposto che ciò fosse sufficiente ad assicurarne il trionfo. Il verbo socialista parlato e scritto non riusciva così se non una serie di disquisizioni economiche, morali, filantropiche. Di questo stato di cose codesti credenti non rimasero soddisfatti e ragionarono così: una qualsiasi riforma sociale deve tradursi di necessità in una riforma del diritto positivo esistente. Ma una riforma simile domanda ad essere accolta e restare di essere trovata giusta. Non basta che sia vantaggiosa per alcuni o per molti. Il mero senso del vantaggio non può eccitare questi all’azione necessaria perchè la riforma proposta diventi legge. L’eccitamento non può scaturire anche in essi che dal concetto della giustizia. E d’altra parte per la giustizia sua la riforma può trovar favore anche presso quelli ai quali riescirebbe dannosa. Il socialismo deve adunque concretarsi in un elenco di diritti; una serie di affermazioni giuridiche. Non occorre un elenco minuto, una specie di codice; basta un elenco di diritti fondamentali, i quali entreranno a far parte della coscienza giuridica popolare. Divenuto il socialismo per tale modo giuridico, allora la giurisprudenza interpreterà e applicherà il diritto vigente in modo sempre più conforme ad esso socialismo. Inoltre le masse si sentiranno sempre più spinte ad impadronirsi del potere legislativo, appunto per tradurre in leggi il diritto socialista. Il quale adunque finirà col trionfare, prima infiltrandosi negli istituti giuridici esistenti, poscia sostituendosi ad essi.

Questo socialismo ha l’aria di divergere da tutti gli altri socialismi per ciò che non si presenta come un altro progetto di una macchina sociale nuova da sostituire all’antica. Eppure è anch’esso un progetto; soltanto non di una macchina diversa da tutte le altre progettate nella struttura; bensì nella materia. Egli trae la sua individualità dal volere che, qualunque sia la struttura preferita, la materia, di cui la macchina progettata si compone, sia diritto.

Si intuisce che intorno a questo socialismo v’ha poco da dire. Si può rilevare che esso fa un uso improprio del ter[p. 156 modifica]mine «diritto». Egli infatti qualifica così delle mere giustizie giuridiche. Chiamando anche noi, seguendo l’uso comune, queste in modo antonomastico col solo nome di «giustizie», occorre appena avvertire che fra diritto e giustizia corre notoriamente l’abisso che separa l’essere dal dover essere. Il diritto è la norma di condotta imposta da un gruppo sociale sovrano ai suoi membri, ed è quindi un fatto. La giustizia è invece il giudizio che una data norma dev’essere. Esso serve come misura della bontà o meno del diritto esistente e quindi della necessità del suo mantenimento o della sua abrogazione. Questo giudizio è la conclusione di un ragionamento fatto dall’individuo, movendo da certi dati e valutandoli in un certo modo. Avviene quindi che laddove v’ha criteri per dire se un diritto è o non è, manca invece ogni criterio del giusto. È possibile infatti dimostrare l’errore logico che alcuno commette traendo dai dati scelti e dalla valutazione datavi la conclusione a cui arriva. Ma in tal caso non si fa che sostituire una conclusione ad un’altra: si perviene ad una giustizia logica; non ad una giustizia giuridica. Ciò che non è possibile è stabilire obbiettivamente quali sono i dati da scegliere e sopra tutto la valutazione da dare a loro. Scelta e valutazione dipendono dalla disposizione psicologica individuale. La confusione terminologica fra giustizia e diritto è però così comune, che sarebbe pedante il farne una colpa al socialismo giuridico.

Neppure gli si può fare soverchia colpa di non avvertire l’inesistenza or ora rilevata di un criterio del giusto e quindi che quel suo costante operare con definizioni della giustizia per trarne corollarî così detti giuridici si riduce ad un artificio, mediante il quale non fa che dare una sembianza logica ad espressioni di sentimenti individuali. La giustizia è sempre parsa agli uomini un fatto obbiettivo, mentre non è che un fatto subbiettivo. È da dire però che il subbiettivismo è nelle asserzioni di giustizia fatte dal socialismo giuridico molto meno coperto che non sia consuetamente. Si sente troppo presto che il ragionamento resta chiuso nell’ambito del preconcetto.

Basta accennare, perchè ciò fu veduto da tempo, al carattere assoluto che il nostro socialismo dà alle giustizie che afferma e sono specialmente: il diritto al lavoro, al prodotto integrale del lavoro, alla vita, o a un certo tenore di vita e rinviare alle invincibili obbiezioni, familiari ad ogni cultore del [p. 157 modifica]diritto, contro l’esistenza di giustizie assolute. Si può soltanto soggiungere che se il socialismo giuridico afferma simili giustizie, ciò deriva dall’essere anch’esso un socialismo, una forma cioè della religione socialista. L’irrazionale assoluto proprio, come si vide, di ogni religione, nel socialismo giuridico deve di necessità concretarsi nell’idea di giustizie assolute.

Se erra nella nomenclatura e nell’ammissione di giustizie assolute, non si può dire che il socialismo giuridico erri in alcuni dei presupposti scientifici da cui muove, perchè questi si riducono invece a dei veri e proprî truismi.

Che ogni riforma sociale, la quale presuppone un mutamento nel diritto esistente, deva essere una riforma giuridica, è un truismo.

Che una riforma simile possa difficilmente scaturire dal mero sentimento del danno sofferto nell’ordinamento sociale giuridico attuale e dal desiderio di sostituirvi un vantaggio e sia invece resa probabile dal diffondersi dell’idea che il danno è un’ingiustizia e il vantaggio una giustizia, è un altro truismo.

Chi pensò e questo e il precedente poteva risparmiarsi di dirli. Ma sopratutto poteva risparmiarsi di muovere da essi per condannarsi alla fatica veramente superflua di trasformare il socialismo comune in socialismo giuridico, ossia in formule di giustizie. Codesto socialismo comune non è mai infatti meramente descrittivo di un presente che è e di un futuro che sarà. È sempre affermazione di un non dover essere della condizione di certi uomini rispetto a quella di certi altri e di un dover essere di una condizione diversa; e un’affermazione simile è sempre di necessità un’affermazione d’ingiustizia e rispettivamente di giustizia, anche se sia fatta in termini di economia, di umanitarismo o d’altro, anzi che di giustizia. Inserendovi questa parola, vi s’inserisce appunto una parola, ma non l’idea corrispondente; questa vi sta già. E se si osservasse che v’ha anche un socialismo meramente descrittivo, cioè l’evoluzionista, risponderei coli’osservazione già fatta, che un’evoluzione a cui si assegna un dato termine non è che travestimento di un assoluto. E perciò anche codesto socialismo si riduce a un giudizio deontologico, vale a dire di giustizia. Fosse poi davvero meramente descrittivo, allora nel fatalismo non giuridico che professa, sarebbe implicito anche un fatalismo giuridico e l’avvento della nuova [p. 158 modifica]società non sarebbe perciò affrettato dalla esplicita traduzione di quel fatalismo in questo, perchè il fatalismo sopprime in qualunque sua forma l’azione, persuadendo gli uomini della sua inutilità.

Truismo è anche l’affermazione che le giustizie socialistiche prevarranno per via d’interpretazione dei diritti vigenti e della legislazione. Soppressa la parte profetica, il «prevarranno», e messa al suo luogo l’ipotesi del come codeste giustizie potranno, dato che possano, prevalere, è certo infatti che il come non può essere che l’interpretazione e la legislazione. Altre vie per le quali le giustizie diventino diritti non esistono.

Come tale si può pure qualificare l’altra affermazione che l’interpretazione forense coadiuvata dalla dottrinale dei diritti vigenti in senso socialistico anticiperà la legislazione socialistica. Anche qui, eliminato in maniera analoga alla precedente, l’elemento profetico, resta un’asserzione che per ogni giurista è d’evidenza intuitiva, ossia che i nuovi indirizzi del pensiero giuridico operano anzitutto sull’applicazione quotidiana del diritto esistente nel senso di uniformare questa a quelli. Discutibile può essere, e fu discussa precisamente in relazione al nostro socialismo, la possibilità che per via d’interpretazione si possano introdurre in un diritto dei principî giuridici antitetici a quelli che sono in esso sanzionati. Sarà forse ora effetto dell’educazione romanistica, ma io sono risolutamente per la tesi affermativa. Il diritto è assai più che nei testi nel modo d’intenderli nel loro insieme; e credo quindi alla possibilità che mediante l’interpretazione un edifìcio giuridico sia per parti abbattuto e per parti sostituito con un nuovo edificio di carattere diverso ed opposto. La giurisprudenza ha mille mezzi a sua disposizione sia per abbattere che per costruire e unire le parti nuove alle antiche. Estremo tra questi la desuetudine, una forza che non si può eliminare nemmeno con dichiarazioni legislative ad essa contrarie.

Altri presupposti scientifici del socialismo giuridico non sono truismi, come non è del resto questa sua fede nell’efficacia suesposta dell’interpretazione. Sono invece teorie correnti, in cui vi ha dell’esatto e dell’erroneo. Ne parliamo per vedere di raccogliere qualche frutto di scienza, trattando di un oggetto che alla scienza non appartiene. [p. 159 modifica]

Evidentemente anch’esso professa l’antica teoria democratica circa la formazione del diritto, secondo la quale questo nasce nella coscienza giuridica popolare come una norma che dev’essere, ossia come una giustizia più o meno definita nei suoi particolari; l’interprete e il legislatore o, come avviene normalmente, per la convinzione di essa, o per una imposizione dell’opinione pubblica, non fanno che quasi trascriverla dalla coscienza comune nella giurisprudenza e nella legge. Solo avendo questa fede, il nostro socialismo può mettere tanto calore in formulare giustizie e raccomandarle alle masse. Egli mira a modificare la coscienza giuridica degli interessati in senso socialistico, onde essa crei il diritto socialista.

Codesta teoria non è già più così ferma oggi, com’era ieri. Si oppongono ad essa certe nuove tendenze aristocratiche del pensiero volte ad esaltare l’arbitrio del legislatore, come autore possibile di un diritto non derivante dalla coscienza popolare, le quali a loro volta s’inspirano ad una recente filosofia, la quale afferma che l’uomo invece di subire una legge di evoluzione, che egli non può aiutare, nè combattere, è l’autore volontario del proprio destino. L’opposizione è giustificata. Essa anzi è contenuta entro limiti in certi rispetti troppo angusti. Si possono ampliare e si può tentare di ridurre in una formula unica i pensieri sparsi manifestati intorno al rapporto tra codesto arbitrio e codesta coscienza nella formazione del diritto.

Qualsiasi norma esprime di necessità la coscienza giuridica dei suoi autori politici, i quali possono essere come possono non essere i giuridici. Se però dettare una norma è facile, difficile è dettarla tale che sia durevole, ossia obbedita e durevolmente obbedita. Perchè una norma duri, occorre e basta che essa non leda quegli stati di coscienza delle persone, la cui cooperazione è necessaria alla sua applicazione, i quali hanno per esse maggior valore di quegli stati che le inducono a codesta cooperazione. Se li lede, si produrrà una reazione consistente nel venir meno la cooperazione. Altrimenti si avrà un’acquiescenza consistente nella concessione della cooperazione. Possiamo chiamare brevemente i primi stati di coscienza: stati reagenti; i secondi: stati obbedienti. Varia ora, a seconda dell’indole e del contenuto delle norme, il numero delle persone di cui si domanda il concorso alla loro applicazione. Ve n’ha di tali che domandano soltanto la coope[p. 160 modifica]razione degli organi d’accertamento e d’esecuzione del diritto; così che, se esse non ledono gli stati reagenti di coscienza di queste persone, possono lungamente durare, essendo pure in contrasto eolla coscienza giuridica di tutti gli altri membri dello Stato. Per la più parte delle norme non avviene questo; esse esigono invece che vaste masse di cittadini cooperino alla loro applicazione con un’attività positiva o negativa, aiutando cioè lo Stato a far prevalere la sua volontà o almeno non opponendosi all’azione degli organi statuali. E occorrerà quindi in tal caso alla durata della norma l’acquiescenza di queste masse, le quali possono, forse con una certa iperbole, chiamarsi popolo.

Posto questo, è soltanto trascurando per la sua relativa piccolezza la parte non tralaticia di un diritto, e dentro alla tralaticia la parte certo minore, alla cui applicazione basta la cooperazione degli organi d’accertamento e d’esecuzione accennati, che non si erra affermando che il diritto di un popolo esprime la sua coscienza giuridica. Ma non si erra, purchè si intenda una coscienza acquiescente e non una coscienza volente. Il diritto di un dato popolo potrà anche esprimere una coscienza volente, quando almeno la maggioranza dei cittadini siano autori politici per lunghi secoli del diritto. Il fatto possibile entra nella proposizione da cui siamo partiti. Dove questo non sia, esso esprimerà sempre un arbitrio di minoranze, riducibili anche ad una sola persona, che ha per limite la reazione delle coscienze. L’azione costante della coscienza giuridica popolare consiste adunque non nel creare, ma nell’eliminare norme. Elimina le nuove a cui non si acqueta e le antiche a cui non si acqueta più. E se fortunatamente l’arbitrio non è di regola tirannico, uè sono frequenti troppo i conflitti fra il popolo e il suo diritto, ciò ha la sua causa solo in questo che normalmente gli autori politici del diritto appartengono al popolo stesso per cui legiferano, onde gli stati reagenti di questo sono anche i loro; e la norma che li lede non è quindi fatta e, se esiste, non è mantenuta.

La teoria democratica suesposta sulla formazione del diritto, se è accettata dal socialismo giuridico, è anche radicalmente modificata. Nel pensiero dei primi propugnatori di essa e di tutti i suoi seguaci non socialisti la coscienza giuridica popolare costituisce un’unità; perchè come unità è da essi concepito il popolo. Nel pensiero invece dei socialisti essa si scioglie [p. 161 modifica]nelle coscienze giuridiche delle varie classi sociali. Nella giurisprudenza e nella legge viene trascritta quella sola giustizia che è nella coscienza giuridica della classe detentrice del potere politico, coscienza che è a sua volta determinata dagli interessi della classe stessa. Quest’idea è implicita nella ragione stessa che dà di sè il socialismo giuridico. Il diritto attuale, egli insegna, è specialmente nella sua parte patrimoniale un diritto borghese; conviene perciò opporgli un sistema di giustizie socialiste, che lo disgreghino prima penetrando in esso, e infine gli si sostituiscano.

La possibilità di un diritto di classe non si può disconoscere. Essa risulta dagli stessi concetti che abbiamo dianzi svolti. Bastando all’applicazione di certe leggi la cooperazione degli organi di accertamento e di esecuzione del diritto, la classe giunta al potere politico non ha che a dettare norme di codesto genere favorevoli al proprio interesse e lesive dell’altrui perchè, scegliendo codesti organi tra i membri proprî, o almeno non tra le classi soggette, essa sia sicura dell’applicazione loro. In quanto detti nel proprio vantaggio e in altrui danno norme di genere diverso, i noti procedimenti tirannici, con cui si deprimono gli stati reagenti di coscienza e se ne esaltano gli obbedienti possono assicurare vita abbastanza lunga anche a norme simili. Ma questa possibilità sta in limiti molto più ristretti che a prima vista non sembri. Non solo non è mai diritto di classe tutto il diritto di un popolo; ma soltanto certe parti; ma anche queste parti non s’incontrano che in particolari condizioni. La ragione è piana.

Un qualsiasi popolo, una qualsiasi società continua sempre e non comincia mai. Quindi continua sempre e non comincia mai il suo diritto. La massima parte di questo è perciò un possesso atavico, in cui si esprime una coscienza giuridica acquiescente atavica. Nessun procedimento logico inspira il suo mantenimento. Esso sta perchè stava. La classe dominante può essere un popolo straniero. Anche in questa estrema ipotesi quel popolo, avendo un suo diritto, non saprà distaccarsi molto da esso dettando, in quanto lo detti, un diritto ai soggetti, per l’impossibilità in cui è di concepirne un altro. Onde può avvenire che il diritto imposto sia nel suo complesso tutt’altro che favorevole al suo dominio e al suo interesse. L’ipotesi a cui si riferisce il socialismo giuridico non è però questa; è quella invece che una frazione di un popolo [p. 162 modifica]unico si renda detentrice del potere politico. Ebbene in questa ipotesi l’atavismo giuridico non opererà diversamente che in quella. La massa del diritto sarà mantenuta dalla classe dominante perchè non entra nel suo pensiero un diritto diverso. Il suo pensiero giuridico è quale dev’essere in causa della storia estesa per secoli infiniti del popolo a cui appartiene. Nè lo può mutare molto per il determinismo dei suoi proprî interessi. La comunanza poi della storia della frazione e del resto del popolo aumenta notevolmente, rispetto all’ipotesi precedente, la probabilità che gli stati reagenti di coscienza siano comuni a dominatori e dominati, e che quelli siano trattenuti da disposizioni favorevoli al proprio interesse e contrarie all’altrui perciò che queste offenderebbero colla coscienza altrui anzi tutto anche la loro.

Non basta. Perchè nelle proprie disposizioni sottratte all’influenza della storicità del pensiero giuridico e dei comuni stati reagenti di coscienza, la classe dominante leda consciamente o incosciamente, per il proprio, l’interesse altrui, occorre che essa sia resa omogenea e compatta per la condizione onde è classe, e col senso della sua omogeneità e della sua compattezza abbia quello di una sua forte eterogeneità dal resto del popolo; occorre cioè che questo le sia straniero o come straniero. Le oppressioni dei conquistati per parte dei conquistatori, degli schiavi per parte dei liberi hanno la loro causa nell’estraneità effettiva. Nella quasi estraneità la hanno le altre molte dei cittadini di colore per parte dei bianchi, dei nuovi cittadini per parte dei vecchi o inversamente, degli israeliti per parte dei cristiani, dei cristiani eterodossi per parte degli ortodossi, dei villani per parte dei nobili ecc. ecc. Senza codesto presupposto diritto di classe non se ne ha nemmeno per parti. Ma il diritto dettato dalla classe dominante rispecchia invece l’unità popolare nella varietà dei suoi elementi e della loro proporzione di potere. Interpretazione e legislazione modificano allora il diritto ricevuto eccitate da stimoli e contenute da resistenze varii di forza e di grado di forza che s’intrecciano in mille combinazioni. La classe dominante non omogenea si rompe in parti di cui le inferiori si congiungono con le non dominanti. Si forma così una scala d’interessi che si estende per tutta la società; ognuno entra in gioco; avvengono transazioni, alleanze tra interessi diversi e persino opposti. La stessa mancanza di omogeneità e di compattezza [p. 163 modifica]e del senso di eterogeneità accennati permette che la classe dominante sia pervasa da ideali contrarii al duro egoistico interesse suo e favorevoli all’altrui. Di modo che nella peggiore ipotesi il diritto dettato dalla classe dominante con cui intese a soddisfare le sue peculiari inclinazioni giuridiche mostrerà appena una prevalenza di queste. Dal diritto di classe siamo infinitamente lontani. La descrizione di questo tipo di classe dominante è la descrizione della classe borghese. Ma non insisto sul punto. È il pensiero teorico del socialismo giuridico, non il suo giudizio storico che ci interessa.

Le giustizie singole affermate dal socialismo non sono con quanto abbiamo notato circa i suoi presupposti scientifici in alcun rapporto, perchè i presupposti stessi non determinano menomamente un contenuto di giustizia. Esse sono il socialismo tradotto in termini di giustizia. Una critica loro fatta movendo da un criterio del giusto è impossibile, per l’inesistenza rilevata di un criterio del giusto. Sono suscettibili anch’esse solo di quella critica che consiste nell’avvertire l’errore del procedimento logico che alcuno applica ai dati scelti e alla valutazione data loro. Così ad es. a chi trae dal diritto alla vita il diritto al lavoro, si può osservare che per lavoro non si può intendere la fatica, ma la fatica utile. Utile è la fatica richiesta. Ma se è richiesta, il proclamare il diritto al lavoro è superfluo. Se non è richiesta, il diritto al lavoro si riduce al diritto alla fatica pura e semplice dietro un compenso. Siccome però da un lato a nessuno è impedito di faticare, e dall’altro la fatica non giova nè all’individuo nè alla società, così in tal caso il diritto al lavoro si riduce al diritto al compenso, ossia al soccorso, ossia insomma a quel diritto alla vita, da cui si pretende di dedurlo.

Un’altra cosa è possibile fare circa a codeste giustizie; determinare cioè quali appartengono al nucleo religioso socialistico e quali all’involucro. L’involucro contiene dei razionali, come si è detto, quindi dei possibili; e le giustizie in cui si traducono sono esse stesse perciò dei possibili. Di simili giustizie suscettibili di divenire diritto io credo che il socialismo giuridico ne affermi, onde non è affatto sempre antitetico ai diritti attuali, com’egli asserisce, dimenticando quante giustizie identiche di carattere hanno già in essi attuazione, ed errò una certa critica prestando fede all’asserzione. Che diventino poi effettivamente diritto dipenderà dalla loro storicità. Le [p. 164 modifica]giustizie affermate come assolute subiscono infatti una legge comune: esse non possono convertirsi in diritti che in quanto siano il riflesso nel pensiero di condizioni storiche, quindi relative per il tempo ed il luogo, e si convertono solo nella misura e nei modi consentiti da codeste condizioni.

Le giustizie appartenenti al nucleo, queste non saranno mai diritti per lo stesso motivo, per cui non furono, ossia perchè sono traduzioni in termini di giustizia di un irrazionale e cioè di un impossibile.

La pluralità delle fortune non è che l’aspetto economico della pluralità delle personalità entro la stirpe umana; e la disparità loro non è che l’aspetto economico della disparità del sostrato delle personalità stesse. Personalità e sostrato formano la persona. Sorta la coscienza di un io ossia un io — la personalità non è che codesta coscienza — è dato anche un io economico; una sfera cioè di attività e di mezzi economici al servizio dei bisogni dell’io, sia la persona un uomo singolo, una persona fisica, o un aggregato umano, una persona giuridica. Avremo quindi tante personalità economiche quante sono persone; e le personalità saranno diverse per le diversità naturali che corrono tra i sostrati loro, tra uomo ed uomo, aggregato ed aggregato. Alla personalità si oppone la socialità. Questa è coscienza di una persona di essere parte di un’altra. Essendo l’uomo singolo un organismo naturale, egli non può avere mai mancato di personalità. Visse e vive è vero anche sempre in un’organizzazione sociale, e quindi deve avere avuto sempre socialità; ma questa non può mai avere obliterato quella; il senso della vita non può essere distrutto da quello della convita. La persona giuridica, l’aggregato, ha sempre personalità. Può avere solo questa dove sia autonoma; ha necessariamente anche socialità, se sia compresa in una persona giuridica maggiore. E neppure in essa può la socialità obliterare la personalità.

La persona fisica è data dalla natura; la giuridica, l’aggregato — posso trascurare per il mio argomento ogni diversa persona giuridica — al formarsi del senso di un’unità fra più persone fisiche o a loro volta giuridiche e di una divisione loro dalle altre.

Fra le molte cause che concorrono a formare codesto senso è principale la divisione territoriale e qualitativa delle attività. Lo spazio divide le persone, associando quelle che [p. 165 modifica]stanno ed agiscono entro certi confini e dissociandole da quelle che ne stanno fuori. Opera ugualmente il genere dell’attività; associa chi coltiva lo stesso genere; dissocia chi coltiva generi diversi. Codesto effetto si produce perciò che la localizzazione come la specializzazione delle attività determinano la psichicità, onde persone di luogo o di occupazione uguali diventano psichicamente omogenee tra loro ed eterogenee a quelle di luogo o di occupazione diversa. V’ha una scala nella omogeneità e nella eterogeneità. Essa genera il fenomeno di aggregati più ristretti, cioè fra più omogenei e meno eterogenei, che si uniscono in aggregati più ampi cioè fra meno omogenei e più eterogenei. Si arriva così ad un punto in cui l’omogeneità è così piccola e l’eterogeneità così grande che la possibilità di formare un nuovo aggregato più lato cessa. Di qui le associazioni sovrane: gli Stati, le Chiese supreme; le massime associazioni di mestiere, di beneficenza, scientifiche industriali, ecc. Cadono per la mole non solo gli imperi, ma ogni altro aggregato che si estenda oltre a un certo spazio od oltre una certa sfera qualitativa d’attività. Va da sè che le due divisioni operano normalmente in congiunzione.

Per questo il quadro della struttura della società è sempre costante: individui singoli, aggregati coattivi e volontarî, aggregati minori inclusi in maggiori: da ultimo aggregati sovrani: tutte persone e personalità dispari nel resto e anche nell’economia; se un uomo è meno ricco di un altro uomo, anche un comune è meno ricco di un altro, una chiesa di un’altra, uno Stato di un altro. La negazione della povertà si frange contro questa efflorescenza di personalità, che non si sopprimono se non sopprimendo il senso della sua vita nell’uomo, sopprimendo lo spazio, e sopprimendo la divisione delle attività, ossia la civiltà.

Il socialismo si dà un aspetto di possibilità, restringendo la negazione della povertà nei confini dello Stato, e non vedendo dentro a questo che le persone fisiche. Il massimo maestro del socialismo giuridico crede di poter perciò indicare come esempio storico di Stati socialisti i primitivi consorzi gentilizii, che egli si raffigura come formati soltanto di persone simili, e pensa che l’esempio sia imitabile oggi. Si deve dire che quei consorzi non li conosce. Essi anzitutto erano Stati bensì, ma Stati di parenti. La parentela favorisce lo sviluppo del senso della socialità a carico di quello della personalità. Ma tanto [p. 166 modifica]le leggi prima esposte sono certe nei loro effetti, che noi scorgiamo essere codesti consorzi composti di sole persone fisiche, finchè il numero dei loro membri è minimo. Appena si estendono col soppraggiungere di nuove generazioni, si spezzano in sotto gruppi: le famiglie, ciascuna con una propria economia. Ad un’ulteriore estensione il consorzio si frange in più consorzi, o resta diminuito di famiglie, che se ne distaccano e iniziano una vita del tutto autonoma per loro conto. Nè è distrutto nel gruppo maggiore o minore l’autonomia economica dell’individuo. Certi beni mobili almeno o certi guadagni sono di regola suoi. Dove eccezionalmente si ammette che tutte le attività economiche sono del gruppo, la personalità economica individuale s’introduce sotto forma di peculio. Codesti consorzi caddero in quella parte di mondo ove si predica il socialismo. Allo Stato di parenti vi è succeduto lo Stato di cittadini, di uomini riuniti soltanto dalla comune soggezione alla sovranità, un legame, che come fondamento di socialità è infinitamente minore della parentela. Codesto Stato è a territorio tanto vasto, quanto quello dei consorzi gentilizi, se ne avevano uno, era piccolo; conta i suoi membri non a diecine o al più a centinaia come facevano quelli, ma a milioni; di regola a molti milioni; e alla divisione territoriale delle attività, che era ignota ai consorzi in discorso, si unisce una divisione qualitativa spinta al massimo limite, dove questa era nei consorzi stessi rudimentale. In questo Stato sono presenti così le condizioni per una moltiplicazione delle persone giuridiche dentro di esso e per una estensione massima della personalità e di queste e delle persone fisiche a carico della socialità verso di lui. Veramente questa socialità è ridotta ad un minimo. Gli individui e le organizzazioni contenute nello Stato non sentono più lo Stato che nei suoi rapporti verso gli altri Stati. L’individuo ha il senso dell’indipendenza, dell’onore, della forza del suo Stato verso l’estero; e in ordine a questi scopi si sente una cosa sua. Nei rapporti interni lo Stato è un estraneo all’individuo; uno strumento della sua personalità e non più.

Questo sentimento di strumentalità dell’ente a favore della personalità dei suoi membri, come corre fra i singoli individui entro lo Stato e lo Stato, corre anche tra i singoli individui compresi nelle organizzazioni minori e le organizzazioni stesse. Le compagini sociali odierne sono tutte così per l’uomo; l’uomo non è mai per esse. Solo la famiglia, la piccola nostra [p. 167 modifica]famiglia ultimo infinitesimale residuo dei consorzi gentilizii, come costituita sul matrimonio e la parentela presenta ancora in certi paesi una notevole socialità nei suoi membri. E dopo la famiglia qualche socialità è nelle vecchie chiese. Le altre persone giuridiche pubbliche e private sono tutte società anonime, che sussistono per il dividendo individuale.

Questo predominio della personalità nelle nostre società, che si manifesta nelle tendenze separatiste esistenti in molti Stati, regioni, persino comuni, nell’indebolimento progressivo della famiglia, nell’avanzarsi del femminismo, nella moltiplicazione delle forme di proprietà, nel tenore e negli scopi prefissi all’educazione, nella riluttanza di tutti a prestare servizi pubblici obbligatori o gratuiti, nell’indisciplina comune, ha determinato anche l’opera pratica del socialismo.

Volle, agli scopi della lotta di classe, comporre ad unità il proletariato cosmopolitico, e riuscì invece a creare il protezionismo statuale operaio; cioè a porre in guerra proletarii di uno Stato con quelli di un altro. Il proletariato di ogni Stato, unito contro il proletariato straniero, si divise all’interno in organizzazioni professionali e di mestiere, la forza delle quali è in ragione inversa del territorio e delle categorie che comprendono. E il singolo in esse non sente l’organizzazione che come strumento della sua economia singolare; onde la rivolge indifferentemente contro il capitale o contro il resto del proletariato, a seconda che il dividendo possa essere conservato o aumentato combattendo quello o questo. Il difetto comune di socialità determinò pure la forma e i limiti delle pubblicazioni d’imprese volute dal socialismo. Statizzazioni e municipalizzazioni divennero le simulazioni private di un ente pubblico. Ordinate come ogni impresa privata, il lavoratore dà ad esse il suo lavoro soltanto per mercede e se gli torni il conto di farlo; tutti poi, proletarii compresi, le istituiscono o le abbandonano istituite in base al mero criterio del dividendo. Per il quale pure sussistono le cooperative di lavoro, distribuite anch’esse per luogo e per mestiere, più forti delle comuni organizzazioni di resistenza per la coesione che dà il senso della proprietà comune, colla quale sorgono o a cui giungono, proprietà per quote, dunque privata messa in comune e non collettiva, alleate od avverse tra loro per i motivi stessi che rendono alleati od avversi speculatori capitalistici, dei quali imitano le avidità ed i mezzi leciti ed illeciti di soddisfarle. [p. 168 modifica]

Il socialismo parla così socialità ed opera personalità; questa coltiva, questa rinforza e acuisce; egli non fa che dare al lavoro le energie individualistiche del capitale, onde, come questo lotta contro il lavoro e contro altro capitale, così quello possa lottare contro il capitale e contro altro lavoro.

Nessuna meraviglia quindi che l’individualismo dei lavoratori intensificato nelle organizzazioni promosse dal socialismo finisse col rivolgersi contro lo Stato, dando origine ad una forma speciale del socialismo stesso: il sindacalismo economico-politico.

Lo Stato moderno nasce nei suoi ordini dalla teoria della sovranità popolare, una giustizia assoluta anch’essa, che divenne diritto in proporzione del sostrato storico suo e quindi della funzione storica, che poteva adempiere. La funzione sua fu di attribuire ad ogni singolo cittadino un valore politico pari a quello di ogni altro, salve le differenze ineliminabili dipendenti dalla varia forza individuale. La teoria giungeva a questo risultato in due modi l’uno all’altro connessi: concentrando ogni sovranità nello Stato; e facendo dello Stato un’associazione di tutti i singoli cittadini, la volontà della quale non poteva essere se non che la maggioranza delle volontà uniformi dei singoli soci ritenuti capaci di volere circa gli oggetti su cui l’associazione è per il suo statuto competente a deliberare. Il meccanismo elettorale-parlamentare serve all’accertamento di codesta maggioranza. In corrispondenza a questa sua funzione lo Stato parlamentare permise bensì le associazioni fra cittadini, ma a condizione che esse li lasciassero allo stato di singoli, di disgregati dinanzi a lui, a condizione cioè che l’associazione non divenisse così forte di mezzi materiali e morali da potere in qualche parte rendere la propria volontà pari o superiore di forza alla sua. Una sola associazione simile tollerò, perchè non poteva fare a meno: la Chiesa; e verso questa tenne necessariamente un contegno di sospetto e di difesa e continuò e continua a cercare ogni via per subordinarla a sè. A questa volontà dello Stato corrispose qualche tempo il fatto. Ma venne il nuovo socialismo. Questo seppe giovarsi della libertà d’associazione e della scarsa autonomia mentale e di volere dei lavoratori, che li rende eminentemente atti alla vita associativa, per stringere un gran numero di essi [p. 169 modifica]in organizzazioni salde ed attive. Lo Stato, dopo qualche istintiva previdente esitanza, le tollerò, contando di rimanere ad esse superiore. In realtà egli si è ridotto a dividere la sua sovranità con le più forti almeno di esse. Rispetto a queste egli non impera più; ma tratta e contratta. Accetta insomma di vivere con esse in quel regime concordatario, che si vanta, non a torto, di poter rifiutare alla Chiesa. E importa poco che il concordato invece di assumere la forma giuridica di convenzione fra due poteri autonomi, rivesta quella di dichiarazione unilaterale di volontà dello Stato, ossia di legge. L’apparenza non distrugge la sostanza. Ragioni di opportunità e forsanco il non saper rinnegare apertamente il dogma della sovranità popolare consigliano i più tra i socialisti a conservare codesta apparenza. Ma è naturale che vi siano anche i meno i quali la credono invece dannosa, e vogliono che la sovranità conquistata da certe organizzazioni divenga il patrimonio di tutte, e si palesi in una sua propria forma giuridica. Il sindacato di resistenza, evolutosi in un sindacato di appropriazione deve innestare sulla proprietà acquisita una aperta sovranità. Allo Stato resterà la cura di certi interessi generali. Quelli che toccano la sfera di attività esercitata dai lavoratori compresi nell’organizzazione di mestiere, saranno affidati alla cura della volontà superiore dell’organizzazione stessa.

Noi non abbiamo a ricercare se il sindacalismo in discorso avrà un avvenire. Ne abbiamo parlato come prova suprema della cultura intensiva della personalità fatta dal socialismo, e fatta non per suo volere, ma per le condizioni storiche del pensiero odierno. Tali essendo queste, le previsioni circa il socialismo giuridico sono molto facili. Delle giustizie socialiste potranno diventare diritto quelle sole da cui la personalità non si sentirà minacciata, il che torna a dire quelle la cui attuazione parrà importare sacrifici di beni, ma non di energie individuali. In vista non v’ha che un ulteriore sviluppo della finanza democratica, ossia maggiori imposte a carico di chi ha più a beneficio di chi ha meno. I ricchi e gli agiati nella nostra società sono dotati di tali energie di acquisto, che possono pagarsi largamente la soddisfazione di quei sentimenti, che, come dissi, si sono coagulati in molti intorno al socialismo e da questo hanno preso il nome. Brevemente, seguendo quest’uso del nome, possiamo dire che l’individualismo potrà pagarsi dell’altro socialismo. Più in là non si andrà. Chi apprezza poi come un [p. 170 modifica]alto beneficio il possesso comune di una massima personalità e di una minima socialità, può riposare tranquillo sulle sorti future della nostra società. Questa è fortemente difesa da tutti i sogni di uguaglianza economica dalla sua civiltà, e dalla superbia comune di essa. La civiltà fa persone. E poichè fra le forme della divisione del lavoro, la quale è essenza insieme e condizione di civiltà, è anche quella del capitale che l’uno gerisce per il profitto e un altro lavora per il salario, così la società futura come avrà lavoratori non capitalisti, così avrà capitalisti non lavoratori. Che poi i futuri capitalisti siano i discendenti dei capitalisti attuali, o siano i discendenti degli attuali lavoratori, che s’incontrino ancora capitali di singoli geriti per il profitto dai singoli; o capitali associati di singoli geriti per il profitto da società, queste sono possibilità alternative per il sociologo sostanzialmente indifferenti.

Bologna, Università.


Silvio Perozzi