Roma e lo Stato del Papa/Capitolo X
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CAPITOLO X.
Cospirazioni e cospiratori. - Il processo del 1853.
Lo spirito liberale e anticlericale non si era intiepidito nello Stato del Papa, dopo la caduta della repubblica. Quattro anni di storia non si cancellavano ad un tratto. Il Mazzini, nei pochi giorni che rimase in Roma, dopo l’entrata dei francesi, protetto, sì disse, da un salvacondotto impetratogli dall’Inghilterra, gettò le basi di una nuova e vasta società politica, che chiamò non più Giovane Italia, benchè ne avesse comune il fine, ma Associazione Nazionale, la quale ebbe il suo governo visibile a Londra, in un triumvirato, di cui egli fu anima e capo, ed era con lui l’esule romano Mattia Montecchi. Secondo il disegno del Mazzini, dovunque fosse possibile raccogliere dieci associati, dovevano crearsi dei comitati locali, con l’obbligo di corrispondere coi comitati regionali; e questi, alla lor volta, con Londra. Roma ebbe due comitati: uno regionale, al quale facevano capo quelli delle provincie: e l’altro, locale, per la città. Benchè il Mazzini non fosse così popolare a Roma quanto lo fu Garibaldi, pure l’aureola del lungo esilio e dell’indefesso apostolato, la sua fede inconcussa, la calda eloquenza e l’alta idealità, gli avevano conquistato molti aderenti, singolarmente tra i giovani, e gli spiriti accesi. A Roma aveva rivelato, se non grandi attitudini di governo, neppure mediocri, e superiori di certo a quelle mostrate dal Guerrazzi in Toscana, per quanto inferiori a quelle del Manin a Venezia. Nel ’48, giova rammentarlo, non tutti i repubblicani d’Italia furono con lui. Il Guerrazzi non lo volle in Toscana, ed il Manin non lo avrebbe tollerato a Venezia, mentre a Roma, come primo triumviro, ebbe incontrastato il governo della repubblica. E se a lui mancavano alcune delle più essenziali qualità politiche, non va dimenticato che la repubblica romana del 1849 non era nata per vivere, ma per cadere di morte onorata e gloriosa. Ed onorata e gloriosa cadde, soprattutto perchè ebbe Garibaldi al Gianicolo, e Mazzini alla Consulta.
Prima di lasciar Roma, dunque, il Mazzini aveva affidato a Cesare Mazzoni l’incarico di formare il primo nucleo dell’Associazione Nazionale, e il Mazzoni si unì a giovani arditi, come Nino De Andreis, Luigi Dreosti, Cesare Zuccarelli, Luigi Silvestrelli, David Silvagni, e a vecchi carbonari, come Giuseppe Checchetelli, Salvatore Piccioni, il popolare tabaccaio di piazza Sciarra, Alceo Feliciani, Giuseppe Mazzoni, Cesare Ceccarelli, e l’avvocato Giuseppe Petroni, già sostituto nel ministero di giustizia durante il periodo repubblicano. La Carboneria non era morta mai in Roma, anzi, negli infimi strati del Trastevere, si può dire che sopravviva tuttora co’ suoi giuramenti, co’ suoi ideali d’eguaglianza, e col simbolismo delle forme. Non era quindi difficile aver proseliti alla cospirazione liberale, che trovava nuovo alimento negli eccessi politici, nelle crudezze fiscali, nelle ingiustizie governative, e nel disagio economico del popolo. E se a questo lievito si aggiunge l’impazienza di coloro, che avevano combattuto nel Veneto e a Roma, ed ai quali tardava di poter riprendere le armi per la liberazione della patria, non parrà strano che l’Associazione Nazionale avesse adunato gran numero di affiliati dal primo giorno. Essa non richiedeva disciplina passiva, nè si circondava di simulazione e dissimulazione più di quanto fosse necessario, per istornare qualsiasi pericolo proprio, e dei compagni. La sua massima forza era nel medio ceto, pur non mancando, nelle sue fila, popolani facinorosi e maneschi, e ricchi possidenti, mentre della nobiltà non figurò nessuno da principio; e solo alcuni anni dopo, quando nacque il Comitato Nazionale, vi aderirono il principe di Piombino, suo figlio Ignazio, il duca Sforza Cesarini, e pochi altri.
Circa le prime vicende di quell’associazione, nonchè di altre minori, son riferite poche, nè molto precise notizie nel diario del Roncalli, e nello studio, che lo precede, abbastanza raffazzonato, del Ghiron e dell’Ambrosi. Per la migliore nozione di quei tempi, non è trascurabile un opuscolo polemico pubblicato nel 1863, dal titolo Il partito d’azione e il Comitato Nazionale romano, opuscolo che contiene cinque lettere di un corrispondente del giornale La Perseveransza, attribuite a David Silvagni, morto pochi anni or sono prefetto di Genova, e scrittore ben competente di cose romane. Di lui apparirà piuttosto frequente il nome in queste pagine, E più che i libri può giovare la già citata testimonianza dei superstiti, e singolarmente quelle di Vincenzo Gigli, di Augusto Castellani, del senatore Lorenzini, dell’ingegnere Cesare Leonardi e di Domenico Ricci.
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È notevole che i primi proclami del Mazzini lasciavano da banda qualunque questione di forma politica. Il futuro rimaneva libero, senza impegni e senza giuramenti, dice il Silvagni, e più esplicitamente nel proclama di Civitavecchia del 1849 il Mazzini aveva detto: guai a chi parlerà di forma di governo prima della vittoria. Ma quando fu proceduto alla costituzione degli speciali comitati regionali, prima col proclama dell’otto settembre 1850, e poi con l’emissione del prestito di dieci milioni, fatto nel 1851 a nome del popolo romano, e da rimborsarsi «quando l’Italia si fosse emancipata e costituita in Nazione», l’idea repubblicana ricominciò a prevalere, e finì coll’imporsi, auspice in Roma il Petroni, uomo di tenace carattere. Non tardarono però a sorgere i primi dissensi, ai quali concorse in gran parte la scoperta, che le cartelle del prestito, ciascuna di 25 lire, e firmate dal Mazzini, dal Saliceti, dal Sirtori, dal Saffi e dal Montecchi, erano state collocate in buon numero nella stessa Roma, per opera precipua dei membri più autorevoli dell’Associazione Nazionale; ed a Roma si voleva che il danaro fosse speso, ed invece si aveva timore che accadesse il contrario. Ed aggiungasi a questo, che mentre, dopo Novara, il tradimento di Carlo Alberto assurgeva a domma di fede per la maggior parte dei liberali italiani, e la costituzione del Piemonte era ritenuta un’ipocrisia, consigliata dalla paura, e il programma di Moncalieri, un primo saggio di reazione, cui sarebbe seguita l’abolizione dello Statuto; la smentita, che queste voci trovavano nella realtà, non poteva non produrre un certo effetto, che divenne via via decisivo.
L’Associazione Nazionale aveva costituito un sottocomitato di guerra, chiamando a farne parte giovani animosi, che si erano battuti nel Veneto e al Gianicolo, e che furono Vincenzo Gigli, il dottor Sani, Adriano Gazzani, Cesare Croce, Gaspare Lipari e Angelo Berni, alcuni dei quali, come il Gigli, il Lipari e il Croce, saliti al grado di capitani, erano stati retrocessi dal Consiglio di censura, e vennero poi espulsi dall’esercito. Questo sottocomitato, benchè non vedesse mai l’ombra delle somme raccolte dal prestito, e fosse solo sedotto dal miraggio, che gli si faceva balenare dal Mazzini, di una prossima riscossa della repubblica popolare in Francia, lavorava con ardore e fra mille pericoli a formare altri sodalizi nelle provincie dello Stato, e a raccogliere armi. Dal suo canto un altro comitato, detto di polizia, e del quale fu anima Angelo Lipari, teneva desta l’agitazione con multiformi dimostrazioni, con aiuti alle famiglie dei carcerati, e con la protezione di quanti erano sospetti di aver partecipato agli attentati, che in quei giorni si succedevano, contro agenti pontificî e soldati francesi: attentati, che, sebbene non voluti dal sottocomitato, non eran potuti da esso impedire. L’Associazione Nazionale, oltre alla sua stampa clandestina, ebbe a Roma anche una polizia così bene organizzata, da lasciarsi di gran lunga indietro quella francese e la pontificia, unite insieme.
Crebbero i dissensi, quando, nel 1852, dopo la proclamazione dell’impero in Francia, il Mazzini e i suoi amici manifestarono il proposito di tentare nuovi moti in Italia, e singolarmente a Roma e a Milano. Il Checchetelli, il Mazzoni e il Piccioni, coi loro amici più influenti dell’associazione e dei comitati, si dichiararono contrari a qualunque movimento, che giudicavano intempestivo, e non avrebbe avuto altro effetto che far nuove vittime. Aggiungasi, che il colpo di Stato in Francia aveva rotte le illusioni mazziniane, e ricacciata di molti anni indietro la repubblica popolare. Ma il Petroni, nel quale l’orgoglio era pari alla tenacia del volere, non si lasciò scorare. E fu dopo il pazzo tentativo di Milano del 6 febbraio 1853, che il dissenso degenerò in clamorosa ostilità, non iscompagnata da vicendevoli accuse di viltà e di tradimento; in conseguenza delle quali, mentre i fedeli nel verbo mazziniano si chiamarono puri o puritani, ai dissidenti attribuirono per ironia il nome di fusi, fusionisti, o costituzionali.
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Queste ostilità diedero luogo ad un manifesto redatto da Vincenzo Gigli, in data 9 aprile, e sottoscritto dal Checchetelli, dal Silvestrelli, dal Piccioni, dallo Zuccarelli e dal Mazzoni, nonchè dai membri del comitato di guerra, nel qual documento i fusi, o fusionisti si dichiararono fautori della riunione di tutte le forze liberali italiane, senza distinzione di forma politica. E così conchiudeva quel manifesto: «Distrutta la potenza usurpata dal prete tiranno, le schiere della repubblica si stringano ai valorosi di Goito, di Curtatone e di Venezia, e formino un solo Nazionale esercito. Ovunque s’innalzi una bandiera italiana, ivi ci addensiamo compatti, ed il grido fuori i barbari ci infiammi alla pugna. Chi con questo grido sul labbro e col fremito in cuore impegnerà la battaglia, si avanzi sicuro: la forza del popolo e la benedizione dei redenti sarà con lui»,
I mazziniani, alla loro volta, si affrettarono a rispondere, con la stampa clandestina, che quel manifesto conteneva, insieme a menzogne storiche, conclusioni logicamente false e praticamente impossibili; e chiamarono i dissidenti, uomini vani e ambiziosi, agenti venduti e traditori. «Così anche in Roma», dice la relazione della Consulta, «cominciarono ad aver vita due partiti di setta; l’uno costituzionale detto dei fusi o fusionisti; l’altro dei repubblicani, chiamato dei puri o puritani»1. E di ciò offrono la conferma tutti i documenti del tempo, di fonte liberale e di fonte opposta, nonchè autorevoli testimonianze di superstiti. Il manifesto del 9 aprile è un documento che onora quelli che lo immaginarono e sottoscrissero. Esso fu atto di politica divinatrice, perchè precedette di qualche anno l’iniziativa del Manin e della Società Nazionale, di cui furono anima il veneto dittatore, Giorgio Pallavicino e Giuseppe La Farina, e più tardi fu braccio poderoso il Garibaldi. L’autore dello scritto è tuttora vivente, ed io sono lieto di rendergli, dopo più di mezzo secolo, un tributo il doverosa giustizia. Quel suo manifesto fu inspirato dal Rinnovamento del Gioberti, che cominciava a rifare la coscienza politica degli italiani. Altra conferma di quei propositi si ha in una lunga e importante lettera del Silvagni, del 6 ottobre 1856, diretta al conte Orsi di Ancona, e pubblicata dopo la morte di lui. In questa lettera, di cui si parlerà più innanzi, si legge:
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Ma sbollite le prime impressioni, i mazziniani ripresero animo, ed un po’ eccitati dalla calda parola del maestro e un po’ impazienti di una rivincita, dopo l’insuccesso di Milano, si dettero ad organizzare un’insurrezione a Roma, la quale doveva essere aiutata da una banda di emigrati, che sarebbero scesi fra Palo e Civitavecchia, al comando di Ercole Roselli, esule a Genova, già comandante il battaglione universitario nel 1848, e fratello di Pietro, generale della repubblica romana. Il Petroni, divenuto l’arbitro assoluto dei più impazienti, era l’uomo meno adatto a sentire consigli di calma, anzi vedeva in ogni consigliere di prudenza un nemico, o un traditore. Egli era rimasto a Roma, dove aveva ripresa la professione di avvocato, e, secondo afferma la relazione della Consulta, «tenevasi occulto, essendo minacciato di arresto, per violato precetto di far ritorno in patria». Contava aderenti anche nella parte più facinorosa del partito popolare, e non conosceva la paura.
La cospirazione si proponeva da principio nientemeno che l’uccisione del Papa! Era stata presa in fitto la casa sulla cantonata di piazza Rusticucci, e il portico di San Pietro, dov’è ora la caserma dei pompieri, e proprio sul punto, dove la piazza finisce, e comincia la via dei Penitenzieri. Pio IX avrebbe dovuto passar di là la prima volta che si recava fuori porta Cavalleggeri. La cosa non fu potuta eseguire, perchè uno dei fratelli Cocchi fece portar via le armi, nascoste in una botola. Di quel tentativo fallito rimane testimone superstite Annibale Lucatelli. Non potendosi dunque cominciare con l’uccisione del Papa, si decise di cominciare, come a Milano, con l’eccidio dei soldati, e venne fissato il 15 agosto, quando il Papa sarebbe andato alle funzioni di Santa Maria Maggiore. Del proposito di uccidere il Papa a fucilate non vi è motto nel processo, perchè fortunatamente la cosa restò segreta fra Annibale Lucatelli, i fratelli Cocchi e pochi altri di fede provata. La storia della cospirazione mazziniana del 1853, che morì sul nascere, è poi riferita nel voluminoso processo sopra citato, istruito dal giudice Cecchini, il quale ricorse alle peggiori arti per ottenere le più ampie, vili e menzognere rivelazioni da parte di molti, i quali patteggiarono la confessione, con la promessa dell’impunità, e furono perciò chiamati «impunitari».
Ma tutte le promesse del Mazzini rimasero in asso. Le bande, che avrebbere dovuto apparire sull’Appennino, per marciare su Roma, non si videro, come non si videro Giacomo Medici e Felice Orsini, de’ quali si era annunciato l’arrivo. Il Mazzini aveva assicurato d’avere spedita persona in America a prendere Garibaldi, che doveva capitanare la rivoluzione in Sicilia, mentre egli stesso, il Mazzini, sarebbe venuto a guidare ed a dirigere quella di Roma; ma nè l’uno nè l’altro si fecero vivi. Come in tutte le cospirazioni, promosse dall’indomabile agitatore, che non esponeva mai la propria vita, anche in questa regnò sovrana l’iperbole. Ed alle iperboli seguivano i tragici disinganni, come rivelano quarant’anni di storia, dalla spedizione di Savoia a quella di Sapri. Sulla spiaggia fra Palo e Fiumicino sbarcarono solo otto emigrati, che il Silvagni chiama, esageratamente, otto tristi; e dinanzi a quel vuoto, il Roselli, giunto per via di terra, fu vinto dalla più amara delusione.
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Nel processo del 1853 gl’imputati presenti furono cinquantotto, ed appartenevano ad ogni ordine sociale, anzi la maggior parte era gente di nessun conto. Si contavano, tra essi, quattro donne e un prete. Oltre ai cinquantotto presenti, vi furono quattro contumaci, cioè: Mazzini, Luigi Pianciani, Sisto Vinciguerra e Massimiliano Grazia. Di aristocratici vi figura il solo Enrico Ruspoli di ventidue anni, che imparava l’arte del mosaicista con Annibale Lucatelli, e fu accusato da un impunitario, di essere caposquadra o caposezione temuto. Il processo fu costruito sopra denuncie ispirate non soltanto dalla viltà, ma dalla vendetta; e tra i fusi o fusionisti, sopra accusa di puri o puritani, vennero arrestati e condannati il Gigli, il Croce, il Lorenzini, il Lipari, il Piccioni e il Mazzoni, i quali non parteciparono punto a quel movimento, anzi lo condannarono come dannoso alla causa liberale.
Nè gl’impunitari colpirono soltanto i fusi, ma travolsero nell’ondata delle loro accuse anche i puri, non escluso il Petroni, che fu tradito da coloro, che gli avevano data ospitalità, e singolarmente dai coniugi Lepri, e da un prete ultrarivoluzionario, certo Stramucci, abbietto affittacamere, e amante di una Giovanna Savaresi Aringa. Secondo le loro accuse, il Petroni aveva assunto il falso nome di «Marco», e la dignità di canonico, spacciandosi col nome di «canonico Marco». Degl’impunitari, quelli che gli atti rivelarono animati da maggiore perfidia, furono il Casciani, il Preti, e più di tutti il Catenacci, uno degli otto sbarcati a Palo, farmacista di professione. Il Bertoni di Faenza si suicidò a San Michele, prima della condanna, non potendo resistere ai patimenti del carcere; il Catenacci morì appena rimesso in libertà, nè di quella morte si seppe mai la vera causa; il Casciani finì nel Belgio, si disse, assassinato, e Alessandro Castellani, denunziato oltrechè dal Casciani, da Caterina Barracchini e dal Preti come uno dei «mazziniani puri, e degli esattori delle contribuzioni settarie», per sottrarsi alla temuta condanna di morte, si finse pazzo, tanto che nel processo si legge: «non fu proceduto ulteriormente in causa dell’inquisito, perchè in seguito delle prime contestazioni, cadde infermo per mentale malattia, nè fin qui se n’è ottenuta la guarigione». Il Castellani era stato precedentemente condannato a ventiquattro giorni di detenzione per ingiurie rivolte ai soldati francesi, il giorno del loro ingresso in Roma, e fu arrestato con lui in quell’occasione suo fratello Augusto, che stette due settimane in Castel Sant’Angelo. Alessandro, che aveva trent’anni, era uno spirito esaltato, nè Pio IX volle di lui sapere, nonostante le calde suppliche del suo congiunto Camillo Alessandroni, minutante in segreteria di Stato, e nonostante la grave sciagura, da cui era stato il Castellani percosso con la morte della giovane moglie, vittima dello spavento, che l’aveva assalita, sol da pochi giorni puerpera, nel vedere la casa invasa dai birri, e tratto in arresto l’amato consorte. Corse anche la voce che Fortunato Castellani, suo padre, avesse tentato di corrompere il giudice Cecchini, offrendogli quindicimila scudi in napoleoni d’oro, racchiusi in un bastone appositamente costruito; ma la voce non par verosimile, perchè nè il Castellani poteva possedere allora quella somma, nè gli sarebbe stato facile il procurarsela.
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La sentenza fu pronunziata, in primo turno, dalla Consulta, il 25 settembre 1854, intervenendovi il presidente Sagretti, succeduto al Matteucci, ed i prelati Borgia, Arborio Mella, De Ruggiero, Mignanelli e Macioti Toruzzi. Con essa furono condannati alla «morte di esemplarità» il Petroni, il Romiti, il Roselli, il Ruitz e il Casciani, quali colpevoli di promossa insurrezione contro il sovrano ed il governo; furono condannati, in qualità di complici, alla galera perpetua altri otto, fra i quali Annibale Lucatelli; sei alla galera per vent’anni; cinque alla galera per quindici e due alla galera per dieci. Altri riportarono condanne minori. Per otto, la Consulta giudicò non aver rinvenuto allo stato degli atti prove sufficienti, ma ordinò che fossero trattenuti in carcere per altri sei mesi «onde esaurire ulteriori indagini». Solo per cinque, non constando di essere abbastanza colpevoli, fu ordinata la «provvisoria dimissione dal carcere». La sentenza, pronunziata nell’aula grande del palazzo innocenziano a Montecitorio, dov’è ora la sala di lettura della Camera dei deputati, produsse un’impressione enorme. Essa colpiva, ad un tempo, puri e fusi, innocenti e rei, galantuomini, farabutti o impunitari, che dir si voglia, La Sagra Consulta ordinava, infine, la prosecuzione degli atti contro chiunque altro potesse essere implicato nella inquisizione, ed ingiungeva che s’insistesse per l’arresto dei contumaci.
Ecco il testo dell’importante documento:
SACRA CONSULTA
Oggi lunedì venticinque settembre 1854. Il primo turno del Supremo Tribunale riunito nell’aula grande del palazzo Innocenziano a Montecitorio per giudicare in merito ed a forma di legge la causa intitolata:
Romana di promossa insurrezione e di ripristinazione
di società segreta
Contro
Giuseppe avv. Petroni - Pietro Ruiz - Caterina Baracchini - Augusto Casciani, ed altri molti presenti e contumaci, ha dichiarato e dichiara:
1° Constare in genere di promossa insurrezione contro il Sovrano ed il governo, ed esserne in ispecie convinti colpevoli come rei principali Giuseppe Petroni, Pietro Ruiz, Augusto Casciani, Edoardo Romiti, Ercole Roselli; ed in qualità di complici con diversa gradazione di dolo, Giovanni Preti, Pietro Seghettelli, Annibale Lucatelli, Cesare Tassi, Giovanni de Camillis, Giovanni d’Emiliani, Giacomo Pinaroli, Luigi Lepri, Achille Taddei, Luigi Sassi, Carlo Massari, Eugenio Brizi, Silvino Olivieri, Matteo Trucchi, l’ecclesiastico Raffaele Stramucci, Gioacchino Cocchi, Caterina Baracchini, Francesco de Camillis, Giovanni Merlini, Niccola Eleonori, Cesare Lucatelli, in applicazione quindi dell’art. 84 del vigente regolamento penale ha condannato e condanna a maggioranza di voti, Petroni, Ruiz, Casciani, Romiti e Roselli alla morte di esemplarità: ed in base del succitato articolo 84 col concorso dell’art. 13 dello stesso penale regolamento per tutti gli altri, non che del paragrafo sesto dell’appendice al regolamento organico e di procedura criminale in riguardo allo Stramucci, ed avuto a calcolo per l’Olivieri, il prescritto dell’art. b del medesimo regolamento penale ha condannato e condanna Preti, Seghettelli, Annibale Lucatelli, Tassi, Giovanni de Camillis, Giovanni d’Emiliani, Pinaroli e Luigi Lepri, alla galera perpetua; Taddei, Sassi, Massari, Brizi, Olivieri e Trucchi alla galera per anni 20; Stramucci, Gioacchino Cocchi, Francesco de Camillis, Merlini e la Baracchini alla galera per anni quindici; Niccola Eleonori e Cesare Lucatelli alla galera per anni dieci.
2° Constare in genere di fondazione di Società segreta ed esserne in specie convinti colpevoli Cesare Mazzoni e Salvatore Piccioni; ed in applicazione dell’art. 99 paragrafo 1° del regolamento penale li ha condannati e li condanna ad anni venti di galera per ciascuno.
3° Constare in genere di Società segreta tendente a promuovere la ribellione contro il governo e lo Stato ed esserne in ispecie convinti colpevoli Cesare Croce, Vincenzo Gigli, Gaspare Lipari, Angelo Berni, Filippo Segnani, Antonio Sprega, Costantino Segnani, Errico Ruspoli, Francesco Mattei, Virgilio Rudel ed Augusto Lorenzini; per cui in applicazione dell’art. 96 parte prima del regolamento penale ha condannato e condanna Croce, Gigli, Lipari, Berni, Filippo Segnani e Sprega ad anni quindici di galera; Costantino Segnani, Ruspoli e Mattei a dieci anni della medesima pena: ritenendo poi che il Rudel ed il Lorenzini fossero sedotti ad unirsi alla Società medesima li ha condannati e li condanna in base della seconda parte dello stesso articolo 96 ad anni cinque di galera. Tutte le su espresse pene avranno a decorrere ed espiarsi a termine di legge. Ha poi condannato e condanna tutti li succennati colpevoli alla rifazione delle spese alimentarie e processuali da liquidarsi a favore dell’Erario come di ragione.
Non avendo rinvenuti nello stato degli atti abbastanza colpevoli Filippo Cocchi, Enrico Eleonori, Giuseppe Mazzoni, Pietro Boezi, Vincenzo Bonvicini, Francesco Claudi e Luigi Francois ha ordinato ed ordina che a termini dell’art. 447 del regolamento organico e di procedura criminale sieno li medesimi trattenuti in carcere per altri sei mesi, onde esaurire ulteriori indagini.
Non costando inoltre abbastanza colpevoli Claudina Lepri, Adolfo Lepri, Giovanna Savaresi Aringa, Paolo Nardi e Gioacchino Agostini ha ordinato ed ordina la loro provvisoria dimissione dal carcere a forma e per gli effetti degli articoli 446, 675, 676 del succitato regolamento organico e di procedura criminale.
Dichiara avere gl’impunitari in causa adempito per quanto riguarda la presente processura alle condizioni colle quali è stato loro accordato il beneficio dell’impunità, e doverne quindi godere a termini dei respettivi fogli di concessione.
Ordina in fine la prosecuzione degli atti contro chiunque altro possa essere implicato nella presente inquisizione, ed ingiunge che si insista per l’arresto dei contumaci.
S. Sagretti, Presidente - C. Borgia G. Arborio Mella - G. de Ruggiero - 0. Mignanelli - Luigi Macioti Toruzzi.
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Dall’udienza di Nostro Signore del 19 decembre 1854;
Fatta relazione al Santo Padre della superiore sentenza, la Santità Sua si è benignamente degnata di ridurre la pena di dieci anni a cinque, quelle di cinque anni a tre, e quelle di tre anni ad un anno, con che debbano tutte incominciare a decorrere dopo tre mesi dall’arresto di ciascuno.
Il Presidente del Supremo Tribunale |
Non era possibile che tale sentenza, data a maggioranza di voti, non sollevasse un’onda di proteste. Innalzare in Roma il patibolo per una causa meramente politica, e per una insurrezione, la quale non aveva avuto alcun principio di esecuzione, era tal cosa, che turbava profondamente la coscienza pubblica. Corsero tre mesi di ansie; furono fatte pressioni dirette e indirette sul Papa, nè pare che fosse stata inerte la diplomazia. Certo è che, nel dicembre dello stesso anno, la Consulta, riunita in un’udienza plenaria per ordine del Papa, con entrambi i turni, ridusse di un grado le pene ai principali condannati, ai minori della metà della durata, ed a quelli, che avevano riportato tre anni, ad uno; tenendo conto, per questi, del carcere preventivo rispettivamente sofferto. Il secondo giudizio fu sancito dal Papa, il quale, in data 19 di quel mese, fece notificare, a titolo di grazia, la nuova sentenza ai condannati.
La prima sentenza, come si vede, colpì puri e fusi, condannando anche il Mazzoni, il Piccioni, il Gigli, il Croce, il Lipari, il Berni, il Lorenzini. I giudici del secondo turno, più miti dei loro colleghi del primo, furono i prelati Fiorani, Carletti, Muccioli, Mignanelli, Golia e Capri Galanti. È da rammentare che la maggior parte dei cinquantotto processati non si mescolò più in cospirazioni liberali. Antonio Palma, uno degli sbarcati a Palo, scontata la pena, sì fece frate passionista; e un altro degl’imputati, il dottor Virgilio Rudel, rimase così stranamente impressionato del caso occorsogli, che avrebbe desiderato se ne perdesse addirittura la memoria. Fu caratteristica la sua deposizione, nella quale, dopo aver negato tutto, finì col dichiarare, che se prese parte a favore degli emigrati, fu per sentimento di filantropia e per curare il D’Emiliani e il Catenacci, e perciò «crede di non meritare alcuna pena, e quando il governo gli avesse dato un’ammonizione e dieci giorni di santi esercizi (sic) sarebbe punito bastantemente». Era fratello di Fortunato, professore di anatomia alla Sapienza.
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Dei due fratelli Lucatelli, Annibale, detto Annibaletto per la piccola statura e i lineamenti gentili, contava ventitre anni, ed era di professione mosaicista. Giovane di grande coraggio e di salda fede repubblicana, si era battuto nel Veneto, facendo parte del battaglione del Roselli, e poi al Gianicolo; indi emigrato a Genova, fu degli otto che sbarcarono a Palo. Nel processo s’impose un solo proposito: negar tutto. Ridottagli l’originaria pena della galera perpetua, come già si è detto, a vent’anni, egli ne scontò quindici fra Paliano e San Michele; e durante tale espiazione, per una tentata rivolta organizzata da lui e dal Roselli, fu dal tribunale militare condannato nuovamente a vita. Venne graziato due anni prima della liberazione di Roma, e, cacciato dallo Stato del Papa, riparò a Firenze. Benchè intransigente in politica, ebbe dal Checchetelli un incarico di fiducia ai primi di settembre del 1870; ed oggi, dopo tante vicende, vecchio ancor vigoroso, egli ricorda e narra quanto fece, e con quanta onestà d’intenti, il fondatore del Comitato Nazionale per la liberazione di Roma, e quanto fu iniquamente calunniato. Copre ora un modesto ufficio al museo artistico industriale.
Suo fratello Cesare, decapitato del 1861, era maggiore di lui di cinque anni. Nel processo del 1853 fu qualificato «oste disoccupato», e riportò condanna di dieci anni di galera, ridotti poi a cinque, che espiò tutti. Aveva, prima di quella condanna, scontati altri quattro mesi di detenzione per ingiurie e minacce ad alcuni soldati francesi, ed era inoltre gravemente indiziato come non estraneo alla «soppressione» di alcuni di essi. Certo era in politica un fanatico, anzi un temerario, che non badava ai mezzi. Fu accusato dagl’impunitari di aver fornito l’alloggio agli emigrati; ed uno di quelli, verosimilmente il Catenacci, riferi che il Lucatelli dichiarava sempre «che in tutte le operazioni che c’era da fare, voleva star sempre unito con noi, e che principalmente desiderava di prestar l’opera sua con noi nel massacro dei fusi, ed in altri delitti di sangue, che si fossero dovuti commettere». Il Lucatelli protestò contro quell’accusa, affermando di nulla sapere dei delitti, di non appartenere a setta «e di non essere una belva che debba pascersi di carne umana»; ma questi precedenti gli furono fatali nel processo per l’uccisione del gendarme Velluti. Scontati i cinque anni di galera, non riaprì più l’osteria, che esercitava in Trastevere, ma entrò nell’impresa Dovizielli per i trasporti ferroviari, ondechè nell’ultimo processo di morte, quasi per umiliarlo, fu qualificato facchino. Dal 1858, quando uscì dal carcere, al 1861, quando fu decapitato, la polizia pontificia e la francese non lo perdettero mai d’occhio, come uno dei più attivi e pericolosi membri del comitato d’azione.
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Il processo del 1853, che fu l’origine dei due partiti e dei due comitati in Roma, dimostra, studiandolo a mente serena, quanto potesse la rabbia settaria in quei tempi. I mazziniani non ismisero di attribuire ai «fusionisti» l’insuccesso di quel tentativo, il quale avrebbe avuto di certo lo stesso effetto di quello di Milano; e i «fusionisti» seguitarono a sostenere, e con più ragione, che quel tentativo era pazzo e criminoso, e sarebbe stato funesto alla causa della libertà e dell’indipendenza. Alcune deposizioni sembrano addirittura inverosimili. Una di esse afferma, che gli emigrati furono spediti a Roma per eseguire, sotto gli ordini del Roselli, l’uccisione dei capi fusionisti; mentre in data 10 agosto, pochi giorni prima dell’arresto, il Petroni scriveva al Mazzini: «io temo da un momento all’altro il massacro dei capi fusionisti, che io trattengo a stento con promessa di azione prossima, ma che non posso trattenere lungo tempo, e che, almeno nello stato attuale, farebbe disonore al partito». Nè il Petroni stesso disdegnava di asserire che essi «divulgando i nomi di coloro, che sanno o sospettano repubblicani attivi, ci fanno decimare ogni giorno dalla polizia». Certo è che quell’ammasso di accuse scambievoli, registrate nel processo, manifesta qualche cosa di più di un’intolleranza settaria: vi apparisce una bestiale perversità di animo da parte di alcuni, superata soltanto da una vigliaccheria inverosimile da parte di altri.
Quel processo segnò non breve tregua ad ogni fattiva cospirazione, e quasi sino alla guerra di Crimea vi fu una sosta pressochè assoluta. Per quanto Giuseppe Checchetelli, confinato a Ciciliano presso Tivoli, venisse sovente a Roma, travestito, a rivedere gli amici, non fu prima del 1856, che si vennero riannodando le sparse fila del partito detto fuso o costituzionale, e che costituì il primo nucleo di quello, che fu il famoso Comitato Nazionale Romano. Sino al giugno di quell’anno, in cui avvenne l’attentato contro il cardinale Antonelli, non era mancata nel governo una certa inclinazione all’indulgenza. Il conte Filippo Carpegna e Camillo Prosperi Buzzi, che avevano comandato corpi militari, durante la repubblica, ed erano stati cacciati in esilio, supplicarono e tornarono. Il farmacista Ratti, che insegnava chimica alla Sapienza, era stato mandato dal triumvirato repubblicano in Inghilterra per fare acquisto di polveri occorrenti alla difesa: destituito dal triumvirato cardinalizio, riottenne la cattedra, essendo riuscito a dimostrare, si disse, ch’egli aveva bensì comperate le polveri, ma la cattiva loro qualità non le rendeva atte ad un uso dannoso!
Questo Ratti fu deputato del secondo collegio di Roma nel 1876, e andò a sedere, naturalmente, a sinistra. Più dignitosamente Filippo Bonacci, padre del compianto Teodorico, destituito dal posto di giudice di tribunale, perchè aveva fatto parte della Costituente, subì, rassegnato, la sua sorte, dedicandosi all’esercizio dell’avvocatura. Non prima del 1859 potè rientrare in ufficio, ed era in Ancona nel 1860, quando il governo nazionale lo innalzò a maggior grado, e morì senatore nel 1872. Ed altri atti di relativa benignità si potrebbero aggiungere, ottenuti in gran parte da influenze di donne, di diplomatici e di alti prelati, quando però fosse chiaro il pentimento del passato, o la risoluzione di cambiar vita.
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Nelle provincie l’ordine si restaurava senza sentimentalismi, singolarmente nella Romagna e nelle Marche, al tempo stesso che si venivano ricostituendo i Consigli municipali, i cui capi, detti variamente gonfalonieri, senatori, o magistrati, erano di nomina governativa. Il motuproprio di Portici, che riconosceva nei Consigli la facoltà d’indicare il capo del comune, restò lettera morta. A Bologna fu ricostituito il Consiglio comunale nell’agosto del 1851, con 24 consiglieri possidenti, cinque dotti, sei commercianti e due deputati del clero. Il Papa nominò consiglieri, fra gli altri, il conte Giovanni Malvezzi, l’Isolani, il Pepoli, il Pallavicini Centurione, lo Spada, il Bentivoglio, il Bianchetti, il Bevilacqua, parecchi insomma di nota fede liberale. Le fucilazioni per reati comuni, e porto d’armi, non si succedevano più con la frequenza dei primi anni. È da ricordare, che a Bologna, il 28 dicembre 1850, furono passate per le armi cinque persone; il 30, altre cinque a Lugo; sette a Faenza durante il mese successivo, e così via via a Foligno, Ancona, Sinigaglia, Imola e Ravenna. Erano, secondo le accuse, malandrini e accoltellatori, i quali, negli ultimi tempi della repubblica, avevano rubato e assassinato, o erano stati complici di assassini. Le sentenze dei tribunali militari austriaci, date sul tamburo, venivano riportate dal Giornale di Roma, come una qualunque novità del giorno. E sebbene i fucilati fossero sudditi pontifici, erano gli stessi delegati del Papa che, per debolezza o malvagità, si rendevano complici dei comandanti stranieri. Vi si era malamente distinto quel monsignor Gaetano Bendini, il quale, nominato commissario straordinario a Bologna nel 1849, vi lasciò triste fama per crudeltà d’animo e dissolutezza di costumi. Durante il suo governo, venne fucilato il padre Ugo Bassi, che aveva seguito Garibaldi nella ritirata da Roma.
Se l’occupazione austriaca ristabilì l’ordine materiale, fucilando e mandando in galera assassini e facinorosi, che avevano più omicidî sulla coscienza, che reati politici, perturbò l’ordine morale, perchè la repressione non fu esente da tristi eccessi, nè insensibile alle raccomandazioni. Basterebbe a dimostrarlo il processo del 1853 a Ferrara, addirittura mostruoso, paragonato a quelli di Perugia e di Ancona. Gli eccessi di Ferrara furono provocati dal delegato pontificio Folicaldi; a Bologna dal Grassellini, succeduto al Bendini, e dall’Amici, ad Ancona. Il processo di Ferrara fu imbastito contro dodici cittadini fra 40 arrestati, e ne furono condannati dieci alla pena di morte perchè «rei confessi e legalmente convinti», dopo un’istruttoria fra torture morali e fisiche. La condanna di morte colpì Giacomo Succi, possidente, Domenico Malagutti, medico, e Luigi Parmeggiani, albergatore: oneste persone, le cui imputazioni erano esclusivamente politiche, come può vedersi dagli atti del processo, ora pubblicati. Fu loro concessa la grazia di morire fucilati, anzichè impiccati, in mancanza del boia; agli altri sette, per benignità del Radetsky, fu commutata la pena nei lavori forzati.
I condannati invocarono indarno la protezione del governo pontificio, di cui erano sudditi; protestarono col comandante la guarnigione francese a Roma, e col console inglese a Ferrara, ma nessuno si mosse; nessuno spese una parola! La parte, che rappresentava il governo pontificio in quei processi, i quali s’imbastivano senza testimoni, nè difesa da parte degl’imputati, e fra le maggiori torture, e si compivano con fucilazioni e impiccagioni, era semplicemente ignobile. Che l’Austria inferocisse sulla sponda sinistra del Po, e singolarmente sul Mantovano, può spiegarsi, perchè in terra, che considerava sua; ma che facesse altrettanto in casa altrui, e con l’annuenza o compiacenza dell’autorità legittima, fu cosa turpe, e più turpe, che non si levasse in Europa un sol grido di orrore. A titolo di documento riporto la protesta inviata a Guglielmo Macalister, ch’era il console inglese a Ferrara:
I detenuti politici della cittadella di Ferrara vogliono far conoscere all’Europa civilizzata la barbarie e l’ingiustizia, colle quali sono stati trattati nel processo, aperto contro di loro dalla potenza Austriaca, affinchè da una parte si rendano pubbliche contro gli sforzi che essa fa per travisare e nascondere i fatti, e per l’altra non possano accusarsi d’aver trascurato qualunque mezzo, che nella lor triste posizione arrecar potesse giovamento...
Forti pertanto nel diritto, che dà l’essere oppressi e ingiustamente, essi altamente protestano innanzi a Dio e agli uomini, che si sono infranti i riguardi dovuti ai sudditi di uno Stato diverso da un Governo straniero, violati i principii di una sana politica, insultata la civiltà dei presenti tempi. In conseguenza di che pregano la S. V. Ill.ma di far parte al proprio Governo di queste giuste rimostranze, e dei fatti fin qui espressi; il quale certamente non accoglierà con indifferenza la narrazione fedele di eccessi, di arbitrii commessi alla presenza dei governi e delle nazioni più colte. Confidano i detenuti che la S. V. Ill.ma non mancherà di appoggiare il loro ricorso, e ne anticipano i più sinceri ringraziamenti.
Il console non ne fece nulla.
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La sentenza venne eseguita il 15 marzo 1853. La città era in preda al terrore, e gli studenti disertarono l’Università. Parecchi documenti sono stati pubblicati circa quel processo, e fra gli altri, una cinica lettera del commissario straordinario pontificio di Bologna, monsignor Grassellini, in data 12 luglio 1854, al delegato Folicaldi, dalla qual lettera risulta che l’Austria voleva far pagare al governo pontificio le spese incontrato per la detenzione e l’uccisione dei condannati; che il governo pontificio temeva di essere ingannato dall’austriaco, e faceva una inchiesta sui conti; e che infine l’amministrazione pontificia pretendeva far pagare alle famiglie degli uccisi le spese per l’esecuzione e sepoltura! Lo stato finanziario delle vittime mostrò che essi non avevano beni di fortuna. Tutto ciò avveniva un anno e mezzo dopo la tragedia!...
I maggiormente perseguitati erano gl’israeliti, i quali abbondavano a Ferrara. Al Circolo di conversazione fu intimato lo scioglimento, se non ne fossero stati espulsi Pacifico Cavalieri, padre di Enea, e suo cognato Salvatore Anau, già deputato alla Costituente; fu vietato ai giovani israeliti di frequentare l’Università, e negli ultimi anni le persecuzioni contro di essi rincrudirono al punto, che alcune famiglie cercarono ricovero a Venezia, dove l’Austria mostravasi più mite. La famiglia Pesaro fu tra queste, e la signora Lietta Pesaro, che sposò più tardi Leone Romanin Jacur, se ne ricorda bene.
A Perugia l’ordine pubblico fu turbato sulla fine del maggio 1849 da tre tentativi di assassinio politico: il primo in persona di un soldato austriaco, che rimase ucciso; il secondo in persona del canonico Pascucci, professore all’Università; e il terzo contro il conte Donini: eccellenti cittadini l’uno e l’altro, che per fortuna scamparono dalla morte. Si disse che i settari volessero protestare ad un tempo contro l’occupazione straniera, contro il clero, e contro l’aristocrazia. Non vi furono altri attentati, e di esecuzioni una sola: quella di certo Angeloni, soprannominato Berlicche, avvenuta ad Umbertide. I particolari di essa sono stati narrati recentemente nell’Archivio storico del risorgimento umbro da Giuseppe Bertanzi. Nella stessa rassegna, il compianto Mazzatinti, poco tempo prima di morire, scrisse uno studio curioso circa i rapporti fra monsignor Girolamo d’Andrea, commissario pontificio a Perugia, e il vescovo Pecci. Risulta, che fra i due prelati vi era decisa incompatibilità di carattere, per cui si accusavano a vicenda presso il Papa di essere poco zelanti in politica; anzi il D’Andrea avrebbe bollato il Pecci di liberalismo, ricordando che nel 1848 egli era andato a salutare i volontari, che partivano per la guerra dell’indipendenza, che aveva ospitato il Gioberti, festeggiata la Costituzione, che non aveva voluto illuminare le finestre del suo palazzo al ritorno del Papa, e ch’era andato in processione «con un drappello di femmine vestite all’italiana fra una selva di bandiere costituzionali e repubblicane». Che il Pecci nel 1848 liberaleggiasse, è un fatto fuori discussione; ma che il D’Andrea lo accusasse in quel modo, non è verosimile. Egli non era un fanatico, ma un impressionabile; e se compì qualche atto di rigore, non si macchiò di viltà, anzi finse di non accorgersi dell’aggressione fatta da un gruppo di liberali perugini contro il Sant’Uffizio e la fortezza. Egli lasciò buon nome a Perugia, e alcuni comuni della provincia gli decretarono la cittadinanza. Quanto diverso il destino di quei due uomini! Creati cardinali nello stesso concistoro del 1853, il D’Andrea, sospettato più tardi di liberalismo, subì i rigori della disciplina ecclesiastica, e morì quasi pazzo dal dolore a 56 anni; e il Pecci, divenuto Papa, fu intransigentissimo con la nuova Italia, e morì di oltre novant’anni!
A Perugia il sentimento liberale erompeva singolarmente nelle rappresentazioni teatrali, e la reazione non vi ebbe nulla di brutale, nè gli arresti furono di lunga durata. Il barone Nicola Danzetta, il cui fratello Pompeo era caduto a Cornuda, stette in prigione alcuni mesi, ma non fu processato. Egli contava fra i maggiori cittadini, ebbe una parte principale nella insurrezione del 1859, come si vedrà, e morì senatore del regno d’Italia.
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Nel 1853 tornò a rincrudire la reazione in Ancona, sempre presidiata dagli Austriaci. Fu tratto in arresto Antonio Giannelli, già cassiere di quella dogana, cospiratore indomabile, che aveva sofferto il carcere anche prima del 1848, e amico di Felice Orsini, col quale aveva lavorato per rimettere l’ordine in Ancona, negli ultimi tempi della repubblica. Fu arrestato in seguito a documenti rinvenuti addosso a due sergenti ungheresi, di guarnigione colà, coi quali il Giannelli era in rapporti di cospirazione; e dopo lungo processo, venne condannato a morte dal tribunale militare. La sentenza non fu eseguita per il generoso intervento di Emma Gaggiotti, anconitana, e della quale avrò occasione di parlare in altra parte di queste cronache. La bellissima signora conosceva il comandante austriaco, e ottenne che il processo fosse rifatto, e nel secondo giudizio la pena di morte fu commutata nel carcere. E morì in carcere, anzi il figlio Ruggiero, in una commemorazione di suo padre, scrisse così: «Il fatto è che Antonio Giannelli, nel carcere di Santa Palazia, fu colto dal male. Monsignor Amici, delegato pontificio, di sua mano gli porse un farmaco. Come l’ebbe sorbito, il prigioniero peggiorò. Comprese che l’ultima ora sua giungeva. A Luigi Taccari (che fu poi prefetto del regno), suo compagno di prigione, affidò serenamente l’ultimo affettuosissimo saluto per la moglie, pei figli, per la sorella. Poco dopo lo trasportarono nella infermeria, ove alle 11 di sera del 26 giugno 1855, sotto gli occhi della sorella, che a stento aveva ottenuto di penetrare sino a lui agonizzante, esalò la forte anima sua. La famiglia chiese, ma invano, che si facesse l’autopsia della salma. Gli amici chiesero, ma invano, di accompagnare il feretro al cimitero...».
A sospetti simili, che, per onore dell’umanità, devono ritenersi infondati, non fu fatto segno il governo austriaco, che pur aveva due pesi e due misure, e che se fu brutale in Romagna, non fu altrove insensibile alle voci della pietà, e delle raccomandazioni. Gli attentati e gli assassinii politici non finirono, nonostante i rigori dell’occupazione militare; e chi meglio di tutti ha illustrato quel periodo, è Alfredo Comandini, nelle note alle memorie di suo padre Federigo2, che subì, con animo fortissimo, la tortura, le legnate e la galera nel forte di Paliano. Il volume del Comandini è una miniera di fatti e documenti. Il centro delle peggiori cospirazioni settarie e degli assassinii politici fu Faenza, ma non le rimasero indietro Imola, Cesena, Ravenna e Lugo. La setta colpiva tutti i sospettati traditori o disertori; e se talvolta risparmiava i forestieri, od anche le autorità più odiate, alla vendetta sfuggiva di rado il conterraneo.
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Nel giugno del 1855 vi fu il folle attentato contro il cardinale Antonelli: dico folle, perchè il cappellaio Antonio de Felici non ebbe il coraggio di rifiutare il mandato, nè quello di compierlo. Riferisco il fatto dalla sentenza che condannò il De Felici a morte, e che dice così:
Erano le 6 1/2 pomeridiane del 12 giugno corrente, allorchè l’Emo Principe Sig. Cardinale Giacomo Antonelli, Segretario di Stato della Santità di Nostro Signore, muovendo dalla sua abitazione preceduto da due domestici, con al fianco un distinto professore dell’Accademia di S. Luca, discendeva la regia scala del Palazzo Vaticano. Innanzi di toccare il termine del rampante, che mette al primo piano, vide su questo un uomo, che da segni sul volto d’un mal celato turbamento, gli fe’ concepire qualche sospetto. Proseguì tuttavia a discendere, ma quando giunse al ripiano, i suoi timori divenivano una realtà, mentre l’incognito, imbrandito un ferro a due punte, e fattoglisi appresso gli stendeva un colpo, che andava fallito, per la rapidità colla quale il Porporato poteva guadagnare l’altro ramo di scale, che si dette a discendere precipitosamente. Deluso l’assassino, prorompendo in ingiurie gravissime scagliavagli l’arme stessa con tale impeto, che, battendo il muro opposto, cadeva invece ai piedi dell’assalito, i cui giorni volle per tal modo salvi la Divina Provvidenza. A tal vista accorrono i domestici onde impadronirsi del colpevole, che già davasi alla fuga, e sopraggiunti de’ Gendarmi e qualche Svizzero, gli si avventano in guisa che il Porporato occupandosi più della vita dell’aggressore, che del corso pericolo, grida ed impone loro che non l’offendano, ma soltanto si assicurino della persona.
Arrestato pertanto, si annunciava ed era pur riconosciuto per Antonio De Felici romano cappellaro, già precettato politico. Iniziata analoga procedura dal Tribunale del Maggiordomato, fu poscia passata la causa a questo Tribunale Supremo della Sagra Consulta, cui apparteneva in ragione di materia, e così portati a termine colla maggiore operosità gli atti relativi, si fa luogo oggi a pronunciare il corrispondente giudizio.E dopo molti considerando,
La sentenza fu sottoscritta da monsignor Sagretti, presidente, e dai prelati Bartolini, Arborio-Mella, De Ruggiero, Capri Galanti, che ne fu il relatore, Macioti Toruzzi e dal Sodi, sostituto cancelliere. Pubblico ministero fu monsignor Pietro Benvenuti; e difensore di ufficio del De Felici, Lorenzo Pieri.
Nell’archivio di Stato si conserva l’arma adoperata per commettere l’attentato, ch’è una specie di lungo forchettone a due punte, coll’impugnatura più di un palmo, e dai denti molto acuminati, uno de’ quali ha nell’estremità, e dalla parte interna, una lancetta tagliente, la quale, incidendo nell’entrare, squarcia nell’uscire; e così, sotto le forme di un istrumento servibile ad usì domestici, è un’arma assai più terribile di qualsiasi pugnale.
Il De Felici aveva trentacinque anni, ed era ammogliato con prole. Si era battuto contro i francesi, e faceva parte delle combriccole repubblicane e carbonare più torbide. Proclive sin dalla sua prima giovinezza a delitti di sangue, era stato dalla direzione di polizia sottoposto a rigoroso precetto, che il 22 aprile 1854 gli fu mitigato, facendoglisi soltanto obbligo di rientrare in casa non più tardi della mezzanotte. Negl’interrogatorii si mantenne forte ed energico. Fu solo prima di morire che dichiarò di aborrire tutte le sètte; venne decapitato la mattina dell’11 luglio, alle 6 e mezzo, alla distanza di meno di un mese dall’attentato, mentre pareva certo che, trattandosi soltanto di un tentativo di assassinio, il Papa gli avrebbe risparmiata la vita; ma l’Antonelli fu implacabile.
Note
- ↑ 1853. Supremo Tribunale della Sagra Consulta. Relazione delle risultanze processuali nella Romana di ripristinazione di società segreta e di promossa insurrezione.
- ↑ Cospirazioni di Romagna e Bologna, nelle memorie di Alfredo Comandini © di altri patriotti del tempo (1831-1857), Bologna, Zanichelli, 1899,